Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) – Ciò che è l’educazione per il singolo uomo, è la rivelazione per l’intero genere umano. A costituire il valore dell’uomo è non la verità di cui chicchessia sia in possesso, o pretenda di esserlo, bensì l’impegno sincero che l’uomo ha profuso per scoprirla. È attraverso la ricerca della verità, e non col possesso di essa, che le sue forze si fanno più grandi.

Gotthold E. Lessing 01

Ciò che è l’educazione per il singolo uomo,

è la rivelazione per l’intero genere umano.

Gotthold E. Lessing, L’educazione del genere umano, a cura di Luciano Canfora, Postfazione di Angelo Semeraro, Sellerio, Palermo 1997.

***

«A costituire il valore dell’uomo è non la verità di cui chicchessia sia in possesso, o pretenda di esserlo, bensì l’impegno sincero che l’uomo ha profuso per scoprirla. È attraverso la ricerca della verità, e non col possesso di essa, che le sue forze si fanno più grandi, e solo in questo consiste la sua sempre progrediente perfezione».

Gotthold E. Lessing, Eine Duplik.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Johann Gottfried Herder (1744-1803) – Se la filosofia deve servire agli uomini, deve fare dell’uomo il suo fulcro. Umanità è il carattere della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente.

Herder Johann Gottfried 01
Se la filosofia deve servire agli uomini, deve fare dell’uomo il suo fulcro.
Che cosa è rappresentabile attraverso l’uomo?
Tutto. La natura, la società umana, l’umanità.

Johann Gottfried Herder

 

Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) e, il suo grande capolavoro, le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791).

***

«Il mio cammino è il percorso dell’universo: per questo per me brilla ogni stella, per questo risuona per me, nei concetti spirituali e nelle relazioni, l’armonia degli astri».

Johann G. Herder, Sulla metempsicosi.

***

Il sentimento è la misura della nostra sensibilità; la vera origine del vero, del buono, del bello.

Johann G. Herder, Studi e progetti.

«Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci è innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità».

Johann G. Herder, Lettere per il promuovimento dell’umanità

Opere

Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) e, il suo grande capolavoro, le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791).

  • Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Torino, Einaudi, 1971
  • Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli, 1971
  • Giornale di viaggio 1769, Milano, Spirali, 1984
  • La pietra grezza – I dialoghi per massoni di Lessing e Herder, traduzione di Teresina Zemella, Milano, 1984
  • Ernst e Falk Dialoghi per liberi muratori, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984
  • Dialogo intorno a una società invisibile-visibile, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984
  • Fama Fraternitatis – Sullo scopo della Framassoneria, come essa appare dall’esterno, Milano, 1984
  • L’anello del sigillo di Salomone – Una continuazione del precedente dialogo, Milano, Cisalpino Goliardica, 1984,
  • Dio, Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, Milano, Franco Angeli, 1992
  • Metacritica: passi scelti, Roma, Editori Riuniti, 1993
  • Saggio sull’origine del linguaggio, Parma, Pratiche Editrice, 1993
  • Plastica, Palermo, Aesthetica, 1994
  • Dialogo su una società invisibile-visibile, Milano, Bompiani, 2014
  • Massoni, Milano, Bompiani, 2014
  • Fama Fraternitatis o Sullo scopo della Libera Muratoria, come essa appare dall’esterno, Milano, Bompiani, 2014.
  • L’anello con sigillo di Salomone, Milano, Bompiani, 2014
  • Iduna, o il pomo del ringiovanimento, Pisa, ETS, 2019.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.

Aristotele, la prima origine

«Natura di cose altro non è che nascimento di esse».

G.B. Vico, La Scienza nuova,  I, sez. 2, XIV.

«In qualunque campo
si raggiungerebbe la migliore visione della realtà,
se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo
e fin dalla prima origine».

Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arnold Schönberg (1874-1961) – Tendiamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione sovrana. Uno dei compiti più nobili della teoria è di risvegliare l’amore per il passato e di aprire, nello stesso tempo, lo sguardo verso il futuro.

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Manuale di armonia, I

Manuale di armonia, I


Manuale di armonia, II

Manuale di armonia, II

«Credo […] che il nuovo sia quanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente e irresistibilmente con il nostro essere più interiore, così come tendiamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione sovrana, a noi ancora ignota, dal momento che tutto il nostro essere associa ad essa le sue speranze. Forse questo futuro è uno stadio d’evoluzione superiore del nostro genere in cui si adempie quello struggimento che oggi non ci dà pace […]: il futuro reca con sé il nuovo, e per questo il nuovo è per noi così spesso e a ragione identico al bello ed al buono».

Arnold Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, 1963, voI. II, p.302

«L’impulso più nobile, quello della conoscenza, ci impone il dovere della ricerca; e una erronea dottrina che sia frutto di una onesta ricerca sta sempre più in alto della sicurezza contemplativa di chi la rinnega, perché crede di sapere senza aver cercato di persona. È addirittura nostro dovere meditare continuamente sulle cause misteriose di ogni risultato artistico, senza mai stancarci di cominciare da principio, sempre osservando e sempre cercando un nostro ordine […].
Uno dei compiti più nobili della teoria è di risvegliare l’amore per il passato e di aprire, nello stesso tempo, lo sguardo verso il futuro: in tal modo essa può essere storica, stabilendo legami tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che presumibilmente sarà. Lo storico può svolgere un compito fecondo quando presenta non delle date ma una concezione della storia, e quando non si limita ad enumerare, ma si adopera a leggere nel passato il futuro. […]
Abbiamo il diritto e l’obbligo di dubitare, ma farsi indipendenti dall’istinto è difficile quanto pericoloso, perché accanto alle cose giuste e sbagliate, accanto alle esperienze e alle osservazioni dei nostri padri, accanto a ciò che noi dobbiamo alla loro e alla nostra tradizione, abbiamo forse nell’istinto una capacità in divenire, che è la conoscenza del futuro; e forse ne possediamo anche altre, di cui l’uomo acquisterà un giorno coscienza, e che oggi può al massimo presentire e intravedere senza poterle però mettere in azione».

Arnold Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, 1980.

Arnold Schönberg, Autoritratto, 1910

A. Schônberg, Autoritratto, 1910

CPG5XE Schoenberg, Arnold 13.9.1874 - 13.6.1951, Austrian composer, half length, writing, at the blackboard, writing notes, male, man,

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Trattato di Armonia

Trattato di Armonia


Funzioni strutturali dell'armonia

Funzioni strutturali dell’armonia



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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J. W. Goethe (1749-1832) – Possiamo e dobbiamo godere delle vere forze attive della vita terrena. Quanto più siamo aperti a questi godimenti, tanto più ci sentiamo felici. Se non vi partecipiamo, si manifesta la più grande malattia: considerare la vita come un peso nauseante.

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«Ogni piacere della vita è fondato sopra un regolare ritorno delle cose del mondo esterno. L’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni, dei fiori e dei frutti, e di tutto quello che ci si presenta da un’epoca all’altra, perché noi possiamo e dobbiamo goderlo, sono le vere forze attive della vita terrena.
Quanto più siamo aperti a questi godimenti, tanto più ci sentiamo felici; ma se la varietà di questi fenomeni si alterna davanti a noi senza che vi partecipiamo, se non siamo sensibili a tante graziose profferte, allora si manifesta il più grande male, la più grande malattia, si considera la vita come un peso nauseante»

Johann Wolfgang Goethe, Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit (1808-1831), libro XIII [trad. it. Poesia e verità, in ID., Opere, a cura di L. Mazzucchetti, 5 voll., Sansoni, Firenze 1963, vol. I, p. 1138].

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Non si può chiedere al fisico di essere filosofo; ma ci si può attendere da esso che abbia sufficiente formazione filosofica
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Qualunque sogno tu possa sognare, comincia ora.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Per non rinunciare alla nostra personalità, molte cose che sono in nostro sicuro possesso interiore non dobbiamo esteriorizzarle.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – La mente deve essere addestrata, calzata e stretta in stivali spagnoli, perché s’incammini con prudenza sulle vie del pensiero, e non sfavilli come un fuoco fatuo.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questo cuore è sempre costante, turgido come il più giovanile fiore. Io non voglio perderti mai! L’amore rende l’amore più forte. La vita è l’amore, e lo spirito è la vita della vita.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Chi è nell’errore vuol supplire con violenza a ciò che gli manca in verità e forza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

Theodor Ludwig Adorno 04
Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

«La convenzionalizzazione della psicanalisi determina la sua propria castrazione […]. L’ultimo grande teorema dell’autocritica borghese è diventato un mezzo per assolutizzare, nella sua ultima fase, l’alienazione borghese, e per vanificare anche il sospetto dell’antichissima ferita, in cui si cela la speranza di qualcosa di meglio nel futuro».

T.L.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, 1954.


È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.


 

La trasformazione dell’ambiente, di cui abbiamo estrapolato alcuni esempi che tenevano già conto delle rispettive implicazioni psicologiche, rimandano a un nuovo tipo umano in corso di formazione. La si è denominata con espressione felice radio-generation, generazione radiofonica.
È il tipo dell’uomo la cui essenza è definita dall’incapacità di compiere esperienze personali, un uomo che si lascia imbandire le esperienze dall’apparato sociale, fattosi strapotente e impenetrabile, e che proprio per questo non riesce a spingersi fino allo stadio della formazione dell’io, fino alla «persona».
Secondo le teorie della psicanalisi ortodossa un tipo umano che fallisce a tal punto nella formazione dell’io sarebbe da classificare come nevrotico. Il concetto di nevrosi, però, implica determinati conflitti con la realtà. Dal momento che però la generazione radiofonica si priva della possibilità di formarsi un io proprio, adeguandosi passivamente alla realtà, e dal momento che proprio in virtù della mancanza di un «io» essa sembra integrarsi senza alcun conflitto nella realtà, il concetto di nevrosi non può essere applicato senza alcune riserve.
Se tutti costoro sono malati – e ci sono ottimi motivi per crederlo – essi non sono in ogni caso più malati della società in cui vivono. Al tempo stesso è dalla loro conformazione che dobbiamo partire per tentare di cambiare le cose.
Abbiamo ragione di credere che l’atrofizzazione si accompagni alla liberazione di alcune facoltà che mettono queste persone in grado di operate trasformazioni che i vecchi «individui» non avrebbero mai saputo realizzare.
L’apertura di una breccia nella parete monadologica che nell’era liberale imprigionava ogni individuo in se stesso è motivo di grandi speranze. La generazione radiofonica è stata definita «bidimensionale». La mancanza di continuità nell’esperienza rende loro quasi impossibile provare felicità e dolore.

Nessuna felicità, perché essa si dà soltanto dove c’è il sogno, ed essi non sanno più sognare.
Sono pressoché incapaci di concepire scopi che vadano al di là del loro ambito d’azione abituale, e tali da trascendere l’adattamento alle sue condizioni.
Felicità significa per loro adeguarsi, poter fare quello che fanno tutti, fare ancora una volta quello che fanno tutti. […]
Vedono il mondo così com’è, ma a costo di non poterlo più vedere come potrebbe essere. Per questo sono carenti anche dal punto di vista del dolore. Sono «induriti» in senso fisico e psicologico.
La freddezza è uno dei loro tratti più spiccati: sono freddi nei confronti del dolore altrui, ma anche nei confronti di se stessi.
[…] A questa freddezza risponde una complicità segreta con le cose, alle quali si cerca di assimilarsi. […] Il mondo delle cose diventa il sostituto delle immagini. Professano la religione dell’automobile. Il rapporto con i prodotti della tecnologia mette capo a una quanto mai curiosa mescolanza tra capacità di improvvisazione e obbedienza, tra «iniziativa» autonoma (mentalità da truppe di assalto) e rinuncia a un pensiero autonomo, una miscela che racchiude in sé la possibilità di entrambi gli estremi.
[…] Pensare di più, cioè spingersi per mezzo del pensiero al di là delle esigenze immediate poste dall’ambiente circostante, equivale oggi per la maggior parte degli individui a turbare quel processo di adattamento che requisisce la totalità delle loro energie psichiche.
Pensare di più significa ormai di per sé mettere a rischio le proprie chance di carriera, se non addirittura la propria immediata sicurezza.
Al tempo stesso, però, la perdita di ogni illusione intorno alla realtà, la quantificazione dei processi lavorativi che in teoria può consentire a ciascuno di svolgere qualunque mansione, e la relativa immediatezza con la quale le forze della società si affermano fanno sì che proprio il mondo oggettivo delle cose venga incontro a quella conoscenza che esso contemporaneamente reprime.
Quegli stessi uomini che si vietano il pensiero (e comportamenti affini come leggere libri, discutere di problemi teorici, ecc.) si sono fatti «scaltriti» e non si lasciano più abbindolare da nessuno.
Questa contraddizione ci sembra delimitare il problema veramente centrale di un’educazione riflessiva nell’attuale fase storica.

 

Theodor Ludwig Adorno, La crisi dell’individuo, a cura di Italo Testa, Diabasis, 2010.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) – A mesure que la possession du vivre est plus courte, il me la fault rendre plus profonde et plus pleine.

Michel Eyquem de Montaigne 01

«A mesure que la possession du vivre est plus courte,

il me la fault rendre plus profonde et plus pleine».

Montaigne, Essais, III, 13: De l’experience.

Frontespizio dell’edizione originale 1588, Prima ed. it. 1634
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ludwig Feuerbach (1804-1872) – Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita. Solo il fine tiene distante il Nulla. Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità. In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza. In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.

Feuerbach Ludwig 01

Senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita.
Solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla.
Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti.
Solo il Nulla è privo di limite

Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione.
Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto.
La vita stessa, in sé e per sé, in quanto Essere pieno di significato
e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale
.

Ogni istante della vita è Essere realizzato.
Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità.

Un Essere indifferente non è nient’altro che un semplice Essere temporale.
È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo.
Ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.

 

Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
È azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, non colui che sonnecchia.

In quanto ente che ama, tu sei nell’amore.
In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza.

In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.
In quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa.

«[…] se due oppure alcuni si eguagliano nel fatto di contenere la stessa vita, allora sempre soltanto uno di essi sarà necessario e non sarà invano, poiché di due cose che sono perfettamente eguali una è priva di fine. Se io sapessi che già una volta sono esistito sulla Terra, che vi è stato un secondo ente del tutto identico a me, subito mi precipiterei nell’abisso del Nulla, nella persuasione di essere un ente privo di fine; non potrei sopportare questo orrendo scherno e questo ghigno satanico verso me stesso. Infatti, senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale, il semplicemente plurale, la ripetizione duplice [Zweimal], il doppio; soltanto nella mia particolarità, nella mia determinatezza, nel mio differenziarmi risiede il fondamento, il fine, la ragione del mio Esserci.
Una cosa ha bisogno di esistere solo una volta; se esiste una seconda volta in maniera del tutto identica, allora è priva di fine.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita; è esclusivamente attraverso questo condimento che l’Esserci e la vita acquistano sapore; ma l’Esserci e la vita hanno condimento e sapore soltanto se sono una volta sola.
Se la Terra avesse tra le stelle un fratello tanto eguale, un tale alter ego, piena di collera per questo suo Esserci privo di sapore e di gusto si precipiterebbe, senza dubbio, nel baratro del Nulla; infatti solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla. […] È certamente indubitabile che si possano rappresentare, cioè che si possano immaginare, enti superiori, poiché l’immaginazione è, appunto, priva di confini e perciò priva di ragione; ma se questi enti immaginati esistano in altro luogo che non nell’immaginazione, e se questi immaginati enti superiori siano effettivamente superiori, è una questione alla quale senza dubbio si deve rispondere negativamente, ove si seguano i limiti e le leggi che la realtà effettiva, la ragione e la verità prescrivono. Infatti quella immaginazione non è appunto nient’altro che una immaginazione e perciò, tanto nelle sue conseguenze quanto nel suo fondamento, priva di ragione. Se, infatti, si oltrepassa l’uomo, se si oltrepassa l’effettivo confine dell’ente vivente individuale, allora ogni confine che viene posto è un confine assunto solo arbitrariamente, un confine solo immaginato» (pp. 91-92).

«Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti […]. Essere, determinatezza, limite sono posti contemporaneamente, l’un con l’altro; solo il Nulla è privo di limite. […] V’è soltanto un’arma contro il Nulla, e questa arma è il confine; esso è l’unico punto d’arresto di una cosa, la trincea del suo Essere. Il limite, infatti, non è un qualcosa di esterno […]». (p. 101)

«[…] l’indifferenza o la non-indifferenza d’una cosa dipende esclusivamente dalla sua mancanza di contenuto o dal suo contenuto. Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione. […] Essere immortale vuol dire, in verità, Essere-qualcosa, poiché con il Qualcosa è superata la mancanza di significato, con il superamento della mancanza di significato è superata l’indifferenza e la casualità, e con il superamento di queste è superata la mortalità. Soltanto la peculiarità ha significato; la fine o l’assenza di fine sono senza interesse, sono privi di senso e privi di significato per la peculiarità. Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto. La fine è una negazione priva di Spirito e di intelletto, la mancanza della fine è una affermazione priva di Spirito e di intelletto. Ma la vita stessa, in sé e per sé, […], in quanto Essere pieno di significato e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale. Immortale è ciò che è fine a se stesso. Il fine di una cosa è il suo significato, il suo significato è ciò che la costituisce ed il suo valore, ciò che la costituisce e il suo contenuto, il suo contenuto sono le sue determinazioni; ma la vita è l’Essere che in sé e per sé, già in quanto Essere, ha in sé il suo valore, il suo dato costitutivo [Gehalt] ed il suo significato, che in questa sua unità con il suo significato è, dunque, fine a se stessa, e, conseguentemente, immortale.
Ogni istante della vita è Essere realizzato, di significato infinito, posto di per se stesso attraverso se stesso, soddisfatto in se stesso, pienezza conchiusa e appagata della effettualità, affermazione illimitata di se stesso; ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità, un calice che, come il calice miracoloso di Oberon, sempre si riempie ogni volta da solo. La vita è musica celeste che il sublime artista dell’universo fa magicamente apparire dallo strumento della natura. Gli stolti dicono che la vita sia un semplice e vuoto suono, che essa passi come il fiato, che si disperda come il vento.
Ma la vita è musica ed ogni istante è una melodia oppure un suono pieno, colmo di anima e ricco di Spirito. Il vento sibila nelle mie orecchie, ma è senza contenuto e significato; la sua essenza è caducità priva di essenza e di contenuto, un soffiare ed un disperdersi senza interesse, indifferente. Il suono, invece, è musica, è pienezza, è Essere pieno, fondamento di se stesso, fine, contenuto che sussiste in se stesso. Anche i suoni della musica passano, ma ciascun suono è pieno di Essere, ha significato in quanto suono; di fronte e questo significato intimo, di fronte all’anima del suono, svanisce, come un Nulla e come un qualcosa di insignificante, la caducità. Il vuoto suono è compreso solo nel flusso del passare; infatti il momento presente, nel suono, non si distingue dal momento passato e da quello futuro, ed a causa di questa uniformità priva di distinzioni, a causa di questa ripetizione dell’uno e medesimo, il suono stesso è caducità indifferente e finitudine. Al contrario, il suono in quanto istante pieno, colmo di contenuto, è un momento temporale determinato, differenziato; questa pienezza, questo contenuto, è il suo fine ed il suo significato; con questa sua differenza, con questa sua peculiarità e con questo suo contenuto svanisce l’indifferenza del suo Esserci, e con lo svanire della sua indifferenza svanisce la sua semplice temporalità, poiché l’indifferenza dell’Essere è la semplice temporalità del medesimo: un Essere indifferente non è, in verità, nient’altro che un semplice Essere temporale. Un Essere solo temporale è un Essere nel quale l’esser-presente, l’esser-futuro e l’esser-passato non si distinguono l’un dall’altro, poiché nel tempo in quanto tale non v’è alcuna differenza; il momento temporale presente, in quanto semplice momento temporale, non è né distinto né separato dal momento temporale passato. È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo. Esclusivamente attraverso la sua peculiarità il momento presente è un momento determinato, in quanto è un momento differenziato.
Ogni Qualcosa, ogni contenuto è perciò intemporale ed oltretemporale, ogni confine nel tempo è un confine, una negazione, del tempo stesso, ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.
L’eternità non è nient’altro che la pienezza, la peculiarità e la determinazione del tempo, in quanto è la negazione attiva, effettuale, del tempo nel tempo; è appunto pienezza, determinazione del tempo. Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
Ma essa è azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo, solo se nel tempo nega il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, solo colui che nell’infelicità nega e sconfigge l’infelicità, ma non colui che sonnecchia, aldilà dell’infelicità, nel molle grembo della Fortuna.
Il suono è suono solo per il fatto che nel passare è la negazione del passare, per il fatto che è un suono non semplicemente temporale, bensì, nella sua temporalità, un suono determinato, pieno di contenuto, negatore della temporalità medesima.
Certo, il suono è breve oppure lungo; ma non è nient’altro che breve o lungo? Certo, passa anche questa sonata stessa, in essa questi singoli suoni sono ora brevi ora lunghi; essa non viene suonata in eterno. Ma io ti domando, come chiameresti colui che, mentre la sonata viene eseguita, non ascoltasse bensì si limitasse a calcolare la durata dei suoni separatamente dal loro contenuto, e che, in questa separazione, facesse della temporalità suo proprio oggetto e, allorché la sonata fosse terminata, facesse del quarto d’ora della sua durata il predicato del suo giudizio sulla sonata medesima e, mentre gli altri, incantati dalla meraviglia del suo contenuto cercassero di designarne il significato con parole appropriate, la caratterizzasse come una sonata d’un quarto d’ora? Senza alcun dubbio troveresti il predicato “folle” ancor troppo demente per designare un individuo simile.

Come si dovrebbero allora chiamare coloro che fanno della caducità un predicato di questa vita, coloro che credono di dire qualcosa, di esprimere un giudizio sulla vita, quando dicono che è temporale, che è transitoria? Col che, nulla si dice, nulla si pensa, nulla si designa; nulla di nulla!
Come si dovrebbero chiamare coloro che fanno di ciò che è Nulla loro oggetto e che, col fare del Nulla loro oggetto, ad esso conseguentemente danno significato e realtà, in modo tale che annientano il Qualcosa, l’effettivamente effettuale, oppure lo perdono di vista?
Essi medesimi chiamano se stessi devoti, razionalisti e persino anche filosofi. Ma lascia che i morti seppelliscano i morti!
Dio è la vita, l’amore, la coscienza, lo Spirito, la natura, il tempo, lo spazio stessi, il Tutto tanto nella sua unità quanto nella sua differenza.
In quanto ente che ama, tu sei nell’amore di Dio; in quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza di Dio; in quanto ente che pensa, sei nello Spirito di Dio; in quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa, nel tempo oltre il tempo, nello spazio al di fuori dello spazio. Dio è immortale, e nell’immortale non vi è che l’immortale. Tu sei in Dio, quindi tu stesso sei immortale; la verità, infatti, vien còlta ed espressa nella verità ed in quanto verità, non nell’ opposizione ed in quanto opposizione.
Dio è la coscienza, la vita, l’essenza, ma è l’amore, in quanto amore infinito ed eterno per coloro che hanno coscienza, amore eterno per gli enti e per coloro medesimi che vivono eternamente. Oggetto dell’ eterno è, infatti, solo ciò che è eterno» (pp. 229-233).

 

Ludwig Feuberbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, a cura di Fabio Bazzani, Editori Riuniti, Roma 1997.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Il contributo di Costanzo Preve ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità.

Hegel Marx Heidegger

Costanzo Preve,
Hegel Marx Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea.
1999, pp. 64, Euro 7 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea

di Costanzo Preve

Un contributo ad una «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea alla luce del concetto di padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità

***

Il saggio di Costanzo Preve Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contemporanea si propone di analizzare alcuni aspetti fondamentali relativi al pensiero di Hegel, Marx e Heidegger, allo scopo di far luce sul problema della padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità. La decisione di “interrogare” i suddetti pensatori sul problema in questione non è arbitraria, poiché si fonda sull’idea che essi «parlino in fondo della stessa cosa» (p. 6), ovvero delle contraddizioni che definiscono l’universo borghese-capitalistico – cosa che li rende, proprio per ciò, confrontabili.
Analizzando il pensiero di Hegel, Preve evidenzia che esso può essere interpretato come un grande tentativo di comprendere filosoficamente le caratteristiche e le contraddizioni della modernità – un intento implicito nella sua stessa visione della filosofia, intesa come «il proprio tempo appreso col pensiero» (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione). Esso si esprime con «il recupero positivo dell’esperienza storica del negativo» – al centro della Fenomenologia dello Spirito – da un lato, e, dall’altro, con «la salvaguardia di un orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico» (p. 13) – tema cardine della Scienza della Logica. Tali elementi, sottolinea l’autore, costituiscono la cifra della filosofia hegeliana e risultano imprescindibili per la sua comprensione. Il primo appare di fondamentale importanza per la padronanza filosofica delle contraddizioni che caratterizzano il mondo moderno, vale a dire il mondo borghese-capitalistico. Il «recupero positivo dell’esperienza storica del negativo», infatti, «legittima integralmente il conflitto sociale, le lotte di classe, i contrasti e le contraddizioni fisiologicamente presenti» (p. 21) nel suo modo di produzione, evitando tanto la riduzione a “errore” o “equivoco” di ciò che è conflittuale e contraddittorio quanto la sua ipostatizzazione; così concepito, il «negativo» non si determina affatto come «il luogo di un rovesciamento mistico o automatico nella positività», giacché «senza mediazione dialettica […] non c’è mai “rovesciamento” del negativo in positivo» (pp. 21-22). Il secondo elemento, invece, è ciò che per l’autore più consente di chiarire come il pensiero di Hegel non sia interpretabile né come una forma di storicismo né come una forma di giustificazionismo storico. Per quanto riguarda la prima, Preve fa notare come «il riconoscimento di un orizzonte trascendentale veritativo di tipo logico ed ontologico» sia radicalmente incompatibile con lo storicismo, «che si basa appunto sulla negazione di questo orizzonte» (p. 14). Per quanto concerne la seconda, egli mette in luce come la difesa di una realtà razionale entro un orizzonte trascendentale logico-ontologico ben indichi come il «reale», per Hegel, non coincida con «l’insieme di “tutto ciò che accade”», bensì con «ciò che corrisponde adeguatamente al proprio concetto razionale costruibile solo in via logica» (p. 20). In definitiva, per lo studioso, nella misura in cui il modello hegeliano di comprensione filosofica della modernità si fonda tanto sulla valorizzazione del «negativo» nella storia quanto sull’assunzione di un orizzonte trascendentale veritativo ad un tempo logico e ontologico, si deve riconoscere che la filosofia di Hegel non è affatto “superata”. Lungi dall’appartenere ad un orizzonte filosofico a noi estraneo, Hegel appare come un pensatore «pienamente ed integralmente contemporaneo» (p. 21).

Il pensiero di Marx, secondo Preve, segna un vero e proprio “progresso scientifico” rispetto a quello di Hegel. In esso si dà infatti una “concretizzazione” dell’esperienza storica del «negativo», che viene identificato col modo di produzione capitalistico. Con «la costruzione categoriale del concetto di modo di produzione capitalistico», spiega l’autore, il «negativo» positivamente recuperato da Hegel «finalmente si determina, si storicizza, prende forma compiuta e coerente, cessa di essere un magma amorfo in cui si fa faticosamente strada la coscienza nel suo cammino verso l’autocoscienza» (p. 26). L’identificazione del «negativo» col capitalismo è all’origine di un’altra identificazione marxiana: quella del «positivo», cioè di ciò che scaturisce dal rovesciamento storico-dialettico del «negativo», col comunismo, che appare non solo come una possibilità, ma anche come una necessità. E tuttavia, allo stesso tempo, la filosofia di Marx, rispetto a quella hegeliana, rappresenta per Preve un “regresso filosofico”, determinato dal rifiuto di salvaguardare quell’orizzonte logico-ontologico che Hegel ha avuto il merito di ri-porre al centro del pensiero. Tale negazione è dovuta principalmente a due ragioni: «sul piano congiunturale, [Marx] ha modellato il proprio progetto anticapitalistico all’interno di una visione antireligiosa, e respingeva dunque la salvaguardia di un orizzonte trascendentale come un aspetto teorico di una visione conservatrice, moderata e clericale della vita» (p. 28); «sul piano strutturale, egli riteneva evidentemente del tutto superfluo e pleonastico qualunque riferimento trascendentale, perché pensava che l’immanenza sociale fosse già integralmente portatrice del rovesciamento della Natura in Spirito e dello Spirito in Natura, cioè del rovesciamento della necessità economica anonima in libertà individuale comunista» (ivi). Un’abolizione siffatta, rileva l’autore, non costituisce una forma di “liberazione” da concetti o dogmi di marca teologica, poiché implica «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo sociale» (ivi), che rinviene il proprio punto di approdo nello storicismo, nel positivismo e nel nichilismo.

Per quanto riguarda Heidegger, Preve afferma che egli può essere ritenuto a buon diritto «il più noto e geniale successore di Hegel nel Novecento» (p. 34) nella misura in cui, da un lato, recupera, sia pur in modo diverso, l’orizzonte trascendentale di tipo logico ed ontologico che domina la filosofia hegeliana e, dall’altro, concepisce la storia della filosofia occidentale come una «storia unitaria delle avventure della metafisica»: una rappresentazione che, sebbene assuma un significato del tutto differente, si configura di fatto come la «prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni causali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche» (p. 36). Non mancano neppure legami con Marx: infatti, «sebbene egli non parli mai di “modo di produzione capitalistico”, probabilmente a causa dei suoi pregiudizi politici ed ideologici verso Marx ed il marxismo», con l’elaborazione del concetto di «tecnica», Heidegger «di fatto descrive lo spossessamento integrale dell’uomo sui risultati delle sue azioni che risulta dai meccanismi anonimi ed impersonali di riproduzione dei rapporti economici capitalistici» (p. 35). È in ogni caso indubbio che il suo pensiero manifesta «una diminuzione della padronanza concettuale sul mondo rispetto a quanto avveniva in Hegel ed in Marx» (p. 44). Il recupero dell’orizzonte trascendentale logico-ontologico da parte di Heidegger ha un senso del tutto diverso da quello di Hegel. Infatti, se il pensiero di quest’ultimo avanza in un certo senso l’esigenza di un “ringiovanimento del mondo”, che solo la padronanza filosofica delle contraddizioni della modernità rende possibile, la filosofia di Heidegger riflette invece l’«impasse tragica dei processi di trasformazione razionale del mondo» in cui sembra trovarsi l’uomo contemporaneo: «una impasse filosoficamente trasfigurata […] nelle analisi della triade metafisica-tecnica-antropologismo» (p. 43).

Il presente studio di Costanzo Preve ha il merito di avviare un confronto con questi giganti della filosofia contemporanea prescindendo sia dagli “-ismi” cui il loro pensiero è solitamente ricondotto, sia da ogni “filtro” ideologico finalizzato a connotarli politicamente. Si tratta di un’operazione che dà luogo ad un autentico mutamento prospettico, in virtù del quale si delinea non solo una diversa rappresentazione della storia del pensiero contemporaneo, ma anche una nuova interpretazione dei singoli autori considerati, la cui grandezza e il cui valore appaiono strettamente connessi al prezioso contributo che essi offrono alla comprensione filosofica delle contraddizioni della modernità. In ogni caso, il percorso tracciato da Preve non è volto solo a delineare una diversa immagine della filosofia degli ultimi due secoli. Questo tentativo di «riscrittura integrale» della storia della filosofia contemporanea, reso possibile dall’attenzione rivolta alla padronanza concettuale delle contraddizioni del mondo moderno, non è fine a se stesso, ma costituisce per l’autore la premessa necessaria per avviare una «grande rivoluzione filosofica» (p. 51) che permetta di acquisire la padronanza delle contraddizioni del presente, ponendo sul cammino che conduce al loro superamento.

Alessandro Dignös

 

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Kalanithi (1977-2015) – Il medico ha a che fare con il nucleo dell’esistenza: lavora nel crogiolo dell’identità. La domanda non è semplicemente se vivere o morire, ma che genere di vita valga la pena di vivere.

Kalanithi Paul 01

Dopo avere letto il libro che voi state per leggere, confesso di avere provato un senso d’inadeguatezza: l’onestà e la verità che trovai in questo scritto mi tolsero il fiato.
Tenetevi pronti. Mettetevi seduti. Scoprite che suono ha il coraggio. Scoprite quanto è eroico mettersi a nudo in questo modo. Ma, soprattutto, scoprite cosa significa continuare a vivere, influenzare profondamente le vite degli altri dopo essere scomparsi, con le proprie parole.
In un mondo di comunicazioni asincrone, dove troppo spesso ci ritroviamo sprofondati in uno schermo, gli occhi fissi sugli oggetti rettangolari che vibrano nelle nostre mani, l’attenzione che si consuma nell’effimero, fermatevi e provate a entrare in dialogo con il mio giovane collega che se n’è andato, ormai senza età e immortale nella memoria.
Ascoltate Paul. Nei silenzi tra le sue parole, ascoltate quello che voi avete da dire a lui. Sta proprio lì il suo messaggio. Io l’ho colto. Spero ci riuscirete anche voi. È un dono. Ora è tempo che vi lasci soli con Paul.

dalla prefazione di  Abraham Verghese

Tu che nella morte ricerchi la vita,
Trovi che il respiro si è fatto aria.
I nuovi nomi ignoti, i vecchi svaniti:
Finché il tempo annienterà il corpo, non lo spirito.
Lettore! Fa’ di questo tempo, ora che puoi,
Un cammino verso la tua eternità.

SIR FULKE GREVILLE, Caelica 83

Qual è il significato della vita umana? O meglio, che cosa la rende significativa e degna di essere vissuta? A farsi queste domande non è un filosofo o un teologo, ma il neurochirurgo americano di origine indiana Paul Kalanithi, che a soli 37 anni, al culmine del successo professionale, deve affrontare la disperata battaglia contro un cancro in fase terminale e guardare negli occhi l’avversario che ha già sfidato tante volte in sala operatoria: la morte.
Animato fin dall’infanzia da passioni apparentemente inconciliabili (letteratura, psichiatria, filosofia, ricerca scientifica), che lo avevano portato a scegliere la neurochirurgia come facoltà chiave per conoscere l’«intreccio di cervello e coscienza» e strada maestra per «inseguire la morte, afferrarla, smascherarla», Paul vive l’esperienza soggettiva della malattia come l’occasione per cominciare a vedere le cose con quello sguardo da paziente che aveva a lungo cercato e per riflettere sul destino che ci accomuna a ogni organismo vivente che nasce, cresce e muore.
E mentre racconta il rapido decorso del tumore, accompagnato da un continuo alternarsi di consapevolezza, accettazione, paura e determinazione, ci invita a entrare nel suo universo di affetti, desideri, sogni, delusioni e speranze: la valle desertica dell’Arizona dov’è immersa Kingman, la cittadina natale, la brillante carriera accademica, l’incontro con Lucy al primo anno di medicina, il compianto collega Jeff, l’oncologa Emma che lo prende in cura, l’ambizione mai saziata di trovarsi davvero in empatia con chi soffre, e infine lo shock, dopo la diagnosi fatale.
Nel ripercorrere le ultime tracce di un’esistenza vissuta con quel coraggio che gli ha permesso di affrontare la malattia con «grazia e autenticità», come dice la moglie Lucy nel dolente e radioso epilogo, Kalanithi non cede mai all’autocommiserazione, ma ci parla del nostro essere mortali facendoci appassionare alla vita. Perché per lui, medico-letterato, la scrittura era un dono di sé, un lascito necessario, come lo è stata la figlia Cady, voluta per costruire un futuro là dove c’era solo presente, e la cui vitalità ha illuminato e riempito di gioia i suoi ultimi mesi.


 

Paul Kalanithi, neurochirurgo e scrittore, si è diplomato alla Stanford University e ha conseguito un master in storia e filosofia della scienza e della medicina alla University of Cambridge. Laureatosi cum laude alla facoltà di medicina di Yale, nel 2007 è ritornato a Stanford per completare il tirocinio di specializzazione in neurochirurgia e come titolare di una borsa di studio post-dottorato in neuroscienze, e in quel periodo ha ricevuto il più alto riconoscimento per la ricerca da parte dell’American Academy of Neurological Surgery. È morto per un cancro al polmone nel marzo 2015, all’età di 37 anni.


Prefazione

di Abraham Verghese

Mi rendo conto, mentre scrivo, che la prefazione a questo libro andrebbe considerata piuttosto come una postfazione. Quando si tratta di Paul Kalanithi, infatti, la concezione del tempo è ribaltata. Tanto per cominciare – o forse, per finire – ho conosciuto davvero Paul solo dopo la sua morte. (Abbiate pazienza.) Ho potuto conoscerlo più intimamente quando ha cessato di esistere.

Lo incontrai la prima volta a Stanford nel 2014, in un memorabile pomeriggio d’inizio febbraio. Aveva appena pubblicato un articolo sul «New York Times» dal titolo How Long Have I Got Left? (Quanto tempo mi resta?), che aveva riscosso un enorme interesse e attirato una marea di lettori. Nei giorni successivi si era diffuso in modo esponenziale. (Sono uno specialista in malattie infettive, perciò mi perdonerete se non ho scelto l’aggettivo virale come metafora.) Sulla scia di questo successo, aveva chiesto di incontrarmi per una chiacchierata, perché gli dessi qualche consiglio in merito ad agenti letterari, editor, e al processo di pubblicazione: desiderava scrivere un libro, questo libro, quello che ora avete tra le mani. Ricordo il sole che filtrava tra i rami della magnolia fuori dal mio ufficio, a illuminare la scena: Paul seduto davanti a me, le sue splendide mani esageratamente immobili, la sua folta barba da profeta, quegli occhi scuri che mi prendevano le misure. Il quadro, nella mia memoria, somiglia a un Vermeer, con quella sua nitidezza da camera oscura. Ricordo di avere pensato: «Imprimitelo nella mente», perché l’immagine che colpiva la mia retina era preziosa. E perché la diagnosi di Paul mi aveva reso consapevole della mia mortalità, oltre che della sua.

Parlammo di molte cose, quel pomeriggio. Paul era uno specializzando capo in neurochirurgia. Probabilmente le nostre strade si erano già incrociate in qualche momento, ma non ricordavamo di avere avuto pazienti in comune. Mi disse di avere conseguito una laurea di primo livello in inglese e biologia a Stanford, e di esservi rimasto per seguire un master in letteratura inglese. Parlammo del suo amore per la scrittura e la lettura, che durava da sempre. Senza dubbio avrebbe potuto benissimo diventare un professore d’inglese, e a un certo punto della sua vita, in effetti, sembrava che avrebbe preso quella strada. Poi però, proprio come il suo omonimo sulla via di Damasco, aveva sentito la chiamata. E così era diventato medico, pur continuando a coltivare il sogno di tornare alla letteratura, in qualche forma. Con un libro, magari. Un giorno. Era convinto di avere tempo… perché non avrebbe dovuto? E invece, adesso, era proprio il tempo che gli mancava.

Ricordo il suo sorriso ironico, gentile, con un accenno di malizia, benché il suo viso fosse smunto e macilento. Il cancro lo aveva messo a dura prova, ma una nuova terapia biologica aveva dato buoni risultati, consentendogli di guardare avanti, almeno un po’. Disse che mentre studiava medicina era convinto che sarebbe diventato psichiatra, ma poi si era innamorato della neurochirurgia. Era molto più di un amore per le complessità del cervello, molto più della soddisfazione di insegnare alle sue mani a compiere imprese straordinarie: il suo era un sentimento di amore e di empatia verso i malati, la loro sofferenza, e verso tutto ciò che avrebbe potuto fare per loro. Questa sua qualità credo di averla scoperta non da lui ma dai miei studenti, che erano suoi accoliti. Questa fede incrollabile nella dimensione morale del suo lavoro. Poi parlammo del fatto che stava morendo.

Dopo quell’incontro restammo in contatto via mail, ma non ci rivedemmo mai più. Non solo perché mi ritirai nel mio mondo di scadenze e responsabilità, ma anche perché sentivo il dovere di rispettare il suo tempo. Spettava a lui decidere se voleva vedermi. Sentivo che l’ultima cosa di cui aveva bisogno era l’obbligo di coltivare una nuova amicizia. Tuttavia pensavo spesso a lui, e alla moglie. Avrei voluto chiedergli se stava scrivendo. Ne aveva trovato il tempo? Per anni, pieno di impegni come medico, avevo faticato a ritagliarmi il tempo per scrivere. Avrei voluto raccontargli della volta in cui un famoso scrittore, crucciandosi per questo eterno problema, mi aveva detto: «Se fossi un neurochirurgo e annunciassi ai miei ospiti che devo lasciarli per una craniotomia d’urgenza, nessuno direbbe una parola. Ma se dicessi che devo lasciare i miei ospiti in soggiorno per salire a scrivere…». Mi domandai se Paul lo avrebbe trovato divertente. In fondo, lui poteva dire davvero che stava andando a fare una craniotomia! Era plausibile! E poi avrebbe potuto scriverne.

Mentre lavorava a questo libro, Paul pubblicò un breve saggio, davvero notevole, sulla rivista «Stanford Medicine», in un numero dedicato al concetto del tempo. C’era anche un mio pezzo, proprio accanto al suo, eppure seppi del suo contributo solo quando ebbi la rivista tra le mani. Leggendo le sue parole, colsi una seconda e più profonda traccia di qualcosa che nel saggio del «New York Times» era solo accennato: la scrittura di Paul era semplicemente straordinaria. Avrebbe potuto scrivere di una cosa qualsiasi, e il risultato sarebbe stato altrettanto potente. Ma non stava scrivendo di una cosa qualsiasi, stava scrivendo del tempo e di quello che significava per lui, in quel momento, alla luce della sua malattia. Questo rendeva tutto incredibilmente toccante.

Mi preme sottolinearlo di nuovo: la sua prosa era indimenticabile. Da quella penna stillava oro.

Rilessi il pezzo più volte, per capire come fosse riuscito a ottenere quel risultato. Innanzitutto era musicale. Aveva echi di Galway Kinnell, quasi una prosa poetica: «If one day it happens / you find yourself with someone you love / in a café at one end / of the Pont Mirabeau, at the zinc bar / where wine stands in upward opening glasses…» (Se un giorno ti capitasse / di trovarti con qualcuno che ami / in un bar in fondo / al Pont Mirabeau, al bancone zincato / dove il vino giace in calici svasati…), per citare alcuni versi del poeta statunitense, da una poesia che gli ho sentito recitare a braccio in una libreria di Iowa City. Ma c’era anche un sentore di qualcosa d’altro, un rimando a una terra antica, a un tempo in cui non esistevano ancora i banconi zincati. Qualche giorno dopo, quando ripresi in mano il suo saggio, finalmente capii: la scrittura di Paul richiamava quella di Thomas Browne. Browne aveva scritto la Religio Medici nel 1642, con una prosa arcaica in termini di linguaggio e varianti ortografiche. Quando ero un giovane medico mi ero lasciato ossessionare da quel libro, e perseveravo nella sua lettura come un contadino che affronta la palude che suo padre non è riuscito a bonificare. Era un compito futile, eppure volevo disperatamente apprenderne i segreti, lo accantonavo per la frustrazione e poi lo riprendevo, e scandagliando le parole sentivo che conteneva qualcosa per me, pur non avendone la certezza. Sentivo che mi mancava qualche ricettore fondamentale perché le lettere cantassero, svelando il loro significato. Per quanto mi sforzassi, il testo rimaneva oscuro.

Perché? vi chiederete. Perché perseveravo? A chi importava della Religio Medici?

Be’, al mio eroe William Osler importava, eccome. Osler, morto nel 1919, è stato il padre della medicina moderna. Amava quel libro. Lo teneva sul comodino. Aveva chiesto di essere sepolto con una copia della Religio Medici. Non riuscivo proprio a capire cosa ci trovasse. Dopo vari tentativi – e qualche decennio – il libro mi si era infine rivelato. (A tal proposito era tornata utile un’edizione più recente, con un’ortografia moderna.) Avevo scoperto che il trucco era leggerlo ad alta voce per non lasciarsi sfuggire il ritmo: «noi portiamo in noi le meraviglie che cerchiamo fuori di noi: C’è tutta l’Africa e i suoi prodigi, in noi; noi siamo quell’audace e avventurosa opera della natura, che chi la studia saviamente impara in un compendium ciò intorno a cui altri s’affaticano in opere diverse e infiniti volumi». Quando giungerete all’ultimo paragrafo del libro di Paul, leggetelo ad alta voce e sentirete quello stesso, lungo verso, un ritmo che proverete a scandire con il piede… ma, come con Browne, andrete fuori tempo. Mi resi conto che Paul era un Browne redivivo (o forse, considerando che l’avanzare del tempo è una nostra illusione, era Browne a essere un Kalanithi redivivo. Roba da far girare la testa).

E poi Paul morì. Presenziai al suo funerale nella chiesa di Stanford, un luogo incantevole dove vado spesso a sedermi quando è vuoto, per ammirare la luce, il silenzio, e nel quale mi sento sempre rigenerato. Era gremita per la cerimonia. Mi sedetti in disparte e ascoltai una serie di racconti commoventi e a tratti rauchi di commozione da parte dei suoi più cari amici, del suo pastore, del fratello. Sì, Paul se n’era andato, ma stranamente avevo la sensazione di cominciare a conoscerlo meglio di quanto lo conoscessi dopo quell’incontro nel mio ufficio, dopo avere letto i suoi pochi saggi. Stava prendendo forma in quelle storie raccontate nella Stanford Memorial Church, sotto la sua cupola svettante, il posto migliore in cui ricordare un uomo il cui corpo giaceva ormai nella terra e che tuttavia restava così palpabilmente vivo. Prese forma nella sua adorabile moglie e nella figlioletta, nei genitori e nei fratelli in lutto, nei volti di quella moltitudine di amici, colleghi ed ex pazienti che affollavano la chiesa; lui era lì anche più tardi, al ricevimento che si tenne all’aperto e riunì moltissime persone. I volti di tutti erano calmi, sorridenti, come se in chiesa avessero assistito a qualcosa di profondamente bello. Forse anche il mio viso era così: avevamo trovato un significato nel rituale di una funzione, nel rituale degli elogi, nelle lacrime condivise. E un ulteriore significato albergava anche in quel ricevimento, durante il quale placammo la nostra sete, nutrimmo i nostri corpi, e parlammo con perfetti estranei ai quali eravamo intimamente connessi tramite Paul.

Ma solo quando ricevetti le pagine che ora avete tra le mani, due mesi dopo la morte di Paul, sentii finalmente di conoscerlo meglio di quanto lo avrei conosciuto se avessi avuto la fortuna di chiamarlo amico. Dopo avere letto il libro che voi state per leggere, confesso di avere provato un senso d’inadeguatezza: l’onestà e la verità che trovai in questo scritto mi tolsero il fiato.

Tenetevi pronti. Mettetevi seduti. Scoprite che suono ha il coraggio. Scoprite quanto è eroico mettersi a nudo in questo modo. Ma, soprattutto, scoprite cosa significa continuare a vivere, influenzare profondamente le vite degli altri dopo essere scomparsi, con le proprie parole. In un mondo di comunicazioni asincrone, dove troppo spesso ci ritroviamo sprofondati in uno schermo, gli occhi fissi sugli oggetti rettangolari che vibrano nelle nostre mani, l’attenzione che si consuma nell’effimero, fermatevi e provate a entrare in dialogo con il mio giovane collega che se n’è andato, ormai senza età e immortale nella memoria. Ascoltate Paul. Nei silenzi tra le sue parole, ascoltate quello che voi avete da dire a lui. Sta proprio lì il suo messaggio. Io l’ho colto. Spero ci riuscirete anche voi. È un dono. Ora è tempo che vi lasci soli con Paul.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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