«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.
Multe Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.
Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.
Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.
Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.
Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.
Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.
L’11 marzo del 2018 ci lasciava Mario Vegetti. Il 7 marzo, quattro giorni prima, ci aveva lasciato anche Diego Lanza, suo grande amico. Vogliamo ricordare Mario pubblicando qui di seguito l’introduzione a un suo libro del 2007, Scritti con la mano sinistra e ricordare Diego con un suo breve scritto, Pathos, del 1997.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere i testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo e pubblicati in Scritti con la mano sinistra, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale. Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza.
Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino).
Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere alcuni miei scritti in Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”).
“A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quello di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.
Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di Stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.
Mario Vegetti, il sognatore che pensa, il pensatore che sogna.
Il 4 gennaio 2020 Mario Vegetti avrebbe compiuto 83 anni. Era nato il 4 gennaio del 1937 (tre giorni prima del suo amico Diego Lanza, con il quale condividerà, in una straordinaria amicizia filosofica, fondamentali percorsi di ricerca, fino a quando – dopo che Diego ci aveva lasciato il 7 marzo 2018 – anche Mario ci ha lasciato, quattro giorni dopo, l’11 marzo 2018. Vogliamo ricordare Mario con questo suo piccolo-grande scritto, la sua “Storia raccontata dal Saggio del Capitale“, in cui risuonano le note dell’Internazionale, un racconto da lui portato alla considerazione di Socrate, in questo “XI Libro” de La Repubblica di Platone, che immagina sia stato ritrovato nel 1937 in un convento dell’Armenia.
Mario Vegetti, sognatore che pensa e pensatore che sogna, ci ha insegnato che solo con una perseverante educazione umanistica l’uomo potrà realizzare la propria specifica “umanità”, e, con una strenua resistenza culturale, liberarsi da quella generica “animalità” che da secoli lo vincola ad una conflittuale sussistenza sociale, senza consegnare alle attuali modalità sociali la propria dignità, e più in generale la propria vita.
Associazione culturale Petite Plaisance
Una storia raccontata dal Saggio del Capitale
«Lo Straniero di Treviri: […] Questa è dunque la storia che mi è stata narrata da un vecchio profeta delle mie parti che là chiamavano il Saggio del Capitale.
“C’è un fantasma che si aggira per il mondo – il Fantasma del Comunismo. In molti hanno contribuito ad evocarlo – anche tu, Socrate – ma poi, spaventati dalla sua forza e dal suo aspetto terribile, si sono fermati a metà strada e hanno cercato di farlo nuovamente sparire con i loro falsi esorcismi. Ma una volta ridestato l’immenso fantasma non fermerà mai più il suo cammino. Talvolta agisce in piena luce, e il mondo conosce allora epoche grandi e tremende. Spesso invece lavora in segreto e in silenzio, e come una talpa erode sottoterra le fondamenta dell’ingiustizia. Esso combatte contro i mostri che dominano la nostra storia: vampiri che si alimentano del lavoro vivo di chi opera nei campi e nelle officine, orrendi feticci impastati di merce e di denaro. La sua bandiera è rossa e un giorno tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo si riuniranno sotto di essa, spezzeranno le loro catene e avanzeranno verso un nuovo sole che sorgerà sulle tenebre della storia. Allora non vi saranno più padroni e schiavi nobili e plebei, borghesi e proletari, ricchi e poveri, non vi saranno più stati e nazioni, imperi e colonie, e non vi saranno più guerre fra i popoli, riuniti finalmente in un’internazionale che sarà l’inizio della futura umanità. Tutti saranno liberi, uguali e fratelli tra loro. La vita tornerà ad essere davvero umana: non se ne dovrà più cedere ad alcuno il tempo in cambio dei mezzi di sussistenza, l’uomo tornerà al centro del mondo e non dovrà più ricorrere, per consolarsi, alle fole della religione e dell’aldilà. Chi lo vorrà, e quando lo vorrà, potrà essere filosofo e pescatore, politico e artigiano, artista e contadino. Fioriranno le arti e le scienze, non più poste al servizio del potere e della ricchezza. Le macchine libereranno gli uomini dalla fatica del lavoro necessario, la natura, non più sfruttata per arricchire i pochi che possiedono le terre, le acque, i cieli, tornerà a donare ad ognuno i suoi frutti copiosi, come diceva anche, credo, un vostro vecchio poeta. Non esisteranno più Stati né governi né eserciti né polizie, perché tutti vivranno liberi e autonomi, secondo giustizia. Il Fantasma avrà così compiuto la sua opera secolare, e il genere umano sarà finalmente liberato dai mali e dalle sciagure che l’hanno afflitto nel corso dei tempi. Ma non prima di allora”.
Lo Straniero di Treviri: Io non so, Socrate, se questa storia potrà un giorno avverarsi. Ma di una cosa sono convinto: o la profezia del Saggio derl Capitale verrà realizzata, oppure il mondo precipiterà in una barbarie ancora peggiore di quella che conosciamo, in una notte di distruzione e di morte che neppure, forse, riusciamo ad immaginare.
Trasimaco Ma per il Cane, eccone un altro che si mette a raccontarci le storie dei fantasmi, come se non ci bastassero quelle di Socrate. Care le mie nonnette, sappiate che siamo ormai adulti, e la verità non ci fa paura. E la verità, ma ormai mi sono stancato di ripetervelo, è che non ci sono né dèi né uomini, diavoli o fantasmi che tengano: chi è forte comanda, chi è debole subisce. E si consola con i sogni della giustizia in questo o nell’altro mondo.
Socrate Trasimaco, ti ripeti davvero in un modo un po’ monotono. Su una cosa però io e lo Straniero qui siamo d’accordo: occorre ed è ogni giorno più urgente una straordinaria mutazione del corso del mondo, perché la barbarie è davvero alle porte, e l’ingiustizia di cui ora soffriamo non è più tollerabile per il genere umano.. Ben venga il tuo fantasma, Straniero, se potrà aiutarci in questo mutamento. Quanto a te, Trasimaco, forse un giorno potrai tu stesso allearti con noi, se il tuo personale spettro – intendo l’ossessione del potere – potrà servire come uno strumento utile a fornirci la forza per cambiare l’inerzia dei tempi. Io però ora, cari compagni, sono stanco: lascio ad altri il compito di raccogliere la bandiera che la vecchiezza e la sorte che mi attende, mi costringono a lasciar cadere a terra, su queste polverose strade del Pireo.
Lo Straniero di Treviri: Ripresi allora finalmente (era ormai giorno fatto) la salita che mi conduceva in città. Gli altri, credo, continuarono a far onore al buon vino di Cefalo».
Mario Vegetti, Platone, Repubblica, Libro XI – Lettera agli amici d’Italia, Guida-Falsi originali, 2018, pp. 31-33.
Questo volume presenta due testi inediti di Platone, a lungo dimenticati poiché considerati apocrifi: il libro XI (nonché ultimo) della Repubblica, e la Lettera XIV agli amici d’Italia sulla giustizia. Entrambi i testi suscitano uno straordinario interesse perché documentano una svolta imprevista nel pensiero del grande filosofo: l’incontro di Socrate con l’enigmatica figura dello “straniero di Treviri”, nel quale è forse possibile riconoscere un antico precursore di Karl Marx. Questo incontro è drammaticamente descritto nel libro XI della Repubblica. La Lettera invece documenta un episodio della storia d’Italia finora sconosciuto: un piccolo avventuriero, demagogo spregiatore della giustizia, esercita la tirannide con l’appoggio di alcune selvagge tribù di barbari del Nord. Entrambi gli scritti platonici sono accompagnati da ampi commenti critici e filologici.
Enrico Berti – Luciano Canfora – Bruno Centrone Franco Ferrari – Francesco Fronterotta – Silvia Gastaldi
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».
Mario Vegetti
Premessa alla nuova edizione del 2018
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.
L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.
Paola Manuli – Mario Vegetti
Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria. Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.
Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione. Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore. Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.
La paura è il primo nemico naturale che un uomo deve superare lungo il suo cammino verso la conoscenza. […] Un uomo va alla conoscenza come va alla guerra: vigile, con timore, con rispetto, e con assoluta sicurezza. Andare alla conoscenza in qualsiasi altro modo è un errore, e chiunque lo fa vivrà per rimpiangere i suoi passi. […] Quando un uomo ha soddisfatto a questi quattro requisiti non ci sono errori che egli debba spiegare; […] se un tale uomo fallisce, o patisce una sconfitta, avrà perso solo una battaglia, e per questa non ci saranno penosi rimpianti. […] Si può voler imparare senza per altro voler fare nessuno sforzo, perché magari ci si aspetta da altri tutte le indicazioni. Ma così non si impara effettivamente.
Sapere quanto sia difficile trovare il proprio posto, e soprattutto sapere che esiste, dà un senso di sicurezza unico. […] Se tuttavia qualcuno ti dice dove è il tuo posto non si avrà mai la sicurezza necessaria per proclamarlo come vera conoscenza […].
Un uomo, per diventare un uomo di conoscenza, deve sfidare e sconfiggere i suoi quattro nemici naturali.
Un uomo può dirsi uomo di conoscenza solo se è stato capace di sconfiggerli tutti e quattro. Chiunque può tentare di diventare un uomo di conoscenza […]. I risultati della lotta non possono però essere previsti con nessun mezzo, perché diventare un uomo di conoscenza è una cosa temporanea. Essere un uomo di conoscenza non ha carattere duraturo. Non si è mai un uomo di conoscenza in modo definitivo, non realmente. Piuttosto si diventa uomo di conoscenza per un brevissimo istante, dopo aver sconfitto i quattro nemici naturali.
Quando un uomo incomincia ad imparare non sa con chiarezza quali sono i suoi obiettivi. Il suo scopo è imperfetto; il suo intento è vago. Spera in una ricompensa che non si concreterà mai, perché non sa nulla delle difficoltà dell’imparare. Comincia lentamente ad imparare, dapprima a poco a poco, poi a grandi passi. E presto i suoi pensieri entrano in conflitto. Quello che impara non è mai quello che ha sperato o immaginato. E così incomincia ad avere paura. Imparare non è mai quello che ci si aspetta. Ogni passo dell’imparare è un compito nuovo, e la paura che l’uomo prova comincia a salire implacabilmente, inflessibilmente. Il suo scopo diventa un campo di battaglia.
E così si è imbattuto nel primo dei suoi nemici naturali: LA PAURA.
Un nemico terribile, traditore, e difficile da superare. Si tiene nascosto ad ogni svolta della strada, in agguato, aspettando. E se l’uomo, atterrito dalla sua presenza, fugge, il nemico avrà messo fine alla sua ricerca. [Che cosa accade all’uomo che fugge per la paura?] Non gli accadrà nulla, tranne che non imparerà mai.Non diventerà mai un uomo di conoscenaza. Sarà forse un uomo borioso, o inocuo, o spaventato. In ogni caso sarà un uomo sconfitto. Il suo primo nemico avrà messo fine ai suoi desideri. [Che cosa si può fare per vincere la paura?] Non si deve fuggire. Deve sfidare la sua paura, e, a dispetto di essa, deve compiere il passo successivo dell’imparare, e il successivo e ancora il successivo. La sua paura deve essere completa, e tuttavia non si deve fermare Questa è la regola! E verrà il momento in cui il suo primo nemico volgerà in ritirata. L’uomo comincia a sentirsi sicuro di sé. Il suo intento diviene più forte. Imparare allora non è più un compito terrificante. Quando arriva questo lieto momento l’uomo può dire senza esitazione di aver sconfitto il suo primo nemico naturale. Tutto avviene a poco a poco, e tuttavia la paura è vinta improvvisamente e rapidamente. [Ma l’uomo non avrà ancora paura se gli succederà ancora qualcosa di nuovo?] No! Una volta che l’uomo ha vinto la paura, ne è libero per tutto il resto della sua vita, perché invece della paura ha acquistato LA LUCIDITA’: una lucidità mentale che cancella la paura. A questo punto l’uomo conosce i suoi desideri; sa come soddisfare tali desideri. Può anticipare i nuovi passi dell’imparare, e una limpida lucidità circonda ogni cosa. L’uomo sente che nulla è nascosto.
E così ha incontrato il suo sencondo nemico naturale: LA LUCIDITA’.
Quella lucidità mentale che è così difficile da ottenere, scaccia la paura, ma acceca anche. Costringe l’uomo a non dubitare mai di se stesso. Gli dà la sicurezza di poter fare tutto quello che gli pare, perché vede chiaramente in tutto. Ed è coraggioso perché è lucido, e non si ferma davanti a nulla perché è lucido. Ma tutto questo è un errore. È come qualcosa di incompleto. Se l’uomo si arrende a questo falso potere, ha ceduto al suo secondo nemico e sarà maldestro nell’imparare. Si affretterà quando dovrà essere paziente, o sarà paziente quando dovrebbe affrettarsi. E sarà maldestro nell’imparare finché cederà, incapace di imparare più nulla. [Che ne è di un uomo sconfitto in tal meodo? Muore come risultato?] No, non muore. Il suo secondo nemico lo ha semplicemente bloccato impedendogli di diventare un uomo di conoscenza; l’uomo può invece trasformarsi in un allegro guerriero o in un pagliaccio. Tuttavia la lucidità pagata a così caro prezzo non si trasformerà mai più nella tenebra e nella paura. Avrà la lucidità finché vivrà, ma non imparerà o desidererà più nulla. [Ma cosa deve fare per evitare di essere sconfitto?] Deve fare quello che ha fatto con la paura: deve sfidare la sua lucidità e usarla solo per vedere, e aspettare con pazienza, e misurare con cura prima di fare nuovi passi. Deve pensare, dopo tutto, che la sua lucidità è quasi un errore. E verrà un momento in cui comprenderà che la sua lucidità era solo un punto davanti ai suoi occhi. E così avrà superato il suo secondo nemico, e sarà in una posizione in cui nulla potrà mai nuocergli. Questo non sarà un errore. Non sarà solamente un punto davanti ai suoi occhi. Sarà vero potere. A questo punto saprà che il potere che ha inseguito così a lungo è finalmente suo. Può fare tutto quello che vuole. Il suo alleato è al suo comando. Il suo desiderio è la regola. Vede tutto quello che è intorno a lui.
Ma si è anche imbattuto nel terzo dei suoi nemici: IL POTERE!
Il potere è il più forte di tutti i nemici. E naturalmente la cosa più facile è arrendersi; dopo tutto, un uomo a questo punto è veramente invincibile: comanda. Comincia per correre rischi calcolati e finisce per creare regole, perché è un padrone. A questo stadio difficilmente l’uomo si rende conto che il nemico lo sta circondando, e improvvisamente, senza saperlo, avrà certamente perduto la battaglia. Il suo nemico lo avrà trasformato in un uomo crudele e capriccioso. [Perderà allora il suo potere?] No, non perderà mai la sua lucidità o il suo potere. Un uomo che è sconfitto dal potere muore senza sapere veramente come tenerlo in pugno. Il potere è solo un fardello sul suo destino. Un tale uomo non ha il comando su se stesso, e non può sapere quando o come usare il suo potere. La sconfitta da parte di uno qualsiasi di questi nemici è una sconfitta definitiva. […] Se però un uomo fosse accecato temporaneamente dal potere e poi lo rifiutasse significherebbe che la sua battaglia ancora continua. Significherebbe che sta ancora cercando di diventare un uomo di conoscenza. Un uomo è sconfitto solo quando non tenta più, e si lascia andare. […] Se però cede alla paura non la vincerà mai, perché avrà paura di imparare e non tenterà più. Ma se cerca per anni di imparare, pur in mezzo alla sua paura, alla fine la vincerà perché non si è mai veramente abbandonato ad essa. [Come può sconfiggere il suo terzo nemico?] Deve sfidarlo deliberatamente. Deve arrivare a rendersi conto che il potere a lui apparentemente conquistato in realtà non è mai stato il suo. Deve stare sempre in guardia, tenendo in pugno con cura e con fede tutto ciò che ha imparato. Se riuscirà a vedere che la lucidità e il potere, quando manca il suo proprio controllo su di sé, sono peggio ancora di errori, raggiungerà un punto in cui tutto è teneto sotto controllo. Saprà allora come e quando usare il suo potere, e in questo modo avrà sconfitto il suo terzo nemico. L’uomo sarà ormai alla fine del suo viaggio di apprendimento e si imbatterà, quasi senza esserne stato avvertito, nell’ultimo dei suoi nemici:
LA VECCHIAIA.
Questo è il nemico più crudele di tutti, il solo che non potrà essere sconfitto completamente, ma solo scacciato. Questo è il momento in cui l’uomo non ha più paure, non più un’impaziente lucidità mentale; un momento in cui il suo potere è tutto sotto controllo, ma il momento anche in cui prova un irresistibile desiderio di riposare. Se si arrende totalmente al desiderio di lascirsi andare e dimenticare; se si adaglia nella stanchezza, avrà perduto l’ultimo combattimento, e il suo nemico lo ridurrà a una creatura debole e vecchia. Il suo desiderio di ritirarsi annullerà tutta la sua lucidità, il suo potere e la sua conoscenza.
Ma se l’uomo si spoglia della sua stanchezza, e affronta il proprio destino, può essere allora detto uomo di conoscenza, pur se soltanto per il breve momento in cui riesce a sconfiggere il suo ultimo e invincibile nemico. Questo momento di lucidità, di potere e di conoscenza, è sufficiente.
Mario Vegetti, il sognatore che pensa, il pensatore che sogna.
Il 4 gennaio 2020 Mario Vegetti avrebbe compiuto 83 anni. Era nato il 4 gennaio del 1937 (tre giorni prima del suo amico Diego Lanza, con il quale condividerà, in una straordinaria amicizia filosofica, fondamentali percorsi di ricerca, fino a quando – dopo che Diego ci aveva lasciato il 7 marzo 2018 – anche Mario ci ha lasciato, quattro giorni dopo, l’11 marzo 2018. Vogliamo ricordare Mario con questo suo piccolo-grande scritto, la sua “Storia raccontata dal Saggio del Capitale“, in cui risuonano le note dell’Internazionale, un racconto da lui portato alla considerazione di Socrate, in questo “XI Libro” de La Repubblica di Platone, che immagina sia stato ritrovato nel 1937 in un convento dell’Armenia.
Mario Vegetti, sognatore che pensa e pensatore che sogna, ci ha insegnato che solo con una perseverante educazione umanistica l’uomo potrà realizzare la propria specifica “umanità”, e, con una strenua resistenza culturale, liberarsi da quella generica “animalità” che da secoli lo vincola ad una conflittuale sussistenza sociale, senza consegnare alle attuali modalità sociali la propria dignità, e più in generale la propria vita.
Associazione culturale Petite Plaisance
Una storia raccontata dal Saggio del Capitale
«Lo Straniero di Treviri: […] Questa è dunque la storia che mi è stata narrata da un vecchio profeta delle mie parti che là chiamavano il Saggio del Capitale.
“C’è un fantasma che si aggira per il mondo – il Fantasma del Comunismo. In molti hanno contribuito ad evocarlo – anche tu, Socrate – ma poi, spaventati dalla sua forza e dal suo aspetto terribile, si sono fermati a metà strada e hanno cercato di farlo nuovamente sparire con i loro falsi esorcismi. Ma una volta ridestato l’immenso fantasma non fermerà mai più il suo cammino. Talvolta agisce in piena luce, e il mondo conosce allora epoche grandi e tremende. Spesso invece lavora in segreto e in silenzio, e come una talpa erode sottoterra le fondamenta dell’ingiustizia. Esso combatte contro i mostri che dominano la nostra storia: vampiri che si alimentano del lavoro vivo di chi opera nei campi e nelle officine, orrendi feticci impastati di merce e di denaro. La sua bandiera è rossa e un giorno tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo si riuniranno sotto di essa, spezzeranno le loro catene e avanzeranno verso un nuovo sole che sorgerà sulle tenebre della storia. Allora non vi saranno più padroni e schiavi nobili e plebei, borghesi e proletari, ricchi e poveri, non vi saranno più stati e nazioni, imperi e colonie, e non vi saranno più guerre fra i popoli, riuniti finalmente in un’internazionale che sarà l’inizio della futura umanità. Tutti saranno liberi, uguali e fratelli tra loro. La vita tornerà ad essere davvero umana: non se ne dovrà più cedere ad alcuno il tempo in cambio dei mezzi di sussistenza, l’uomo tornerà al centro del mondo e non dovrà più ricorrere, per consolarsi, alle fole della religione e dell’aldilà. Chi lo vorrà, e quando lo vorrà, potrà essere filosofo e pescatore, politico e artigiano, artista e contadino. Fioriranno le arti e le scienze, non più poste al servizio del potere e della ricchezza. Le macchine libereranno gli uomini dalla fatica del lavoro necessario, la natura, non più sfruttata per arricchire i pochi che possiedono le terre, le acque, i cieli, tornerà a donare ad ognuno i suoi frutti copiosi, come diceva anche, credo, un vostro vecchio poeta. Non esisteranno più Stati né governi né eserciti né polizie, perché tutti vivranno liberi e autonomi, secondo giustizia. Il Fantasma avrà così compiuto la sua opera secolare, e il genere umano sarà finalmente liberato dai mali e dalle sciagure che l’hanno afflitto nel corso dei tempi. Ma non prima di allora”.
Lo Straniero di Treviri: Io non so, Socrate, se questa storia potrà un giorno avverarsi. Ma di una cosa sono convinto: o la profezia del Saggio derl Capitale verrà realizzata, oppure il mondo precipiterà in una barbarie ancora peggiore di quella che conosciamo, in una notte di distruzione e di morte che neppure, forse, riusciamo ad immaginare.
Trasimaco Ma per il Cane, eccone un altro che si mette a raccontarci le storie dei fantasmi, come se non ci bastassero quelle di Socrate. Care le mie nonnette, sappiate che siamo ormai adulti, e la verità non ci fa paura. E la verità, ma ormai mi sono stancato di ripetervelo, è che non ci sono né dèi né uomini, diavoli o fantasmi che tengano: chi è forte comanda, chi è debole subisce. E si consola con i sogni della giustizia in questo o nell’altro mondo.
Socrate Trasimaco, ti ripeti davvero in un modo un po’ monotono. Su una cosa però io e lo Straniero qui siamo d’accordo: occorre ed è ogni giorno più urgente una straordinaria mutazione del corso del mondo, perché la barbarie è davvero alle porte, e l’ingiustizia di cui ora soffriamo non è più tollerabile per il genere umano.. Ben venga il tuo fantasma, Straniero, se potrà aiutarci in questo mutamento. Quanto a te, Trasimaco, forse un giorno potrai tu stesso allearti con noi, se il tuo personale spettro – intendo l’ossessione del potere – potrà servire come uno strumento utile a fornirci la forza per cambiare l’inerzia dei tempi. Io però ora, cari compagni, sono stanco: lascio ad altri il compito di raccogliere la bandiera che la vecchiezza e la sorte che mi attende, mi costringono a lasciar cadere a terra, su queste polverose strade del Pireo.
Lo Straniero di Treviri: Ripresi allora finalmente (era ormai giorno fatto) la salita che mi conduceva in città. Gli altri, credo, continuarono a far onore al buon vino di Cefalo».
Mario Vegetti, Platone, Repubblica, Libro XI – Lettera agli amici d’Italia, Guida-Falsi originali, 2018, pp. 31-33.
Questo volume presenta due testi inediti di Platone, a lungo dimenticati poiché considerati apocrifi: il libro XI (nonché ultimo) della Repubblica, e la Lettera XIV agli amici d’Italia sulla giustizia. Entrambi i testi suscitano uno straordinario interesse perché documentano una svolta imprevista nel pensiero del grande filosofo: l’incontro di Socrate con l’enigmatica figura dello “straniero di Treviri”, nel quale è forse possibile riconoscere un antico precursore di Karl Marx. Questo incontro è drammaticamente descritto nel libro XI della Repubblica. La Lettera invece documenta un episodio della storia d’Italia finora sconosciuto: un piccolo avventuriero, demagogo spregiatore della giustizia, esercita la tirannide con l’appoggio di alcune selvagge tribù di barbari del Nord. Entrambi gli scritti platonici sono accompagnati da ampi commenti critici e filologici.
Enrico Berti – Luciano Canfora – Bruno Centrone Franco Ferrari – Francesco Fronterotta – Silvia Gastaldi
Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.
Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.
I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.
«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».
Mario Vegetti
Premessa alla nuova edizione del 2018
Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.
L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.
Paola Manuli – Mario Vegetti
Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.
La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria. Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.
Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione. Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore. Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.
Presto convintosi della potenza totalistica del sacro e che la religione è soprattutto un dramma, un’esperienza sia individuale che collettiva che implica un’azione, il giovane Ernesto De Martino, che aderisce dapprima al fascismo e poi al mito della Rivoluzione d’Ottobre, incontra nei suoi giorni e negli studi filosofi come Mircea Eliade, Jean-Jacques Rousseau, Antonio Gramsci, Georges Sorel e soprattutto Vittorio Macchioro, un uomo eclettico, geniale e vivente su molteplici confini culturali oltre che geografici che influenzerà come pochi altri pensatori la ricerca teorica del futuro autore di Sud e magia. Ebreo triestino, studioso dell’orfismo e autore di singolari scoperte in campo archeologico illuminate da riflessioni filosofiche, intuizioni antropologiche e vissuti religiosi, Macchioro, divenuto infine suocero di De Martino, avendo questi sposato la figlia Anna, pare infatti intuire quella deriva materialistico-economicistica e scientista che ci ha portati all’attuale mondo disincarnato, “liquido”, tanto che anche dopo la rottura consumatasi tra i due, gli studi dell’ex maestro e dell’ex discepolo, in una certa misura, saranno ancora orientati a definire, a indagare la decrepitezza di una società sempre più votata all’artificiale, alla spettacolarizzazione, alla depravazione più o meno raffinata.
Prefazione
Ernesto De Martino, «sciamano della razionalità» e «signore del limite»
di Alberto Giovanni Biuso
L’umano è un grumo di materia che si autocomprende. E lo fa in una molteplicità di forme e strumenti. Lo fa inventandosi dei significati, allo stesso modo in cui l’apparato percettivo si inventa i colori, gli odori, i sapori. Tra questi strumenti e forme, il più potente rimane probabilmente il sacro. Nessuna società e individuo possono infatti esistere senza la tensione costante verso un senso che superi l’andare mesto, meschino e mirabile dei giorni, senza un fulgore che riempia di gloria il tempo che siamo. Non importa il suo contenuto, importa la forma. E dunque il sacro può assumere le espressioni più diverse: un dio ma anche un amore, anche un progetto, anche una funzione, anche il denaro, anche il sapere. Religione è il legame di questi desideri con quelli di altri, con quelli vicini. Nulla a che fare con chiese e fedi trascendenti – forme anch’esse del sacro, certo ma non esclusive ed escludenti – e molto invece con l’immanenza del sentirsi ed essere vivi qui e ora.
Ernesto De Martino comprese la potenza totalistica del sacro e volle studiarla in espressioni tra loro diverse. Perché, come scrive giustamente Giancarlo Chiariglione, oggetto costante delle ricerche di De Martino fu «la fragile, caotica condizione dell’uomo in virtù della quale costui non sopravvivrebbe se non disponesse di quelle forme di protezione quali la religione, il mito e, appunto, la magia». L’attenzione verso il tarantismo salentino è parte di questo atteggiamento di acuta consapevolezza di ciò che davvero si muove nel profondo degli umani e dei gruppi. Il tarantismo infatti, scrive De Martino, «offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore delle armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza».1 Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per nulla economico.
A questa apertura metodologica e ricchezza di risultati De Martino giunse attraverso un lungo e intricato percorso che Chiariglione disegna in queste pagine in modo assai vivido. Partito da una concezione mistica del mondo, che lo fece aderire prima al fascismo e poi al mito della Rivoluzione d’Ottobre, De Martino incontrò nei suoi giorni e negli studi filosofi come Mircea Eliade, Jean-Jacques Rousseau, Antonio Gramsci e soprattutto Vittorio Macchioro, un singolare personaggio, un uomo eclettico e vivente su molteplici confini culturali oltre che geografici. Ebreo triestino, studioso dell’orfismo, archeologo, narratore, Macchioro divenne suocero di De Martino, avendo questi sposato la figlia Anna.
«Sciamano impotente», questa la definizione che Chiariglione ne dà, Macchioro fu per De Martino maestro dell’essenziale, del senso, della potenza del mondo, e tale rimase anche quando da lui prese le distanze seguendo altre strade e diventando uno «sciamano della razionalità in grado di portare a compimento quell’esorcismo solenne della ragione tradizionale non riuscito pienamente a studiosi come Freud e Jung».
E infatti per De Martino la Terra del rimorso è certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine e soprattutto la terra tutta, è l’intero pianeta abitato dagli umani, che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
Al di là dei temi e degli ambienti che costituiscono i suoi specifici oggetti d’indagine, l’etnografia di De Martino assume un significato sempre universale, toccando i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme alla Terra intera, non sopra o dentro la Terra ma proprio insieme. E in questo modo lo studioso della magia, della taranta e del furore «diventa una sorta di Signore del limite; va via via ad acquisire un ruolo “esoterico-redentore-trasformatore” che solo una figura carismatica come lo sciamano può incarnare».
Aver mostrato il nucleo antropologico e insieme sacrale dal quale la ricerca di De Martino muove è forse il pregio maggiore della empatica e lucida analisi che Chiariglione ha dedicato a uno dei più significativi e fecondi studiosi che la recente cultura europea abbia nutrito.
1 E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 19763, p. 170.
Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni in cui si cominciano ad accarezzare i sogni con le dita e le illusioni diventano speranza. Ho gli anni in cui l’amore, a volte, è una folle vampata, ansiosa di consumarsi nel fuoco di una passione attesa. E altre volte, è un angolo di pace, come un tramonto sulla spiaggia.
Quanti anni ho, io? Non ho bisogno di segnarli con un numero, perché i miei desideri avverati, le lacrime versate lungo il cammino al vedere le mie illusioni infrante valgono molto più di questo. Che importa se compio venti, quaranta o sessant’anni! Quel che importa è l’età che sento. Ho gli anni che mi servono per vivere libero e senza paure.
Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.
Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini Lottare è un atto linguistico “Compelle intrare” Dispersioni Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia L’alternativa alla linea del colore è la comunità
Non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi. W.E. B. Du Bois
La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini La lotta è sospensione dell’atomistica delle solitudini, è atto comunitario con il quale il soggetto esce dalla falsa sicurezza dell’ignavia per incontrarsi con se stesso attraverso lo sguardo degli altri: ha smesso di temere se stesso e la propria condizione materiale. Lo schiavo liberato ha categorie per leggere e condividere la cartografia sociale dell’esclusione. Non si nasce esclusi, non si nasce vittime, ma vi è un sistema – nella sua unità dinamica e olistica sovrastrutturale e strutturale – che lavora per produrre per servi.
La lotta è la speranza che infrange la cappa del presente per trasformare quella speranza in atto progettuale e comunitario. La rivolta nel segno della ragione-logos si esplica mediante parole, atti, gesti che costituiscono la trama che strappa dalla passività fatale, dallo stato di gettatezza per la prassi. La lotta è già vittoria, poiché il servo concede a se stesso una possibilità: non si legge e non si ritrova più nella lingua del vincitore.
Lottare è un atto linguistico Lottare è un atto linguistico, è un nuovo segno significante che consente l’esodo dalla lingua dei padroni, e dunque è libertà. Il servo è tale se resta nel perimetro linguistico del padrone, se non rompe la barriera dei significati che si ergono minacciosi e tracciano linee di confine, orditi gerarchici indiscutibili. Nel linguaggio del padrone e signore la cultura è solo decorativa, l’orpello della propria vanità, il mezzo con cui tracciare il confine tra “inclusi ed esclusi”.
Per il lottatore liberato dalla lingua angusta del capitale, l’utile perde l’aureola per essere solo una delle innumerevoli manifestazioni dei significati umani, il lottatore reinventa con il suo linguaggio le sue relazioni. All’utile sostituisce il valore in sé, la libertà ai vincoli che stringono la mente nei lacci dell’utile. La cultura e la conoscenza non sono mezzi, ma la gioia di esserci e di conoscersi:
«Questo è lo scopo della lotta: essere un collaboratore nel regno della cultura, fuggire la morte e l’isolamento, e coltivare e utilizzare i suoi migliori poteri. Questi poteri, del corpo e della mente, sono stati in passato talmente sprecati e dispersi da far loro perdere ogni efficacia, e farli apparire come assenza di potere, come debolezza».[1]
“Compelle intrare” Il lottatore deve riconoscere “la linea del colore” che divide in modo ideologico lo sfruttato dallo sfruttatore. La linea del colore è il taglio netto che divide l’umanità, che costringe “compelle intrare” (Luca 14, 23) i servi ad entrare in categorie che servono al vincitore per giustificare il potere, categorie superstiziose perché mai messe in discussione, poste fuori dello spazio e del tempo. Il nero è sulla linea del colore decisa dal bianco, ma per renderla eterna dev’essere naturalizzata, collocata in una dimensione indiscutibile, per cui si fa appello alla religione, a Dio, alla scienza. Di volta in volta la linea del colore si riempie di nuovi contenuti ideologici, di nuove rimozioni per restare fissa nella testa degli oppressori e degli oppressi:
«Questo sinistro commercio, cu cui l’Impero britannico e gli Stati Uniti d’America sono stati in gran parte costruiti, è costato all’Africa nera più di 100 milioni di anime, ha provocato la distruzione della sua vita politica e sociale e ha lasciato il continente in uno stato di indigenza tale da cagionare ogni forma di aggressione e sfruttamento. “Di colore” nel comune sentire del mondo è diventato sinonimo di “inferiorità”, la parola “Negro” ha perso l’iniziale maiuscola e “Africa” è solo un’altra parola per “barbarie” e “bestialità”. È così che il mondo ha cominciato a investire nel pregiudizio razziale. La “linea del colore” ha iniziato a fruttare i profitti».[2]
La linea del colore ha la sua verità, la sua sostanza: il profitto, per cui si sposta, assume nuove geometrie, è sempre vitale, ma nella sua metamorfosi, nel suo inseguire trafelata il profitto resta sempre uguale.
Dispersioni La lotta è attività sempre minacciata dall’assimilazione, l’oppressore conosce bene quanto l’umiliato voglia dimenticare la condizione di suddito. Un essere umano, a cui è stata tolta la dignità di persona ed entificato, vuole fuggire da se stesso, dalla consapevolezza di essere stato mezzo e strumento nel disprezzo dell’oppressore. Il disprezzo subìto lede la capacità di credere in un futuro possibile e diverso dal presente. Pertanto il lottatore talvolta cade nella trappola della rimozione, perché non ha attraversato la potenza immane del negativo. Ancora una volta dinanzi alla visione della propria morte ha indietreggiato, per cui – per cancellare l’onta della dignità violata –, vuole essere uguale all’oppressore, desidera essere altro rispetto alla propria storia. È due volte vittima, perché si fonde e confonde con l’oppressore. La linea del colore scava in lui la sua traccia indelebile, si assimila e resta solo un servo con una nuova maschera sociale:
«Ogni passo in questa direzione viene oggi ostacolata dall’assurda filosofia Negra del “disperdersi, liquidare, aspettare, scappare”. Ancora oggi molti dei suoi leader più giovani e istruiti pensano addirittura che, visto che dove ci sono pochi Negri, o dove non ve ne sono affatto, il problema di razza non è così acuto, questa potrebbe essere una soluzione! Pensano infine che il problema di dodici milioni di Negri, in maggioranza lavoratori poveri e ignoranti, si risolverà con la graduale e continua fuga dalla propria razza di quelli tra noi che appartengono a classi benestanti e istruite, che entreranno tra le fila della grande massa del popolo americano, abbondonando il resto alla sofferenza, all’indifferenza e alla morte».[3]
Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale La lotta è incrinata dal pregiudizio, dalla linea del colore che divide gli oppressi, al punto da impedire loro di verticalizzare la lotta. Il capitale orienta le tensioni in senso orizzontale, divide il fronte dei lavoratori, usa i pregiudizi, l’irrazionale quale mezzo per contrastare pericolosi fronti unitari. Si sollecitano i fantasmi razziali per compattare il fronte della razza padrona ed occultare il vero volto del potere:
«Il successo dell’aggressione economica richiede che in patria vi sia una stretta unione tra capitale e lavoro. Ora, le rivendicazioni della classe lavoratrice bianca non solo sul terreno salariale, ma più in generale su quello delle condizioni di lavoro e di una propria voce nella gestione dell’industria rendono difficile la pace industriale. La pacificazione dei lavoratori è stata raggiunta, da una parte, attraverso sforzi di ogni tipo per un socialismo di Stato, dall’altra, attraverso la minaccia esplicita di aprire la competizione con la manodopera di colore».[4]
La nave dello Stato non è trasportata da un’inarrestabile marea di democrazia W.E.B Du Bois non crede nel cammino inarrestabile della democrazia, anzi tale visione è utile al potere, perché rassicura i servi, insegna loro che la loro partecipazione alla prassi non è necessaria, ma è sufficiente attendere e la macchina della democrazia trionferà. A tale ideologia chi lotta deve opporre la domanda supportata da categorie veritative forti che possano smascherare i travestimenti del potere, la ridda delle forme in cui in modo demagogico si confonde. Bisogna imparare a porre domande, a cercare risposte per non cadere nella trappola dell’apparenza, del semplicismo e della pigrizia cognitiva:
«La teoria su cui si basa questo dispotismo democratico non è mai stata spiegata in modo chiaro. La maggior parte dei filosofi vede la nave dello Stato come trasportata da un’inarrestabile grande marea di democrazia, in cui alcuni vortici producono qua e là momentanei ritardi. Altri, quando cominciano a guardare le cose da vicino, diventano incerti. Stiamo tornando, si chiedono, all’aristocrazia e al dispotismo? Al dominio del più forte? Gridano e si stropicciano gli occhi: come possono non riconoscere che nella realtà che li circonda la democrazia si sta rafforzando? È il paradosso in cui sono caduti molti filantropi, che ha curiosamente ingannato molti i socialisti e che ha riconciliato capitani di industria e imperialisti con la “democrazia”. È lo stesso paradosso che permette che il rapidissimo avanzare della democrazia dell’America proceda di pari passo, nei suoi stessi gangli vitali, con un crescente atteggiamento aristocratico e di odio nei confronti delle razze di colore, e che giunge a giustificare e difendere la disumanità che non esita a bruciare esseri umani sulla pubblica piazza».[5]
L’alternativa alla linea del colore è la comunità L’alternativa alla linea del colore è la comunità che si fa guida senza i capi, perché la dimensione comunitaria è attività politica che entra nel quotidiano per unire, per guardare con sospetto ogni acclamazione sulla fine “della linea del colore”, perché la lotta ha un inizio, ma non ha una fine:
«Se il mondo scuro scoprirà lentamente che il socialismo è la sola risposta alla linea del colore, allora i popoli di colore del mondo diventeranno socialisti e i neri americani marceranno per forza tra le loro fila. Non tanto come guide, quanto piuttosto spinti dal loro stesso popolo».
Salvatore Bravo
***
[1] William E.B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, il Mulino, Bologna 2010, p. 107.
William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963), storico e sociologo, teorico politico e romanziere, è stato non soltanto la più importante figura nella politica e nella cultura afroamericana del Novecento, ma a tutti gli effetti uno dei più grandi intellettuali statunitensi del secolo: un “gigante”, come lo definì Martin Luther King nel suo ultimo discorso pubblico prima di essere assassinato. Du Bois fu anche tra i fondatori della più importante organizzazione americana per i diritti civili e padre del movimento panafricano. A lui si devono concetti divenuti ormai d’uso corrente nel mondo anglosassone,da quello di “doppia coscienza” a quello della “linea del colore”. Il volume presenta per la prima volta al lettore italiano un’ampia raccolta degli scritti politici del sociologo afroamericano, documentando l’intera parabola di sviluppo del suo pensiero. A guidare la lettura, l’introduzione di Sandro Mezzadra, che colloca l’opera e l’azione politica di Du Bois nel contesto della storia afroamericana del Novecento.
Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Un “dire sì alla vita” alla maniera nietzschiana, che sembra corrispondere all’enkrateia nel senso letterale del termine: padronanza di sé, capacità di darsi un contegno. È davvero padrone di sé chi è in grado di disporre delle proprie passioni e di non lasciarsi travolgere da esse. Dolore incluso. Anche se il dolore, come anche Aristotele riconobbe, è la più forte di tutte le passioni; infatti è molto più facile resistere al piacere che sopportare il dolore [Etica Nicomachea, III, 12, 1117 a 34-35]. Come dire: di fronte al dolore, forse ancor di più che di fronte a tutte le altre passioni, l’uomo si mostra in tutta la sua fragilità, in tutte le sue molteplici limitazioni, nella sua naturale debolezza.
L’uomo, è vero, è debole, ma ha delle risorse enormi, anche se talvolta ignorate o sottovalutate. Una canna, ma pensante. E l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, ha la possibilità di crearsi una vita, di darle uno o molteplici sensi e persino di rimetterne insieme i pezzi e di ritesserne faticosamente la trama, dopo che il dolore l’ha lacerata. Certo, occorre forza d’animo (quel coraggio “assennato” di cui Platone parla nel Lachete, non certo l’accanimento disumano, l’eroica pretesa di sconfiggere ogni male), ma senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus».
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Eum edizioni, Università di Macerata, Macerata 2006, pp. 104-105.
«Le ferite non
scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se
non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è,
contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si
gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e
che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere» (A.
Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Eum,
Macerata 2006, p. 91).
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios
teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di
mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi
concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto
con le rifªlessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i
numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i
dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la
costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra
cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica
della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come “eu
prattein”, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”,
sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi
sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto
ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Sommario
Introduzione
Prima parte
Semantica della felicità
Capitolo primo La felicità come domanda originaria * Domande “di” felicità * Domande “sulla” felicità ° Felicità: una questione terminologica ° Felicità e forma di vita
Capitolo secondo Felicità e dolore * L’esperienza del dolore ° Il dolore come accadimento ° Le forme del dolore ° Il dolore alla massima potenza: la morte ° Le figure della morte. Riflessioni conclusive * Cicatrizzazione del dolore e cura di sè ° Approcci al dolore ° Cura del dolore e cura di sè ° L’assunzione del dolore * Concludendo
Capitolo terzo Felicità e piacere * L’esperienza del piacere * Fenomenologia del piacere ° Il piacere nell’orizzonte della corporeità ° Dinamiche piacevoli e dolorose ° Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena ° Anima e corpo di fronte al piacere ° Verità / Falsità dei piaceri ° Unità e molteplicità della nozione di desiderio. ° Alcune note a margine dei testi platonici e aristotelici ° Piaceri e criteri di scelta * Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto Felicità e realizzazione di sé * Profili della virtù: tentativi di un recupero ° Virtù come eccellenza ° Virtù come forza ° Virtù come disposizione ° Virtù come giusto mezzo * La virtù come architettonica della felicità ° Vita felice e accordata: la virtù come musica ° Vita felice e ordinata: la virtù come misura ° La virtù come arte del viver beneCapitolo quinto
Capitolo quinto Felicità e beni esteriori * Primi approcci al problema * Felicità e fortuna ° Lampi di felicità, colpi di fortuna ° Fortuna e virtù ° Felicità e fortuna: osservazioni conclusive * Felicità e amministrazione dei beni ° Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Seconda parte Prassi di felicità
Capitolo primo Felicità e valorizzazione delle proprie risorse * Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti ° Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis ° Felicità al singolare, felicità al plurale ° Alcune riflessioni sulle nozioni di corpo e anima in Platone e Aristotele ° Anime e progetti di vita: osservazioni conclusive * Eudaimonia ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon ° Felicità come consapevolezza ° Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità * Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo Felicità come conquista di pienezza * Felicità: tra esperienze di pienezza e pienezza di vita ° Tentativi di articolazione della nozione di pienezza * Per una pienezza nell’orizzonte dell’ energeia * La difficoltà di far spuntar le ali: la felicità come conquista ° Felicità pienamente consapevole e pienamente umana * Riflessioni conclusive
Conclusioni
Per concludere
Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia Dizionari e lessici/Testi antichi/Testi moderni e contemporanei/ Letteratura critica e studi generali
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin
dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma,
al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco
il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione
risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame
delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia,
oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova
all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua
volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il
tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani
è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica
all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente
sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi
del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È
Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’
“International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo
Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia
Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella
Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È
Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele,Editore: eum, 2006
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios,
cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare
come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi
concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto
con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i
numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i
dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la
costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra
cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica
della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein,
inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra
risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle
modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò
che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
***
Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche
aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore
prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un
pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà
“si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora
devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”.
Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente
mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa
lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta,
persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di
alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte
innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli
studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di
vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi
***
Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a
fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”,
l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano
tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di
ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per
raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale,
sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum,
poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato
“Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti
permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e
degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica.
Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei
principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla
trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti
delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva
degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è
stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli
conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del
sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per
ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia
della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa
contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di
alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a
una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a
una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità:
emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini
stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la
dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica
ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della
dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo
storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici
greche delle nostra immagine di ragione.
***
Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo
greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia
dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale
inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal
significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi
che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo
ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo
psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso
l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di
scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare
in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima
elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e
nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da
essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste
tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si
confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente
innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi
sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con
una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità
ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza
del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero
contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
***
Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas”
1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La
riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M.
Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia.
Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la
dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono
insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani,
Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per
conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts,
and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda.
longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di
Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto
Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F.
De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo
Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
***
J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un
ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio
Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata,
Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con
l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
***
Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
***
ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque
saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di
ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla
filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e
all’aristotelismo di epoca imperiale.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.
Perché una vita possa realizzarsi compiutamente occorre “spendersi” senza risparmiarsi, dato che «la felicità, la riuscita della vita, non può in alcun modo avere un prezzo troppo alto».
«La riuscita della vita, al contrario di tutto ciò, non ha “costi esterni” tali che si possa dire, una volta raggiunta, che non ne sia valsa la pena».
Robert Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. 18 e p. 33.
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.AcceptRead More
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.