«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Tempo soggettivo della persona e tempo “oggettivo” della scienza, tempo della memoria e tempo del progetto, ricordo del passato ed anticipazione del futuro: si tratta di dimensioni che la filosofia, la scienza e la letteratura indagano da sempre, e che questo piccolo libro cerca di definire alla luce della riflessione filosofica. Il discorso, ad un tempo denso e lineare, viene svolto in sette brevi distinti capitoli. Nel primo (Gli enigmi del tempo) la realtà umana è indagata sotto gli aspetti della speranza, della perdita e della conservazione, con riferimento soprattutto ad Agostino e ad Aristotele. Nel secondo (Gli equivoci della scienza) è analizzato il complesso dualismo fra il tempo della fisica ed il tempo della filosofia, da Newton a Einstein e da Penrose a Prigogine. Nel terzo (Le riflessioni di Heidegger) la custodia del passato e il progetto del futuro vengono indagati alla luce del nesso heideggeriano fra futuro e morte. Nel quarto (I segreti di Platone) il pensiero del grande filosofo greco è indagato sotto l’aspetto del tempo come mobile riflesso dell’eternità. Nel quinto (Gli abissi di Hegel) il pensiero del filosofo tedesco è segnalato come il punto più alto della riflessione moderna sul tempo. Nel sesto e nel settimo (I volti del passato e Il futuro come memoria) sono tratte infine le conclusioni filosofiche del discorso storico fatto in precedenza. Il libro si segnala per la chiarezza con cui viene svolto un tema tradizionalmente complesso e difficile, ma anche per l’originalità teoretica delle sue proposte filosofiche. Esso ha dunque una doppia natura, puramente saggistica e pienamente didattica.
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Indice del volume
Introduzione
GLI ENIGMI DEL TEMPO I TEMPI DELLA SCIENZA LE RIFLESSIONI DI HEIDEGGER I SEGRETI DI PLATONE GLI ABISSI DI HEGEL I VOLTI DEL PASSATO IL FUTURO COME MEMORIA
«L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato” (Tempo e memoria, CRT-Petite plaisance, Pistoia, 1999, pag. 103).
«[…] Per te è evidente, o mio Lucilio, lo so, che nessuno può vivere sereno se non si cura della sapienza, anzi neppure in modo sopportabile; ed inoltre che la sapienza perfetta rende la vita felice, mentre anche quando è appena all’inizio la rende tollerabile. Ma ciò che è evidente bisogna rafforzarlo e con l’assidua meditazione imprimerlo più profondamente nell’animo: è più difficile mantenere i buoni propositi che farli. Devi perservare e con l’incessante applicazione accrescere le energie spirituali, finché la buona volontà non si sia trasformata in saggezza. Dunque non è affatto necessario che tu adoperi con me molte parole e molte assicurazioni: riconosco che tu hai già fatto progressi assai notevoli. So di dove scaturisce quanto mi scrivi: le tue non sono frasi false né artificiose. Tuttavia ti dirò il mio pensiero: riguardo a te già nutro buona speranza, ma non ancora una fiducia proprio salda. Vorrei che tu facessi la stessa cosa: non c’è ragione, per cui ti debba fidare tanto presto e facilmente di te stesso. Esamina la tua coscienza, scrutala da ogni parte e sta ben attento: innanzi tutto considera se hai progredito solo nella filosofia o anche nel modo di vivere.
La filosofia non è già un’arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. E non si ricorre a lei per passare con un certo diletto le giornate, perché il tempo libero non sia rattristato dalla noia: la filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi in balia delle onde attraverso i pericoli. Senza questa nessuno può vivere libero da timori e tranquillo; ad ogni istante accadono innumerevoli fatti, i quali esigono consigli che solo essa può dare […]».
Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, XVI, 1-3, a cura di Umberto Boella, UTET, Torino 1983, pp. 109-111.
«Il vero amore dovrebbe, per la sua origine, essere interamente arbitrario, e interamente casuale, e nello stesso tempo essere necessario e libero, per il suo carattere dovrebbe essere insieme determinazione e virtù, ed essere un intero e un miracolo».
Friedrich Schlegel , fr. 50 Athenaeum. In: Athenaeum 1798-1800. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, Bompiani, 2009
«Progettare significa costruire il luogo della differenza, perché ciò che è solo possibile diventi reale. In questo senso, tutta la speculazione del primo Schlegel intorno alle figure della combinazione della pluralità, e in primo luogo intorno all’arabesco, sono la definizione di questo progetto e, in questo, atopiche, vale a dire in grado di trasformare le leggi della “ragione solo ragionante”. Nel frammento 22 dell’Athenäum Schlegel affronta direttamente il problema del progetto. “Il progetto è il germe soggettivo di un oggetto in divenire”, che si caratterizza, per la sua totale soggettività e per la sua necessaria oggettività fisica e morale, in rapporto al tempo. I progetti sono infatti “frammenti dell’avvenire”. Rispetto ad essi “essenziale è la capacità di idealizzare immediatamente degli oggetti e, insieme, di realizzarli, di integrarli, e parzialmente eseguirli in sé. E siccome trascendentale è ciò che ha relazione con la connessione o separazione dell’ideale con il reale, potremmo ben dire che il senso dei frammenti e progetti è la parte trascendentale dello spirito storico”. Lo spirito storico, dunque, organizza i frammenti del passato e dell’avvenire, come il luogo decisivo della tensione fra il soggetto e l’oggetto in rapporto al tempo».
Franco Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987, p. 18.
Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, prima ed. originale Gallimard 1949 (prima tr. it. di Franco Fortini, La prima radice, Edizioni di Comunità, 1954)
«La colonizzazione ha la stessa legittimità dell’analoga pretesa di Hitler sull’Europa centrale […] la natura dell’hitlerismo consiste proprio nell’applicazione, da parte della Germania, dei metodi della conquista e della dominazione coloniali al continente europeo, e più in generale ai paesi di razza bianca. […] il male che la Germania avrebbe potuto far subire all’Europa […] è lo stesso male compiuto dalla colonizzazione, lo sradicamento [déracinement]».
«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. […] Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. […] Si ha sradicamento ogniqualvolta si abbia conquista militare […]. Persino senza conquista militare, il potere del danaro e la dominazione economica possono imporre una influenza straniera al punto da provocare la malattia dello sradicamento. Infine le relazioni sociali all’interno di uno stesso paese possono essere pericolosissimi fattori di sradicamento. Nei nostri paesi, ai giorni nostri, oltre alla conquista, ci sono due veleni che propagano questa malattia. Uno è il danaro. Il danaro distrugge le radici ovunque penetra, sostituendo ad ogni altro movente il desiderio di guadagno. Vince facilmente tutti gli altri moventi perché richiede uno sforzo di attenzione molto meno grande. Nessun’altra cosa è chiara e semplice come una cifra. […] Un secondo fattore di sradicamento è l’istruzione quale è concepita al giorno d’oggi. […] La Grecia è stata dimenticata. Col risultato di una cultura che si è sviluppata in un ambiente molto ristretto, separato dal mondo, in un’atmosfera limitata; una cultura orientata notevolmente verso la tecnica e influenzata da essa, assai tinta di pragmatismo, resa frammentaria dalla specializzazione […]. E poi il desiderio di imparare, il desiderio di verità, è divenuto rarissimo. Il prestigio della cultura si è fatto quasi esclusivamente sociale, tanto per il contadino che sogna di avere un figlio maestro o per il maestro che sogna di avere un figlio universitario, quanto per la gente degli ambienti moderni che adula gli scienziati e gli scrittori di fama».
Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, prima ed. originale Gallimard 1949 (prima tr. it. di Franco Fortini, La prima radice, Edizioni di Comunità, 1954).
All’interpassività che rafforza la gettatezza nel mondo bisogna agire nel silenzio del pensiero che diviene esodo dal pensiero unico e moltiplicatore delle resistenze.
L’interazione passiva
La prassi[1] in Aristotele è l’interazione sociale in cui il soggetto, gradualmente, vive l’esperienza della verità nella comunità, parte imprescindibile di sé. Essa si coniuga con il deliberare, con la saggezza:[2] prassi e phrònesis sono vita activa, poiché il fine di entrambe è comunitario oltre che individuale. La buona prassi, come il giusto deliberare, sono inscindibili dal vivere comunitario. La vita attiva è l’interazione tra saggezza e prassi. Il mezzo con cui – per riprodurre se stesso – l’attuale modo di produzione inibisce la prassi ed il giusto deliberare è l’interpassività. I soggetti sono in perenne attività, ma quest’ultima, in realtà, spinge verso la ripetizione di gesti automatici, la religione del vitello d’oro resta velata, occulta nei gesti meccanici la riflessione consapevole delle conseguenze dei propri atti, ogni accadimento è un evento che “sic ed simpliciter” avviene. Tutto accade, e nel contempo il modo di produzione, riproduce se stesso, il vitello d’oro, la merce ed il plusvalore attraverso i fedeli sudditi, sempre agiti, perennemente situati, i quali si percepiscono come “razza padrona”, ma in realtà sono interni ad un paradigma che impedisce il discernimento. L’essere è solo “esse=capi”, è attività del depredare; l’ontologia del saccheggio è l’unico paradigma del capitalismo assoluto. Gli enti che non sono ghermibili sono tagliati dall’orizzonte esperienziale: ogni ente non catalogabile come potenziale mezzo per il plusvalore è escluso, espulso dalla rappresentazione, la quale si autorappresenta solo ciò che è calcolabile. Non vi è spazio nell’osservazione che per l’ente da arpionare per eventuale investimento. L’homo oeconomicus non ha immaginazione empatica, pertanto il suo mondo è solo un borsino immobiliare. L’azione di conquista e consumo è l’unica attività che eternamente ritorna su se stessa per riprodursi infinitamente.
Con l’interpassività si ha l’impressione di agire, di modificare il mondo, ma in realtà si conferma il sistema capitale. Il vitello d’oro, dopo il superamento della convertibilità delle monete in oro, si è liquefatto, ha perso con la forma ogni limite, è ovunque, pervade e feconda ogni spazio e tempo con le sue leggi inevitabili e fatali. Dietro l’attività conclamata vi è la passività, l’alienazione (Entfremdung), cifra vivente della religione del vitello d’oro e della mortificazione:
«Oggi è prassi comune sottolineare come, con i nuovi media elettronici, la fruizione passiva di un testo o di un’opera d’arte sia finita: io non sto più semplicemente davanti allo schermo, interagisco sempre maggiormente con esso, entrando in un rapporto dialogico con esso (scegliendo i programmi, partecipando a dibattiti in una comunità virtuale, determinando direttamente il finale di una trama nei cosiddetti “racconti interattivi”). Tutti coloro che lodano il potenziale democratico dei nuovi media, si soffermano generalmente proprio su queste caratteristiche: su come il cyberspazio apra la possibilità ad una larga maggioranza di persone di uscire dal ruolo passivo dell’osservatore che segue lo spettacolo messo in scena da altri, e di partecipare attivamente non solo allo spettacolo, ma sempre più alla definizione delle regole stesse dello spettacolo […]. Ma l’altro lato di questa interattività non è forse l’interpassività? Il necessario opposto del mio interagire con l’oggetto non consiste nel seguire passivamente lo spettacolo, ma in una situazione in cui l’oggetto si impossessa, privandomene, della mia propria reazione passiva di soddisfazione (tristezza o risata), cosicché l’oggetto stesso “si gode lo spettacolo” al posto mio, sollevandomi dal dovere superegoico di divertirmi […]».[3]
Il sistema capitale fonda un mondo virtuale in cui gli attori non sono che parte di un copione scritto dalle lobby finanziarie: si vive, si parla con parole stabilite dal circo mediatico della finanza. Si divora fino ad autodivorarsi come nel mito di Erisittone, perché il capitalismo assoluto incontra se stesso nell’autodivorarsi, ma non si riconosce, è sussunto alle sue stesse leggi che lo obbligano all’aumento esponenziale del plusvalore fino a divorare le condizioni ambientali che lo mantengono in vita. Non conosce il concetto, ma solo la legge dell’accrescimento illimitato, la sua verità è di ordine regressivo e dunque irrazionale.
Agazia Scolastico (nell’Antologia Palatina XI, 379), scrittore bizantino, descrive la fame di Erisittone, ma sembra descrivere la solitudine della società liquida nella quale ciascuno può essere preda dell’altro:
«Nessuno sopporta la vista dei tuoi denti molari, tanto da avvicinarsi a casa sua; ché, se hai sempre la fame vorace d’Erisittone stesso, sì, finirai per mangiare anche l’amico che inviti. Ma la tua dimora non m’accoglierà: o non entrerò per farmi ospitare dal tuo ventre. E se mai verrò a casa tua, non tanta prodezza compì il Laerziade affrontando le gole di Scilla, ma più di lui sarò “l’eroe paziente”, se m’appresserò a te, del Ciclope agghiacciante per nulla più mite».
L’interpassività ed il Regno animale dello Spirito L’agire è ammesso solo all’interno di una cornice prestabilita. Non è possibile passare da un confine ideologico ad un altro, il mondo è racchiuso all’interno di confini invalicabili. L’ideologia è unica e non ammette competitori, anzi proclama la morte delle ideologie per celare che essa stessa è un’ideologia. Si può agire, ma solo all’interno del mondo capitalistico, si può operare sui sintomi, ma non sulla malattia. La flessibilità diviene la capacità di adattare ogni azione alla sopravvivenza del modo di produzione capitalistico. Le associazioni che si battono ed intervengono nelle aree di tensione, dove la verità si rivela, possono curare le vittime, ma non devono guardare in pieno volto il carnefice, non devono elaborare alternative. La loro opera meritoria è curvata al servizio del capitalismo assoluto, che onnipotente – in quanto sciolto da ogni limite – ammette l’agire, ma solo per allievare gli effetti delle contraddizioni nei punti ottici in cui la verità si palesa nella sua tragica realtà:
«Oggi, ogni volta che si risponde direttamente a un appello all’azione, quest’atto non verrà compiuto in uno spazio vuoto, e sarà sempre collocato all’interno di coordinate ideologiche egemoni: coloro che “davvero vogliono fare qualcosa per aiutare la gente”, e sono coinvolti in operazioni (peraltro meritorie) come Médecins sans Frontière o Grenpeace, piuttosto che in campagne femministe o antirazziste, tutte non solo tollerate ma direttamente supportate dai media (per quanto all’apparenza entrino nella sfera economica per esempio denunciando o boicottando determinate compagnie che non rispettano condizioni ecologiche o sfruttano il lavoro minorile), verranno sempre accettati o appoggiati nella misura in cui non si avvicinano troppo ad un certo limite. Questo tipo di attivismo costituisce un perfetto esempio di interpassività: fare cose non per raggiungere un obiettivo ma per evitare che qualcosa davvero succeda, che qualcosa cambi sul serio. Il frenetico attivismo umanitario. Politicamente corretto, riproduce la formula “cerchiamo di modificare alcune cose, in modo che, globalmente, tutto resti sempre uguale”».[4]
L’interpassività ha tanti volti, ma è riconducibile sempre ad un unico messaggio che puntualmente si ripete ossessivo e che diviene la sostanza del sistema capitale: non c’è alternativa. Il sistema è assiologicamente neutro, purché nulla si fermi, non vi dev’essere etica, comunità, ma solo il regno animale dello Spirito, dove l’individualismo si nutre dell’io minimo, ridotto a linguaggio per i commerci: il lessico è minimo e di ordine acquisitivo concreto. La metariflessione dev’essere inibita, poiché il sistema capitale non ammette peccatori, ovvero pensatori; ogni trasgressione è ammessa, purché risponda alle logiche acquisitive. Tutto deve trasformarsi in violenza acquisitiva. Se gli iceberg a causa del riscaldamento globale si sciolgono e si staccano velocemente dalla calotta polare, questa è un’occasione per il plusvalore: si asportano pezzi enormi di ghiaccio, poiché è acqua pura da bere o da utilizzare nell’industria dei cosmetici e dell’alcool. I cacciatori dell’oro bianco trasformano la tragedia del pianeta, della vita, in affari. I blocchi di ghiaccio asportati passano dallo stato solido al liquido, l’acqua è imbottigliata o venduta alle aziende.
Si educa allo sfruttamento perenne – in assenza di fini vincolati al bene comune tutto è possibile –, per cui non si combatte il riscaldamento globale, perché è una ghiotta occasione per gli affari. L’interpassività conferma il sistema rendendolo intrasformabile, anzi il processo di alienazione è così avanzato da guadagnare sugli effetti tragici che il sistema causa. L’essere umano diventa semplice presenza (Vorhandenheit), ente utilizzabile infinitamente per l’autofecondazione del capitale.
Reale e realtà Si ha lo scollamento tra Reale e realtà (Lacan). Il Reale è il modo di produzione capitalistico anonimo che si autofeconda – a prescindere dalle conseguenze del suo agire – per autoriprodursi. La realtà è il reale storico, la vita delle persone travolte dal Reale, dai meccanismi fatali ed astratti che si susseguono e tutto distruggono:
«Incontriamo qui la differenza lacaniana tra realtà e Reale: “realtà” è la realtà sociale delle persone effettivamente coinvolte nell’interazione e nei processi produttivi, mentre il Reale è la logica inesorabile, “astratta”, spettrale del capitale, che determina ciò che accade nella realtà sociale».[5]
Con il prevalere del Reale sulla realtà, la vita della gente comune scompare, la concretezza ed il dolore di coloro che sono impigliati nel modo di produzione capitalistico è sostituita dal Reale: le vite dei vip – con i loro eccessi – sono i nuovi esempi da seguire nel culto feticistico delle merci. Tutti devono guardare i nuovi santi del consumo, imitarli non solo nel comportamento, ma specialmente nei sogni, nelle speranze fino ad indebitarsi per rendere il proprio corpo simile al corpo dei nuovi eroi del nichilismo. Un’unica plebe, un unico consumo, è la prescrizione del nuovo totalitarismo. I popoli si trasformano in plebe, in una folla di imitatori senza personalità con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto per obnubilare le miserie della vita di ciascuno, per renderle fatali, incomprensibili e specialmente colpevoli.
Che fare? Risuona ancora il Che fare? di Lenin.
Non ci sono esseri umani innocenti come affermavano Seneca e poi Sartre. Ciò malgrado l’interpassività può essere abbandonata per la cura del mondo, Ciascuno può dare il suo contribuito, affinché la realtà dimostri la verità del Reale. In un momento storico in cui urge la prassi, non abbiamo bisogno di eroi, ma di esseri umani che pongano le condizioni, perché la talpa della storia acceleri il suo percorso verso un nuovo mondo. Sono i piccoli del mondo che possono contribuire al sollevamento di forze costruttive, poiché vivono quotidianamente la tragedia della menzogna e dell’alienazione:
«Quando Marx descrive la folle circolazione del capitale che accresce se stessa, in un cammino solipsistico di autofecondazione che raggiunge l’apice nelle metariflessive speculazioni contemporanee sul futuro, è troppo semplicistico sostenere che lo spettro di questo mostro autogenerantesi, che procede indifferente ad ogni rapporto umano o ambientale, sia un’astrazione ideologica, e che non si dovrebbe dimenticare che, dietro questa astrazione, ci sono persone reali e oggetti naturali, sulle cui capacità e risorse produttive si basa la circolazione del capitale, che di esse si nutre come di un gigantesco parassita».[6]
Ridare voce ai soggetti che nella realtà sono implicati. Volgere lo sguardo verso la totalità-verità del modo capitalistico: non si può fare altrimenti. L’essere umano è per sua natura un ente naturale generico (Gattungswesen), è eccedente la storia, benché in essa si esplichino le sue forme e le sue potenzialità. Non a caso Marx definisce la natura umana “essenza”, poiché si forma nella storia. L’essenza umana sopravvive alla colonizzazione capitale (Gestell), alla riduzione del pensiero a chiacchiera (Gerede). La fiducia nella lotta deve nutrirsi della speranza che la natura umana non sia trasformabile come cera tra le mani del sistema capitale, ma faccia resistenza attiva con il pensiero che diviene agere. Senza tale fondamento ogni agire non può che essere monco e preda di passioni debilitanti. Bisogna lasciare l’ateologia dello Stato mercato per la verità. Siamo di nuovo ad un bivio: dalla scelta di ciascuno di noi dipende il destino della vita tutta. All’interpassività che rafforza la gettatezza nel mondo (Geworfenheit), bisogna non reagire, ma agire nel silenzio del pensiero che diviene esodo dal pensiero unico e moltiplicatore delle resistenze.
Salvatore Bravo
[1] Dal greco πρᾶξις («azione, modo di agire»; der. di πράσσω, fare).
[2]Phrònesis, dal greco φρόνησις, che corrisponde al termine italiano saggezza.
[3] Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, pp. 37-38.
[4] Slavoj Žižek, Tredici volte Lenin, Feltrinelli, Milano 2003, p. 18.
[5] Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, op. cit., p. 111.
La dimensione dell’amore è il livello più alto, e in un certo senso metafisicamente conclusivo, dell’umanità dell’essere umano. Non la si può quindi esprimere veramente se non al compimento di una crescita spirituale che ne abbia realizzato le condizioni ontologiche.
L’amore è la pietra angolare della libera comunità umana. Due persone che si amano veramente già formano una libera comunità, che fornisce loro la motivazione per valorizzare forme di amore altre e di altri, inserendole e inserendosi così nel cerchio di più ampie comunità libere. L’amicizia filosofica, e la condivisione spirituale di progetti etici, sono alla base di altre libere comunità. La libera comunità, proprio in quanto resa viva dall’amore, costituisce ogni soggetto come valore di cui aver cura, e rappresenta perciò il fondamento dell’universalità umana, ovvero il modello della giustizia. L’amore è quindi la misura della giustizia.
La superficiale mentalità odierna troverebbe ridicola l’idea che l’economia possa essere fatta in qualche modo dipendere dall’amore tra gli esseri umani: essa appare infatti naturalmente regolata da leggi – che si vogliono – oggettive ed esterne. Ma le leggi economiche sono sempre un prodotto storico, mai un dato naturale. Sul piano ontologico, l’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità, che rappresenta un criterio di giustizia, il cui fondamento ontologico è però l’amore.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore. In nome della giustizia e dell’amore la nostra umanità esige, per non morire, una resistenza alla attuale logica sistemica.
Indice
Comunità arcaica e libera comunità Lo spazio dialogico L’uomo universale La libera comunità come universalità umana Libera comunità e resistenza L’inesistenza di un soggetto sociale anticapitalistico L’amore: rapporto dell’uomo con la fragilità Le quattro condizioni ontologiche dell’amore La radice ontologica dell’amore
Tra l’ottobre e il dicembre del 2000 Koinè promosse un seminario – sapientemente coordinato da Massimo Bontempelli (improvvisamente mancato il 31-07-2011) – nella discussione e nell’elaborazione redazionale delle tesi che formano il numero intitolato «Diciamoci la verità», con vari significativi contributi critici che portarono alla definizione delle 53 tesi, pubblicate sul numero 1/2, Anno IX, Gennaio/Giugno 2001 di Koinè. Il testo che pubblichiamo (L’essere della libera comunità e l’amore) costituisce la parte finale dell’elaborato pubblicato nel 2001 (dalla tesi XLV alla tesi LIII). Il sommario delle 53 tesi può consultarsi alla pagina 37.
I differenti strati dell’«ideologia della vita quotidiana»
Quelle zone dell’ideologia della vita quotidiana che corrispondono alla coscienza freudiana ufficiale, già “censurata”, riflettono i fattori normativi più costanti e dominanti della coscienza di classe. Essi sono vicini all’ideologia formalizzata elaborata da questa classe, alle sue leggi, alla sua morale, alla sua visione del mondo. In questi strati dell’ideologia della vita quotidiana, il discorso interno viene facilmente regolato e si trasforma liberamente in discorso esterno o comunque non teme di diventare discorso esterno. Gli altri strati, quelli che corrispondono all’inconscio freudiano, sono molto lontani dal sistema regolato dell’ideologia dominante. Essi attestano la rottura dell’unità e integrità di questo sistema, l’instabilità delle motivazioni ideologiche correnti. Evidentemente le istanze di accumulazione di motivi interni tali da erodere l’unità dell’ideologia della vita quotidiana possono avere un carattere casuale e testimoniare soltanto il declassamento sociale di singole persone, ma molto spesso testimoniano l’inizio della dissoluzione, se non della classe nella sua totalità, di alcuni suoi gruppi. In una collettività sana e in un individuo socialmente sano, l’ideologia della vita quotidiana, fondata su una base socio-economica integra e salda: non c’è nessuna frattura tra coscienza ufficiale e non ufficiale. Il contenuto e la composizione degli strati non ufficiali dell’ideologia della vita quotidiana (cioè quello che, secondo Freud, è il contenuto e la composizione dell’inconscio) sono condizionati dall’epoca e dalla classe, alla stessa maniera in cui sono condizionati gli strati già censurati, i sistemi di ideologia legalizzata (morale, diritto, concezione del mondo). Per esempio, le tendenze omosessuali dell’antica classe dominante ellenica non producevano nessun conflitto nella loro ideologia della vita quotidiana, sicché passavano liberamente nel discorso esterno e trovavano perfino un’espressione ideologica formalizzata (ricorderemo il Convivio di Platone). Tutti i conflitti di cui parla la psicoanalisi sono pienamente caratteristici della piccola borghesia europea dei tempi recenti. La “censura” freudiana esprime esattamente il punto di vista dell’ideologia della vita quotidiana piccolo-borghese e perciò si crea un certo effetto comico quando i freudiani la trasportano nella psiche di un antico greco o di un contadino medievale. L’enorme sopravvalutazione da parte del freudismo del fattore sessuale è fortemente indicativa se la si guarda sullo sfondo dell’attuale disgregazione della famiglia borghese. Quanto più ampia e profonda diviene la frattura tra coscienza ufficiale e coscienza non ufficiale, tanto più difficilmente i motivi del discorso interno possono passare in quello esterno (orale, scritto, stampato, o di un circolo sociale ristretto o ampio) e possono in esso acquisire una migliore formulazione, chiarirsi e rafforzarsi. In queste condizioni, tali motivi cominceranno a languire, a perdere il loro aspetto verbale e, a poco a poco, si trasformeranno effettivamente in un “corpo allogeno” nella psiche. In questa maniera, interi gruppi di manifestazioni organiche possono, in tal modo, essere esclusi dagli ambiti del comportamento verbalizzato, possono divenire asociali: si allarga così la sfera “animale” dell’uomo, la sua parte asociale.
Ovviamente non tutti i settori del comportamento umano possono essere sottoposti a una frattura così completa con la formalizzazione verbale ideologica. Infatti, non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono; alcuni possono ingaggiare una lotta con l’ideologia ufficiale. Se questo motivo è fondato sulla realtà economica di un intero gruppo, se non è il motivo di un singolo declassato, ha davanti a sé un futuro sociale e forse anche vittorioso. Non c’è nessuna ragione perché questo motivo divenga asociale, perda il contatto comunicativo. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della clandestinità, non in quello dei complessi censurati, ma nella salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.
Michail Bachtin, Freud e il freudismo. Studio critico, a cura di Augusto Ponzio, Mimesis, Milano 2005, pp. 140-141.
«Il grado di sensibilità per le sofferenze degli altri, per l’umanità degli altri uomini, è l’indice del grado di umanità raggiunto […]. Il contrario dell’umanità è la brutalità, l’incapacità a riconoscere l’umanità del prossimo, l’incapacità ad essere sensibili ai suoi bisogni, alla sua situazione».
Abraham Joshua Heschel, Chi è l’uomo?, SE, Milano 2005, pp. 76-77.
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