Salvarore Bravo – Male quotidiano / Resistere di fronte agli esecutori / Silenzio e parole: “La pietra perifrastica”

Salvarore Bravo

Male quotidiano.
Resistere di fronte agli esecutori.
Silenzio e parole : La pietra perifrastica

Il male non è nei grandi eventi, ma nella normalità del quotidiano. Le grandi manifestazioni della violenza sono la punta dell’iceberg della normalità del male e del suo radicarsi nel quotidiano. Associare il male esclusivamente a malvagie intenzioni è una trappola in cui non bisogna cadere, l’intenzione malvagia è un’eccezione nella pratica del male, essa è piuttosto indifferenza e pensiero acritico. L’indifferenza non è casuale, è coltivata nel sistema mediante l’addestramento competitivo il cui scopo a trasformare ogni occasione in profitto, ciò si radica e si introietta fino a diventare la seconda natura dell’essere umano che tutto guida. Dall’orizzonte emotivo l’alterità è oscurata e con essa scompare il pensiero critico ed il giudizio qualitativo. L’indifferenza verso la comunità diviene giudizio acritico, si può vivere nel male, ma essere superficialmente convinti di essere nel bene. L’inganno dei totalitarismi è sempre eguale, si parte da un postulato da cui tutto dedurre logicamente deduttivamente senza che vi sia nella catena logica dubbio o riflessione sulle asserzioni logiche. Vi è lo scollamento tra verità e logica, quest’ultima è il protocollo i ogni agire indiscusso, e pertanto mai oggetto di giudizio critico. Il liberismo è totalitarismo capzioso, poiché parte dalla premessa della naturale predisposizione dell’essere umano al profitto, la libertà nell’assecondare il banale egoismo è la legge logica di ogni azione, parola e comportamento giornaliero. L’attenzione è solo sull’io e sull’interesse privato, non rientrano nel calcolo le conseguenze dell’azione e specialmente l’abitudine a perseverare nell’interesse privato congela ogni riflessione sul dato e sull’ipotetica possibilità dell’alternativa. L’oscuramento del giudizio critico è l’eclissi della ragione oggettiva, non resta che una soggettività spogliata della sua capacità di giudizio e resa conforme alla logica che tutto muove. La soggettività è, così, interna alla concatenazione logica e degli stimoli, non li governa, ma è l’esecutrice di logiche che non ha deciso, pertanto implicitamente il male è una nuova innocenza edenica senza gioia. La passività deresponsabilizza, si è sempre innocenti, non si è mai toccati dal male, esso è sempre degli altri, è in un fuori irraggiungibile. La logica che la Arendt ha applicato al nazismo e al comunismo staliniano è ora applicabile al liberismo, poiché l’integralismo dell’azienda con la adamantina logica del profitto ha occupato ogni spazio del quotidiano, al punto che ha sostituito la verità, è diventata pratica del male irriflessa che si materializza nella vita dei singoli come nelle relazioni internazionali. Il male avanza non solo sulla punta delle baionette, ma specialmente nel declino del giudizio critico sostituito banalmente dalla logica della potenza distruttrice:

La logica non si identifica col ragionamento ideologico, ma indica la trasformazione totalitaria delle diverse ideologie. Se caratteristica principale delle ideologie fu di trasformare un’ipotesi scientifica, quale poteva essere ad esempio la sopravvivenza del più forte in biologia o della classe più progressista nella storia, in un’«idea» che potesse applicarsi all’intero corso degli eventi, allora è proprio della trasformazione totalitaria cambiare l’idea nella premessa logica, cioè in qualche affermazione, autoevidente da cui tutto si possa dedurre con implacabile coerenza logica1”.

Totalitarismo liberista

Il totalitarismo liberista non contemplato dalla Arendt come il ministero della verità del testo di Orwell 1984 vorrebbe riscrivere la storia, vorrebbe rappresentare la storia come la lunga marcia che porta al liberismo, oltre non vi è nulla, vi è solo la conferma nell’allargamento pervasivo geografico e temporale del turbocapitalismo. Ogni totalitarismo vorrebbe neutralizzare la storia, per questo la deve riscrivere e mutilare delle sue possibilità. Controllare la storia significa riordinare il tempo delle coscienze secondo una rigida concatenazione causale con la quale gli esseri umani sono ridotti ad enti che obbediscono alle leggi scientifiche. Nulla di nuovo deve emergere dalle coscienze, ma tutto deve essere sterilmente preordinato. La società aperta liberista si svela nella sua verità, se si pongono in epochè le libertà formali e si pensa il quotidiano in cui siamo invischiati, nel quale ogni gesto è finalizzato al profitto, in tale logica avanza l’impotenza rabbiosa generale, poiché le potenzialità di ogni persona sono asservite al solo profitto, e dunque sono negate. L’individuo fondamento del liberismo è negato. Nulla è vissuto con spontaneità e creativa gratificazione, anzi queste ultime sono vissute come patologie da curare. Dalla coscienza del soggetto come dalla storia nulla di nuovo deve emergere, ma tutto dev’essere sussunto alla logica del profitto e della guerra:

Chiunque nelle scienze storiche creda sinceramente nella causalità, nega in realtà lo stesso oggetto della sua scienza. Tale credo può esser celato nell’applicazione di categorie generali, come sfida e risposta, all’intero corso degli avvenimenti, o nella ricerca di tendenze generali che si suppone siano gli strati più profondi da cui nascono gli eventi di cui essi sarebbero sintomi accessori. Tali generalizzazioni e categorizzazioni spengono la luce «naturale» che la stessa storia offre e, per ciò stesso, distruggono la vera storia, la sua unicità e il suo significato eterno che ogni periodo storico esprime. Nel quadro di tali categorie preconcette, la più cruda delle quali è la causalità, nessun evento, nel senso di qualcosa di irrevocabilmente nuovo, può apparire e la storia senza eventi di diventa la morta monotonia dell’unicità che si svolge nei tempi, l’eadem sunt omnia semper di Lucrezio2”.

Il nichilismo è la negazione del pensiero critico, l’unica logica a cui obbedisce è la libertà nella forma della soddisfazione dei propri interessi personali. La premessa è il profitto, il risultato è il suo conseguimento, le proposizioni intermedie sono solo tattica per la conclusione. La libertà consiste nell’abbattere gli ostacoli senza pensare-immaginare non solo le conseguenze, ma specialmente se tali azioni sono fonte di vero bene per il soggetto e per la comunità. L’utile divora l’idea di bene fino a renderla archeologica presenza lessicale. L’idea del bene deve scomparire dalla parole e dalle intenzioni, il sistema la rappresenta come divisoria e conflittuale, fonte e causa dei conflitti nel passato. L’assurdo logico è che la perenne lotta di tutti contro tutti, pur nella sua drammatica evidenza, è rappresentata come il paradigma che divide il mondo della libertà dal mondo dell’oppressione. Chiunque non voglia essere incluso nel liberismo è il male, ma ogni discussione sul bene è neutralizzata sul nascere, in tal modo il sistema si protegge dai crimini e tragedie commessi in nome del profitto. L’immaginazione, facoltà con cui ci si ritrae dagli stimoli, per ripensarli e creare il “mondo” è rigettata e vilipesa, si consolida l’uomo nuovo del liberismo con immense capacità tecniche, ma incapace di pensare, se rispondono al bene autentico delle comunità come dei singoli:

Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi, di colmare l’abisso che ci separa da ciò che è troppo lontano in modo da comprenderlo come se ci fosse famigliare3”.

Il totalitarismo liberista si svela, se l’azione è sospesa e si pensa la logica che esso persegue. La verità del liberismo globale è nella negazione del suo fondamento: l’individuo con i diritti, in realtà è niente, poiché sussunto alla logica del profitto, è mezzo, e non fine, per cui il soggetto è un protocollo codificato dal sistema e dalla logica del profitto. Uscire dal totalitarismo significa riconoscerlo nella sua metamorfica capacità di mascherarsi e di assumere forme nuove. Il grande compito storico degli uomini e delle donne di buona volontà e di pensiero è smascherare le nuove forme di totalitarismo implicito per favorire l’emancipazione politica collettiva.

 

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Esecutori

La politica della globalizzazione non ha statisti o veri protagonisti, ma ha solo esecutori. Gli oligarchi governano, i politici eseguono, la politica agonizza e scompare, essa è solo uno spettro, non ha profondità, poiché è l’economia a tirare le fila. Gli esecutori, ciò malgrado, non sono tra di loro eguali, si può eseguire un ordine mediando il comando con le circostanze. L’intervento del Presidente del Consiglio Draghi con cui ha ringraziato Zelensky, è la dimostrazione di un tipo di esecutore incapace di mediare il comando con il contesto. Dopo il discorso del leader ucraino trasversalmente applaudito al Parlamento italiano, il Presidente del Consiglio ha tenuto il suo discorso in cui senza mediazione si è schierato, a nome degli italiani, con gli ucraini al punto da dichiarare la disponibilità della nazione ad inviare armi. Un non eletto decide in nome degli italiani, e ciò è già inquietante, ma dichiarare l’invio d’armi per aiutare la pace è come gettare benzina per spegnere un incendio. In questo caso l’esecutore degli ordini atlantista non ha mediato il comando con la Costituzione italiana. Nel discorso con i quotidiani e squallidi bizantinismi a cui siamo abituati, si poteva eseguire il comando rispettando minimamente la Costituzione, invece nulla. I dubbi su un’azione di guerra in sostegno ad una Ucraina in odore di nazionalismo fascista, che ha dichiarato illegale il partito comunista e limita l’uso della lingua russa, non sono pensati, ma occultati. In tali ambigue circostanze la mediazione era d’obbligo, invece il Presidente del Consiglio riporta gli ordini in Parlamento a sua volta sussunto all’esecutore. Resta un dubbio ulteriore, il mediocre esecutore non ha saputo mediare, o non ha voluto, in quanto ha voluto rassicurare gli oligarchi americani della fedeltà canina del Parlamento al disegno atlantista, al punto da palesare un sostanziale disprezzo verso la cultura della resistenza, la quale è il fondamento invisibile del Parlamento e della Costituzione. In entrambi i casi si è consumata una rottura tra Parlamento e popolo. Il Parlamento è sempre più simile ad una Versailles lontana dai sudditi. Non spirano venti rivoluzionari, ma la cesura tra i cittadini e il Parlamento spinge la nazione verso la disperazione: non vi è speranza nel futuro e nessuna fiducia verso le istituzioni. Il vuoto politico ed etico è potenza di possibilità imprevedibili. Il grande pericolo è tra di noi, siamo ad un passo dall’abisso, o forse già in caduta libera, per cui, forse, solo lo schianto potrà risvegliarci dal sonno ipnotico in cui stiamo precipitando. Gli esecutori sono in palese contraddizione logica, non rispettano i principi logici, si autonegano continuamente, ma ciò malgrado le loro menzogne non sono oggetto di critica. Il Presidente del Consiglio dichiara di essere per la pace, ma invia armi, afferma di volere l’Ucraina nell’unione europea, ovvero nella NATO, mentre si ricercano soluzioni diplomatiche. Si spinge alla guerra, si eseguono ordini senza nessun obiettivo reale, l’unico scopo è conservare il potere della plutocrazia, pertanto ci si adatta alle circostanze con una velocità sbalorditiva dimenticandosi quanto detto ieri, il risultato è la sfiducia dei cittadini nelle parole delle istituzioni. Gli esecutori come giocolieri usano le parole per mettere in atto ordini: non c’è pensiero, non c’è concetto, ma solo flatus vocis. Disabituare i cittadini all’ascolto e alla fiducia nelle parole è criminale, significa destabilizzare il fondamento della civiltà: il dialogo e la ricerca della verità. Non resta che ricostruire la resistenza del pensiero per contenere il nulla che avanza con i suoi venti di guerra. Resistere significa non lasciarsi prendere dal nulla dell’ateismo dei spregiatori della verità, ma restare in piedi tra le macerie ed unirsi per fermare il deserto che già abita tra di noi.

 


Silenzio e parola

Kiki Dimoulá poetessa greca scomparsa nel 2020 con la poesia La pietra perifrastica ci conduce nel silenzio della nostra epoca. La poesia non appartiene all’autore, ma parla attraverso l’autore materiale, è contatto con l’universale, per cui le parole del poeta sfuggono allo stesso per riposizionarsi nell’eccedenza creativa. La polisemia della poesia è fenomenologica, le parole non riescono a colmare la profondità del mondo, ma giocano con l’abisso per restituirci aspetti di verità. La pietra perifrastica reca con sé il silenzio del mondo, il ritiro del logos, eppure l’invocazione che ritmicamente evoca la risposta, implora la comunicazione è il segno di un’impossibile rinuncia. Senza parole la notte del mondo si sporge a noi, ma il bisogno di parole vere che recano l’impronta del tocco, ci rammenta che nessuna notte è totale. Il pensiero arretra, il nichilismo avanza con le sue ambigue promesse, ma vi è un’innocenza che sopravvive, sembra sul punto di farsi travolgere, ma sopravvive e ci indica con la sua cocciuta presenza che continueremo a porre domande, a cercare il modo esatto di porle in modo che il movimento delle parole ci tocchi per ricostruire processi di verità. La parola non è mai astratta, ma essa è interna ad una cornice di rimandi che la rendono concreta e trascendente, l’arco temporale delle parole sfugge il presente per aprirsi allo splendore del passato e del futuro che convivono nella soglia del presente. Ogni parola che riemerge dalla profondità della domanda è nuova pur con la sua storia che ci invita alla parassi, a ricreare l’ordine delle parole che ci stringono nella stretta mortale:

La pietra perifrastica (1971), di Kikì Dimulà

Parla
Dì qualcosa, una qualsiasi.
Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio
Scegli una parola almeno,
che possa legarti più forte con l’indefinito.
Dì “ingiustamente” “albero” “nudo”
Dì “vedremo”
«imponderabile»,
«peso».
Esistono così tante parole che sognammo una veloce, libera, vita con la tua voce
Parla
Abbiamo così tanto mare davanti a noi
Dove noi finiamo inizia il mare
Dì qualcosa
Dì «onda», che non sta arretra
Dì «barca», che affonda se troppo la riempi con periodi
Dì «attimo»,
che urla aiuto affogo,
non lo salvare,
Dì, «non ho sentito»
Parla
Le parole hanno inimicizie,
hanno antagonismi
se una ti imprigiona,
l’altra ti libera.
Tira a sorte una parola dalla notte.
La notte intera a sorte
Non dire «intera»,
Dì «minima»,
che ti permette di fuggire.
Minima
sensazione,
tristezza
intera
di mia proprietà
Intera notte
Parla
Dì «astro», che si spegne
Non diminuisce il silenzio con una parola…
Dì «pietra»,
che è parola irriducibile
Così, almeno
che io possa mettere un titolo
a questa passeggiata lungomare.

 

Conservare l’invocazione alle parole è la breccia che può far tremare il mondo. Il capitale con le sue pratiche vorrebbe cancellare i linguaggi, perché teme le domande, vuole orizzonti che si chiudono nel deserto di un mondo di cose dove la parola si infrange per restare muta. Dinanzi all’avanzare del deserto non possiamo che piantare parole come fossero alberi per l’inverno dello spirito che sembra avanzare ineluttabile, ma solo il movimento delle parole nella sua purezza che si eleva dalle ambiguità della storia può condurci fuori dalla spelonca dei silenzi “capitali”. Solo i linguaggi liberano, perché mostrano la complessità olistica del mondo. Contro i semplicismi del nuovo totalitarismo non riconosciuto la poesia ci spalanca mondi che il capitale vorrebbe seppellire sotto il silenzio delle merci.

Salvatore Bravo

1 Hannah Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè editore 1985, pag. 103

2 Ibidem pag. 106

3 Ibidem pag. 110


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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28 Marzo 2022 – Presentazione del volume di Luca Grecchi “La filosofia prima della filosofia” / SFI di Taranto, Coordinamento di Ida Russo, Introduzione di Mino Ianne / Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».



A seguire:
Riflessioni di Salvatore Bravo
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
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Enrico Moscarelli – Senofane ed Empedocle. Testimonianze e frammenti. Un confronto tra l’antica e l’attuale cosmologia. Saggi introduttivi e testo greco delle opere con traduzione a fronte.

Enrico Moscarelli
Senofane ed Empedocle. Testimonianze e frammenti
Un confronto tra l’antica e l’attuale cosmologia. Saggi introduttivi e testo greco delle opere con traduzione a fronte.

Editrice Petite Plaisance

ISBN 978-88-7588-317-8, 2022, pp. 304,  Euro 30 – Collana “Il giogo” [144].

In copertina: Biblioteca di Celso (Efeso, oggi in Turchia) tra le cui migliaia di papiri si potevano trovare le opere dei due grandi filosofi oggetto del presente studio.


Le testimonianze e i frammenti raccolti nel presente volume, tradotti e presentati con testo a fronte, suggeriscono un accostamento tra Senofane ed Empedocle, due grandi pensatori del mondo antico. Entrambi in effetti sono stati, con le rare eccezioni che vengono qui debitamente evidenziate, a lungo incompresi e sottovalutati come altri antichi filosofi, se non del tutto ignorati, e presi in considerazione piuttosto riferendosi ad alcuni luoghi delle rispettive ricerche riguardanti singoli aspetti di carattere “scientifico” o teologico. Tuttavia, la ragione più profonda del loro accostamento viene acutamente rappresentata dalla Timpanaro Cardini quando afferma: «Untersteiner, richiamando Reinhardt, osserva che “un procedimento stilistico come quello di Senofane 21 B 30, può trovare un parallelo in Empedocle 31 B 17, 3”; ma a noi sembra che l’affinità debba piuttosto ricercarsi non tanto nella forma stilistica, quanto nella materia; ché veramente Empedocle ebbe, simile a Senofane, il gusto dell’osservazione e dell’interpretazione razionale dei fenomeni naturali. Senofane per il primo introduce nell’epos la descrizione dei fatti naturali come perfettamente conciliabili nella sfera della conoscenza umana col dio-uno-tutto, perché inseriti in esso e suscettibili di una comprensione sempre più elevata da parte dell’uomo colto» (M. Timpanaro Cardini, Saggio sugli Eleati, Pisa 1967, p. 154).

Sommario

S E N O F A N E

Premessa

A mo’ di prologo

Un rapido cenno biografico

Le Culture e le Diete

Il cibo di Senofane e dei suoi amici

Senofane contro Omero.

Fu teologo, semplicemente filosofo o altro ancora?

L’astronomia di Senofane

Opere citate o riguardanti Senofane

Autori moderni citati

Testimonianze

Frammenti

Elegie

Silli

Parodie

Sulla Natura

Appendice I e note aggiunte

******

Seconda parte

*******

E M P E DO C L E

Avvertenza

Qualche osservazione preliminare

L’ex nihilo nihil fit e il miracoloso Big Bang

Cosa ne pensava Parmenide di Elea?

Anassimene ed Empedocle

La vita di Empedocle

Le opportune distinzioni tra doxai periferiche,

polymathìa, le diverse discipline specialistiche

nel campo della medicina egiziana, nei rispettivi

rapporti con l’epistéme, la filosofia,

e in confronto con la scienza dei nostri tempi

La doxa di Parmenide

Poema fisico epurificazioni

Epistola iatrosofistica

Versi spuri

Frammenti di Strasburgo

Appendice II e note aggiunte

Autori moderni citati

Opere citate su Empedocle

Indice generale dei nomi


Enrico Moscarelli è nato a Napoli, dove vive tuttora, e si occupa da oltre trent’anni di filosofia antica, con particolare attenzione ai cosiddetti presocratici. È intervenuto come relatore in convegni e seminari presso l’Accademia Pontaniana, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e fa parte della redazione della rivista filosofica «Porta di Massa». È autore tra l’altro di Ecateo di Mileto. Testimonianze e Frammenti, La Città del Sole, Napoli 1999; I quattro grandi Milesi, Liguori, Napoli 2005; Elio Aristide. Contro Platone, IISF, Napoli 2010; Sofoi, Sofisti: Filosofi, Liguori, Napoli 2014. L’ampia introduzione di quest’ultima opera è stata pubblicata anche in francese: Sages, sophistes: philosophes, trad. di Laura Moscarelli, in «Cahiers critiques de philosophie», n° 15 (2016), pp. 25-496.


Scheda editoriale

Enrico Moscarelli (a cura di), Ecateo di Mileto. Testimonianze e Frammenti, La Città del Sole, Napoli 1999
I quattro grandi Milesi, Liguori, Napoli 2005
E. Moscarelli, Sofoi, Sofisti. Filosofi, Liguori, Napoli 2014
«Cahiers critiques de philosophie», n° 15. Sages, sophistes. Philosophes

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – “Dentro-Fuori”– “Inclusione-Esclusione”. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci. «il manifesto» ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano.

Salvatore Bravo

«Dentro-Fuori» – «Inclusione-Esclusione»

Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto
al giornalista Manlio Dinucci.
il manifesto ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano

*****
***
*

 

La società binaria del turbocapitalismo ha la sua linea di confine, coloro che sono oltre la linea dell’inclusione sono persi nel silenzio, sono cancellati dall’ordine del discorso. Coloro che sono sospinti oltre, perché non allineati, non hanno il diritto di proferire parola. Hanno peccato contro il sistema capitale, il quale ha divorato ogni differenza ed oggi questa è la nuova religione che chiede ai sudditi di inginocchiarsi e, specialmente, di diventare clero orante che esalta la nuova divinità e a cui tutto si può chiedere. Se si è disposti all’olocausto di sé sull’altare del capitale, si è ripagati in proporzione ai propri meriti. La religione atea ha il suo inferno e il suo paradiso, ma tutti sono egualmente dannati.
In questi giorni di guerra, in cui il vero protagonista è il capitalismo, possiamo verificare la verità dell’inclusione e dell’addomesticamento alla divisione dentro-fuori ottenuto con il green pass. L’inclusione nell’epoca del capitale è utilizzata in ogni istituzione come la sovrastruttura culturale per giustificare, a livello ideologico, la struttura economica. La parola “inclusione” fa parte del lessico che ammicca al gergo della sinistra, ora usato dalle oligarchie e dai sostenitori del capitale per ricoprire ciò che è immondo con il velo di Maya intessuto di belle parole, sullo stile del celeste impero. L’inclusione, se si segue la traccia della parola, è un atto di confinamento all’interno: si “deve stare dentro”. Il celeste impero favorisce lo stare dentro, esige che si faccia pubblica confessione della propria fede nella religione del capitale. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci, che su il manifesto ha pubblicato un articolo in cui affermava che la Russia ha reagito ad un’implicita aggressione. Non solo l’articolo è stato espunto, ma è stata eliminata anche la rubrica personale del giornalista.1 La sua voce può apparire solo se è organica alla versione del ministero della verità. Il giornalista ha detto addio alla sua collaborazione con il giornale “notoriamente di sinistra e di opposizione”. Anche in questo caso il sistema inclusivo pone le condizioni per oltrepassare “liberamente” la linea di confine dell’inclusione nella speranza che si scompaia nell’indeterminato.
La violenza è la sostanza del regime capitale, violenza polimorfa, in quanto utilizza varie modalità per normalizzare il linguaggio e neutralizzare il logos, il quale notoriamente è plurale e dialettico. Si susseguono episodi di espulsione, quindi, al fine di normalizzare l’opinione pubblica, ed indurla a ragionare secondo le categorie dentro-fuori, inclusione-esclusione.


Normalizzazione del pensiero unico

Si giunge a tale depauperamento della democrazia dopo trent’anni di guerra del modo di produzione capitalistico contro ogni forma di opposizione al capitale di tipo politico, filosofico, letterario e spirituale. L’abitudine all’espulsione dei dissidenti, associata all’ipnosi di massa, conduce all’indifferenza verso le sorti di ogni cittadino oggetto di tale dinamica di dominio. Il momento massimo di tale perversa rieducazione dell’essere umano è stato ed è il green pass. Con la tessera verde i cittadini hanno imparato a ragionare secondo confini geografici binari: c’è chi è dentro ed usufruisce di diritti formali, c’è chi è fuori e non usufruisce di nessuno diritto, al punto che vengono tagliate le condizioni per la sopravvivenza. Il dominio ha il diritto di concedere a chi è dentro la momentanea sopravvivenza, a chi è fuori la morte. Coloro che sono dentro sentono il sibilare della spada di Damocle dell’espulsione, per cui la parola “inclusione” appare minacciosa, in quanto indica la possibile espulsione, se non si acconsente “liberamente” all’ordine del discorso. Il sistema include a punti, l’obbedienza è premiata con l’inclusione meritocratica, in quanto i più ligi alla virtù dell’obbedienza possono avere in cambio carriera e successo, coloro che tiepidamente dicono il loro “sì” fatale hanno la sopravvivenza assicurata. Tutto è precario, pertanto l’obbediente di oggi può essere espulso dal ministero della verità in qualsiasi momento.
Obbedire è diventata la virtù del sistema capitale, ma pur in questa condizione di successo assoluto, il modo di produzione capitalistico mostra le due fessurazioni e la sua interna corruzione storica e strutturale. Se il sistema necessita di atei devoti dogmaticamente obbedienti ciò è dovuto, si può ipotizzare, al fatto che è eroso da innumerevoli contraddizioni sociali e produttive. Il sistema è sempre sul punto di perdere consenso, propone modelli sociali impossibili, spinge all’atomismo competitivo impoverendo una larga parte della classe media. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, l’homo novus che deve consumare la sua biografia tra consumi e desideri illimitati, non si concretizza in senso assoluto. Nicchie di resistenza si diffondono, mentre le nuove generazioni sono affette da depressioni diffuse, anche in età infantile. Il capitale vorrebbe curare i sintomi di questa generazione alienata e sofferente senza intaccare il sistema, vive di miti e di onnipotenza, non vede che se stesso, come affermava Costanzo Preve, per cui è incapace di autocorreggersi.
Abbiamo tutti, in questo momento di crisi, l’occasione di capire e di uscire dal torpore e dal fatalismo quotidiano. La prima disobbedienza con la quale dobbiamo riconquistare la dignità che ci è stata sottratta è nel mettere in epochè la versione ufficiale per verificare versioni, immagini e parole: aude sapere, kantianamente dobbiamo riprenderci il coraggio di pensare dialetticamente per riaprire il campo di possibilità della storia e trascendere il filo spinato del confine. Bisogna ricominciare dalla ragione critica per imparare la disobbedienza interiore la quale deve trasformarsi in uso pubblico della ragione nei luoghi di lavoro e nelle nostre comunità degli affetti. La forza della ragione critica e pubblica non è nell’apparire nei media, ma è specialmente nella prassi quotidiana:

 

«Un’ultima osservazione. La società contemporanea è basata sulla diversificazione simbolica dell’offerta religiosa. Gli adolescenti isolati di fronte allo schermo luminoso del loro computer sono la base sociale odierna del rapporto individuale con l’assoluto, e quindi anche con Dio. Non si tratta più del vecchio libero esame di Lutero, ma del nuovo isolamento informatico. Le adunate urlanti dei papa-boysnon sono lo strumento per la rottura di questo isolamento. Come disse a suo tempo Heidegger, il collettivismo è solo l’individualismo posto al livello della totalità. È necessaria una vera e propria rifondazione della ragione, che parta dall’individuo e dalla sua interiorità e poi risalga al livello della società, tenendo conto però che finché la società non diventa comunità tutto è destinato a ricadere in basso al punto di prima».2

 

Alla tetragona realtà del capitale, si deve opporre la disobbedienza della ragione etica, la quale non cerca il proprio interesse privato, ma la vitalità comunitaria senza la quale ogni esistenza è solo un atomo oggetto della forza di gravità del modo di produzione capitalistico.

Salvatore Bravo

 

L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo
indicepresentazioneautoresintesi


Note


1 “L’8 marzo – dopo averlo per breve tempo pubblicato online – il Manifesto ha fatto sparire nottetempo l’articolo di cui sotto anche dall’edizione cartacea, poiché mi ero rifiutato di uniformarmi alla direttiva del Ministero della Verità e avevo chiesto di aprire un dibattito sulla crisi ucraina. Termina così la mia lunga collaborazione con questo giornale, su cui per oltre dieci anni ho pubblicato la rubrica L’Arte della guerra” (Manlio Dinucci)


Qui a seguire l’articolo censurato.

Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp, di Manlio Dinucci

Il piano strategico degli Stati uniti contro la Russia è stato elaborato tre anni fa dalla Rand Corporation (il manifesto, Rand Corp: come abbattere la Russia, 21 maggio 2019). La Rand Corporation, il cui quartier generale ha sede a Washington, è «una organizzazione globale di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide politiche»: ha un esercito di 1.800 ricercatori e altri specialisti reclutati da 50 paesi, che parlano 75 lingue, distribuiti in uffici e altre sedi in Nord America, Europa, Australia e Golfo Persico. Personale statunitense della Rand vive e lavora in oltre 25 paesi.
La Rand Corporation, che si autodefinisce «organizzazione non-profit e non-partisan», è ufficialmente finanziata dal Pentagono, dall’Esercito e l’Aeronautica Usa, dalle Agenzie di sicurezza nazionale (Cia e altre), da agenzie di altri paesi e potenti organizzazioni non-governative.
La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la strategia che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse nell’estenuante confronto militare. A questo modello si è ispirato il nuovo piano elaborato nel 2019: «Over-extending and Un-balancing Russia», ossia costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo.
Anzitutto – stabilisce il piano – si deve attaccare la Russia sul lato più vulnerabile, quello della sua economia fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio: a tale scopo vanno usate le sanzioni commerciali e finanziarie e, allo stesso tempo, si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto statunitense.
In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno.
In campo militare si deve operare perché i paesi europei della Nato accrescano le proprie forze in funzione anti-Russia. Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – conclude la Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma questi e i loro alleati dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi.
Nel quadro di tale strategia – prevedeva nel 2019 il piano della Rand Corporation – «fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi».
È proprio qui – in quello che la Rand Corporation definiva «il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia», sfruttabile armando l’Ucraina in modo «calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio» – che è avvenuta la rottura. Stretta nella morsa politica, economica e militare che Usa e Nato serravano sempre più, ignorando i ripetuti avvertimenti e le proposte di trattativa da parte di Mosca, la Russia ha reagito con l’operazione militare che ha distrutto in Ucraina oltre 2.000 strutture militari realizzate e controllate in realtà non dai governanti di Kiev ma dai comandi Usa-Nato.
L’articolo che tre anni fa riportava il piano della Rand Corporation terminava con queste parole: «Le opzioni previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici e rischi viene pagato da tutti noi». Lo stiamo pagando ora noi popoli europei, e lo pagheremo sempre più caro, se continueremo ad essere pedine sacrificabili nella strategia Usa.

 

2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e religione, Petite Plaisance Pistoia, pag. 22

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Benedetta Grecchi – Cara Nonnina, ormai sono due anni che ci hai lasciato.  Mi sarebbe piaciuto vederti felice per tutta la vita, sempre col tuo sorriso che niente e nessuno è mai riuscito a toglierti. Un posticino speciale accanto a me, per te, ci sarà sempre. Ti voglio bene.

Cara nonnina,

ormai sono due anni che ci hai lasciato.

Mi sarebbe piaciuto vederti felice per tutta la vita, sempre col tuo sorriso che niente e nessuno è mai riuscito a toglierti. Mi hai insegnato tante cose in questi anni, soprattutto che non bisogna arrendersi di fronte alle difficoltà, ma saperle affrontare, come hai fatto tu. Sarà difficile vivere la mia vita senza di te, ma sappi che faccio tutto anche per renderti orgogliosa di me.

Mi hai aiutato in qualsiasi momento, mi hai fatto crescere e mi hai resa più felice e più sensibile. Di te ho tantissimi ricordi, incancellabili. Eri una persona speciale con un cuore d’oro. Non troverò mai una persona con il tuo stesso carattere, perché sei unica. Un posticino speciale accanto a me, per te, ci sarà sempre. Grazie per tutto quello che continui a fare per me.

Ti voglio bene.

Benedetta Grecchi

16 marzo 2022


Elisabetta Berardi – Indagare le relazioni esistenti tra Aristotele e i saperi anteriori ha significato indagare la riappropriazione da parte della filosofia di tali discorsi di sapere, ponendosi in una prospettiva diacronica molto ampia; l’ampiezza di orizzonte della ricerca è rappresentata nel sottotitolo del nostro volume.





Aristotele citatore o la riappropriazione da parte della filosofia dei discorsi di sapere anteriori.
Curatrici: Elisabetta Berardi, Maria Paola Castiglioni, Marie-Laurence Desclos, Paola Dolcetti. Collana: Sophia. Studi interdisciplinari sul mondo antico,
Le Edizioni dell’Orso, Alessandria 2020.

Elisabetta Berardi

Indagare le relazioni esistenti tra Aristotele e i saperi anteriori ha significato indagare la riappropriazione da parte della filosofia di tali discorsi di sapere,
ponendosi in una prospettiva diacronica molto ampia; l’ampiezza di orizzonte della ricerca
è rappresentata nel sottotitolo del nostro volume.



[…] Indagare le relazioni esistenti tra Aristotele e i saperi anteriori della Grecia e dell’Oriente ha significato per il nostro gruppo di ricerca internazionale PARSA indagare, fin dal 2013, su un piano più generale, la riappropriazione da parte della filosofia di tali discorsi di sapere, ponendosi in una prospettiva diacronica molto ampia; l’ampiezza di orizzonte della ricerca è rappresentata nel sottotitolo del nostro volume. Aristotele citatore raccoglie quindi riflessioni che muovono da lontano e che sono state esposte e sottoposte a viva e proficua discussione nella cornice di un Convegno Internazionale di studi tenutosi a Torino nel 2019. Il Convegno ha radunato membri del gruppo di ricerca del PARSA e esperti su invito o risposta a Call; i ventisette relatori hanno dialogato fruttuosamente e con passione tra loro e con colleghi e giovani studiosi convenuti ad assistere. Questo si riflette con grande ricchezza nei contributi dati alla stampa, legati tra loro da una fitta rete di rimandi che traducono su carta il dialogo costante tra le parti. Il Convegno torinese è stato preceduto da altri tre incontri internazionali che hanno posto basi fondamentali per lo sviluppo del tema: il punto di partenza della ricerca nel 2013 è consistito in una riflessione su uno stato di conoscenza pre-disciplinare, un’indagine su, […] quei ‘primi filosofi’ che non lo sono. Il PARSA si è interrogato su uno stato – e su uno statuto – di sapere precedente o contemporaneo alla filosofia; non abbiamo quindi scelto di interrogare i cosiddetti ‘Presocratici’ (come dal XVIII secolo è invalso di chiamare i ‘primi filosofi’) in quanto tali, e a ben riflettere, del resto, coloro che siamo pronti oggi ad arruolare sotto la bandiera della filosofia non si definivano loro stessi tali. Abbiamo invece considerato che si assiste nel mondo antico a un nuovo tipo di discorso di conoscenza che si oppone ad altri discorsi di conoscenza, considerati come tali o che pretendono di essere tali. Ci siamo interrogati sulla natura di questa novità, senza dare per scontato che essa risiedesse nell’assenza del ruolo degli dèi nella riflessione sul mondo. La novità non ci è parsa tanto consistere in cosa il discorso dicesse, quanto in una diversa relazione con il logos stesso, con tutte le possibilità di riappropriazione, deviazione, ri-significazione che una tale modifica può aprire. Un nuovo tipo di discorso della conoscenza, che non significa però un discorso unico della conoscenza: lo dimostra l’accusa di Eraclito contro Esiodo, ma anche contro Pitagora, Ecateo e Senofane. Questi tipi di discorso sono tutti caratterizzati da ciò che Eraclito attribuisce loro, cioè la polymatheia. Ci è parso quindi opportuno vedere in questa polymatheia il tratto distintivo del pensiero arcaico – piuttosto che ‘presocratico’ – da cui la ‘filosofia’ deriva, pur differenziandosi da essa per l’istituzione di campi di conoscenza distinti. Con tale chiave di lettura abbiamo superato la questione della situazione cronologica dei ‘presocratici’, alcuni dei quali sono in realtà contemporanei di Socrate e anche di Platone. Abbiamo inoltre superato la questione se la filosofia potesse costituirsi (e auto-costituirsi) solo più tardi con l’adozione posturale di un’autorità responsabile di un’omogeneizzazione che l’aveva comunque preceduta da tempo. Essa infatti si riferiva a una certa concezione del sapere – la polymatheia – e della ‘natura’, intesa come un insieme strutturato in cui ciascuno dei suoi costituenti ha il suo posto: il cielo e i corpi celesti; la terra – la sua fauna, la sua flora e le sue regioni; l’uomo – il suo corpo, le sue sostanze costitutive, i suoi stati (in malattia o in salute); la sua anima, la sua natura, le sue funzioni, le sue facoltà; il suo modo di vivere, dall’animalità alla cittadinanza; la città, le sue istituzioni, il suo passato, il suo comportamento in guerra o in pace. Abbiamo constatato quindi la diversità dei discorsi e delle conoscenze che circolano, si compenetrano, si influenzano e si modificano a vicenda. Questo è stato l’obiettivo raggiunto dai primi due Convegni di Grenoble dedicati alla poesia arcaica (2014) e drammatica (2015) come discorsi di sapere; il loro scopo è stato analizzare, al di là di qualsiasi approccio disciplinare o esclusività, le relazioni che si intessevano tra questi sapienti – sophoi o sophistai, non importa – il cui linguaggio offre testimonianza del pensiero. Con tali premesse il Gruppo ha affrontato l’indagine su Platone e il rapporto con i saperi anteriori (Grenoble 2017) e ora pubblica i risultati di una analoga indagine su Aristotele. Questi saperi anteriori, come è emerso dalla nostra ricerca, si rivelano anche saperi filosofici ormai così lontani nel tempo da Aristotele da necessitare a suo giudizio di una traduzione, che è al tempo stesso interpretazione e ri-appropriazione: penso al caso degli atomisti Leucippo e Democrito che Aristotele nel primo libro della Metafisica (985b) riprende e ri-volge in un diverso linguaggio. Nel volume si susseguono quindi stimolanti contributi che si occupano del rapporto del corpus aristotelico con diversi discorsi di saperi anteriori, epos e poesia arcaica, teatro comico e tragico, ma anche storiografia, retorica, medicina, pensatori ‘presocratici’, logoi sulle tradizioni dei popoli anellenici. Infine, e non sorprende nella complessità del pensiero aristotelico, Aristotele si confronta con se stesso attraverso l’autocitazione: il nostro volume si chiude con la riflessione condotta da Étienne Helmer su questo tema affascinante.

Elisabetta Berardi, Intervista pubblicata su «Letture.org».


Aristotele citatore costituisce il quarto capitolo del Programma pluriennale di ricerca del PARSA «Il problema della riappropriazione da parte della filosofia dei discorsi di sapere anteriori» e ne accoglie i risultati scientifici presentati nel Colloquio Internazionale di Torino (27-29 marzo 2019). Partendo dall’analisi delle citazioni aristoteliche dirette o indirette dai poeti arcaici e classici e da altri discorsi di sapere non filosofici del mondo greco, giovani ricercatori e specialisti di scienze dell’antichità hanno osservato somiglianze e scarti tra le fonti e l’uso che ne è fatto da Aristotele, rilevando il contesto pragmatico di enunciazione e il quadro argomentativo nel quale esse si collocano; i saggi contenuti nel volume mostrano l’interesse che questi saperi hanno potuto suscitare, i pericoli che hanno potuto rappresentare – soprattutto in termini di concorrenza –, le riappropriazioni e/o le distorsioni di cui sono stati oggetto.

Aristote citateur constitue le quatrième volet du Programme pluriannuel de recherche du PARSA «Le problème de la réappropriation par la philosophie des discours de savoir antérieurs» et réunit les résultats scientifiques présentés lors du colloque international de Turin (27-29 mars 2019). En partant de l’analyse des citations directes ou indirectes d’Aristote aux poètes archaïques et classiques et à d’autres discours de savoir non philosophiques du monde grec, de jeunes chercheurs et des spécialistes des sciences de l’antiquité ont constaté des similitudes mais aussi des différences entre les sources et l’usage qu’en fait Aristote, en prenant en compte le contexte pragmatique d’énonciation et le cadre argumentatif dans lequel elles s’insèrent. Les communications contenues dans cet ouvrage collectif montrent tout l’intérêt que ces savoirs pouvaient susciter, les dangers qu’ils pouvaient représenter – notamment en termes de concurrence –, les réappropriations et/ou les distorsions dont ils ont été l’objet.


Elisabetta Berardi (Università di Torino) si occupa di letteratura greca di età imperiale, con particolare riguardo alle dinamiche tra retorica e filosofia tra I e II sec. d.C. e al Fortleben del Gorgia e del Fedro platonici. Elisabetta Berardi è Presidente del PARSA

Maria Paola Castiglioni (Université Grenoble Alpes) si occupa di storia greca, con particolare riguardo ai fenomeni culturali, politici e sociali nelle epoche arcaica e classica. Marie-Laurence Desclos (Université Grenoble Alpes) si occupa di storia della filosofia greca in un approccio antropologico, con un particolare interesse per Platone.

Paola Dolcetti (Università di Torino) si occupa di letteratura greca con particolare riguardo alla prosa delle origini, al genere letterario del dialogo e a Luciano di Samosata nelle sue interazioni con la filosofia e il mito.


Intervista alla Prof. Elisabetta Berardi: https://www.letture.org/aristotele-citatore-o-la-riappropriazione-da-parte-della-filosofia-dei-discorsi-di-sapere-anteriori-elisabetta-berardi-maria-paola-castiglioni-marie-laurence-desclos-paola-dolcetti

Recensione di Luigi Spina a: «Aristotele citatore o la riappropriazione da parte della filosofia dei discorsi di sapere»


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Metafisica e Guerra. Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene.



Salvatore Bravo

Metafisica e guerra.
Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene

La guerra di questi giorni necessita di una lettura storica e filosofica. La lettura storica ricostruisce gli eventi in modo olistico, mentre la filosofia deve svolgere un lavoro archeologico. La guerra non è uno stato di eccezione, è la normalità dell’Occidente capitalistico. Da Hobbes fino a giungere al tempo presente la guerra si svolge all’interno dei confini degli Stati o tra gli Stati. Ogni guerra è un episodio della storia della crematistica divenuta “la storia” dell’Occidente planetario. Lo scopo di ogni atto di guerra personale o collettivo è il perseguire interessi privati o lobbistici, è la potenza della dismisura che guida intenzioni, gesti, parole e armi. Bisogna far emergere il non detto, il paradigma all’interno del quale ci si muove, si pensa e si agisce. La ragione strumentale è ormai azione priva di limiti ed è supportata dal pensiero debole, che crede nel solo calcolo utilitaristico e nella logica computazionale.

La verità è dunque soltanto un accidente del passato: senza fondamento metafisico non vi è verità-bene, per cui la ragione strumentale da frammento dell’attività umana è divenuta totalità illimitata. La guerra tra Ucraina e Russia è un evento interno alla storia del nichilismo europeo e planetario che persegue l’onnipotenza economica. Senza fondamento veritativo (che dona concretezza alla vita dei singoli), si perseguono soltanto obiettivi sempre più astratti e onnipotenti per incidere nella realtà che sfugge tra i sogni di grandezza che si sviluppano nelle pieghe della disperazione. Le oligarchie, per toccare la vita e sentire di esistere, devono avere come obiettivo ambizioni sempre più elevate e onnipotenti. Si coniugano due livelli, che si intersecano: la crisi della metafisica ha comportato la rinuncia alla ragione oggettiva, tale condizione ha incentivato lo sviluppo della razionalità strumentale la quale ha comportato l’economicismo e l’accumulo smisurato. Le oligarchie internazionali esprimono massimamente i due piani, sono il punto apicale dell’eclisse della ragione oggettiva. La tragedia attuale è nella generalizzazione di tale cultura antimetafisica. I popoli sono addestrati a credere ciecamente nella ragione strumentale, guardano con ammirazione invidiosa la potenza delle oligarchie, non scorgono l’impotenza che li caratterizza, ma solo il farsi padroni e signori della vita dei popoli. I popoli sono ingannati e turlupinati della ragione metafisica. Le oligarchie negli ultimi decenni hanno agito neutralizzando il dibattito pubblico ed eliminando i corpi medi nei quali la dialettica costituiva il katechon all’onnipotenza distruttrice della razionalità strumentale. La condizione attuale è ulteriormente complicata dalla presenza pervasiva dei media in possesso degli oligarchi che sterilizzano il dibattito, e hanno sostituito la pluralità delle posizioni ideologiche e prospettiche, sostanza della democrazia, con la pluralità delle immagini ampiamente manipolate. Le immagini, con il loro silenzio, hanno sostituito il logos e il dialogo, per cui si ha la percezione di essere in democrazia, ma in realtà è solo il suo cavo esoscheletro. Dinanzi al nuovo episodio della storia del nichilismo tecnocratico in corso, vi è un’urgenza metafisica non colta e rimossa. Senza verità-bene nulla potrà cambiare, e qualora le circostanze portassero ad una rapida pace o al compromesso diplomatico, resterebbe irrisolto il fondamento metafisico del problema. Senza una rivoluzione culturale e metafisica continueremo ad essere all’interno di un percorso distruttivo planetario a livello biologico e culturale.

La razionalità strumentale non comprende e conosce che l’accumulo e l’utile, per cui è azione di devastazione antropologica e ambientale ordinaria con dei picchi di tensione nei quali si può scorgere la verità non detta della condizione storica attuale. Le guerre permettono di fessurare la realtà del potere e di guardare, all’interno, la verità in cui siamo implicati. La lettura storica delle ragioni delle parti in causa, se è scissa dall’ermeneutica filosofica, rischia di condurci ad un semplicismo che non individua la profondità del problema. Bisogna guardare la tempesta che muove l’intero bosco della vita e dei popoli e non solo i singoli alberi che cadono con il loro fragore.

Solo il frammento che rimanda alla totalità può liberarci dalla cecità della ragione strumentale. I suoi innumerevoli dati sono utili per comprendere la contingenza attuale, ma non sufficienti per cogliere il problema nella sua inquietante profondità.

Senza la verità e il bene nessuna alternativa è progettabile. Alla cultura del frammento che cela la ripetizione ossessiva dello stesso in forme nuove, dobbiamo opporre il frammento in relazione alla totalità per poterne svelare la verità e cambiare percorso che punta direttamente verso l’abisso. Necessitiamo di strumenti metafisici e di una nuova metodologia di indagine per comprendere che nel frammento di tale guerra è racchiusa la verità dell’intero. Far emergere tale verità è l’esodo che dobbiamo organizzare dalla cultura totalitaria delle oligarchie. La metafisica nella percezione della maggioranza e delle accademie è solo un residuo inutile del passato, invece, solo essa ci può restituire il riorientamento gestaltico per un nuovo inizio:

«L’Intero dell’essere, dunque, si trova come riprodotto nel frammento anche attraverso la predicazione dell’unità, così come il frammento ha proiettato la propria ombra sull’intero dell’essere attraverso la richiesta della determinatezza della predicazione. E infatti, come è impossibile, cioè autocontraddittorio, pensare al “fondo” dell’essere quale molteplice. Così è impossibile, cioè autocontraddittorio, porre qualcosa senza porla nella sua unità. Porre qualcosa vuol dire pensarla, pensare qualcosa vuol dire l’unità di un molteplice».1

La guerra ci restituisce il dramma metafisico in cui siamo. Il frammento non pensato nella sua unità e relazione diviene illimitato e, dunque, assimila e cancella la totalità per diventare la verità artificiale e relativistica senza fondamento. Senza la chiarezza del problema metafisico si rischia di non individuare il nemico sociale che tutto muove, il quale non è solo nemico di classe, ma è problema e dramma etico derivante dalla crisi dei fondamenti. Il nemico circola nei popoli con la cultura del frammento e con la ragione strumentale che conosce solo mezzi senza finalità onto-assiologiche. I popoli sono colonizzati dalle oligarchie, in quanto si nutrono dello stesso linguaggio bellicoso e proprietario.

Il vero lavoro metafisico deve partire dalla guerra che vive nei nostri comportamenti quotidiani per elevarsi ad un piano di consapevolezza comunitaria per trascenderla in una nuova progettualità metafisica. Le vie di uscita dalla crisi metafisica possono essere plurali, ma ciò che è irrinunciabile è riportare il frammento alla totalità nelle sue relazioni e rimandi, poiché la sola cultura analitica non può che portarci all’irrazionalità di uno stato di guerra perenne, in quanto le parti sono irrelate e dunque destinate al conflitto:

«In fondo, le vie d’accesso o di fuoriuscita di una città sono molteplici e l’importante è rappresentarne il senso interale, almeno nel nostro caso rispettandone la complessità di struttura».2

1 Carmelo Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pag. 201.

2 Ibidem, pag. 426.


Picasso, Guernica, 1937

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – «Il desiderio chiamato Utopia». Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Luca Grecchi

Il  desiderio chiamato Utopia. Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

 

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell’utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo (leggendo il suo libro Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, ed. or. 2005.), non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell’utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva.

Jameson inizia sottolineando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile – secondo l’etimologia greca volta per volta preferita – sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell’utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell’utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l’utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque – essa sì – a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti.

Descrivendo le tendenze in atto nell’attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell’impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo “marxismo” (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l’utopia (che io tradurrei – anche se lui non lo dice – come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi.

Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l’amore per la letteratura di Jameson, che dell’utopia si mostra quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo “eruditismo”, però, l’approccio di Jameson può essere considerato – nelle sue linee generali – condivisibile, in quanto egli riprende l’approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L’uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosofico-politica.

Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l’unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l’iniziale gesto utopico di Moro, l’abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l’ideale umano.

Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l’utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i “vicini di casa” per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui “lontani capitalisti”), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile, e che è possibile coniugare – come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone – con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249).

In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Già pubblicato in, L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten», Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 51-53 (indicepresentazioneautoresintesi ).


http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/186/int186.html

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leonardo Boff – Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo. 

Leonardo Boff

Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo.



Il libro dell’Apocalisse che narra gli scontri finali della nostra storia, tra le forze della morte e quelle della vita, ci dipinge un cavallo di fuoco che simboleggia la guerra: «il cavaliere fu dato per bandire la pace dalla terra perché gli uomini si decapitino l’un l’altro» (6, 4). La guerra tra Russia e Ucraina e l’ordine del presidente russo di tenere in allerta le armi nucleari, ci suscitano l’azione del cavallo di fuoco, la decapitazione dell’umanità, vale a dire, un Armageddon umano.

Le severe sanzioni imposte dalla NATO e dagli USA alla Federazione Russa possono portare al collasso dell’intera sua economia. Di fronte a questo disastro nazionale, la possibilità che il leader russo non accetti la sconfitta come se Napoleone (1812) o Hitler (1942) avessero preso il paese, cosa che non riuscirono a fare. Quindi realizzerebbe le minacce e avvierebbe un attacco nucleare. Solo l’arsenale russo può distruggere la vita umana sul pianeta più volte. E una vendetta può danneggiare l’intera biosfera senza la quale la nostra vita non potrebbe sopravvivere.

Dietro questo confronto Russia-Ucraina si nascondono potenti forze in lotta per l’egemonia mondiale: la Russia, alleata con Cina, e gli USA. La strategia di quest’ultimi è più o meno nota, guidata da due idee principali: “one world and one empire” (gli USA), garantito da un dominio a tutto spettro: dominio in tutti i campi con 800 basi militari distribuite nel mondo, ma anche con il dominio economico, ideologico e culturale. Tale dominio completo sarebbe alla base della pretesa degli Stati Uniti di essere “eccezionali”, di essere “la nazione indispensabile e necessaria”, “l’ancora della sicurezza globale” o “l’unico potere” (lonely power) veramente mondiale.

In questa volontà imperiale, la NATO, dietro la quale si trovano gli USA, si è estesa fino ai limiti della Russia. Tutto ciò che serviva era l’inserimento dell’Ucraina per chiudere l’assedio. I missili piazzati al confine ucraino avrebbero raggiunto Mosca in pochi minuti. Da qui la richiesta della Russia che l’Ucraina rimanesse neutrale, altrimenti sarebbe stata invasa. Questo è quello che è successo con le perversità che ogni guerra produce. Nessuna guerra è giustificabile perché uccide vite umane e va contro il senso delle cose che è la condizione per continuare a esistere. La Cina, a sua volta, contende l’egemonia mondiale non con mezzi militari, anche alleandosi con la Russia, ma attraverso la via economica con i suoi grandi progetti come la Via della Seta. In questo campo sta superando gli USA e raggiungerebbe l’egemonia mondiale anche con un certo ideale etico, quello di creare “una comunità di destino comune partecipata da tutta l’umanità, con società sufficientemente rifornite”.

Ma non voglio prolungare questa prospettiva bellicosa, davvero folle fino al punto di essere suicida. Questo scontro tra potenze rivela l’incoscienza degli attori in campo sui reali rischi che gravano sul pianeta che, anche senza il ricorso ad armi nucleari, potrebbero mettere in pericolo la vita umana. Va detto che tutti gli arsenali di armi di distruzione di massa si sono rivelati totalmente inutili e ridicoli di fronte a un virus minuscolo come il Covid-19.

Questa guerra rivela che i responsabili del destino umano non hanno imparato la lezione fondamentale del Covid-19, che non ha rispettato le sovranità e i limiti nazionali. Ha colpito l’intero pianeta. L’epidemia richiede l’instaurazione di una governance globale di fronte a una problema globale. La sfida va oltre i confini nazionali, è costruire la Casa Comune.

Non si sono resi conto che il grosso problema è il riscaldamento globale. Già siamo immersi nella crisi climatica, gli eventi fatali di questi mesi – dovuti alle inondazioni di intere regioni, ai tifoni e alla scarsità di acqua dolce – sono visibili. Abbiamo solo 9 anni per evitare una situazione di non ritorno. Se entro il 2030 aumentiamo di 1,5 gradi Celsius la temperatura del pianeta, non saremo in grado di controllarlo e ci dirigeremo verso un collasso del sistema Terra e dei sistemi vita. Stiamo toccando i limiti di sostenibilità della Terra. I dati di sovraccarico della terra (Earth Overshoot) indicano che il 22 settembre 2020 le risorse non rinnovabili necessarie alla vita erano esaurite. Il persistere del consumismo, pretende dalla Terra quello che lei non può più dare. In risposta, lei ci invia virus letali, aumenta il riscaldamento, destabilizza i climi e distrugge migliaia di esseri viventi.

La sovrappopolazione associata a una nefasta disuguaglianza sociale, con la stragrande maggioranza dell’umanità che vive in povertà e nella miseria, quando l’1% della popolazione controlla il 90% della ricchezza e dei beni e servizi essenziali, può portare a conflitti con innumerevoli vittime e alla devastazione di interi ecosistemi. Questi sono i problemi, tra gli altri, che dovrebbero preoccupare i capi di stato, gli amministratori delegati delle grandi Corporation e i cittadini, poiché loro mettono direttamente a rischio il futuro dell’intera umanità. Di fronte a questo rischio globale, è ridicola una guerra per zone di influenza e di sovranità già obsolete.

Quelli che ci danno speranza sono quegli anonimi “Noè” che prosperano ovunque, a partire dal basso, costruendo le loro le arche salvifiche attraverso una produzione rispettosa dei limiti della natura, per un’agro-ecologia, per comunità solidali, per democrazie socio-ecologiche partecipative, lavorando a partire dai propri territori. Loro possiedono la forza del seme del nuovo e con una mente nuova (la Terra come Gaia), con un cuore nuovo (il legame di affetto e cura per e con la natura) garantiscono un nuovo futuro con la coscienza di una responsabilità universale e di un’interdipendenza globale. La loro guerra è contro la fame e la produzione di morte e la loro lotta è per la giustizia per tutti, la promozione della vita e la difesa dei più deboli e indigenti. Questo è quello che deve essere. E quello che deve essere, ha intrinsecamente una forza invincibile.

Leonardo Boff, http://www.leonardoboff.org

Fonte: Il faro di Roma, 9/3/2022.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sante Notarnicola (1938-2021) – Sante il 22 marzo 2021 è volato via come una farfalla … Ne ricordiamo la vita con i manifesti che a sua memoria sono affissi in varie città. Lui diceva che: «La libertà ha bisogno di attenzioni, di cure continue e soprattutto ha bisogno di memoria».

Sante Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere ancora,
per sempre,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.

Carmine Fiorillo

La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Chiara è una bimba felice.
Nata attrezzata
per i giochi infiniti.

Chiara lo sa, con lei
giocheremo tutta la vita.

Sante Notarnicola


Non c’è vita
che almeno per u n attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wislawa Szymborska


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]

Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]

 

«Caro Sante,
Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.

Primo Levi».[3]

***

[1] S. Notarnicola, Materiale interessante. Liberi dal silenzio, Edizioni della Battaglia, Palermo,1997, p. 10.

[2] Ibidem, p. 35.

[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.






Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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