«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Ne ho visti molti che filosofavano molto più dottamente di me; ma la loro filosofia era per così dire estranea a loro stessi. Studiavano l’universo come arebbero studiato qualche macchina che avessero vista. Studiavano la natura umana per poterne parlare con dottrina, ma non per conoscere se stessi […]. Molti di loro volevano soltanto fare un libro, uno qualsiasi, purché fosse ben accolto».
Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, Feltrinelli, Milano 2016.
L’uomo si distingue dagli animali privi di ragione non per il discorso espresso dalla voce (infatti anche cornacchie, pappagalli e gazze emettono suoni articolati!, ma per il discorso interiore; né si distingue soltanto per la semplice fantasia, ma per quella fantasia che trascorre da un termine all’altro e che associa.
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VIII, 275 (A , II, 135).
Questo libro intende riabilitare il concetto di utopia. Quest’ultimo ha subìto nel linguaggio comune una serie di fraintendimenti e torsioni di senso che lo hanno reso sospetto e lo hanno circondato di un’aura negativa. Vi sono tre modificazioni essenziali che hanno investito il concetto di utopia. La prima lo interpreta come l’idea di un oggetto impossibile da ottenere. […] In questo senso, chi si balocca con le utopie è un immaturo […]. Tacciare di utopia un’idea, in quest’ottica, equivale a dichiararla falsa e perniciosa, se non altro in quanto perdita di tempo. La seconda accezione di significato attribuita all’utopia la pensa piuttosto come irrealizzabile. Nell’utopia si auspicano cose, come la giustizia e la felicità, che non sono intrinsecamente impossibili, ma non si daranno mai nella realtà umana per quella che è: l’utopia è possibile, ed è anche buona, ma di fatto non si realizza mai. Si comprende la legittimità del desiderio e la si giustifica come aspirazione, ma si fa appello a un realismo disincantato che esclude tali speranze dalla storia. […] Contro l’utopia, si invoca qui il «sano realismo» delle lotte di potere[…] in opposizione alle «idee astratte» di chi prova a immaginare per gli esseri umani un modo differente di stare in relazione fra loro. Il terzo significato cui si riconduce l’utopia la vede come un inganno. I pensatori utopici, si dice, sono in realtà dei dittatori mascherati […]. L’utopia è un pericolo e una minaccia, un progetto di sovvertimento dell’ordine sociale allo scopo di instaurare un nuovo e inquietante regime, inevitabilmente totalitario e liberticida. […] Ebbene, nessuno di questi significati appartiene al senso originario dell’utopia. […] È proprio da questo modello che partiremo ed è a esso che fondamentalmente ci atterremo qui […] cercheremo di rintracciarne lo spirito, il senso profondo e soprattutto il concetto. Il nucleo originario e tuttora pulsante dell’utopia deve essere in qualche modo riportato alla luce proprio contro le sue distorsioni, che sono divenute prevalenti nel senso comune contemporaneo. Questo recupero non è affatto una nostalgia. Di utopia abbiamo urgente bisogno, oggi, e occorre, di fronte alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo, riscoprire la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza. E la sua validità anzitutto politica, non solo letteraria o intellettuale. […] La modernità è sempre stata segretamente mossa dalle proprie utopie, le ha anticipate e in parte persino realizzate. Ne ha poi scoperto il lato oscuro, che si è manifestato nelle distopie […]. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente, per un destino o per una necessità storica o tecnologica, resta il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette. […] La navigazione è data all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare tutte le informazioni che possiamo raccogliere su che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. E quelle informazioni si trovano precisamente nell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare utopia.
Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia, Laterza, Bari-Roma 2020, pp. VII-X.
Il 31 luglio 2011 a Pisa veniva a mancare Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011). La Filosofia ha perso un uomo silenzioso e caparbio che ha vissuto la filosofia come esperienza totale e concreta. Secondo l’opinione corrente Massimo Bontempelli potrebbe essere definito un autore minore. Il giudizio del circo mediatico è dominato dalla chiacchiera, innalza sugli altari i nichilisti organici al sistema che hanno perso non solo la misura, ma specialmente il fondamento ontologico del bene. È inevitabile allora che autori radicali come Massimo Bontempelli non appaiano, ma ciò malgrado sono essenziali per comprendere il presente, decodificarne la matrice nichilista per elaborare percorsi alternativi. Dal nichilismo non si esce che con la verità, con la teoria che si coniuga con la prassi, ma ancor più con la testimonianza che un altro modo di esserci e vivere lo studio, l’impegno politico e sociale è possibile. La forza del nichilismo è nella capacità di convincerci che l’omologazione regna e dunque non vi è speranza, perché la verità è solo un gioco di parole, un’illusione fugace e pronta a svanire al tocco del principio di realtà. La trasvalutazione dei valori dei nichilisti nella forma dell’economicismo coltiva la disperazione per rafforzare il potere costituito, per annichilire ogni speranza. Il serpente sibila che niente ha senso, per cui tutto è possibile, rilevante è solo l’immediatezza, la certezza sensibile da afferrare e consumare. Massimo Bontempelli dinanzi alla violenza del nichilismo non solo ha argomentato il suo “no”, demistificandone i fondamenti ed i dogmatismi, ma specialmente ne ha colto la trasversalità, mostrando che dietro i grandi paraventi della propaganda, nella destra come nella sinistra, alligna lo stesso male che agisce e dissolve ogni programma politico in clientelismo, in logica crematistica ed asservimento dei popoli. Ha guardato con gli occhi della mente, con l’acutezza della civetta filosofica, le convergenze della destra e della sinistra. Dinanzi al disincanto non ha reagito, ma ha agito con l’esodo silenzioso e proficuo da categorie vetuste e dunque irrazionali per cercare la verità, per rifondare una nuova metafisica umanistica.
Filosofare con lo scandaglio Filosofare con lo scandaglio, secondo la nota metafora di Hegel, è pericoloso. Massimo Bontempelli è andato fino in fondo, per dimostrare con la sua ricerca che solo la metafisica può riportare il senso dove vige l’irrazionale nella forma della categoria della sola quantità senza qualità. L’antiumanesimo è la verità tragica e terribile del capitalismo nella sua fase attuale. La destrutturazione delle autocoscienze scientemente programmata dai potentati economici, si realizza mettendo in pratica processi di derealizzazione. Sembra un paradosso, ma nell’epoca della realtà aumentata, Massimo Bontempelli ha dimostrato che reale non è il virtuale o il godimento dell’attimo che fugge via, ma saper cogliere mediante processi di astrazione la verità che dà senso all’empirico. Senza la razionalità oggettiva l’essere umano è travolto dalle stesse dinamiche che governano gli enti. Si vive, così, in un mondo irreale e muto. Solo il concetto può umanizzare, riportare con la verità la razionalità, strappare l’essere umano dalla passività dei processi di derealizzazione per riportare la prassi al centro della storia e della vita. È stato questo il senso della sua vita come filosofo, storico ed educatore. L’intreccio di filosofia, storia e paideia lo avvicina ai grandi della filosofia. La specializzazione in campo filosofico è depauperamento della filosofia che per suo statuto è disciplina olistica, capace di avere una visione generale per coglierne le connessioni logiche, le cesure ed astrarne il senso. Senza l’abitudine a pensare non vi è essere umano, ma solo un simulacro di esso. Filosofare è un viaggio, in cui si può naufragare o approdare alla verità per ricostruire percorsi di senso, altrimenti si affonda nella palude dell’immanenza. Non l’ho conosciuto di persona, ma dai suoi testi traspare la sofferenza di colui che constata quotidianamente come l’umanità si disperda nelle paludi delle mercificazioni. Il suo lavoro di ricerca è stato finalizzato ad uscire dalla tempesta del nichilismo economicistico. Hegeliano per preparazione e convinzione, ha scelto il percorso più difficile. Ovvero dinanzi ad un mondo che ha rinunciato alla metafisica, ha testimoniato la necessità del ritorno ad Hegel, non per idolatrare, ma per capire, poiché la filosofia elabora categorie ermeneutiche eterne, ma che necessitano di essere mediate con la concretezza della realtà storica. Verità e storia non sono in antitesi, ma la verità vive nella storia. L’aziendalizzazione della vita in ogni espressione, dalle istituzioni alle relazioni umane, è la prova vivente che Massimo Bontempelli ha colto il problema nella sua drammaticità, lo ha trasformato nel senso della sua vita. Dobbiamo rimetterci alla giustizia del tempo, perché autori che hanno vissuto la verità come processo logico e dimostrativo, non periranno, saranno fonte di ispirazione per studiosi e filosofi del presente e del futuro. Sembra poco credibile, i tempi ingrati i cui siamo immersi, ci insegnano che la menzogna e la chiacchiera trionfano, ma ciò malgrado l’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. È stata la sua speranza, è il messaggio che ci lascia. Si può essere eredi della sua filosofia, solo se si riprende il cammino nella verità e verso la verità.
Contro i pregiudizi La solitudine del filosofo è causata dalla sua lotta contro i pregiudizi, nel trasgredire all’ordine del discorso. Lo scientismo laicista non è scienza, ma visuale unidirezionale, pregiudizio socialmente accettato senza inquietudine mediante la derealizzazione in atto. Massimo Bontempelli ci rammenta il pericolo di un mondo senza qualità, in cui l’umano non dona la sua teleologia alla quantità: questo è causa di un infausto destino che disumanizza fino a rendere impossibile la vita. Il filosofo, dinanzi ad un pericolo tanto immenso, non può tacere. Massimo Bontempelli è stato funzionario dell’umanità, poiché ha denunciato con la profondità logica del concetto che la scienza senza metafisica è esiziale:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».[1]
La memoria dà senso alla vita ed all’impegno di coloro che ci hanno preceduto, e specialmente consolida il radicamento positivo e plastico nella storia. Affinché ciò possa essere abbiamo bisogno di maestri, Massimo Bontempelli lo è stato.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, pp. 5 6.
Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000.
L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017
A cura di) Il respiro del Novecento, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 1999
(A cura di) Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n.4, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n.5, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n.8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
«Koros perdette molti uomini stolti, perché è difficile conoscere misura quando tutto procede a gonfie vele» (vv. 693-694).
«L’hybris perdette i Magneti e Colofone e Smirne: perderà affatto anche voi, o Cirno» (vv. 1103-1104).
«Temo che l’hybris rovini codesta città, o Polipede, come rovinò i Centauri divoratori di carne cruda» (vv. 541-542).
«O Cirno, l’hybris è il primo male che Dio infligge all’uomo di cui non vuoi fare alcun conto; è l’ingordigia che genera l’hybris» (vv. 151-154).
« Cirno, il meglio che gli dèi concedono agli uomini è il senno. Il senno sa discernere i limiti d’ogni azione. Felice chi lo possiede! Vale molto più dell’hybris funesta e della miseranda avarizia» (vv. 1171-1174).
« Ma come, Zeus padre, o Cronide, la tua mente sopporta di tenere nello stesso destino gli uomini malvagi e il giusto, sia che il cuore degli uomini inclini a saggezza, sia all’hybris, persuasi ad opere indegne?» (vv. 373-380).
«Tranquillià benigna, figlia di Giustizia per cui le città fioriscono, tu che hai le chiavi supreme dei consigli e delle guerre […]. Tu che sai agire secondo dolcezza e tuttavia indirizzare con saldo procedere […]. Tu che, quando qualcuno alberghi nel cuore un risentimento amaro, contrastando alla forza degli avversari, precipiti nell’abisso l’hybris».
Pindaro, Pitiche, VIII, vv. 1-12.
Probabilmente una delle ultime odi composte da Pindaro, la Pitica VIII è dedicata al giovane lottatore Aristomene, vincitore nel 446 a.C. Apre l’inno un’invocazione alla Tranquillità personificata che regna in tempo di pace e che, in quanto figlia della Giustizia, sa opporsi alla tracotanza e, sapendo agire con dolcezza, rendere dolce la vitacon la fulgida luce della saggezza.
«Per primo l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere. La civetta di Atena inizia il suo volo sul far del crepuscolo».
W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di G. Marini, Laterza, Bari 1965.
La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità.
La sinistra che non c’è lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti utilizzati ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e riforme” contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata dalla riflessione non solo sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine ideologico. Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo. Marx aveva legato in modo indissolubile l’economicismo all’alienazione: il comunismo doveva realizzare, in primis, la liberazione dall’alienazione. Nel comunismo reale del Novecento l’alienazione era invece venuta mutando ancor più come sistema, e ciò non ammette concessioni e giustificazioni anche se le circostanze storiche avverse costringevano il proletariato di tutti i paesi (socialisti e non) a vivere in perenne difesa dai disvalori dell’Occidente e non favorivano forme di democrazia e partecipazione. Bisogna, dunque, tornare a Marx non nella forma del feticcio ideologico, ma per curvarlo al presente, per tras-formare nuclei teorici marxiani in fondamenti per il presente e per il futuro della lotta contro il nichilismo del capitalismo assoluto. In Marx, certo, vi sono contraddizioni che hanno permesso l’affermarsi dell’economicismo nella forma engelsiana. Ma la concezione dialettica della storia presente nel Marx maturo è stata trasformata da Engels nel fondamento del marxismo. La dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza, in quanto se la storia è già iscritta nelle sue leggi non bisogna che attenderne gli inevitabili sviluppi, e ciò rafforza comportamenti fatalistici minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità. Si tratta, insomma, dell’universale concreto, in cui singolare ed universale interagiscono in modo fecondo. La storia letta come successione meccanicistica di fasi, invece, insegna l’universale astratto, affermando che le leggi della storia governano il destino degli esseri umani:
«La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale, che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell’eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nell’economia dell’epoca che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un nonsenso, il beneficio un malanno, è solo un segno del fatto che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell’ordinamento sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti che sono stati scoperti debbono del pari esistere, più o meno sviluppati, negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei fatti materiali esistenti della produzione».[1]
La sinistra per rifondarsi deve rigettare l’economicismo che governa e determina il destino degli esseri umani per riportare al centro l’agire dei popoli. Ogni prassi avviene nella storia, deve confrontarsi con le circostanze, le deve mediare mediante processi concettuali, altrimenti non vi è libertà, ma solo obbedienza.
Libertà, esodo dall’economicismo, e congedo dall’ide errata di Engels
L’economicismo ha la sua visione e codificazione della libertà, la quale nel linguaggio engelsiano è capire la necessità ed adattarsi ad essa, darsi consapevolmente al corso della storia. Se la libertà è accettazione fatale della necessità, in tale concezione si cela il pericolo di un sostanziale dogmatismo che si unisce alla deresponsabilizzazione della comunità. Vi è non solo il rischio – perché ciò è accaduto e accade continuamente –, che l’abitudine all’obbedienza dell’economia ed alle sue leggi trasformi delle tendenze in atto, sempre trasformabili e discutibili, in leggi ferree che non lasciano scampo. L’economia condiziona le idee e la sovrastruttura, ma l’essere umano può pensare autonomamente, può deviare il corso della storia, specialmente nelle circostanze storiche attuali, in cui vi sono potenzialità di trasformazione che soltanto l’economicismo e l’abitudine alla sudditanza impediscono di concettualizzare. La nuova sinistra deve rielaborare il concetto di libertà fondato sulla partecipazione e sulla mediazione collettiva delle contingenze storiche dalle quali è possibile far emergere un mondo nuovo. Senza esodo dall’economicismo non vi potrà essere la rinascita della sinistra. In Engels la libertà è semplicemente conoscenza delle leggi della storia. Da questa concezione dobbiamo congedarci, anche se non dal pensatore, il quale è sempre motivo di confronto comparativo e critico:
«La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un passo verso la libertà».[2]
La violenza e la sterilizzazione della storia
Nella genealogia della proprietà privata Engels rileva che la genesi è solo nello sviluppo dell’economia e nel modo di produzione e distribuzione, esclude che essa possa avere come causa principale la violenza. L’economia rapace è già violenza e non semplicemente attività di produzione e distribuzione: lo constatiamo direttamente nella contemporaneità. La storia è svolta dagli uomini e dalle donne e non possiamo escludere che comportamenti non strettamente razionali possano aver determinato “un effetto sdoppiamento” ovvero un cambio di binario improvviso da processi che si ritenevano, per abitudine o condizionamento inevitabili, per cui trasformare le ipotesi storiche in leggi positive è rischioso oltre che semplicistico. Nella storia agiscono le leggi dell’economia, ma anche le passioni e le idiosincrasie degli esseri umani. La struttura economica è fondamentale, ma non si possono escludere altre variabili che possono determinare deviazioni virtuose o nefaste. La storia è il mondo degli esseri umani, riflette la complessità dinamica della psiche umana e dei suoi intrecci relazionali.
Ridurre la storia e la comprensione della stessa a poche variabili significa sterilizzarla dalla complessità della psiche-coscienza umana. Ciò la rende forse più gestibile, ma certamente meno vera. In ogni grande evento umano dobbiamo ammettere la presenza di ombre che sfuggono alla concettualizzazione e che contribuiscono alla storia. Senza tale consapevolezza, vi è il rischio di far fallire anche grandi speranze e potenzialità, poiché la soglia di controllo e mediazione razionale inevitabilmente si abbassa:
«In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio, arriviamo necessariamente all’attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione dell’altra classe, che costituisce l’enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati, arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l’odierna anarchia della produzione. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La “proprietà fondata sulla violenza” si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose».[3]
Engels risponde qui “alla spacconata” di Dühring, secondo cui è la violenza l’origine della proprietà privata, ma non possiamo escludere in linea teorica la possibilità che la proprietà privata sia l’effetto di un atto di violenza e non di leggi economiche. Il passato ci è dato nella forma di ipotesi, ed attraverso la proiezione del presente con la sua razionalità sul corso degli eventi storici.
Il caso Venerdì: servaggio per fini economici Engels esclude dalla storia le componenti narcisistiche, il piacere dell’asservimento le quali sono parte della natura umana e che necessitano di essere educate e sublimate. Non tutto, insomma, è spiegabile con le leggi dell’economia:
«Inoltre, se per un istante ammettiamo che Dühring abbia ragione nel dire che tutta la storia che sinora si è svolta si possa ridurre all’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo, con ciò siamo ancora molto lontani dall’aver toccato il fondo della cosa. Ciò che anzitutto ci si chiede è invece come Robinson sia arrivato ad asservire Venerdì. Per il semplice piacere di asservirlo? Assolutamente no! Vediamo invece che Venerdì “come schiavo o semplice strumento viene costretto a servigi economici e precisamente come strumento viene anche mantenuto”. Robinson ha asservito Venerdì solo perché Venerdì lavori a profitto di Robinson. E come può Robinson trarre un profitto per sé dal lavoro di Venerdì? Solo per il fatto che Venerdì produce col suo lavoro più mezzi di sussistenza di quanto gliene debba dare Robinson perché resti atto al lavoro. Robinson quindi, contrariamente all’esplicita prescrizione di Dühring, “non ha preso per se stesso come punto di partenza” il “raggruppamento politico” sorto con l’asservimento di Venerdì, “ma lo ha considerato esclusivamente come un mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare”, ed ora veda egli stesso il modo di sbrigarsela col suo signore e padrone Dühring. L’esempio puerile che Dühring ha inventato espressamente per dimostrare che la violenza è il “fatto fondamentale della storia”, dimostra solo che la violenza è solo il mezzo e che il fine invece è il vantaggio economico. Quanto il fine è “più fondamentale” del mezzo che si impiega per raggiungerlo, tanto più fondamentale è nella storia il fatto economico del rapporto, di fronte al lato politico. L’esempio prova dunque precisamente il contrario di ciò che doveva provare. E come per Robinson e Venerdì, così è per tutti i casi di dominio e servitù che si sono avuti sinora. Il soggiogamento è stato sempre, per usare l’elegante modo di esprimersi di Dühring, un “mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare” (preso questo procacciarsi da mangiare nel senso più lato), ma mai e in nessun luogo un raggruppamento politico instaurato “per amore del raggruppamento politico stesso”. Bisogna essere Dühring per poter pensare che nello stato le imposte siano solo “effetti di second’ordine” o che il raggruppamento politico odierno di borghesia dominante e proletariato dominato esiste “per amore del raggruppamento politico stesso” e non in vista del “fine di procurarsi da mangiare” della borghesia dominante, cioè in vista del profitto e dell’accumulazione del capitale».[4]
Il rapporto tra Robinson e Venerdì per Engels si è configurato nella forma di servaggio per fini economici; mancando questa circostanza, la sottomissione non si sarebbe realizzata: si trasforma, in tal modo, una possibilità in necessità. Venerdì e Robinson potevano anche collaborare, o lo stesso Venerdì avrebbe potuto rifiutare la condizione di servo innescando dinamiche nuove nel potenziale padrone. La soluzione più facile e semplice è il dominio, e non va resa inevitabile. La nuova sinistra dovrà porre al centro, una volta liberatasi dall’economicismo, che le circostanze storiche donano una serie di potenzialità, e spetta agli esseri umani decidere quale portare in atto. Si tratta di un’operazione sostanziale senza la quale si rischia di restare nella palude dell’economicismo nichilistico.
Salvatore Bravo
[1] F. Engels, Anti-Dühring, Terza sezione: Socialismo II. Elementi teorici da Archivio internet Marx-Engels. [2]Ibidem, Prima sezione: Filosofia XI. Morale e diritto. Libertà e necessità. [3]Ibidem, Seconda sezione: Economia II. Teoria della violenza. [4]Ibidem, Seconda sezione: Economia II. Teoria della violenza.
O voi, uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta di ciò che mi fa apparire a voi così. Il mio cuore e il mio animo fin dall’infanzia erano inclini al delicato sentimento della benevolenza e sono sempre stato disposto a compiere azioni generose. Considerate, però, che da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti. Di anno in anno le mie speranze di guarire sono state gradualmente frustrate, ed alla fine sono stato costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica (la cui guarigione richiederà forse anni o sarà del tutto impossibile). Pur essendo di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato allora ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza della debolezza del mio udito. Tuttavia non mi riusciva di dire alla gente: “Parlate più forte, gridate, perché sono sordo”. Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso, che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini e che in me un tempo raggiungeva una grado di perfezione massima, un grado di perfezione quale pochi nella mia professione sicuramente posseggono, o hanno mai posseduto. Tali esperienza mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza – davvero misera, dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione. No, non posso farlo; perdonatemi perciò se talora mi vedrete stare in disparte dalla vostra compagnia, che un tempo invece mi era caro ricercare. La mia sventura mi fa doppiamente soffrire perché mi porta ad essere frainteso. Per me non può esservi sollievo nella compagnia degli uomini, non possono esserci conversazioni elevate, confidenze reciproche. Costretto a vivere completamente solo, posso entrare furtivamente in società solo quando lo richiedono le necessità più impellenti; debbo vivere come un proscritto. Se sto in compagnia vengo sopraffatto da un’ansietà cocente, dalla paura di correre il rischio che si noti il mio stato. E così è stato anche in questi sei mesi che ho trascorso in campagna. Invitandomi a risparmiare il più possibile il mio udito, quell’assennata persona del mio medico ha più o meno incoraggiato la mia attuale disposizione naturale, sebbene talvolta, sedotto dal desiderio di compagnia, mi sia lasciato tentare a ricercarla. Ma quale umiliazione ho provato quando qualcuno, vicino a me, udiva il suono di un flauto in lontananza ed io non udivo niente, o udiva il canto i un pastore ed io nulla udivo. Tali esperienza mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza – davvero misera, dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione. Pazienza. Mi dicono che questa è la virtù che adesso devo scegliermi come guida; e adesso io la posseggo. Duratura deve essere, io spero, la mia risoluzione di resistere sino alla fine, finché alle Parche inesorabili piacerà spezzare il filo; forse il mio stato migliorerà, forse no, ad ogni modo io, ora, sono rassegnato. Essere costretti a diventare filosofi ad appena 28 anni non è davvero una cosa facile e per l’artista è più difficile che per chiunque altro. Dio onnipotente, che mi guardi fino in fondo all’anima, [che] vedi nel mio cuore e sai che esso è colmo di amore per l’umanità e del desiderio di bene operare. O uomini, se un giorno leggerete queste mie parole, ricordate che mi avete fato torto; e l’infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti questi ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni. E voi, fratelli miei, Carl e Johann, dopo la mia morte, se prof. Schmidt sarà ancora in vita, pregatelo in mio nome di fare una descrizione della mia infermità e allegate al suo documento questo mio scritto, in modo che, almeno dopo la mia morte, il mondo ed io possiamo riconciliarci, per quanto possibile – nello stesso tempo vi dichiaro qui tutti e due eredi del mio piccolo patrimonio (se possiamo chiamarlo così) – dividetelo giustamente, andate d’accordo e aiutatevi reciprocamente. Il male che mi avete fatto, voi lo sapete, vi è stato perdonato da lungo tempo. Ringrazio ancora in maniera particolare te, fratello Carl, per l’affetto che mi hai dimostrato in questi ultimi anni. Il mio augurio è che la vostra vita sia più serena e più scevra da preoccupazioni della mia. Raccomandate ai vostri figli di essere virtuosi; perché soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza. È stata la virtù che mi ha sostenuto nella sofferenza. Io debbo ad essa, oltre che alla mia arte, se non ho messo fine alla mia vita col suicidio State bene e amatevi – Ringrazio tutti i miei amici, in particolare il Principe Lichnowsky e il professor Schmidt. Vorrei che gli strumenti del principe L venissero custoditi da uno di voi, purché ciò non conduca ad un litigio tra di voi. Qualora non possano servire ad uno scopo più proficuo, vendeteli pure; quanto sarò lieto, se potrò esservi utile anche nella tomba – Ebbene, questo è tutto. Vado con gioia incontro alla Morte – se essa venisse prima che io abbia avuto la possibilità di sviluppare tutte le mie qualità artistiche, allora, malgrado la durezza del mio destino, giungerebbe troppo presto; e indubbiamente mi piacerebbe ritardarne la venuta – Sarei però contento anche così; non mi libererebbe essa forse da uno stato di sofferenza senza fine? Vieni dunque, Morte, quando tu vuoi, io ti verrò incontro coraggiosamente – Addio, non dimenticatemi del tutto, dopo la mia morte. Io merito di essere ricordato da voi, perché nella mia vita ho spesso pensato a voi, e ho cercato di rendervi felici – Siate felici.
Heiligenstadt, 6 ottobre 1802
Ludwig van Beethoven
L’autografo, ritrovato da Anton Schindler fra le carte di Beethoven e attualmente conservato presso la Stadtbibliothek di Amburgo, fu pubblicato per la prima volta il 17 ottobre 1827 sulla “Allgemeine Musikalische Zeitung” di Lipsia. Beethoven soggiornò a Heiligenstadt (un sobborgo di Vienna) non solo per vari mesi del 1802, ma anche successivamente (estati del 1807, 1808 e 1817). La traduzione del documento è tratta da Le lettere di Beethoven (a cura di E. Anderson, ILTE, Torino 1968.
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