Annie Lacroix-Riz – C’è un contesto storico che spiega perché la Russia è stata messa all’angolo. Questa guerra, per quanto deplorevole, è stata annunciata molto tempo fa, e le voci ragionevoli di militari, diplomatici e accademici in Occidente, che non hanno accesso a nessun grande organo di “informazione” privato o statale, sono categoriche sulle responsabilità esclusive e di lunga data degli Stati Uniti nello scoppio del conflitto che hanno reso inevitabile.

L’histoire contemporaine toujours sous influence

Annie Lacroix-Riz, docente di storia contemporanea all’Università di Parigi VII-Denis Diderot, ha scritto diversi libri sulle due guerre mondiali e la dominazione politica ed economica. Guarda con attenzione la situazione in Ucraina ponendola in relazione alla storia dell’imperialismo di inizio XX secolo e la sua continuazione. Quello che ci viene raccontato troppo spesso dai media non ci permette di capire il conflitto, quindi di cercare una soluzione per la pace. In questa intervista, ci viene offerto uno sguardo retrospettivo utile per comprendere gli eventi e la storia recente della regione.

 

Intervista a Annie Lacroix-Riz

C’è un contesto storico che spiega perché la Russia è stata messa all’angolo

Questa guerra, per quanto deplorevole, è stata annunciata molto tempo fa, e le voci ragionevoli di militari, diplomatici e accademici in Occidente, che non hanno accesso a nessun grande organo di “informazione” privato o statale, sono categoriche sulle responsabilità esclusive e di lunga data degli Stati Uniti nello scoppio del conflitto che hanno reso inevitabile.

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Nei media, si ha l’impressione che la guerra in Ucraina sia scaturita dal nulla. Cosa può dirci del suo contesto storico?

Prima di tutto, gli elementi storici sono quasi assenti da quella che è difficile definire una “analisi” della situazione. Tuttavia, ci sono due aspetti importanti da prendere in considerazione negli eventi attuali. In primo luogo, c’è una situazione generale, cioè l’aggressione della Nato contro la Russia. In secondo luogo, c’è una sorta di ossessione contro la Russia – e anche contro la Cina. Questa ossessione non è nuova, quindi permette di relativizzare l’attuale frenesia anti-Putin. L’essenza della presunta “analisi occidentale” è che Putin sia un pazzo paranoico e (o) un nuovo Hitler. Ma l’odio per la Russia e il fatto di non sopportare che la Russia eserciti un ruolo mondiale è riconducibile all’imperialismo statunitense.

 

Come si spiega questa ossessione?

È un’ossessione caratteristica di un imperialismo dominante che è stato egemone per quasi tutto il XX secolo. Questo imperialismo non vuole perdere la propria egemonia, che però sta perdendo. In effetti, oggi non siamo più nella stessa situazione degli anni ‘50, quando gli Stati Uniti rappresentavano il 50% della produzione mondiale. La Cina si sta avvicinando alla posizione di primo produttore del mondo, e questo non piace agli Stati Uniti. Negli ultimi anni abbiamo raggiunto un momento particolarmente acuto del confronto, segnato da una serie di aggressioni sconcertanti.

Anche la Russia viene presa di mira. Si ha l’impressione che ci sia ancora una sorta di rancore contro i bolscevichi, ma è importante rendersi conto che questa russofobia dell’imperialismo statunitense è iniziata in epoca zarista ed è continuata in seguito, anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gli impegni presi dagli Stati Uniti di non avanzare militarmente nella zona ex sovietica sono stati tutti violati. Dal 1991 al febbraio 2022, siamo così arrivati a un momento in cui la prospettiva per la Russia di vedere la Nato alle sue porte e di un’Ucraina nuclearizzata è divenuta una realtà immediata.

 

Qual è il posto dell’Ucraina nel confronto fra potenze imperialiste?

L’Ucraina è inseparabile dalla storia della Russia fin dall’alto Medioevo. La Russia con tutte le sue ricchezze naturali è una caverna di Alì Babà e l’Ucraina è stata il suo gioiello più grande: è una fonte straordinaria di carbone, ferro e tante altre risorse minerali, oltre che un formidabile deposito di grano e altri cereali. Cosa che ha attratto a lungo i desideri di molti.

Se ci atteniamo al periodo imperialista (dal 1880), possiamo dire che è stata la Germania a essere inizialmente interessata all’Ucraina. Prima della guerra del 1914, il Reich tedesco decise di controllare l’impero russo assicurandosi il controllo delle sue “marche” più sviluppate, l’Ucraina e gli Stati baltici. Durante il conflitto, la Germania trasformò questi Stati e l’Ucraina in una roccaforte militare, la base per il suo assalto all’Impero russo. Durante la Prima guerra mondiale, mentre la Germania fallì sul fronte occidentale già nel 1917, lo stesso non si può dire del fronte orientale, che dominò fino alla sua sconfitta. E anche se, dal gennaio 1918, la Russia da poco sovietica era sottoposta a ulteriori aggressioni da parte di tutte le altre potenze imperialiste (14 paesi la invasero senza dichiarazione di guerra), Berlino riuscì a imporle, nel marzo 1918, il trattato di Brest-Litovsk, che ne confiscò l’Ucraina. La sconfitta della Germania alla fine della Prima guerra mondiale non è valsa a restituirla, vista la guerra condotta sul suo suolo dagli “Alleati”, sostenuti da tutti gli elementi antibolscevichi, russi e ucraini.

 

L’Ucraina ha poi goduto di un breve periodo di indipendenza…

Dal 1918 al 1920, ci fu effettivamente un breve periodo di “indipendenza” folcloristica, sullo sfondo dell’aggressione delle armate bianche (pogromiste) di Denikin, e del pogromista Petliura, ufficialmente “indipendentista” e alleato della Polonia (che mirava a tutta l’Ucraina occidentale). L’Ucraina rimase l’obiettivo del Reich, che aveva preso il sopravvento sull’impero austriaco, poi gli “austro-ungarici” degli Asburgo, possessori della Galizia orientale, nell’ovest dell’Ucraina, dopo la spartizione della Polonia. Questa tutela germanica fornì una base preziosa per l’indebolimento della Russia e dello slavismo ortodosso, dal tempo degli Asburgo, con l’uniatismo come strumento principale, guidato dal Vaticano.

 

Che ruolo ha avuto il Vaticano?

L’uniatismo cattolico, supporto ideologico della conquista germanica, aveva sedotto una parte della popolazione ucraina occidentale, grazie al suo aspetto formale molto vicino all’ortodossia. Questo strumento di conquista austriaco fu ripreso dalla Germania in epoca imperialista: il Vaticano, capendo che non poteva più contare sul moribondo impero cattolico, si sottomise definitivamente al potente Reich protestante all’inizio del XX secolo, anche in Ucraina.

Nel periodo tra le due guerre, l’Ucraina giocò quindi un ruolo decisivo nell’alleanza tra la Germania e il Vaticano, al quale Berlino affidò lo spionaggio militare attraverso i chierici uniati. Possiamo vedere come fu organizzato allora il tentativo di conquistare l’Ucraina, consacrato dalla firma del Concordato del Reich del luglio 1933. Uno dei suoi due articoli segreti stabiliva che la Germania e il Vaticano si sarebbero alleati nella presa dell’Ucraina, che era uno dei principali obiettivi di guerra della Germania, sia nella Prima guerra mondiale che nella Seconda. L’assalto militare, l’occupazione e lo sfruttamento economico sarebbero spettati alla Germania, la “ricristianizzazione” cattolica al Vaticano.

 

Anche gli Stati Uniti erano interessati…

L’Ucraina è una questione importante in sé, ma è anche la porta d’accesso al Caucaso ricco di petrolio. Gli Stati Uniti si sono uniti all’imperialismo tedesco per entrare in Russia e specialmente in Ucraina dopo la fine della Prima guerra mondiale. Nel 1930, tutti gli imperialismi sognavano di abbuffarsi nella ricca Ucraina. Nel mio libro Aux origines du carcan européen, ho mostrato come Roman Dmovski, uomo politico polacco di estrema destra, aveva analizzato perfettamente la “questione ucraina” nel 1930. Scrisse che i grandi imperialismi volevano tutti mangiarsi l’Ucraina, con in testa i due più febbrilmente impegnati nel compito: il tedesco e l’americano. Diceva anche che se l’Ucraina fosse strappata dalla Russia, questa sarebbe diventata un paese puramente “consumatore”, costretta a comprare i suoi prodotti industriali altrove. Non avrebbe mai potuto sostenere una tale perdita, aggiungeva.

 

Non ha funzionato, l’Ucraina è rimasta nell’Unione Sovietica. Ma c’era ancora il nazionalismo ucraino, giusto?

Il nazionalismo ucraino è stato prima tedesco e poi statunitense (o meglio entrambi), perché non aveva una reale capacità di indipendenza: il Reich lo ha finanziato prima del 1914, e da allora non ha mai smesso. Infatti, coloro che sostenevano di volere l’Ucraina “indipendente” (Bandera più di alcuni dei suoi, che non pretendevano nemmeno di rivendicarla “immediatamente”) appartenevano tutti all’uniatismo, che nel periodo tra le due guerre, e per tutta la Seconda guerra mondiale, fu confuso con il nazismo.

È difficile non fare il collegamento con i movimenti che troviamo oggi: il battaglione Azov, Pravy Sektor, ecc., sono gli eredi diretti e rivendicati del movimento autonomista ucraino del periodo tra le due guerre, che vide la creazione, già nel 1929, del movimento banderista. Chiamata “Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini” (OUN), fu interamente finanziata dal Reich di Weimar e poi di Hitler (dopo che l’“autonomismo” era stato sovvenzionato dal Reich guglielmino).

 

Come si è sviluppato questo movimento?

Il movimento di Stepan Bandera, ora “eroe nazionale” ufficiale dell’Ucraina statale, e al quale il battaglione Azov e altri raggruppamenti filonazisti rendono costantemente omaggio, si diffuse a partire dal 1929 nell’Ucraina polacca e slovacca. Non era presente nell’Ucraina sovietica e ortodossa. I “banderisti”, come altre correnti del “nazionalismo ucraino”, erano anti-ebraici, anti-russi e anche violentemente anti-polacchi. Hanno anche attaccato radicalmente gli ucraini non autonomisti e gli ucraini che erano rimasti vicini alla Russia.

Queste bande di ausiliari della polizia tedesca, dal 1939 nella Polonia occupata, poi dal 22 giugno 1941 nell’URSS occupata, formarono un “esercito [cosiddetto] insurrezionale”, l’UPA. Questi 150-200.000 criminali di guerra massacrarono indiscriminatamente centinaia di migliaia di loro “nemici”: ebrei, ucraini fedeli al regime sovietico, russi e polacchi, che odiavano come gli altri. Per prendere solo l’esempio dei polacchi, tra 70.000 e 100.000 civili furono uccisi dalle milizie banderiste durante la guerra. L’argomento propagandistico in voga secondo cui lo Stato polacco ha accolto calorosamente gli ucraini “vicini” sentimentalmente è, alla luce di questa lunga storia criminale (che inizia prima della guerra), assurdo.

Nel 1944, quando l’Unione Sovietica riprese il controllo di tutta l’Ucraina, compresa Lvov (in luglio), 120.000 di questi criminali di guerra fuggirono in Germania. Gli Stati Uniti li hanno usati quando sono arrivati nella primavera del 1945.

Un libro sull’argomento, Hitler’s Shadow, è stato pubblicato da due storici americani ed è disponibile online in inglese. È tanto più interessante perché i suoi due autori sono storici approvati dal Dipartimento di Stato, con il quale lavorano ufficialmente sulla storia dello sterminio degli ebrei: Richard Breitman e Norman J.W. Goda. Mostravano come gli americani, appena arrivati in Germania nella primavera del 1945, avevano rintracciato tutti i criminali di guerra, tedeschi e non. Una parte dei banderisti rimase in Germania, nelle zone occidentali, soprattutto nella zona americana, con un grande raggruppamento a Monaco. Un altro è stato accolto a braccia aperte negli Stati Uniti, tramite la Cia, in barba alle leggi sull’immigrazione, e un altro ancora è rimasto nell’Ucraina occidentale.

Quest’ultimo gruppo, forte di decine di migliaia di persone, ha condotto una guerra inespicabile contro l’Unione Sovietica: tra l’estate del 1944 e l’inizio degli anni ‘50, ha assassinato 35.000 funzionari civili e militari, con il sostegno finanziario tedesco e americano, in particolare dal 1947-48. Un eccellente storico tedesco-polacco che ha avuto grossi problemi di censura dopo la “rivoluzione arancione” del 2004, Grzegorz Rossolinski-Liebe, ha dimostrato che il banderismo rimane un inestinguibile terreno di coltura filonazista: i molti eredi di Bandera nutrono un odio uguale per polacchi, russi, ebrei e ucraini che non sono fascisti. Inutile dire che questo ricercatore ha avuto grossi problemi di censura dalla “rivoluzione arancione” del 2004, e ancora di più nell’era di Maidan, soprattutto perché la sua tesi studiava come, dal 1943, i banderisti avevano creato una propria leggenda di “resistenza ai nazisti” tanto quanto ai rossi che agli ebrei. Una leggenda che è stata molto utile per l’inclusione nella lista dei gruppi “democratici” sostenuti da Washington.

 

Quali sono state le conseguenze di questa collusione?

Tra i criminali di guerra accolti calorosamente negli Stati Uniti, gli intellettuali contavano molto. Dal 1948, sono stati reclutati in gran numero dalle università americane, quella dell’Ivy League in testa, tra cui Harvard e Columbia. Nei “centri di ricerca sulla Russia” che sono proliferati dal 1946-1947, hanno partecipato, insieme ai loro prestigiosi colleghi americani, a una frenetica guerra ideologica contro la Russia. Fu in questo contesto che si diffuse la leggenda del “l’Holodomor”, i cui eventi hanno poi segnato le tappe decisive della conquista dell’Ucraina. Questa “ricerca” e questo “insegnamento”, impiegati per più di 70 anni, e diffusi in massa, con l’aiuto dei grandi media, nel corso dei decenni nell’Europa americana, hanno letteralmente “imputridito” la conoscenza “occidentale” della storia dell’Ucraina (e, più in generale, dell’URSS).

I sostenitori politici di Euromaidan, avatar delle innumerevoli “rivoluzioni arancioni” degli ultimi vent’anni, hanno formato la spina dorsale del 2014, alleandosi con gli oligarchi che, dal 1991, avevano monopolizzato tutta la ricchezza dell’Ucraina. Va notato che questo tipo di saccheggio non è proprio della Russia di Putin; può essere osservato in quasi tutti i paesi usciti dall’Unione Sovietica. In Ucraina, gli oligarchi hanno fatto affidamento su questi elementi banderisti. Lo Stato ucraino di Poroshenko e dei suoi successori dal 2014 si appoggia apertamente su questi movimenti nazisti che gli Stati Uniti hanno pasciuto al loro seno, senza tregua dal 1944-1945.

Gli Stati Uniti avevano infatti un programma esplicito, codificato nel giugno 1948 nel quadro della Cia, per liquidare puramente e semplicemente non solo la zona di influenza sovietica ma lo stesso Stato sovietico. Fu sotto l’amministrazione democratica che venne messa in atto la politica del “rollback” [annullamento] per schiacciare il comunismo dovunque si fosse stabilito (e per impedire che si stabilisse ovunque nella zona d’influenza americana). Come tutta una serie di lavori storici hanno dimostrato, compresi lavori di ricercatori americani con forti legami con l’apparato statale e robusti sentimenti antisovietici, questo programma è stato sicuramente attuato con la Cia fin dalla sua nascita, nel luglio 1947.

Possiamo cogliere tutta la portata del programma nel testo del febbraio 1952 di Armand Bérard, diplomatico francese distaccato a Bonn, che cito per esteso in Aux origines du Carcan européen. Bérard profetizzava che la Russia, così indebolita dalla guerra di logoramento tedesca condotta contro di lei dal 1941 al 1945 (27-30 milioni di morti, l’URSS europea devastata) avrebbe capitolato sotto i colpi degli Stati Uniti e della Germania di Adenauer, ufficialmente perdonata per i suoi crimini e riarmata fino ai denti: Mosca avrebbe finito per cedere tutta l’Europa centrale e orientale, che costituiva la sua “zona d’influenza” e che era stata oggetto “dei cambiamenti fondamentali, in particolare di natura democratica, che, dal 1940, hanno avuto luogo nell’Europa orientale”, nelle parole di questo diplomatico molto “occidentale”. E la data del 1940 si riferisce alla sovietizzazione degli Stati baltici e di parti della Romania e della Polonia, gli uni più fascisti degli altri.

 

Ma ci sono voluti alcuni anni.

Dopo il 1945, questo tipo di progetto ha richiesto tempo, poiché il governo sovietico era meno indifferente al proprio popolo e ai popoli circostanti di quanto la storia della propaganda “occidentale” sostenga. Ma è stato portato avanti con notevole continuità e con enormi risorse finanziarie. L’intera popolazione fu presa di mira, ma un’attenzione particolare fu dedicata alle élite statali e intellettuali del paese, che, come priorità, dovevano essere distaccate dallo Stato sovietico. Lo sforzo è accelerato considerevolmente dopo la vittoria degli Stati Uniti nel 1989, e con maggiore efficienza, mentre la Russia attraversava un decennio di completa decadenza. Bisogna ricordare che sotto Eltsin, le potenze straniere, in primo luogo gli Stati Uniti, hanno governato il paese, l’economia venduta all’asta è crollata, la popolazione diminuita dello 0,5% all’anno (drammaticamente in Siberia e nell’Estremo Oriente), e l’aspettativa di vita della popolazione russa era scesa drasticamente nel 1994 (di quasi dieci anni per gli uomini).

Durante questi anni, il lavoro delle termiti tedesco-americane che Breitman e Goda hanno descritto per gli anni 1945-1990 (perché i tedeschi erano strettamente coinvolti) si è ovviamente intensificato. È vero che il National Endowment for Democracy (NED), caro a Patricia Nuland, un’eminenza delle amministrazioni Bush e poi di tutti i suoi successori democratici, Biden compreso, ha appena cancellato dal proprio sito i suoi dossier sul finanziamento, che fino ad allora erano stati pubblici, almeno in parte, della secessione dell’Ucraina, e poi del suo inserimento nell’apparato di aggressione alla Russia. Ma il sito del Dipartimento di Stato non ha censurato l’ammissione del 13 dicembre 2013 del sottosegretario Nuland, la signora delle opere buone di Maidan, così presente a Kiev nel febbraio 2014, davanti al Congresso: lì ha dichiarato con orgoglio che dalla caduta dell’URSS (1991), “gli Stati Uniti” hanno “investito più di 5 miliardi di dollari per assistere l’Ucraina”. Lo scopo era certamente quello di assicurarsi una presa definitiva sulla miniera d’oro agricola e industriale ucraina, obiettivo finale di questa lunga crociata. Ma era anche per portare l’Ucraina nella Nato, di cui quasi tutti i paesi dell’ex zona di influenza sovietica e molte delle ex repubbliche sovietiche sono già membri. Questo è stato riconosciuto da molti anni. È stato chiaramente riaffermato dalla “carta di partenariato strategico Stati Uniti-Ucraina firmata il 10 novembre 2021 dal segretario di Stato americano Antony Blinken e dal ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba”: questa è la dicitura orgogliosamente esibita dal Parlamento europeo di Strasburgo nella sua “Risoluzione del 16 dicembre 2021 sulla situazione alla frontiera ucraina e nei territori occupati dell’Ucraina occupati dalla Russia”.

Da quel momento in poi, Mosca doveva essere portata a cinque minuti dalle bombe atomiche che erano state conservate nei paesi membri della Nato fin dalle origini del Patto atlantico (in alcuni casi fin dai primi anni ‘50). C’era da esacerbare il contenzioso delle miserie inflitte dall’Ucraina di Maidan alle popolazioni del Donbass, in chiara violazione degli accordi di Minsk. La propaganda occidentale ha taciuto dal 2014 al febbraio 2022 su queste miserie e su questa violazione degli accordi di cui Parigi e Berlino erano “garanti”.

La lunga congiuntura storica e gli sviluppi dal 1989, seriamente aggravati dal 2014, hanno messo all’angolo la Russia. Tutti gli osservatori ragionevoli sottolineano che ha lanciato la guerra contro l’Ucraina il 24 febbraio 2022, spinta ai suoi limiti estremi. Questo passo ricorda quello fatto dall’Unione Sovietica alla fine del 1939.

 

Che cosa intende con questo?

Questo è un elemento essenziale. Alla fine del 1939, l’Unione Sovietica fece un sincero tentativo di negoziare con la Finlandia, presentata negli archivi storici e militari come un puro e semplice alleato della Germania nazista. Dal 1935, la Germania aveva installato una serie di campi d’aviazione militare in Finlandia, che erano basi d’attacco dell’URSS cedute de facto alla Germania, e che furono effettivamente utilizzate durante la guerra per l’aggressione tedesca contro l’URSS. Per settimane, Mosca ha discusso invano con la Finlandia, che una volta era stata parte dell’Impero russo ma che era diventata un paese chiave del “cordone sanitario” antibolscevico nel 1918-1919. I sovietici chiesero alla Finlandia di scambiare parte del suo territorio per creare una forte zona cuscinetto difensiva intorno a Leningrado con un territorio (sovietico) più vasto. Le trattative fallirono, sotto la pressione della Germania e di tutti i paesi “democratici” che, come dichiarò all’epoca un diplomatico fascista italiano, sognavano una generale “Santa Alleanza” contro i sovietici.

L’URSS invase la Finlandia il 30 novembre 1939. Ha dovuto affrontare una propaganda del tipo di quella diffusa ora e delle sanzioni (compresa l’espulsione dalla Società delle Nazioni, ottenuta all’unanimità il 14 dicembre). Si trattava solo del mostro sovietico contro la povera piccola Finlandia, e il Vaticano del filo-nazista Pio XII era sbilanciato come il Papa attuale sui “fiumi di sangue” ucraini. La “guerra d’inverno”, in un paese chiave del “cordone sanitario” dove la popolazione era stata “scaldata” contro il comunismo e l’URSS per oltre vent’anni, fu terribile.

Dolorosamente, l’Armata Rossa ha infine sconfitto la Finlandia. E il 12 marzo 1940, l’accordo raggiunto diede a Helsinki ciò che Mosca aveva già offerto nel 1939, né più né meno, e senza dubbio protesse Leningrado dall’invasione. È significativo che l’attuale campagna di propaganda vilipenda il lungo periodo di neutralità che la Finlandia del dopoguerra ha osservato, dopo che la Finlandia filonazista era passata, come previsto, in guerra dalla parte della Germania.

 

Quindi questo le ricorda l’attuale situazione in Ucraina?

Sì, se ci si attiene ai fatti storici e non ci si limita a dire che siamo di fronte a un mostro squilibrato. Leggo oggi in petizioni o giornali di riferimento che “Putin” sta incendiando un’Europa finora calma e pacifica. Ma non abbiamo sentito questi intellettuali, reclutati in massa dalla grande stampa e scatenati contro il “nuovo Hitler”, protestare e manifestare contro le centinaia di migliaia di morti causati dai bombardamenti americani ed “europei” in Iraq, Libia, Afghanistan e Siria. Le stesse persone che maledicono “Putin” hanno trovato eccellenti i 78 giorni di bombardamenti contro Belgrado e il “nuovo Hitler” Milosevic. Il paragone, va notato, è stato applicato a tutti i “nemici” che l’Occidente si è creato da quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez.

Né ricordo la forte indignazione di questi nuovi antinazisti per i 500.000 bambini morti in Iraq per mancanza di cibo e cure mediche come conseguenza immediata del blocco anglo-americano, bambini il cui sacrificio “valeva la pena” secondo l’ex segretario di Stato democratico Madeleine Albright, recentemente scomparsa. Cos’è questo sistematico doppio standard, applicato anche alle popolazioni martirizzate del Donbass, che Putin è accusato di aver strumentalizzato per otto anni contro la tanto simpatica Ucraina?

Questa guerra, per quanto deplorevole, è stata annunciata molto tempo fa, e le voci ragionevoli di militari, diplomatici e accademici in Occidente, che non hanno accesso a nessun grande organo di “informazione” privato o statale, sono categoriche sulle responsabilità esclusive e di lunga data degli Stati Uniti nello scoppio del conflitto che hanno reso inevitabile.

 

Come si svilupperanno le cose?

Non faccio commenti sul futuro, perché gli storici non dovrebbero fare previsioni, soprattutto data l’informazione, esecrabile, attualmente disponibile. Ma mi sento in diritto di affermare che gli Stati Uniti sono la potenza imperialista le cui guerre di aggressione hanno, dalla fine della Seconda guerra mondiale, accumulato milioni di morti. Raccomando il libro tradotto di William Blum, un ex funzionario della Cia (sono i migliori analisti), che ha stabilito una rigorosa cronologia dei crimini degli Stati Uniti contro una serie di stati cosiddetti “canaglia”.

La Russia non è sempre stata vista come tale da “l’Occidente”, dai tempi della “Grande alleanza” e dello “zio Joe” (Josif Stalin). Fino agli ultimi decenni di propaganda unilaterale “occidentale” sulla liberazione dell’Europa attraverso il solo sbarco americano nel giugno 1944, era ampiamente riconosciuto che solo l’Armata Rossa aveva sconfitto la Wehrmacht, e a quale prezzo! Secondo stime recenti, gli Stati Uniti hanno subito meno di 300.000 morti totali nella Seconda guerra mondiale sui fronti di Pacifico ed Europa, tutti morti militari. Ho ricordato prima il mostruoso bilancio di morti di parte sovietica: dieci milioni di vittime militari, da 17 a 20 milioni le vittime civili.

Finora la Russia, sovietica o no, non ha seminato rovine in guerre straniere. È stata oggetto di aggressioni ininterrotte da parte delle grandi potenze imperialiste dal gennaio 1918. Non lo dico perché sono una sostenitrice di Putin. Tutti i documenti d’archivio vanno in questa direzione, i diplomatici e i militari occidentali sono i primi a saperlo e ad ammetterlo nella loro corrispondenza non destinata alla pubblicazione. Questo è il tipo di documentazione che ho scavato per più di cinquant’anni. Non faccio, attraverso il mio lavoro e nel giudicare l’attuale congiuntura, che il mio mestiere di storico.


Saggio già pubblicato su sinistra in rete del 9 aprile 2022.


L’histoire contemporaine toujours sous influence, LE TEMPS DES CERISES, 2012

En 2004, dans un pamphlet intitulé ‘L’histoire contemporaine sous influence’, Annie Lacroix-Riz s’inquiétait d’une certaine dérive de la recherche historique depuis les années 1980. Le climat idéologique s’est alourdi avec la généralisation d’un certain révisionnisme historique pour lequel toute révolution serait liberticide. Ces nouveaux dogmes conduisent aussi à censurer où à mettre à l’index les travaux des historiens qui continuent à penser hors des sentiers battus. Depuis, de « réforme » de l’université en nouvelles lois sur les archives, la situation s’est aggravée. S’est banalisée l’histoire d’entreprise, l’histoire de connivence, qui fait l’impasse sur les épisodes les moins glorieux de la vie des entreprises ou de leurs dirigeants. En témoigne l’affaire Louis Renault qui a défrayé la chronique au début de cette année : afin d’obtenir la réhabilitation de leur ancêtre, les héritiers Renault et certains « historiens » avec eux ont réécrit sa biographie. Dans un contexte ou le statut de fonctionnaire est menacé, dans quelles conditions la recherche historique peut-elle être indépendante des pressions financières ?


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Judith Schalansky – La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”… Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, 2020.

Judith Schalansky 

La rovina è un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola. È dolorosa la consapevolezza di essere mortali, e comprensibile il desiderio vanaglorioso di resistere alla fugacità e di lasciare delle tracce a una posterità sconosciuta, non solo di essere ricordati, ma di esserlo “in perpetuo”…
Anche se nulla dura per sempre, ci sono cose che si mantengono più a lungo di altre …

Descrizione

La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate – o magari, come si racconta nell’Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c’è più: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l’immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un’isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell’800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il più piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.



Judith Schalansky, nata a Greifswald nel 1980, si è laureata in Storia dell’Arte e in Design e lavora a Berlino come scrittrice e designer, oltre a tenere corsi di tipografia. Il suo Atlante delle isole remote è uscito in Italia per Bompiani nel 2013. Lo splendore casuale delle meduse, pubblicato da nottetempo nel 2013 e tradotto in più di venti lingue, ha vinto nel 2012 il Premio Buchkunst Stiftung per il libro più bello dell’anno e nel 2013 il Premio Salerno Libro d’Europa. Inventario di alcune cose perdute, pubblicato da nottetempo nel 2020, ha vinto in Germania numerosi premi, tra cui il Wilhelm Raabe-Literaturpreis 2018, e in Italia il Premio Strega Europeo 2020.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate. I docenti renitenti siano messi al bando.

Fernanda Mazzoli

Zero in condotta agli insegnanti che non si conformano alle direttive ministeriali
che richiedono di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate.
I docenti renitenti siano messi al bando.

 

A ragion veduta, il ministro Bianchi ha ricordato alle maestrine d’Italia che il loro dovere è quello di «non smettere mai di fornire il corretto esempio» ai propri allievi. Pertanto, chi tale corretto esempio non lo ha dato, rifiutando di vaccinarsi, pur essendo riammesso a scuola dal primo aprile, in classe non potrà rientrare, in quanto tale rientro «avrebbe comportato un segnale altamente diseducativo», poiché «la violazione di un obbligo non può restare priva di conseguenze».[1]

Così, circa 4000 insegnanti dalla primaria alle Superiori, cui durante il periodo di sospensione previsto fino al 15 giugno non è stato corrisposto nemmeno l’assegno alimentare,[2] sono stati richiamati a scuola da un governo alle prese con le troppe contraddizioni dei propri decreti, con i ricorsi presentati davanti ai tribunali dalle vittime dell’insolito provvedimento e con l’imbarazzante unicità in Europa e non solo della misura adottata a dicembre. Tuttavia, devono evitare il contatto con gli alunni; saranno dunque destinati a non meglio precisate attività di supporto agli altri docenti, quelli degni di stare in classe. Il loro orario viene, inoltre, portato a 36 ore settimanali, essendo equiparati ai «lavoratori fragili» del comparto scolastico, distaccati solitamente nelle biblioteche degli Istituti.

Sono stati concessi loro i mezzi di sostentamento, a riprova dello spirito umanitario di coloro che ci governano, ma a condizione che restino confinati in una sorta di riserva indiana, che stiano rintanati in sotterranei o stanzini approntati alla meglio, che vengano percepiti – dai ragazzi e dai genitori innanzitutto, ma anche dai colleghi – come degli intoccabili.

Non importa che, da gennaio, studenti, insegnanti e bidelli in stragrande maggioranza vaccinati si siano contagiati, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che né il siero, né il green pass hanno frenato la diffusione del virus, cosa che ormai gli stessi virologi ammettono. Logica e razionalità che da tempo disertano il dibattito pubblico non conoscono miglior sorte nelle aule scolastiche e a prevalere è un criterio punitivo che, al netto di tutte le chiacchiere sulla società aperta ed inclusiva, sta a fondamento di una pedagogia della paura che ha dato buoni frutti nella recente – e non ancora estinta – campagna pandemica.

Se i docenti renitenti alla puntura e al consenso estorto tramite ricatto economico rappresentano un’incrinatura non tollerabile nella trama delle buone azioni e dei corretti comportamenti che si fila a scuola, servono comunque da esempio rovesciato di ciò che accade a chi non si piega ai diktat governativi e pertanto da utile monito ai ragazzi, qualora fossero tentati in futuro di deviare dalla retta via. Per questo, valgono bene lo sperpero di pubblico denaro che costano due insegnanti sulla stessa cattedra, di cui uno inutilizzato. La lezione è chiara anche per gli altri docenti, casomai venissero presi da un improbabile anelito di rivolta, da un impulso di anticonformismo sociale o, più modestamente, da qualche dubbio sul loro ruolo esecutivo nella catena di comando che parte dal Ministero ed arriva a loro, passando per i Dirigenti scolastici promossi datori di lavoro (e che, quindi, hanno comminato nei singoli Istituti le sospensioni).

Lo spreco più inquietante resta quello di intelligenze, competenze e professionalità sacrificate alla vendetta di una classe politica che era certa di avere neutralizzato pensiero critico e conflitto ed invece si è trovata confrontata, a scuola e fuori, con l’imprevista, per quanto variegata, resistenza di una minoranza non proprio trascurabile, alla quale si è cercato in tutti i modi di rendere la vita impossibile e che, proprio per questo, ha deciso di non chinare la testa.

Non si creda, però, che il ministro Bianchi, nella sua reprimenda, abbia voluto solamente lanciare un predicozzo moralistico, nonché umiliare ed isolare ulteriormente i reprobi. Gli va riconosciuto che il suo richiamo al corretto esempio ha centrato un aspetto essenziale del ruolo docente che oltrepassa di molto la presente contingenza: è ormai da anni che l’insegnamento è sempre più svuotato della sua dimensione culturale, a vantaggio di un generico ammaestramento ai virtuosi stili di vita, alle buone pratiche sociali che naturalmente sono quelle individuate dalle strategie europee per l’istruzione e la formazione o dall’agenda Onu 2030.

Pertanto, al titolare del Miur, assai correttamente, innanzitutto importa che maestri e professori si conformino alle direttive date, solo secondariamente che conoscano la materia che insegnano e che sappiano comunicarla ai loro allievi. Anzi, questo tipo di competenze – se non opportunamente diluito – potrebbe essere visto pure con un certo sospetto, come retaggio di una didattica obsoleta ed élitaria.

Questo Ministero, infatti, nel governo dei migliori è il migliore di tutti, il più solidaristico, il più inclusivo, avendo riscoperto una parolina magica che quarant’anni di neoliberismo tronfio e compiaciuto avevano snobbato: comunità. Però, anche la comunità deve essere corretta, deve ritrovarsi in certi parametri non soggetti a pubblica discussione o a ragionata verifica e chi non li rispetta o non vi si riconosce si mette automaticamente fuori dalla stessa e se non ci pensa lui a sloggiare in fretta, interviene il Ministero con la sua longa manus, ovvero il Dirigente Scolastico. Ed ecco che il ministro, nobilmente compreso del suo dovere etico verso la nazione tutta e la comunità scolastica in particolare, ammonisce gli inadempienti all’obbligo vaccinale che essi «disattendono il patto sociale ed educativo su cui si fondano le comunità nelle quali sono inseriti».

Chi scrive pensava ingenuamente che il loro inserimento fosse la conseguenza degli studi intrapresi, dei concorsi pubblici vinti, della passione per le discipline insegnate, non di attitudini morali e di comportamenti allineati sulle politiche governative. Tuttavia, occorre ringraziare il ministro Bianchi, che della comunità educante è un cultore, per avere fugato ogni residuo dubbio sul carattere potenzialmente totalitario della stessa, sulle sue zone d’ombra che ne fanno un potente fattore di conformismo sociale e di conseguente esclusione per eretici e ribelli.[3]

Volendo impartire una bella lezioncina di virtù civiche ai docenti refrattari all’inoculazione forzata, il ministro ha, in realtà, fatto l’apologia di una scuola che richiede agli insegnanti di occuparsi sempre meno di insegnare e sempre più di promuovere condotte docili, irreggimentate, perfette per il nuovo totalitarismo del XXI secolo che si autolegittima su base morale, intorno ad una serie di opposizioni elementari e di sicuro impatto propagandistico: buoni/ cattivi, meritevoli/non meritevoli, degni/indegni, funzionale ad un’ulteriore contrapposizione inclusi/esclusi.

Fernanda Mazzoli

[1]https://www.orizzontescuola.it/obbligo-vaccinale-bianchi-il-rientro-in-classe-dei-docenti-non-vaccinati-sarebbe-stato-segnale-diseducativo/

[2] Gli insegnanti sospesi a gennaio erano in numero decisamente più alto di quelli reintegrati ad aprile: molti si sono ammalati di Covid durante i mesi invernali e, una volta guariti e in possesso di green pass rafforzato da guarigione, sono rientrati in classe, pur accompagnati da un certo alone sulfureo e dall’incertezza sul futuro.

[3] Su questa deriva della comunità educante mi permetto di rinviare al mio Comunità educante e adattamento sociale in AA.VV., Koiné. Ideali di comunità, Petite Plaisance, Pistoia 2021 e a Paolo Di Remigio: Educazione e istruzione (sinistrainrete.info) (https://www.sinistrainrete.info/societa/16151-paolo-di-remigio-educazione-e-istruzione.html)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Marx lettore di Spinoza. «Lo scopo della filosofia non è altro che la verità. […] In un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere».


Salvatore Bravo

Marx lettore di Spinoza

Comprendere Marx significa spostarsi in modo sincronico nella sua complessiva impostazione teorica. Vi sono cesure, ma specialmente linee di continuità che vanno rintracciate per ricostruire il senso dell’opera marxiana nella sua ispirazione umanistica. Il comunismo abbozzato nel cantiere Marx ipotizza il soggetto emancipato dalle strutture di sussunzione materiale e formale, non più né obbedientedisobbediente, in quanto vive la pienezza delle sue possibilità e del suo conatus in un quadro politico senza le forme gerarchiche dell’obbedienza nella forma dello Stato, della proprietà capitalistica e della religione. La trinità dell’obbedienza non può che produrre negazione e alienazione.

Marx lettore spinoziano, dunque, in quanto il soggetto può relazionarsi al mondo in modo fecondo per ricrearlo soltanto se perviene a se stesso dopo un lungo processo dialettico nel quale ha vissuto, pensato e razionalizzato la liberazione dalle mordacchie delle superstizioni e della naturalizzazione del sistema capitale. Ogni feticismo è una forma di religione irriflessa e dunque non riconosciuta.

Nella formazione di Marx il Quaderno Spinoza del 1841 è rilevante non solo per comprendere la genealogia delle opere della maturità, ma l’opera giovanile può essere d’ausilio per capire il comunismo marxiano, nel quale importante – quanto e anche più dell’abolizione della proprietà privata – è il soggetto liberato dall’obbedienza che diviene soggetto attivo della storia. La proprietà privata è il ceppo che gerarchizza e ordina l’obbedienza associata e rafforzata dalla sovrastruttura con le sue manifestazioni culturali e sociali. La religione è il mezzo più potente con cui insegnare ideologicamente l’obbedienza e proiettare la speranza in un tempo sovrastorico.

Nel Quaderno Spinoza il commento marxiano al Trattato teologico-politico e alle lettere di Spinoza destruttura la religione, rendendola intellegibile, smascherando la sua essenza ideologica e il suo essere funzione del potere. Nei rapidi passaggi dell’opera, Marx (che pur avrà comunque un rapporto lui stesso controverso con la filosofia), specifica che la filosofia è radicale nella sua essenza, perché cerca, vuole e dimostra la verità. La filosofia non scende a compromessi, perché la verità non la si può accogliere parzialmente: in tal caso è già menzogna. La religione è obbedienza e pratica della pietà che non trasforma il mondo, ma lo conserva con le sue piaghe dolenti e le sue contraddizioni:

«[25] Resta infine da dimostrare come tra la fede, o teologia, e la filosofia non esista alcun rapporto né alcuna affinità, cosa che non può fingere di non sapere nessuno che conosca il fondamento e lo scopo di queste due discipline, le quali sono tra loro totalmente diverse. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità; mentre quello della fede [come abbiamo diffusamente dimostrato] è solamente l’obbedienza e la pietà. I fondamenti della filosofia, per di più, sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura; mentre i fondamenti della fede sono i racconti e la lingua, ed essa deve essere tratta soltanto dalla Scrittura e dalla rivelazione (§ 348)». 1

 

Disobbedire per esserci

La disobbedienza non è un atto di protesta: con essa piuttosto l’essere umano riconquista la sua natura e la sua dignità. La libertà è prassi non scissa dalla teoria, il pensiero è potenza creatrice incoercibile e non in toto controllabile: il potere dunque non può cancellare definitivamente la libertà. Si può fingere di obbedire per calcolo opportunismo o vigliaccheria, si possono ripetere le parole del potere, riprodurre atti e comportamenti, ma nessun potere può impedire il pensiero, vero baluardo della “naturale libertà” dell’essere umano che attende di venire al mondo non per semplice stimolazione delle circostanze storiche, ma per l’interazione tra condizioni storiche ed azione-reazione del soggetto. Dove vi è l’umanità l’impossibile è possibile:

«[36] Se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare quello che vuole, ma ciascuno è, per diritto incontestabile della natura, padrone dei suoi pensieri, da ciò deriva che in un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere (§ 420). 2

Il potere può costringere alla temporanea obbedienza, ma non può conquistare interamente l’essere umano, il quale con il pensiero resiste al controllo. Da un punto di vista fenomenico può obbedire, ma l’atto di obbedire, l’obbedienza carpita o concessa non significa che sia stato sconfitto e conquistato.

 

Potere e pensiero

Il potere nella nostra contemporaneità quantifica il numero degli ubbidienti per poter usare la quantificazione quale mezzo di persuasione coercitiva verso gli indecisi. Ma in realtà il potere, anche quando trionfa con i grandi numeri è più fragile di quanto si possa ipotizzare. Tra gli ubbidienti vi è un grande numero di persone già propense alla disobbedienza non appena il dominio allenti la sua morsa. I dubbi serpeggiano anche tra i più disponibili all’obbedienza. Non è possibile trasformare l’essere umano in automa meccanicamente passivo. La psiche e l’intelligenza restano potenzialmente libere, anche se si obbedisce per costrizione, disperazione o indifferenza. Marx sembra dirci che non dobbiamo disperare. Oltre l’omologazione c’è vita, e più vita di quanto le nostre singole e fragili intelligenze possano immaginare.

La libertà – conformemente al pensiero spinoziano – è un processo nel quale si incontrano stratificazioni di libertà e qualità diverse di libertà. Certo, si deve ammettere l’esistenza di gruppi umani che “pensano” – erroneamente ritengono – di agire autonomamente, ma in realtà sono parlati e agiti dal potere, è una possibilità dell’umano; ma non è l’unica e la coscienza, comunque, è sempre una variabile dinamica pronta a evolversi e/o ad involversi. Il rivoluzionario non deve arretrare dinanzi all’obbedienza gregaria, ma deve agire più fortemente per l’emancipazione, perché l’obbedienza è un dato storico e culturale:

«[53] Dal fatto che l’uomo agisca secondo la sua deliberazione, non si deve dunque concludere che egli operi secondo il proprio diritto, anziché secondo quello dello Stato (§ 374)». 3

Marx attraversa i secoli per parlarci e suggerirci che la storia non è chiusa e l’omologazione è solo apparente. La potenza del pensiero lavora per la storia e per un nuovo inizio anche quando la storia sembra una palude la cui acqua appaia immobile, senza alcuna crespatura. Il pensiero è discrepante e divergente, accumula e si carica di onde di esperienze; può temporaneamente rimuoverle, ma esse si riattivano in circostanze storiche favorite da innumerevoli atti di disobbedienza, apparentemente innocui e di poco conto, i quali preparano la “grande storia”. Le tempeste della storia possono essere precedute da decenni intrisi di un apparente generale insensibile distacco, in cui i piccoli gesti di una quotidianità pur desiderosa di cambiamento rimangono silenti, ma preparano il vento della storia. Le storie dei singoli possono passare e cadere nella transitoria dimenticanza del tempo, ma i gesti e le parole restano, si moltiplicano, prendono forma nelle circostanze preparate da un silenzio carico di esperienze e linguaggi insopprimibili. Nessuna forma di alienazione, quindi, potrà mai cancellare il pensiero dei popoli che si vorrebbero tenere alla catena:

«La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». 4

Se il potere avesse la possibilità di trasformarsi in dominio assoluto, la storia e il mondo già sarebbero diventati immense macchine di sfruttamento per produrre profitto. Tra i meccanismi della macchina, invece, sopravvive l’essere umano, che può pensare ed ascoltare l’alienazione che lo costringe ad una esistenza disumana.

Il dolore vissuto è già individualità potenzialmente pronta all’esodo.

Pertanto il pensiero è fonte di resistenza collettiva inesauribile che apporta il nuovo nelle acque apparentemente stagnanti dell’omologazione.

Salvatore Bravo

1 K. Marx, Quaderno Spinoza, Bompiani 2022, Capitolo XIV: Che cosa sia la fede e …

2 Ibidem, Capitolo XX: Della libertà di insegnamento.

3 Ibidem, Cap XVII Della Repubblica ebraica.

4 K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, il lavoro estraniato.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Linda Napolitano Valditara – «Filosofi sempre». Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre.

L. Napolitano Valditara, Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021

«Occorre che chi dialoga non solo metta lealmente a disposizione dell’interlocutore quanto creda di sapere – prestandosi a esser interrogato (eròtesis), esaminato (exètasis) e semmai confutato (elènchos) – ma che lo faccia con una disposizione affettivo-morale anch’essa opposta a quelle del tiranno-lupo […]. Il filosofo non può né deve nutrir invidia dei beni (risposte e verità comprese) che semmai possedesse e non condividerle con altri, né dei beni altrui (risposte e verità comprese) essendo pronto ad arraffarli, come il tiranno trasimacheo, “con l’inganno o con la violenza”: è infatti proprio lo phthònos, l’autodistruttivo sguardo invìdens, l’anticamera emotivo-morale della pleonexìa, della smisurata, ‘lupesca’ aggressività tirannica.

Il filosofo ha già, pur non abitando insieme ad altri, una “vita in comune” (un syzén) con essi: con quanti, come lui, sappiano di non sapere, continuino ad amare il sapere e siano disposti perciò a dialogare e cercare, ancora e ancora. La benevolenza (eumèneia) reciproca che fonda questa speciale vita in comune, l’assenza d’invidia (phthònos), l’amore costante per la verità e il bene son forse quei “desideri migliori” che possono contenere in ognuno quelli superflui o parànomoi, prevenendone la distruttiva insaziabilità e dando all’anima una forma armonica naturale. Come la scelta libera di leggi che regolino la vita di ognuno e di tutti permette di allontanare il pericolo della ‘licenza’ (exousìa), la libertà individualistica ed eccessiva mutantesi in tirannide. Desideri migliori e buone leggi per una misurata armonia dell’anima: di ognuno e di tutti. E poi buone narrazioni, immagini ‘belle’ e arricchenti, nostre e altrui, che alimentino in ognuno il fuoco della ricerca e diano forma alle emozioni che l’accompagnano e che guidano alle azioni.

Ma solo il lògos filosofico sopporta la fatica (pònos) di questo esercizio perché esso solo vede il valore di tutto ciò: perché sa ch’è solo questo sapere a poter far brillare la scintilla della verità, alimentata dal fuoco dell’amor-di-sapienza nutrito da tutti, esso ch’è il “massimo sforzo” possibile al sapere umano. Molti altri saperi continuano certo aristotelicamente ad essere più necessari di questo, ma nessuno è “migliore” per gli esseri umani che siamo. Occorrono però, per praticarlo, senso lucido e profondo del nostro limite umano; relazionalità dialogante ed esplorativa con ogni altro; vita in comune intesa come ricerca mite, non invidiosa, non predatoria di un vero ogni volta condiviso, nell’intreccio continuo di racconti narrati uno all’altro e di argomentazioni verificate uno con l’altro.

È una postura sapienziale difficile, rara, per cui non stupisce che, quando essa si dica filosofica, si continui a bollarla come inutile e ‘sciocca’. Ma essa pare oggi più che mai necessaria per non incatenarsi, come il prigioniero platonico, in fondo a un antro a gioire di pure ombre, o per non nutrire compulsivamente, nella buia solitudine di un sotterraneo, ogni proprio desiderio, come il Gollum tolkieniano.

Ravvisando l’odierna necessità di questa postura filosofica, si deve però chiedersi quanti, che pure si dicono filosofi, abbiano saputo dopo Socrate non solo teorizzare un tale sapere, ma, come lui, testimoniarlo sempre, nel ragionare, nel sentire, nell’agire e nell’inter-agire: perché forse, finché questo non è fatto da quanti si professano filosofi, il loro sapere continuerà ad apparire solo inutile phlyarìa e potrà ancora – più grave e pericoloso – indurre altri demagoghi (portatori di statue della caverna platonica) ad allevare nuovi temibili ‘lupi’» (Filosofi sempre, pp. 283-285).


Linda M. Napolitano è Professore Ordinario di Storia della filosofia antica e co-responsabile del Centro di ricerca “Asklepios. Filosofia, cura, trasformazione”, presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona. Suoi studi: Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, Mimesis 2010; ‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis 2013; Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, AemmeVerona 2014; Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis 2018. Suoi sono anche studi sulle MedicalHumanities: Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit 2012. Nel 2019 ha vinto il Bando di ricerca dottorale di CariVerona PHILCARE (Philosophical Care of Emotions in the Platonic and Socratic Literature).





Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Linda Napolitano Valditara…


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Biblopolis, 1988

Lo sguardo nel buio. Metafore visive e forme grecoantiche della razionalità, Laterza, 1994

 Platone e le «ragioni» dell’immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Vita e pensiero, 2007

La caverna, la skiagraphìa o ‘pittura d’ombra’, il mito degli androgini, il sofista che crea un mondo ruotando attorno uno specchio che lo rifletta, Socrate tafano e torpedine marina: le immagini celeberrime del corpus platonico sono qui rimeditate alla ricerca delle ‘ragioni’ che consentono di leggerle non quali semplici tratti decorativi, ma come veicoli di verità.


 Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i dialoghi di Platone, Mimesis, 2010,.

Dai Dialoghi di Platone emergono strutture espressive e teoriche ricorrenti. Si esaminano qui in particolare: la struttura del sé (heautòn), di cui vanno saputi lo stato cognitivo e la natura fondante, essenzialmente psichica (il proprio esser anima); la struttura dell’alterità, manifestantesi soprattutto nell’esposizione alla morte e all’aggressività altrui e che trova però mediazione nella pratica del rapporto dialogico. Non c’è in Platone unità che non sia bilanciamento armonico di diversi ed opposti: il rapporto sé-altro è base dinamica di ogni possibile intero, cifra costitutiva della realtà umana e del cosmo stesso nella sua interezza. Un esame puntuale dei Dialoghi e dei loro contesti linguistici ed argomentativi pone in luce tale visione dell’intero quale dinamizzazione armonica del rapporto oppositivo sé-altro: una visione che, fra l’altro, non si riduce a dato archeologico erudito, ma, recuperata oltre consolidali fraintendimenti, perfino sconcerta per la sua parlante attualità.


Le idee, i numeri, l’ordine. La dottrina della «Mathesis universalis» dall’Accademia antica al Neoplatonismo, Bibliopolis, 2010.


‘Prospettive’ del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, I ed., Edizioni Università di Trieste, 2011


Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, QuiEdit, 2011

Il volume rielabora i contributi offerti da una filosofa nell’arco di sei anni ad operatori sanitari (medici e infermieri). I testi meditati sono tratti per lo più dal pensiero antico e mostrano come vi si trovi materia proficuamente utilizzabile anche nell’approccio a problemi odierni. Sono trattate anzitutto le nozioni di ‘salute’ e ‘cura’ e quella di una distribuzione equa del bene stesso ‘salute’; si riflette poi sull’impiego in campo sanitario della ‘narratività’ (medicina narrativa) e sui problemi del dolore e della morte. Il volume, diretto non solo ad addetti ai lavori (filosofi od operatori sanitari), documenta una ‘pratica filosofica’: cioè l’impiego di testi e nozioni propri della filosofia antica in un campo – quello della salute, del dolore e della stessa morte – che ci coinvolge tutti in modo profondo e dove occorre oggi riguadagnare un modo dell”esser sani’ e dello stesso ‘darsi cura’ non declinabili in senso solo tecnologico.


Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, Mimesis, 2013


Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, Aemme, 2014


Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis, 2018

Il dialogo è oggi rinvio costante di varie discipline umanistiche e perno di molte delle cosiddette pratiche filosofiche. Frequente è anche il rinvio, da parte di autori e filoni odierni, a “Socrate” come testimone di una “modalità dialogica del comunicare”, creduta oggi più che mai necessaria e utile. Si cerca qui anzitutto di verificare in modo non generico, ma preciso, che cosa si possa intendere per “dialogo” rinviando sia alla nascita, tra fine V e inizio IV sec. a.C., del genere letterario del “sokratikòs lògos”, cui gli stessi Dialoghi platonici appartengono, sia a filoni novecenteschi che fanno perno o sul dialogo (pensiero dialogico) o sul ‘metodo socratico’ (scuola nelsoniana) o sullo scambio dialogico stesso (Morineau e teoria della mediazione). Son poi ripresi alcuni dei ‘Socrate’ del ‘900, soprattutto di quei pensatori (Arendt, Patocka, Hadot, Nussbaum) che, da punti di vista e con intenti diversi, valorizzano il metodo dialogico, come espressione propria della natura umana, metodo del ragionare filosofico o mezzo di una formazione democratica. Nella II parte (“Esercizi dialogici”) son esaminati e meditati 20 passi centrali dei Dialoghi platonici, nella presupposizione – se ne sia conscio no – che sia stato e sia tuttora “il Socrate di Platone” a far storia in filosofia. Si cerca per tale via di rispondere ad alcune domande di ricerca: quanto e cosa sappia chi interroga nel dialogo socratico; per quale ragione, per quale fine e con che tipo di domande lo faccia; quali effetti cognitivi ed emozionali inducano nell’interlocutore il domandare e confutare; se vi sia e quale sia la differenza fra pensare e dialogare; quale sia l’esito finale del dialogo. Ciò non solo per chiarire (storicamente) come operasse il dialogo socratico originario, sciogliendo consolidati fraintendimenti in merito, ma anche (teoreticamente) per mostrarne l’attualità quale “pratica filosofica per eccellenza”, da potersi iniziare proprio meditando i testi – quelli dialogici di Platone – che ne fecero non per caso la propria base: non solo letteraria, ma “filosofica”.


Curare le emozioni, curare con le emozioni, Mimesis, 2020

Il libro è dovuto a filosofi, psicologi, sociologi e pedagogisti del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona: seguendo le linee di ricerca dipartimentali e riprendendo le emozioni, tema già assai trattato in sede internazionale e nei singoli campi di ricerca, essi avviano qui un nuovo studio interdisciplinare, paragonando linguaggi, problemi, metodi, soluzioni. Focus è riprendere le emozioni, positive e negative, e approfondirne i modi di possibile “regolazione” o “governo” entro la “cura”, di sé e dell’altro. Il tema suppone questioni complesse, ancora discusse: anzitutto che una simile postura di cura esiga un impegno non solo razionale, ma anche emotivo; e, prima ancora, che un’emozione sia non soltanto passivamente subita (secondo il suo archetipo linguistico, pàthos, da pàschein), ma anche attivamente esperita e dunque trasformabile, in quantità e qualità. Che di curar se stessi, l’altro, il mondo si possa anche “coltivare la passione”.


Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, QuiEdit, 2021


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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