Salvatore A. Bravo – il genocidio kmer in cambogia palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che, in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Tiziano Terzani 01

Progettualità e storia
Negli ultimi decenni in modo sempre più radicale si assiste alla sostituzione della prassi con la poietica, alla spazializzazione del pensiero, il quale opera secondo una visione analitica e non olistica. La razionalità è rivolta al conseguimento dei risultati immediati, con l’effetto che la stessa razionalità si ribalta in irrazionale su lassi temporali più ampi, poiché è assente ogni riflessione sulle conseguenze delle azioni e specialmente sul valore qualitativo dei fini. Uno dei mezzi più efficaci per strutturare il silenzio del pensiero critico e profondo è l’esemplificazione della storia, che diviene così organica alla distopia del capitalismo assoluto. Non solo si divide per dominare, ma specialmente si occultano le verità storiche nel chiasso di informazioni spesso superflue, veri distrattori di massa. Si cela il verme nel nocciolo secondo la famosa metafora di Sartre, in modo da nascondere la verità del sistema. Uno dei mezzi con cui si effettua l’operazione ideologica di eternizzazione del presente è l’espulsione sostanziale e non formale della disciplina storica. La storia si eclissa dalle istituzioni che dovrebbero trasmetterla, che dovrebbero educare al senso storico, al senso dei contesti, e specialmente dovrebbero formare a cogliere dietro la cronologia il sostrato, senza il quale la storia non è che successione disordinata ed insensata di tumultuosi avvenimenti. Si mette in atto un processo di derealizzazione della realtà e della personalità La storia ridotta a cronologia disegna eventi che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia e continuità. In tale maniera la disarticolazione della storia diventa il macrocosmo, a cui corrisponde il microcosmo delle vite che si succedono senza progettualità, vite che accadono, si succedono, si consumano come la grande storia punteggiata di accadimenti senza continuità: le storie e la storia si consumano nella malinconia dell’assenza.

Massimo Bontempelli e la derealizzazione
Massimo Bontempelli ha coniato due idealtipi per rappresentare i processi di derealizzazione: la personalità narcisista e la personalità concretista: la prima è autoreferenziale, e si connota per il disprezzo di sé, per cui manipola le altre personalità per avere conferma del proprio valore; la personalità concretista si muove all’interno di uno spazio limitato, è volta all’immediato, al risultato, non alla profondità interiore esattamente come la personalità narcisista. In entrambi casi, si tratta di personalità senza storia e dunque dall’identità apparente, poiché la scissione dell’io dalla comunità, dalla storia le destruttura in senso atomistico:

«In questa sede, però, la genesi psicologica interessa meno della base ontologica. Ontologicamente, il concretismo è, come il narcisismo, un’interruzione, sul piano specifico dello sviluppo della personalità individuale, della possibilità del passaggio dall’esistenza alla realtà, per l’inattivabilità dell’azione reciproca. Mentre però nel narcisista ciò che impedisce l’azione reciproca è la coazione all’azione unidirezionale, nel concretista ciò che la impedisce è la coazione a farsi assorbire dalle cose. Storicamente, questa determinazione della persona umana è, proprio come la de-terminazione narcisistica, un prodotto del meccanismo economico autoreferenziale contemporaneo. Abbiamo visto come tale meccanismo, facendo prescrivere i comportamenti umani dalle procedure tecniche, sottragga all’individuo l’immagine stessa dell’azione reciproca. Se tale immagine è sostituita da un modello di relazione strutturato dalla proiezione al consumo, si ha il narcisismo, mentre se è sostituita da un modello di relazione strutturato dall’adesione alla produzione, si ha il concretismo. Il concretista, infatti, fa molte cose senza mai chiedersi il senso del suo fare, per cui il suo agire, anche quando è del tutto esterno alla produzione economica, e persino quando si svolge in un ambito solidaristico, corrisponde perfettamente alla natura della produzione nel meccanismo economico autoreferenziale, che consiste nel produrre sempre di più senza alcuno scopo umano».[1]

Le controriforme
La storia, invece, nella quale si cerca il fondamento e la progettualità non profetica, è espressione vivente della prassi, dell’umanità in cammino nel dialogo che fonda l’ontologia dell’esserci. Le riforme contro la storia, gli attacchi strategici alle facoltà che dovrebbero formare gli studiosi, mediante tagli finanziari e discredito su studi giudicati improduttivi, palesano la verità del tempo presente: la riduzione del tempo a solo tempo della produttività, del PIL, oggetto di interventi ossessivi. L’agire contro la storia ha lo scopo di formare personalità gettate nel presente e quindi pronte all’uso ed al consumo. Si occultano le contraddizioni. In primis l’impossibile realizzazione, per tutti, del regno della dismisura, per cui destrutturare la storia, ridurne la presenza nei curriculum scolastici come nella memoria collettiva è una modalità d’attacco del capitalismo assoluto che erode le forme della prassi per sostituirle con la violenza della produttività dell’inautentico. Si misura tutto in modo maniacale per poter dominare e manipolare, ma si sottrae il senso della relazione tra quantità e qualità, pertanto la dismisura, regna, occultata da strumenti di precisione millimetrica, non mediata dalla razionalità speculativa.
Vi sono storie nella storia in cui la verità, il fondamento nichilistico che guida le tragedie della storia contemporanea, non solo si rilevano, ma esse sono portatrici, come in questo caso, di un’eccedenza. Dimostrano la cattiva coscienza dell’onnipotenza tecnocratica, poiché mettono a nudo la verità: sono rimosse dalla memoria collettiva, ridotte ad episodi regionali, ai margini della globalizzazione con i suoi splendori.
La Cambogia con il genocidio kmer palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Razionalità tecnocratica e razionalità classica
Il Vietnam, durante la guerra (1960-1975), è stato oggetto di bombardamenti con l’agente arancio, un’erbicida che ha causato la deforestazione, desertificato il terreno con accumuli di diossina che hanno reso il suolo sterile per un tempo indeterminato. La Cambogia, stretta tra gli interessi cinesi ed americani è diventata il luogo dove l’onnipotenza della ragione calcolante, senza etica, ha mostrato il sonno della ragione, ovvero il sonno della ragione classica, il sonno della razionalità del limite, sostituita da una razionalità puramente tecnocratica e distopica e come tale tesa all’espansione integralista per la quale il limite è solo un labile confine da abbattere.
Tiziano Terzani descrive l’agonia di un popolo, il processo di formazione di un genocidio, la cui precondizione è nella violenza espansionistica delle potenze, le quali pur da posizioni ideologiche diverse, agiscono mosse dallo stesso fondamento economicistico e nichilistico:

«Ho visto questa città negli anni della guerra americana, fra il 1970 ed il 1973, quando centinaia di migliaio di rifugiati, scappati ai bombardamenti a tappeto dei B-52, venivano ad accamparsi lungo i marciapiedi del centro; l’ho vista lentamente strangolata del centro; l’ho vista lentamente strangolata dall’assedio dei khmer rossi, che il 17 aprile 1975 la presero in mano e per prima cosa la vuotarono in poche ore di tutta la sua popolazione, mandata allo sbaraglio nella giungla e nelle risaie; l’ho rivista, città fantasma, guscio vuoto, marcio e buio, poco dopo l’intervento vietnamita che nel 1979 rovesciò il regime di Pol Pot e mise al potere l’attuale governo di Hun Sen; e l’ho rivista varie volte negli ultimi dieci anni, di nuovo viva e popolosa, ma ancora misera, sporca, avvilita e scoraggiata da dall’ingiusto embargo economico che i paesi occidentali hanno deciso di imporre a questa gente ed a questo governo, definito “fantoccio di Hanoi”».[2]

Genocidi
Il numero dei morti è rimasto dubbio; è certo che tra il 1975 ed 1979 un terzo della popolazione cambogiana è scomparsa atrocemente. Non vi è stata nessuna Norimberga, nessuna giustizia: i processi iniziati negli ultimi anni hanno un valore formale e specialmente rimuovono le responsabilità internazionali, degli Americani e dei Cinesi in particolare. Costruiscono un’immagine della storia evenemenziale: i responsabili sono singoli, dietro di essi le strutture, i modi di produzione, le ideologie sono innocenti. Il modello di razionalità non viene messo in discussione, restano nel limbo dell’astratto, il sistema e la storia non conoscono dialettica emancipatrice: Stati Uniti e Cina continuano ad essere padroni del pianeta come se nulla fosse accaduto.
I morti, i genocidi non sono tutti uguali, alcuni sono pubblicizzati, resi pane quotidiano nella propaganda dei vincitori. Altri sono dimenticati, procurano imbarazzo con la loro verità che accusa i vincitori, e rammenta la sconfitta ai padroni e signori del pianeta:

«Perché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura? Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?». [3]

Le responsabilità collettive
Per comprendere la storia è necessaria una visione olistica, la quale consente di riportare all’unità ciò che, invece è separato, esemplificato e diviene incomprensibile. I kmer rossi si rafforzano e si diffondono con i bombardamenti americani, e con il colpo di stato del 1970 orchestrato in Cambogia dagli Americani, mentre da un punto di vista ideologico, la Cina è la madre matrigna che sostiene per ragioni di espansione e competizione con l’Unione sovietica i kmer, in modo da presentarsi come polo catalizzatore per i paesi che escono dalla difficile esperienza della colonizzazione:

«I khmer rossi sono stati un’aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Ze Dong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva ed approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Zleng, a poche decine di metri dall’ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone complice dell’olocausto, era impazzito. […] La verità, come dicevo, è che i khmer rossi sono il prodotto di un’ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può fare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria. Da qui il progetto dei khmer rossi di spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi».[4]

 

I tempi della storia
L’uomo nuovo è il fine dei kmer come di Mao, i kmer accelerano, esigono il risultato in tempi brevi. Il tempo svela la contemporaneità dei kmer, il loro essere organici al nichilismo produttivo industriale e tecnocratico. In tempi brevi, inseguendo la temporalità espansiva degli apparati industriali, attraverso la microfisica del controllo, della manipolazione, l’uomo nuovo liberato dalle scorie impure del passato splenderà nella sua ritrovata innocenza e purezza.
Il tempo della storia è veloce, quando la razionalità critica si ritrae, per cui con la caduta del muro, la Cambogia comunista dietro la quale vi è il Vietnam e specialmente la Cina, reintroduce la proprietà privata, per cui i privilegiati durante il regime comunista diventano ora i ricchi. L’assenza di prassi e partecipazione politica agli eventi spingono i Cambogiani ad adattarsi, perché in fondo sanno che il vero cambiamento strutturale non è mai avvenuto. Dietro le tragedie della storia cambogiana non vi è che il susseguirsi con matrici diverse del sogno dello stesso sogno/incubo dell’onnipotenza[5]:

«La svolta avvenne nel 1989. Col mondo socialista in ritirata e l’Occidente che faceva pressione perché Phnom Penh cambiasse politica in cambio di una vaga promessa di riconoscimento e di aiuti, il regime di Heng Samrim e Hun Sen adottò una serie di riforme che hanno permesso la religione, abolito la struttura economica socialista, liberalizzato il commercio e reintrodotto la proprietà privata. Il primo maggio 1989 sono nati i nuovi milionari della Cambogia. In quella data, chi occupava una villa, un appartamento o una semplice stanza ne è diventato il legittimo proprietario. Questo ha ovviamente favorito i funzionari del nuovo regime che per primi erano tornato a Phnom Penh ed erano andati ad occupare gli edifici più centrali e spaziosi. Alcune di quelle ville, cui è stata data una mano di bianco e una ripulita, vengono ora fittate agli stranieri che lavorano a Phnom Penh per somme che variano dai mille ai duemila dollari al mese: un patrimonio, se si considera che lo stipendio mensile di un funzionario governativo è di 5000 riel, vale a dire 8 dollari. Lo stesso è avvenuto nelle campagne. I campi delle comuni sono stati distribuiti fra i contadini, creando enormi disparità tra quelli che hanno ricevuto terreni fertili e gli altri che hanno avuto pezzi improduttivi. L’improvvisa fine del sistema socialista comunitario ha per giunta penalizzato i più deboli. È così che città come Phom Penh si sono riempite di donne e bambini mendicanti».[6]

 Alla caduta dei kmer nel 1979 con l’invasione vietnamita, vi è un dettaglio non secondario, che denuncia il fondamento nichilistico in modo lapalissiano: gli Stati uniti non riconoscono la nuova Cambogia, in quanto legata politicamente alla Cina per mezzo del Vietnam, dunque all’ONU il seggio è dei kmer, malgrado il genocidio ormai pubblico, ma per la razionalità nichilistica che usa solo la categoria della quantità un milione e mezzo di persone trucidate non sono che numeri interscambiabili, sono niente davanti alla storia.

L’essere umano come animale storico
L’essere umano è un animale storico. Se rinuncia alla storia e con essa alla prassi, vive come un qualsiasi animale nell’eterno presente, pascola, rumina, ma non vive. La storia eleva all’universale, e dunque umanizza attraverso la razionalità dialogica che distingue l’accidentale dall’universale:

«Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di se stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse». [7]

L’uomo nuovo che il capitalismo assoluto vuole fondare è l’uomo senza memoria, limitato al solo pascolare tra gli infiniti pascoli del mercato. A questa visione impoverita e depauperata dell’umanità, bisogna contrapporre la visione hegeliana che nella Filosofia della storia ha dimostrato che l’essere umano conosce se stesso nella storia. Pensando il materiale storico l’uomo elabora la consapevolezza di sé, in modo da discernere l’eterno dal contingente. L’uomo nuovo al pascolo nei mercati non discerne, non giudica, non ha senso etico/universale, si disperde nella contingenza del particolare, nell’immanenza senza trascendenza. Il presente gli appare senza speranza, poiché è venuta a mancare la mediazione razionale sull’esperienza storica collettiva. Il futuro si gioca dialetticamente sul senso storico senza il quale non vi è libertà, né razionalità, ma solo veloce dileguarsi della ragione. Siamo al bivio parmenideo: la doxa è l’immediatezza del narcisista/concretista, mentre la verità è il senso storico in cui l’eterno prende forma e coscienza. L’errore nella scelta non potrà che essere fatale per il pianeta, poiché i mezzi di distruzione minacciano la vita come non mai.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà, Petite Plaisance ,Pistoia 2002, pag. 15

[2] Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Tea. Milano 2008, pag. 298.

[3] Ibidem, pag. 324.

[4] Ibidem, pag. 277.

[5] Ibidem, pp. 285-286.

[6] Ibidem, pp. 285-286.

[7] Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, pag. 8.

ss

Cesare Pavese (1908-1950) – C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama.

Cesare Pavese in bicicletta copia

Leggo, per quanto è possibile, soltanto ciò di cui ho fame,

nel momento in cui ne ho fame, e allora non leggo: mi nutro.

Simone Weil

Cesare Pavese. La vita, le opere, i luoghi
Franco Vaccaneo, Cesare Pavese. La vita, le opere, i luoghi
Mario Schifani, In sella.

A Giulio Einaudi, Torino.

Torino, 14 aprile 1942

Spettabile Editore,

Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a risponderVi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto così cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non mi lasciano il tempo di attendere a più nobili lavori. Sì, Egregio Editore, è venuta l’ora di dirVi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità.

C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello.

Fatevi fare il Bini da un altro.

Cordialmente. C. Pavese

 

 

La lettera di Cesare Pavese è tratta dal libro Franco Vaccaneo, Cesare Pavese. La vita, le opere, i luoghi, Gribaudo editore, 2009.

 



Cesare Pavese – Leggendo cerchiamo pensieri già da noi pensati

Cesare Pavese – Ritorno all’uomo: la carne e il sangue da cui nascono i libri. Una cosa si salva sull’orrorre: l’apertura dell’uomo verso l’uomo

 



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Giancarlo Paciello – Si può essere ebrei, senza essere sionisti? Note a margine di un articolo di Moni Ovadia dal titolo “L’ANTISIONISMO NON È ANTISEMITISMO”

Giancarlo Paciello

Si può essere ebrei, senza essere sionisti?

Venerdì 29 marzo, su Il Fatto Quotidiano, compare un articolo dal titolo “L’ANTISIONISMO NON È ANTISEMITISMO”, a firma di Moni Ovadia. Me ne sono rallegrato, come studioso – da circa cinquant’anni – del Medio Oriente, e in particolare del popolo palestinese, e anche come lettore ormai affezionato di questo giornalino, un ottimo giornale, nella sostanza, anche in considerazione dei pessimi giornaloni circostanti.
Ho letto con attenzione tutto l’articolo e ne ho condiviso le argomentazioni, tutte improntate ad un universalismo appassionato, preoccupato del silenzio per le sorti del popolo palestinese e, quel che è peggio, di una sorta di passaparola, prevalente fra i mezzi di comunicazione di massa, che sollecita a non parlarne affatto. Moni Ovadia indica addirittura di una sorta di parola d’ordine: “evitate l’argomento”.
Dice l’autore dell’articolo:

«Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici d’Israele, hanno accolto l’equazione ‘critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita’. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese».

Il quadro descritto da Moni Ovadia si riferisce ormai a quasi un ventennio e non sembra che sia vicino il tempo per una valutazione meno “ideologica” della questione, anzi! Basti pensare alla risposta di Fulvio Colombo, sullo stesso giornale, il 31 marzo. Ma, tempo al tempo!
Moni Ovadia si premura di ricordare che l’antisemitismo precede ampiamente sia il sionismo sia la nascita dello Stato d’Israele, che non ne costituiscono dunque in alcun modo la causa, e che non è esentando lo Stato d’Israele da critiche sacrosante che si allontana l’antisemitismo. A riprova, cita Gideon Levy, israeliano che scrive su Haaretz, giornale israeliano per lettori israeliani che, con riferimento ad un’inchiesta della CNN a proposito dei sentimenti antisemiti dice: «gli ebrei non sono odiati come vorrebbe Israele: solo il 10% ha dichiarato di avere sentimenti negativi nei loro confronti».
Ovadia ritiene, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, che si tratti di un uso strumentale per «ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese». E cita anche lo storico israeliano Shlomo Sand che – rivolgendosi al presidente francese Macron e rimproverandogli la volontà di criminalizzare l’antisionismo come una forma di antisemitismo – fa una lunghissima lista di ebrei antisionisti del passato e del presente. Va detto, a onore (?) di Macron, che anche re Giorgio (come Travaglio ha chiamato per quasi un decennio Napolitano), si era apertamente sbilanciato con una espressione simile: «No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo», nel lontano 2007.
A questa affermazione di Napolitano rispose, con una lettera aperta al presidente, Mauro Manno, un mio carissimo amico, purtroppo scomparso, lettera che ripropongo in fondo a queste mie considerazioni. Dunque, più che di una strumentalizzazione israeliana si tratta di una “forzatura” occidentale ricorrente.
A Ovadia non resta che concludere con:

«Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. È ora che i paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale».

Il senso dell’articolo di Moni Ovadia, a mio modesto parere, sta tutto nel sollecitare, con urgenza, i paesi occidentali a promuovere una qualche iniziativa che si misuri con la sofferenza del popolo palestinese, nel quadro di un’altrimenti (e a lungo) calpestata legalità internazionale.

E poi è arrivata la doccia fredda del 31 marzo. Sempre in tredicesima pagina del Fatto, l’articolo di Furio Colombo: EBREI, ISRAELIANI, SIONISTI, PERSECUTORI.
La successione non mi è parsa corretta, anche da un punto di vista cronologico. Se si parte giustamente dagli ebrei occorre dire che, almeno agli inizi, soltanto una piccola minoranza era sionista, decisa a realizzare uno Stato per gli ebrei. E solo dopo la nascita dello Stato d’Israele sono nati gli israeliani e non tutti sono sionisti o ebrei. Il ruolo di persecutori possono averlo assunto solo disponendo di un esercito potente e con la complicità della comunità internazionale, in particolare quella degli Stati Uniti. E soltanto i sionisti. In ogni caso il titolo doveva vedere i sionisti collocati prima degli israeliani. E mai costituire una successione obbligante!
Passiamo all’articolo. Un avvio che pare una sorta di obbligo («il mio compito»), assolto però volentieri, di rispondere al caro amico non più veduto dopo la morte di Umberto Eco. E subito dopo la dichiarazione di farlo malvolentieri perché la sua esperienza anche come direttore dell’Unità è stata totalmente diversa. Nessuna parola d’ordine di evitare di parlare d’Israele e anzi la certezza di essere subissato di improperi non appena avesse accennato alla sua persuasione che «Israele deve sopravvivere».
Due stranezze: la prima è che Colombo torna indietro di un quarto di secolo, non parla di oggi; la seconda è che al giusto diritto di vivere contrapponga la pura sopravvivenza. E, di colpo, siamo finiti a Rabin con un progetto di pace quasi compiuto (ma la pace o c’è o non c’è) e «molto prima che Netanyahu gettasse la sua pesante armatura di estrema destra sul corpo vulnerabile del Paese, dove si sono sempre ascoltate le voci di Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman … volti alla pace».

***

Facciamo una pausa consistente. Nel dicembre del 2003, l’Assemblea generale dell’ONU assunse un’iniziativa, consistente nel porre alla Corte internazionale di Giustizia dell’ONU, con sede all’Aja, una domanda semplicissima:

«Quali sono le conseguenze della costruzione del muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato […] con riferimento alle regole e ai princìpi del diritto internazionale?».

Il 9 luglio 2004, la Corte dell’Aja condannò la costruzione del Muro (dei quindici giudici uno soltanto votò contro). Una risposta che aveva anche il merito della chiarezza:

«Israele deve porre fine alle violazioni del diritto internazionale di cui è artefice; è tenuto a sospendere immediatamente i lavori di costruzione del muro, […] di smantellare immediatamente l’opera costruita nel territorio palestinese occupato e di rendere immediatamente inefficace l’insieme di atti legislativi e regolamentari che vi fanno riferimento. […] La Corte evidenzia inoltre che Israele ha l’obbligo di porre riparo a tutti i danni causati a tutte le persone fisiche o morali coinvolte. […] Di conseguenza, deve restituire tutte le terre, i frutteti, gli oliveti e gli altri beni immobiliari in gioco».

E, il 21 luglio, l’Assemblea generale dell’ONU votò una risoluzione contro la costruzione del Muro, i voti contrari si contavano quasi sulle dita di una mano, furono infatti soltanto sei, compresa la Micronesia! L’Europa votò compatta a favore, 150 furono i voti favorevoli e 10 quelli degli astenuti).
Il 27 luglio 2004 comparve un articolo di Mario Pirani su La Repubblica, dal titolo Quante rimozioni dietro le critiche al Muro d’Israele. Ho risposto a suo tempo al testo di Pirani, su Rosso XXI, con un articolo intitolato Una vergognosa difesa del Muro della vergogna. Qui mi interessa riportare, con le sue parole, la tesi di fondo, dalla quale rimasi sconvolto, tenendo conto della laicità del personaggio e della sua dichiarata attenzione all’equilibrio:

«Personalmente sono aduso a non meravigliarmi e indignarmi soverchiamente di fronte al manifestarsi dell’antisemitismo. Penso sia da sempre una patologia cronica che accompagna la storia dell’uomo: nell’era pagana nasceva per avversione e paura del monoteismo giudaico, con l’avvento dell’era volgare segnò l’odio cristiano per il popolo deicida, con l’epoca dei Lumi suggerì il disprezzo della specificità religiosa e culturale israelitica come retriva superstizione, con il secolo XX e con il nazifascismo nutrì fino all’estremo le insorgenti dottrine razzistiche, con il comunismo si tradusse nei processi staliniani contro il ‘cosmopolitismo’, con il ritorno del fondamentalismo islamico, che giura sulla distruzione della patria ritrovata, alimenta il terrorismo e il rifiuto d’ogni prospettiva di pace.
Il ritegno nei confronti di ogni retorica e inutile indignazione non implica, però, la rinuncia a riconoscere il male e a combatterlo. Senza grandi illusioni. In un aureo libricino, ‘Antisemitismo e sionismo’ (ed. Einaudi), Yehoshua ricorda un brano delle Sacre Scritture, contenuto nel Libro di Ester, che recita:
‘Poi Aman andò a parlare con il re e gli disse: ‘C’è un popolo, disperso tra gli altri popoli del tuo impero, che vive separato dagli altri, a modo suo. Ha leggi diverse e, per di più, non osserva la tua. Non ti conviene lasciarlo vivere in pace. Se sei del mio parere, dà ordine scritto che sia sterminato…’ il re allora si sfilò dal dito l’anello col sigillo e lo consegnò ad Aman… e disse a questo persecutore di ebrei … quel popolo è in tuo potere: fanne quel che vuoi’ (Libro di Ester 3.8-11). Queste righe vennero scritte tra il IV e il II secolo a. C. Contengono già la storia dei millenni successivi, compreso il Genocidio».

Le sottolineature in grassetto sono mie.

C’è un vecchio proverbio arabo che dice: «Il bugiardo occorre accompagnarlo fin sull’uscio di casa», e io ho deciso oggi di accompagnare Pirani (e Yehoshua), nella Bibbia, nel libro di Ester. Lo faccio con ritardo, perché quando ho risposto, nel 2004, a Pirani, mi sono fidato di lui!
Nelle conclusioni di Pirani tornava tutto troppo bene nella pur sempre azzardata argomentazione. Effettivamente, l’editto del re Assuero, suggerito da Aman, avrebbe avuto conseguenze tremende per gli ebrei, poiché ordinava che «si distruggessero, si uccidessero, si sterminassero tutti i Giudei, giovani e vecchi, bambini e donne, in un medesimo giorno, […] e si saccheggiassero i loro beni».
Ma Aman aveva fatto i conti senza l’Ester!
Le cose, con l’intervento della regina e Mardocheo, volgono rapidamente al peggio per Aman, che viene impiccato al palo che aveva fatto preparare nella sua casa per impiccarci Mardocheo, e Ester si insedia nella casa di Aman. Nel frattempo, il re Assuero aveva, per lo stesso giorno, modificato radicalmente l’editto iniziale esaltando la fedeltà dei Giudei.
Ed ora lascio la parola alla Bibbia:

«Il decimosecondo mese, cioè il mese di Adàr, il tredici del mese, quando l’ordine del re e il suo decreto dovevano essere eseguiti, il giorno in cui i nemici dei Giudei speravano di averli in loro potere, avvenne invece tutto il contrario; poiché i Giudei ebbero in mano i loro nemici. I Giudei si radunarono nelle loro città, in tutte le province del re Assuero, per aggredire quelli che cercavano di fare loro del male; nessuno poté resistere loro, perché il timore dei Giudei era piombato su tutti i popoli. Tutti i capi delle province, i satrapi, i governatori e quelli che curavano gli affari del re diedero man forte ai Giudei, perché il timore di Mardocheo si era impadronito di essi. Perché Mardocheo era grande nella reggia e per tutte le province si diffondeva la fama di quest’uomo; Mardocheo cresceva sempre in potere. I Giudei dunque colpirono tutti i nemici, passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero. Nella cittadella di Susa i Giudei uccisero e sterminarono cinquecento uomini e misero a morte i dieci figli di Amàn figlio di Hammedàta, il nemico dei Giudei, ma non si diedero al saccheggio. Quel giorno stesso il numero di quelli che erano stati uccisi nella cittadella di Susa fu portato a conoscenza del re.
Il re disse alla regina Ester: “Nella cittadella di Susa i Giudei hanno ucciso, hanno sterminato cinquecento uomini e i dieci figli di Amàn; che avranno mai fatto nelle altre province del re? Ora che chiedi di più? Ti sarà dato. Che altro desideri? Sarà fatto». Allora Ester disse: «Se così piace al re, sia permesso ai Giudei che sono a Susa di fare anche domani quello che era stato decretato per oggi; siano impiccati al palo i dieci figli di Aman”. Il re ordinò che così fosse fatto. Il decreto fu promulgato a Susa. I dieci figli di Amàn furono appesi al palo. I Giudei che erano a Susa si radunarono ancora il quattordici del mese di Adàr e uccisero a Susa trecento uomini; ma non si diedero al saccheggio. Anche gli altri Giudei che erano nelle province del re si radunarono, difesero la loro vita si misero al sicuro dagli attacchi dei nemici; uccisero settantacinquemila di quelli che li odiavano, ma non si diedero al saccheggio. Questo avvenne il tredici del mese di Adàr; il quattordici si riposarono e ne fecero un giorno di banchetto e di gioia».

Ora, non è pensabile che Pirani non conoscesse l’esistenza, nella tradizione ebraica, di una festa, quella appunto del Purim, che celebra questa vittoria cruenta, ben settantacinquemila morti! Non riesco proprio a capire come abbia potuto accettare il suggerimento di Yehoshua e rifarsi a questo brano della Bibbia per leggervi l’eterna storia dell’antisemitismo e dell’Ebreo come eterna vittima! E sapeva senz’altro che le bugie hanno le gambe corte! O si è fatto prendere troppo dall’entusiasmo per l’aureo libretto?

***

Questa pausa è servita a evidenziare come, almeno una voce dei numi tutelari citati da Colombo qualche pregiudizio nei confronti dei Gentili ce l’avesse, per non dire di Pirani! Ma a parte le posizioni degli intellettuali israeliani che si sono espressi genericamente per la pace, senza però andare fino in fondo in questo loro impegno, Colombo dimentica una coraggiosa schiera, i nuovi storici israeliani, da Benny Morris a Ilan Pappe che hanno raccontato una diversa storia e hanno espresso un giudizio sul sionismo ben diverso dalla vulgata corrente. Per amor di verità, va detto anche che Benny Morris ha poi fatto marcia indietro, unico fra i suoi colleghi.
Torniamo ora all’articolo di Furio Colombo.
Che va subito fuori tema, visto che sta rispondendo a Moni Ovadia. E si allarga sulla corsa dell’estrema destra negli USA, fa una puntatina in Italia sulla nave Diciotti e sui maneschi libici per passare agli israeliani, “le vittime diventate carnefici”, insorgendo per le mancate accuse contro i generali birmani, “carnefici che non siano state vittime”.
Ma gli israeliani sono ebrei … che hanno stretto tutte le mani che potevano portare alla pace (per due volte quasi raggiunta … idem come sopra, a meno che Colombo non intenda dire che non si è raggiunta la pace per colpa dei palestinesi e pensi magari alle “generose offerte di Barak)”!
Ma ora viene la sostanza dell’argomentazone. Con un po’ di veleno subito, non nella coda. A Moni Ovadia, Furio Colombo rimprovera tout court di non essere un ebreo che ama “fare Aliyah”, anche se riconosce del tutto legittima la sua scelta! Aliyah in ebraico significa salita, ritorno e soprattutto così erano denominate le migrazioni della fine del diciannovesimo secolo dalla Russia delle persecuzioni antiebraiche in Palestina e anche le successive, tanto da numerarle. E il ritorno a Sion ha caratterizzato l’ideologia sionista. Dunque il torto di Ovadia (anche se la sua scelta è legittima), è quello di non essere sionista!
E … gli ebrei sono sionisti. E parte così l’elogio della nazione. Petrarca, Leopardi per secoli hanno aspirato a questo anche se tante grandi famiglie milanesi erano “austriacanti”, e anche se Moni Ovadia dice che molti ebrei non sono sionisti non si può negare che il sionismo non sia diverso dal nostro Risorgimento. E qui non sono più riuscito a seguire l’argomentazione. Non che io me ne muoia per il Risorgimento. Da meridionale conosco la violenza dell’unificazione e quanto di ignobile abbia fatto l’esercito piemontese nelle terre del vecchio regno borbonico! Ma una cosa è certa: gli austriaci occupavano una terra abitata da persone che parlavano una lingua diversa, con tradizioni culturali diverse che avevano una giusta aspirazione a liberarsi dell’occupante straniero. I sionisti non avevano guerre d’indipendenza da combattere, tanto da fondare la loro ideologia sullo slogan “Una terra senza popolo, per un popolo senza terra” e sosterranno di aver combattuto la loro guerra d’indipendenza, a partire dagli anni 1940, … dagli inglesi, che con la Dichiarazione Balfour avevano legittimato (?) la nascita di un focolare nazionale ebraico in Palestina!
Ma Furio Colombo è di diverso avviso. E delira:

«Ma niente permette di separare il sionismo, come una specie di degenerazione nazionalistica, dalla storia del mondo contemporaneo, del formarsi dell’Europa moderna. Per forza, oggi, essere “antisionisti” vuol dire essere antisemiti. È un’altra forma di negazionismo. […] Non dimentichiamo il dramma che la vittoria della destra estrema ha portato nel mondo. […] Isolare la vicenda palestinese (che a sua volta è in preda alla estrema destra Hamas) come se fosse l’inevitabile conseguenza del sionismo è un errore, a cui si giunge sottraendo molti fatti alla brutta avventura che stiamo vivendo».

Però, dare del negazionista ad un caro amico, … Capito Moni? Non si può essere ebrei e non essere sionisti, sei una contraddizione vivente, ma io sono con te, perché penso che l’universalismo che ti ispira sia l’unico antidoto alle concezioni che permettono di opprimere un popolo escogitando le più stravaganti argomentazioni. E mi viene in mente la favola del lupo e dell’agnello.

Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.

Io naturalmente intendo restare gentile!

Giancarlo Paciello

Roma, 4 aprile 2019

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Lettera aperta di Manno Mauro

al Presidente della Repubblica Italiana

Signor Presidente,

da quanto leggo su televideo lei avrebbe dichiarato:
“No all’antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo”.
“Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”.

Se questo è realmente il suo pensiero, e naturalmente mi auguro che non lo sia, mi lasci dire che queste sono affermazioni errate e gravi e mi auguro che suscitino, da parte di numerosi italiani, una reazione calma e ragionata ma ferma.

Signor Presidente,
mi consenta di dissentire dalla prima frase da lei pronunciata. Lei sostiene che l’opposizione al sionismo è antisemitismo mascherato. Né si può pensare che Lei abbia voluto dire che solo alcuni antisemiti nascondono il loro antisemitismo reale dietro un preteso o falso antisionismo. Lei ha formulato il suo pensiero in modo inequivocabile: per Lei chi è antisionista è antisemita sic et simpliciter. Io sono d’accordo con lei che l’antisionismo è la “negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico e delle ragioni della sua nascita” ma sostengo con decisione che la negazione delle ragioni della nascita dello Stato ebraico e la sua sostituzione con uno Stato democratico unico di ebrei e palestinesi su tutta la Palestina non potrà che arrecare bene agli ebrei, ai palestinesi, ai popoli mediorientali e del mondo intero. Ritengo, e non sono l’unico visto che molti ebrei antisionisti sono dello stesso avviso, che lo Stato sionista per soli ebrei è uno Stato razzista, coloniale e espansionista, non diversamente da quello che era lo Stato razzista per soli bianchi del Sud Africa. La natura sionista di Israele è una minaccia per la pace mondiale e per gli stessi ebrei.

Signor Presidente,
non sono un negazionista dell’Olocausto e non nutro sentimenti anti-ebraici. Desidero solo che gli ebrei in Palestina non neghino ai palestinesi un diritto che rivendicano per loro stessi. I palestinesi, profughi e residenti in Israele o nei territori occupati, hanno diritto a vivere in Palestina in pace e in armonia, godendo delle libertà democratiche che tutti i popoli del mondo meritano. Questo principio che noi non neghiamo agli ebrei di Palestina, Israele lo nega ai palestinesi.
Lei forse è favorevole agli stati etnici? Mi sembrava di aver capito che Lei e il partito da cui proviene eravate favorevoli agli Stati democratici in cui tutti i cittadini sono uguali indipendentemente dalla religione, dall’etnia, dalla cultura o altro, a cui appartengono. Forse mi sono sbagliato. Non capisco perché l’Italia e l’UE si sono impegnati per l’uguaglianza dei diritti tra bianchi e neri in Sud Africa, o si impegnano oggi per l’uguaglianza e la convivenza tra serbi e kossovari in Kossovo, tra macedoni e albanesi in Macedonia, tra musulmani, ortodossi e cristiani in Bosnia, tra sciiti, sunniti e cristiani in Libano e poi sostengano il carattere esclusivamente ebraico di Israele?
Forse Olmert ha chiesto anche a Lei, come ha fatto con il Signor Prodi, di difendere Israele in quanto Stato esclusivamente ebraico e sionista?
Se questo è il suo pensiero, voglio chiederLe:

  • se Israele decidesse di deportare i cittadini israeliani non ebrei, come chiede da tempo il ministro razzista Avigdor Lieberman, Lei appoggerebbe questa politica in nome della difesa del carattere ebraico dello Stato israeliano?
  • ignora Lei forse che i cittadini non ebrei d’Israele non hanno gli stessi diritti degli ebrei? Non sa forse che è proibito per legge ad un cittadino israeliano non ebreo di acquistare proprietà terriere da un ebreo? Ignora forse che esistono strade che collegano Israele alle colonie nei territori occupati su cui non possono circolare (non i palestinesi dei territori occupati, questo tutti lo sanno) ma i cittadini arabi di Israele? Le ricordo, inter alia, anche che è negato il ricongiungimento al coniuge ad un cittadino arabo d’Israele se questo coniuge proviene dai territori occupati. Spero che Lei sia informato sulla proposta di legge nella Knesset che prevede di togliere la nazionalità israeliana ad un cittadino arabo d’Israele se costui non dichiara fedeltà al sionismo. Si renderà conto che questo corrisponde a volere l’accettazione dell’ingiustizia storica che il sionismo ha fatto ai palestinesi da parte delle stesse vittime dell’ingiustizia.
  • Non ritiene che portare quegli ebrei (per fortuna non sono tutti gli ebrei) che sostengono Israele a liberarsi di una forma statale che discrimina i cittadini non ebrei, che impianta colonie su territori fuori dai suoi confini, che conduce una guerra contro una popolazione occupata e indifesa, che possiede armi nucleari e non aderisce al trattato di non proliferazione nucleare e all’AIEA, che è stata condannata mille volte nell’ambito dell’ONU, non equivalga ad un bene per loro e per i palestinesi?
  • e infine l’ultima domanda: se l’Italia (che lo ha già fatto nel passato) dovesse attuare una politica discriminatoria verso i suoi cittadini ebrei come Israele discrimina i suoi cittadini non ebrei e dovesse riprendere, malauguratamente, una politica coloniale, Lei non riprenderebbe la lotta contro il regime o il governo che così si comportasse?

Allora perché non si può combattere un regime, quello sionista, che è discriminatorio, razzista e colonialista? Nessuno sta proponendo un nuovo olocausto ebraico, gli antisionisti vogliono solo uno Stato non confessionale, non etnico, non razzista in Palestina, per gli ebrei e per i palestinesi. Non diversamente da quello che sono tutti gli stati autenticamente democratici nel mondo.

Signor Presidente,
si dà il caso che sono uno studioso del sionismo. É quindi sulla base dei miei studi di questa ideologia politica che Le scrivo. Le ricordo alcuni fatti:
Primo tra tutti la collaborazione dei sionisti (di destra e di sinistra) con gli antisemiti, con il fascismo e il nazismo. Si è trattato di una collaborazione lunga ed estremamente dannosa per gli ebrei non sionisti (che allora erano la stragrande maggioranza). Per quanto ciò possa apparire incredibile, la collaborazione dei sionisti con i fascisti, i nazisti e gli antisemiti, storicamente documentata, si fondava su una logica di scambio criminale a danno degli ebrei. I sionisti hanno appoggiato i regimi fascisti e antisemiti prima e durante la seconda guerra mondiale, chiedendo in cambio di permettere loro di portare gli ebrei in Palestina per realizzare il loro progetto coloniale. Gli ebrei che non accettavano di emigrare in Palestina sono stati abbandonati al loro destino. Gli antisemiti erano ben contenti di liberarsi degli ebrei in questo modo. Non è vero che gli antisemiti sono antisionisti come lei sostiene ma è vero proprio il contrario. Non metterà in dubbio, spero, le parole dello scrittore israeliano Yehoshua che qualche anno fa ha dichiarato:

«I gentili‚ hanno sempre incoraggiato il sionismo, sperando che li avrebbe aiutati a liberarsi degli ebrei che vivevano tra di loro. Anche oggi, in una maniera perversa, un vero antisemita deve essere un sionista». [1]

Lo scrittore israeliano dimentica però di dire che anche i sionisti, in maniera perversa, hanno incoraggiato gli antisemiti affinché allontanassero gli ebrei dai loro paesi e li consegnassero agli attivisti sionisti pronti a portarli nelle colonie in Palestina. Un vero sionista è un amico degli antisemiti.
Questo aspetto vergognoso della storia del sionismo inizia con il suo stesso fondatore, Theodor Herzl. Nell’agosto del 1903, Herzl si recò nella Russia zarista per una serie di incontri con il Conte von Plehve, ministro antisemita dello Zar Nicola II e Witte, ministro delle finanze. Gli incontri avvennero meno di 4 mesi dopo l’orrendo pogrom di Kishinev, di cui era direttamente responsabile von Plehve. Herzl propose un’alleanza, basata sul comune desiderio di far uscire la maggior parte degli ebrei russi dalla Russia e, a più breve termine, allontanare gli ebrei russi dal movimento socialista e comunista. All’inizio del primo incontro (8 agosto) von Plehve dichiarò che egli si considerava «un ardente sostenitore del sionismo». Quando Herzl cominciò a descrivere lo scopo del sionismo, il Conte lo interruppe affermando: «Predicate a un convertito».
In un successivo incontro con Witte, il fondatore del sionismo si sentì dichiarare apertamente: «Avevo l’abitudine di dire al povero imperatore Alessandro III: se fosse possibile annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, io ne sarei perfettamente soddisfatto; ma non è possibile; allora dobbiamo lasciarli vivere». E quando Herzl disse di sperare in qualche incoraggiamento dal governo russo, Witte rispose: «Ma noi diamo agli ebrei degli incoraggiamenti ad emigrare, per esempio dei calci nel sedere».[2]
Il risultato degli incontri fu la promessa di von Plehve e del governo russo di «un appoggio morale e materiale al sionismo nel giorno in cui alcune delle sue azioni pratiche sarebbero servite a diminuire la popolazione ebraica in Russia». [3]

«Se noi [sionisti] – diceva Jacob Klatzkin – non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la sfera della propria esistenza. É giusto, quindi, che essi [gli anti-semiti] lottino contro di noi per la loro integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che desiderano difendere i nostri diritti».[4]

Queste parole, e l’atteggiamento conseguente dei sionisti, hanno certo dato argomenti preziosi ai nazisti che sostenevano appunto che gli ebrei erano una nazione estranea nella loro nazione.

«Per i sionisti – affermava senza vergogna Harry Sacher, un sionista inglese – il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e comprensione per il nazismo, di cui l’anti-semitismo è probabilmente un aspetto passeggero».[5]

Non è solo cecità politica, è collaborazione criminale col nemico degli ebrei. E Lei, Presidente, vuole chiudere gli occhi su questo aspetto della storia del sionismo? Le ricordo poi che i nazisti rispondevano molto positivamente alle offerte dei sionisti come dimostra questo brano di una loro circolare:

«I membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date le loro attività dirette verso l’emigrazione in Palestina, trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche (cioè gli assimilazionisti)».[6]

E Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS dichiarava:

«Il momento non può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra benevolenza ufficiale li accompagnino».[7]

La colonizzazione della Palestina era ben vista dai nazisti. Tra colonialisti ci si intende. Questo per ricordarLe che i nazisti, con l’aiuto consapevole dei sionisti, hanno colpito solo quegli ebrei che intendevano vivere nei paesi in cui erano nati e non volevano rendersi responsabili dell’occupazione della Palestina e della conseguente e inevitabile cacciata dei palestinesi. Queste vittime ebraiche non erano sioniste, erano semmai assimilazionisti o antisionisti. Dopo l’Olocausto, l’Occidente non ha fatto altro che premiare i sionisti consegnando loro la terra dei palestinesi e facendo pagare a chi non aveva nessuna colpa, il caro prezzo dello sterminio degli ebrei avvenuto per diretta responsabilità di alcuni paesi europei e per l’ignavia di altri nonché per il folle piano sionista. La collaborazione tra sionisti e nazisti é stata possibile anche, al di là dell’aspetto pratico della comune volontà di portare gli ebrei in Palestina, perché l’ideologia sionista e quella nazista avevano un punto in comune, come riconosce l’ebreo sionista Prinz:

«Uno Stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza (cioè la Germania nazista) può solo avere rispetto per quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo».[8]

Lo stesso personaggio si rendeva conto della situazione paradossale che si veniva a creare, e ammetteva:

«Per i sionisti era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante sembrare essere considerati i figli prediletti del governo nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti chiedevano un “comportamento più coerentemente sionista” ».[9]

E tuttavia la collaborazione andò avanti. Fu una collaborazione multiforme che ricostruisco nel mio saggio La natura del sionismo[10]. Le voglio ricordare, per finire, l’invito di Dov Joseph, caporione dell’Agenzia Ebraica, che sul finire del 1944, quando gli ebrei morivano a centinaia di migliaia nei lager, parlando a giornalisti sionisti in Palestina preoccupati delle notizie dei massacri, li mise in guardia contro «la pubblicazione di dati che esagerano il numero delle vittime ebraiche, perché se noi annunciamo che milioni di ebrei sono stati massacrati dai nazisti, poi ci chiederanno, a ragione, dove sono i milioni di ebrei per i quali noi rivendichiamo una patria quando la guerra sarà finita». [11]

Questo può bastare, ma ho l’ardire, signor Presidente, di consigliarLe di approfondire l’argomento.

La storia del sionismo è una storia criminale, non è sorprendente quindi che i sionisti e lo Stato sionista continuino a trattare così barbaramente i palestinesi. Ma la mia preoccupazione va al di là della tristissima situazione del popolo palestinese che tutti sembrano dimenticare.
Sinceramente, signor Presidente, vogliamo fare la fine degli Stati Uniti in Iraq? Oggi personaggi importanti negli USA, come l’ex presidente Jimmy Carter, o gli studiosi universitari Mersheimer e Walt si sforzano di aprire gli occhi ai loro compatrioti sulle conseguenze della cieca politica estera elaborata a Tel Aviv e nei circoli dei neoconservatori sionisti di Washington che gli Stati Uniti stanno conducendo in Medio Oriente. Crede che la guerra in Iraq sia stata fatta per le armi di distruzione di massa di Saddam? Per la minaccia che l’Iraq rappresentava per l’Occidente? Per l’esportazione della democrazia? Per gli interessi petroliferi americani? Molti sostengono quest’ultima ipotesi (le altre sono miseramente crollate). Ma il petrolio non si compra sul mercato? E poi quanto verrebbe a costare se dobbiamo fare una guerra ad ogni paese produttore? Signor Presidente, la guerra è stata fatta per eliminare un possibile rivale di Israele e per consolidare il dominio sionista in Medio Oriente. Adesso Tel Aviv invita l’Occidente a distruggere l’Iran, e ricatta tutti facendo capire che se non lo facciamo noi, sarà proprio Israele a farlo. Come? Invadendo l’Iran? No Presidente, sappiamo tutti che Israele ricorrerebbe alle sue armi nucleari.
Gli americani si stanno accorgendo, a proprie spese, di cosa voglia dire essersi fatti invischiare in una guerra assurda in Iraq per gli interessi di Israele. E noi non ce ne vogliamo rendere conto. Vogliamo veramente farci coinvolgere nella guerra nucleare contro l’Iran? Nella guerra mondiale contro l’Islam?
Prenda esempio dall’ex-presidente Carter e denunci l’Apartheid di Israele. Se non lo vuole fare Lei, lasci che qualcun altro, per il bene dell’umanità, degli ebrei e dei palestinesi, continui a denunciare il sionismo e si batta per uno Stato unico, democratico, pacifico in Palestina per tutti i suoi abitanti, nessuno escluso.

Signor Presidente,
Lei non si ricorderà di me, eppure noi ci siamo conosciuti e ci siamo parlati. Fu in una triste occasione. Qualche anno fa, all’aeroporto di Fiumicino, Lei in rappresentanza del suo partito venne a portare solidarietà a mia sorella, Marisa, che, dopo aver partecipato ad una manifestazione pacifista a Gerusalemme, solo perché guardava da dietro la vetrata dell’albergo i poliziotti israeliani che massacravano un ragazzino palestinese per strada, perse un occhio quando da un idrante con la stella di Davide spararono uno spruzzo talmente violento da infrangere il vetro e conficcarle una scheggia nell’occhio. Allora veniva a porgere un saluto a mia sorella che aveva pagato per difendere i diritti e la dignità dei palestinesi. Oggi con la sua dichiarazione inaccettabile accusa gli antisionisti, e molti sono ebrei, che si battono per uno Stato democratico in Palestina mettendoli nello stesso immondezzaio degli antisemiti.

Credo, signor Presidente, che i sionisti sono riusciti a fare con Lei, ancora peggio che con mia sorella.

A lei sono riusciti ad accecare non uno, ma tutti e due gli occhi!

Distinti saluti

                                                                                  Manno Mauro

*
***
*

[1] Jewish Chronicle, 22 gennaio 1982.

[2] Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif? Parigi, Petite collection Maspero, 1981, pp. 174-75.

[3] Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif? cit. p. 174.

[4] Jacob Klatzkin, (1925), citato in Jacob Agus, The Meaning of Jewish History, in Encyclopedia Judaica, vol II, p. 425.

[5] Harry Sacher, Jewish Review, settembre 1932, p. 104, Londra.

[6] Circolare della Gestapo bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23 gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, Zionists and Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930’s, Herzl Yearbook, vol VI, p. 340.

[7] Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS, The Visible Enemy, articolo pubblicato in Das Schwarze Korps, organo ufficiale delle SS, maggio 1935.

[8] Joachim Prinz, (1936), citato in Benyamin Matuvo, The Zionist Wish and the Nazi Deed, Issues, (1966/67), p. 12.

[9] Joachim Prinz, Zionism under the Nazi Government, in Young Zionist, Londra, novembre 1937, p. 18.

[10] La natura del sionismo, supplemento al numero 56, novembre 2006, di Aginform.

[11] Yoav Gelber, Zionist Policy and the Fate of European Jewry, p. 195.


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Giancarlo Paciello, legge il libro «I bianchi, gli ebrei e noi». L’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja.

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Antoine Sanguinetti (1917-2004). Rileggendo «Corrispondenza internazionale»: Un mito pericoloso: la “sicurezza”.

Corrispondenza Internazionale 1982

Corrispondenza Internazionale 22

Corrispondenza Internazionale,

Periodico di documentazione culturale e politica,
Anno VII, NN. 20/22,

Luglio 1981/Febbraio 1982.

Redazione: Giancarlo Paciello, Carmine Fiorillo.


Antoine Sanguinetti

Un mito pericoloso: la “sicurezza”

“L’ammiraglio Antoine Sanguinetti, messo anticipatamente in pensione in virtù di un decreto di Valery Giscard d’Estaing per aver fatto uso del diritto di parlare, di questo diritto ne fa oggi un dovere. Con l’autore, alla sua quarta fatica, si sfoglieranno le pagine degli annuari militari che indicano il bilancio reale delle forze Est/Ovest; si scopriranno rapporti pubblicati dalla N.A.T.O., dalla Commissione Trilaterale, sconosciuti al grande pubblico, e che svelano l’origine dell’evoluzione (antidemocratica delle democrazie occidentali); con la lettura di questo libro si prenderà conoscenza di leggi dimenticate che ci ricordano i nostri diritti di cittadini. Questo libro si rivolge a tutti coloro che si interessano ai problemi politici internazionali e nazionali; Contiene informazioni ed analisi abitualmente riservate agli specialisti; espresse qui con un linguaggio volutamente semplice e chiaro …”.

 

Ecco quanto è scritto sul retro di copertina del libro di Antoine Sanguinetti, Le devoìr de parler, Editions Fernand Nathan, 1981. Presentiamo al lettore italiano la traduzione del sesto capitolo (Un mythe dangereux, la “sécurité”). Nella Prefazione (pp. 7-8), Sanguinetti scrive: “In questa fine di secolo, i paesi del mondo intero sono divenuti la posta in gioco e gli oggetti di un processo di gigantesca colonizzazione, attuata dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica; un processo che tende a stabilire un nuovo ordine mondiale, fondato su una nuova suddivisione di zone d’influenza. Ora, con il pretesto della minaccia di una forza sovietica sistematicamente sopravvalutata dai mass-media occidentali e dalla NATO per giustificare l’Alleanza, gli Stati europei si schierano per la dominazione americana. Le voci che denunciano questo fatto si perdono in un brusio di idee acquisite che ci si sforza, con tutti i mezzi, di inculcare negli europei. Per perpetuare, la rassegnata obbedienza dei popoli a questo sistema, questi ultimi sono mantenuti in uno stato che è a mezza strada tra l’ipnosi e l’ignoranza Si mette iri opera di tutto per persuadere i popoli europei. che gli affari mondiali sono loro ormai inaccessibili tanto essi sono incomprensibili ai comuni mortali, quanto appare ineluttabile e fatale il corso che essi prendono. I grandi mezzi moderni di informazione, agli ordini dei governanti e dei possidenti, si incaricano di accentuare questa anestesia, che piace a ‘coloro che sanno’, e serve ai disegni di ‘coloro che dirigono’ gli affari dell’Occidente”.

***

La nozione di sicurezza è. relativamente recente. Da sempre, in Europa, e fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si parlava in realtà di difesa, non di sicurezza. La difesa era 1’approccio tradizionale delle nazioni europee che riguardava soprattutto il loro territorio. Consisteva nel battersi quando si era attaccati, o quando si credeva di esserlo: era chiaro e senza ambiguità. Ciò avveniva soltanto quando un vicino turbolento decideva d’invadervi per strapparvi una provincia o una garanzia, o più raramente un impegno. Gli eserciti, nati o meno dal popolo, si dirigevano allora in massa contro il “nemico”, “per difendersi dall’aggressione”, per respingerlo al di là delle frontiere. Si era così in guerra per un certo tempo; ma, altrimenti, si era più spesso in pace.
Oggi tutto è cambiato perché gli Stati Uniti hanno inventato, per giustificare la loro partecipazione a due guerre mondiali, una nozione di sicurezza che apre orizzonti molto diversi e che essi hanno imposto come dottrina alle alleanze militari alle quali partecipano e che dominano in virtù della loro potenza.

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La genesi del concetto di sicurezza

Tutto è cominciato dalla partecipazione degli Stati Uniti alle due guerre mondiali, 1914-’18 e 1939-1945. Dal punto di vista dei cittadini americani, terribilmente conformisti, c’erano state due deroghe fragranti, e che richiedevano delle spiegazioni, alla sacrosanta dottrina Monroe, di cui essi si nutrivano fin dalla nascita, come uno dei dieci comandamenti che governavano il loro Stato: in politica estera, divieto di immischiarsi nei fatti estranei al loro continente.
Come giustificazione, il pretesto di difesa, così comodo in Europa, non era sufficiente. Innanzitutto, il governo americano, almeno nel 1940, aveva fornito materiali agli Alleati, fin dall’inizio delle ostilità; poi, ci si è sempre posti la domanda di sapere se Roosevelt non fosse al corrente dell’attacco di Pearl Harbour e non lo avesse deliberatamente lasciato compiere per poter impegnare il suo paese nella guerra; infine, il territorio degli Stati Uniti (il territorio propriamente detto, non era mai stato direttamente minacciato. Evidentemente! Il suolo stesso degli Stati Uniti è in realtà inaccessibile ad ogni nemico e le sue frontiere sono fisicamente inviolabili. Al Nord e al Sud, ci sono il Canada ed il Messico, due nazioni talmente pacifiche che sarebbero incapaci di scalfire il loro grande vicino anche se lo volessero; quanto all’Est ed all’Ovest, due immensi oceani, rigorosamente insormontabili in forze, quando si pensi ai prodigi d’immaginazione, di preparazione e di esecuzione ai quali furono costretti gli Alleati nel 1944, per superare il magro fossato della Manica.
È stato detto, perciò ai più accaniti discepoli di Monroe che, dal momento che degli interessi esterni degli Stati Uniti erano stati attaccati – navi mercantili o colonia (Hawaii) era stato indispensabile battersi, per garantirsi la sicurezza. È con la stessa ottica che dovette giustificarsi nel dopoguerra Truman nel mettere in piedi l’Alleanza atlantica: la sicurezza futura degli Stati Uniti esigeva che essi non potessero essere trascinati in un terzo conflitto per difendere 1’Europa, ivi compreso il nemico di ieri, il giorno in cui gli staliniani, assimilati agli hitleriani per facilitare l’adesione popolare all’uscita dalla guerra, tenteranno di impadronirsene. Così reggeva: certo non si andava a dire al popolo che il vero obiettivo era di integrare 1’Europa in un Impero che stava nascendo.
Si tratta in realtà di un’ideologia
Era il momento in cui gli Stati Uniti, ubriacati dalla vittoria, cedevano al complesso di potenza. Nello stesso tempo, il Pentagono, impegnato in un’alleanza firmata per cinquant’anni, codificava la dottrina di sicurezza che doveva regolarla. Non bisogna perdere di vista che ciò è stato realizzato sotto la presidenza di Truman, venditore d’ombrelli del suo Stato, e nel quale dunque il politico era largamente superato dallo spirito di un commerciante molto sensibile a problemi relativi a grossi guadagni. Infine la dottrina della “sicurezza nazionale” è stata presentata al Congresso da Harry Truman il 12 marzo 1947, due anni prima della firma del trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica. In questo trattato, molto breve, proprio la parola “sicurezza” compare nove volte; ma mai nel contesto ideologico che manifesterà apertamente sette anni più tardi, nell’articolo 30 del rapporto del Comitato dei Tre. E tuttavia, si tratta proprio di un’ideologia.
La base della dottrina è che gli interessi degli americani, che non hanno molti territori esterni come la Francia, sono sostanzialmente collegati tal concetto di “libera impresa”, fondamento del capitalismo, che ha fatto la loro potenza, consentendo loro di prendere il controllo dell’economia mondiale. Molto logicamente perciò, ogni minaccia a questo controllo, contro le multinazionali che lo esercitano, o contro l’ideologia economica sulla quale poggia, diventa una minaccia alla loro sicurezza ed esige la loro ingerenza negli affari degli altri. Anche qui, la cosa si regge, pur non essendo molto entusiasmante per noi. A partire da ciò, in modo più che semplicista, la dottrina divide il mondo contemporaneo in due campi antagonistici e due soltanto [secondo i più puri principi del manicheismo. Da una parte il Bene, l’Occidente – vocabolo rassicurante, evocatore di cultura e di storia molto più di quanto faccia il capitalismo – ed il suo succedaneo, il colonialismo. Dall’altra, il comunismo, identificato con il Male assoluto. Tra i due non può esserci nulla, perché le due ideologie antinomiche si abbandonano ad una guerra permanente che assume su tutti i piani i caratteri di un conflitto totale e non sopporta perciò alcun compromesso. Secondo questa dottrina, la sicurezza degli Stati Uniti è in gioco perciò dovunque il comunismo rischia di affermarsi, o democraticamente attraverso le elezioni, o attraverso rivolte interne di minoranze, o attraverso pressioni esterne sulle nazioni. Ogni ricerca di una terza via ideologica più sfumata è pericolosa e viene qualificata immediatamente e preventivamente come “assurdità neutralista”, perché, tutto ciò che allontana dal capitalismo ortodosso avvicina al comunismo. Del resto, a ben riflettere, anche se si tratta di soluzioni rispettose delle libertà, oltre che più conformi ai valori tradizionali dei popoli cui ci riferiamo, come il socialismo europeo, non possono risultare che manovre sovversive nelle quali si riconosce evidentemente la mano di Mosca: perché chi potrebbe, senza essere manipolato, desiderare altro che l’“american way of life” (la concezione americana della vita)? E, dicendo così, gli americani sono certamente in buona fede, tanto è forte il loro sentimento che non possa esservi nulla di meglio.
Questa dottrina della “sicurezza” presenta evidentemente dei vantaggi considerevoli quando ci si è fatti carico, come gli Stati Uniti, della protezione di un certo numero di clienti: perché il confondere la sicurezza del “mondo libero” con quella del capitalismo internazionale offre evidentemente delle facilitazioni per imporre la sua egemonia economica ai suoi partner ed integrarli così, progressivamente, al proprio Impero. l militari americani che affinavano la dottrina due anni prima della firma del trattato Nord-Atlantico sapevano quello che facevano. In quel momento, ormai, per ogni nazione che si preparava ad associare la propria sicurezza a quella degli americani nel quadro di un’alleanza ineluttabilmente dominata da questi ultimi, ciò comportava l’accettazione dei principi del sistema capitalistico e di schierarsi ipso facto sotto la bandiera yankee; l’accettazione della loro egemonia, economica innanzitutto, ma anche, di conseguenza, culturale e politica. È quello che è capitato all’Europa Occidentale, noi compresi. Ma questo pericolo di rinuncia alla propria indipendenza, già grande e che avrebbe dovuto bastare per far condannare il sistema, non era la sola cosa dell’operazione.

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I pericoli insiti nella dottrina

Perché bisogna anche saper vedere la terribile pericolosità di questo “concetto di sicurezza” sul piano della democrazia alla quale non può fare che dei danni; alla quale ha già fatto, e realmente, dei danni. E ciò, per diverse ragioni. La prima è che, dal momento che la sicurezza è uno stato precario per natura, la nazione che si richiama ad essa si mette, ipso facto, in uno stato di guerra permanente. Ciò significa, sembra proprio di sfondare una porta aperta, che lo stato di pace. non esiste più. Bisogna trarne interamente le conseguenze: la nazione sarà dunque in stato di assedio, la qual cosa comporta sempre un allontanamento dal diritto comune; l’azione preventiva, anche all’esterno, diventa legittima; con il pretesto dell’urgenza di risposte necessarie si può finire con l’escludere ogni controllo democratico di queste risposte. Inoltre, in nome della travolgente ricerca di una sicurezza inaccessibile in assoluto, si rischia di portare indietro i limiti della legittimità d’azione del potere incaricato di questa sicurezza. E poi, chiunque esprima l’idea che il sistema economico. di libera impresa non è, obbligatoriamente, il migliore, e che potrebbe essere cambiato, diventerà per ciò stesso un pericolo, un nemico che deve essere perseguito in quanto sovversivo. C’è così, in tutto questo, un attentato diretto e specifico alle libertà d’opinione e d’espressione, che inceppa automaticamente il gioco normale della democrazia. Infine, nella misura in cui posizioni politiche divergenti – senza arrivare a parlare di opposizione – possono manifestarsi ovunque, senza riferimento alle frontiere, si aggiunge alla nozione classica di avversario dell’esterno, quella di nemico dell’interno, il famoso nemico interno. E si sopprime con l’occasione la distinzione essenziale tra l’Esercito e la Polizia. In ogni caso, per questo accumulo di restrizioni delle libertà fondamentali e di lotta eventuale contro i suoi stessi cittadini, si creano ineluttabilmente condizioni di dissidenza e di repressione, di terrorismo e di contro-terrorismo al limite della rivolta armata e della guerra civile. C’è di che diffidare, almeno. E, comunque, di che riflettere.

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La degradazione della democrazia americana

Effettivamente sul continente americano, dopo che il Pentagono ha promosso la sua nuova dottrina al rango di una mistica che ha sostenuto gli Stati Uniti da Truman in poi e che continua ancora oggi, i risultati non si sono fatti attendere. Anche in questo paese, dove gli animi sono pure in via di principio impregnati di democrazia e di Diritti dell’Uomo, la dottrina ha immediatamente spinto alla caccia dei comunisti, sotto l’alta direzione di McCarthy, dal 1948 al 1952. Chiunque esprimeva un dubbio sull’azione del governo, o sulla giustizia del sistema sul piano internazionale, economico, sociale, razziale o altro, era tacciato di comunismo, e trascinato di fronte alla Commissione d’Inchiesta. Fu in quegli anni che si verificò l’abominevole caso dei coniugi Rosemberg, di cui recentemente, si è occupata anche la televisione. Le cose poi, si sono molto ridimensionate fortunatamente. Ma, 1’ho già detto, la nozione stessa di guerra permanente e totale esige una sottomissione assoluta di tutti allo Stato, e che questo possa reagire immediatamente ai pretesi attacchi dell’avversario. Si rischia così che, molto presto, esso non tolleri più alcun freno.
E così, com’era prevedibile,1o Stato americano ha subito progressivamente una degradazione delle sue istituzioni: potenza crescente degli uomini dell’apparato e, parallelamente, deterioramento del controllo del legislativo sull’esecutivo, controllo che è pur sempre la base di ogni democrazia; fino alla battuta d’arresto del Watergate, diretto inizialmente proprio contro gli uomini d’apparato prima di coinvolgere Nixon con loro.
Oggi, tuttavia, si vedono ancora a Washington “consiglieri personali” del Presidente, per esempio, proprio per la sicurezza, l’illustre Brzezinski: il fatto è che si sono prese delle nefaste abitudini, e la famosa democrazia americana le conserva come una ferita cronica, una piaga aperta. Detto questo, se i danni della dottrina fossero rimasti limitati agli Stati Uniti, non me ne sarei preoccupato troppo: tanto peggio per loro, bastava che non la inventassero. Ma loro l’hanno imposta, per favorire la loro potenza, ad altri popoli intrappolati in alleanze, decennio dopo decennio, senza che se ne veda la fine. E noi francesi, come gli altri europei, siamo direttamente coinvolti.

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Danni in America Latina

Ma, prima di parlare dell’Europa; voglio fermarmi un momento, rapidamente, sull’America Latina. L’insieme delle Americhe, è, da molto tempo, la principale riserva di caccia degli Stati Uniti, ed è considerata come strettamente legata alla loro sicurezza. La dottrina di difesa del sistema politico-economico nord-americano doveva perciò almeno qui cavarsela con onore, se così posso esprimermi. In queste nazioni latino-americane feudali e sottosviluppate, nelle mani di persone meno impregnate di tradizioni democratiche dei nord-americani, era evidente che avrebbe fatto dei danni, C’era da aspettarselo, ed è successo! Numerosi militari dell’America Latina, da 80 a 90mila, sono stati istruiti nelle scuole specializzate degli Stati Uniti, in particolare a Panama, dove hanno preso a grosse dosi questa dottrina militare straniera, che identifica la sicurezza della nazione con quella del sistema economico. In queste condizioni, una volta rientrati a casa loro, ogni volta che la miseria e l’ingiustizia sociale provocavano delle sommosse popolari che puntavano più che comprensibilmente a cambiare lo stato delle cose, costoro hanno applicato la lezione imparata, attribuendone la causa alla “sovversione del comunismo internazionale”, alla “mano di Mosca”, per reprimerle selvaggiamente. In questa ottica, essi hanno spesso preso il potere per dichiarare una guerra permanente ai loro concittadini, sospettati di essere complici del “nemico”. E quando la disperazione spingeva degli intellettuali ad un terrorismo incapace dopo tutto di coinvolgere le masse, questi ufficiali hanno promosso un contro-terrorismo assolutamente sproporzionato rispetto a quello cui diceva di opporsi, e rispetto ai pericoli reali della “sovversione”.
La maggior parte delle nazioni latino-americane si trovano così oggi sotto il tallone di dittature sanguinarie: né con la complicità né con l’approvazione del popolo americano, sempre annegato nei buoni sentimenti, ma con l’appoggio attivo della CIA che non si fa certo mettere in imbarazzo dagli scrupoli. E’ molto comoda, e molto pratica, questa dualità d’apparenza e d’azione che permette di conservare una buona immagine di marca e una coscienza angelica, mentre la CIA fa tranquillamente i suoi tiri mancini. Si trovano, così, “giunte” di sicurezza nazionale in Cile – che non aveva tuttavia mai ceduto alle delizie dei colpi di Stato militari – e poi in Brasile, in Argentina, in Paraguay ed in Uruguay, in Bolivia ed in El Salvador. In Nicaragua il popolo, guidato dai sandinisti, è riuscito a sbarazzarsene malgrado l’appoggio americano a Somoza.
In tutti gli altri paesi che ho appena citato, in diverso grado e con sfumature diverse, regna sempre l’orrore e l`arbitrio: in El Salvador, dove quattordici famiglie, che controllano l’esercito e posseggono le terre, rifiutano ogni riforma agraria e fanno assassinare dai 30 ai 40 contadini al giorno, quando non è la volta dell’arcivescovo Romero, per perpetuare il sistema; in Paraguay, che geme da trenta anni sotto la dittatura sanguinosa del generale Stroessner; in Uruguay, che detiene il record mondiale dei prigionieri politici in rapporto alla sua popolazione. Del resto, è proprio là che un altro generale, Liber Seregni, è stato condannato a 14 anni di reclusione dai suoi pari, ed è stato degradato, per aver presentato la sua candidatura alla presidenza come un volgare civile, invece di usare i metodi normali della sua casta. Ed è stato condannato per perversa inclinazione alla democrazia. Per il Brasile, l’Occidente è abbastanza contento e le sue relazioni internazionali sono buone. Là, i militari applicano la dottrina di sicurezza nazionale ortodossa: uccidono, ma moderatamente; praticano una selezione. E poi, sono più ricchi di altri: bisogna, perciò, tenerseli da conto. Il Cile, invece, è stato più maldestro, al punto da diventare imbarazzante. Non si può incominciare massacrando un Presidente. E anche un po’ miope, ed è necessario che il mondo condanni, compresa Washington, senza giungere tuttavia alla rottura delle relazioni diplomatiche. Perché, alla fin fine, il colpo di Stato di Pinochet ha comportato il ritorno massiccio ed il ristabilimento degli interessi americani in Cile, e non bisognava esagerare nello storcere la bocca, correndo il rischio di offendere i nuovi dirigenti di questo paese. E poi, il Pinochet – non lo si dirà mai abbastanza –, resta comunque relativamente moderato rispetto ad altri come Videla. È vero che ha imprigionato migliaia di persone, che ne ha fate uccidere centinaia, ma a costoro veniva sempre contestato qualcosa. Venivano arrestati per essere giudicati: per ragioni più o meno credibili, ma sempre per giudicarli, con un capo di accusa. Quanto al nome degli uccisi, lo si conosce di quasi tutti: ci sono relativamente pochi scomparsi. Non è come in Argentina!

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Il caso particolare, ed estremo, dell’Argentina

In Argentina, ciò, che c’è di sconvolgente, è il metodo messo a punto: non si sa chi è in carcere, non si sa chi è morto, non si sa chi sopravvive. È questo l’aspetto peculiare e che può condizionare nel terrore un’intera popolazione. E tutto ciò dura da anni. Sono scomparse, a dir poco, diciamo 15.000 persone, uomini, donne, adolescenti o bambini di pochi anni, spesso bambini di pochi mesi, colpiti evidentemente dal virus della sovversione, e tutto questo continua. Tutto è cominciato, d’altronde, con le 3A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare fascista di cui si sostiene sia un’illustre membro l’ammiraglio Massera, capo della Marina ed uno dei quattro della giunta che prese il potere. Ora, dell’AAA, non si parla più, è superata. Siamo ora in presenza delle “bande incontrollate”, come dicono loro. Quando sono andato in Argentina, nel gennaio 1978, per indagare per conto della Federazione internazionale dei Diritti dell’Uomo, non avevano che queste parole in bocca. Sono stato ricevuto per tre quarti d’ora dal ministro degli Affari esteri, l’ammiraglio Montès; per due ore dal ministro degli Interni, il generale Harguindeguy; per una mezz’ora dall’ammiraglio Massera, già citato; tutti ammiragli o generali, ovviamente. E il discorso era sempre lo stesso: “Ci calunniano. Noi non abbiamo che 3.472 prigionieri politici; presto renderemo nota la lista dei loro nomi; tutti gli altri, non è che li neghiamo, ma si tratta dell’operato di bande incontrollate”. Solo l’ammiraglio Massera – tra colleghi ce lo si può’ permettere – mi lascerà intendere confidenzialmente che la Marina è senz’altro pura, ma che “l’Esercito è imbottito di fascisti”. Queste “bande incontrollate”, ho avuto occasione anch’io, come tutti, di vederle passare a Buenos Aires: sono membri della polizia e delle forze armate, in borghese, salvo quando non hanno avuto il tempo di cambiarsi, ma che non esitano mai a far mostra della loro identità, ostentando loro documenti ufficiali; che circolano su macchine dell’Esercito senza targa; con una dotazione molto omogenea, di armi dell’Esercito, non pistole come capita sempre per gli oppositori o per i terroristi improvvisati. E la Polizia bloccava in ogni occasione il traffico per lasciarli passare, la qual cosa dimostrava con chiarezza la volontà del governo di por fine a queste pratiche. Sembra che un certo numero di persone che scompaiono, vengano bruciate di notte. Una volta si ritrovavano dei cadaveri galleggianti sui fiumi, in mare, ma ciò si notava troppo; oggi, più niente di tutto ciò. Ma si vedono correntemente camion dell’Esercito che trasportano corpi, di notte, ai forni crematori dei cimiteri di Buenos-Aires. Il lavoro non viene fatto su grande scala tanto da giustificare le camere a gas, come sotto Hitler.

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Una internazionale del terrorismo di Stato

C’è disgraziatamente un fatto ancor più grave, ammesso che ciò sia possibile, di tutte queste situazioni particolari di ciascun paese dell’America Latina: è la nascita di una vera «internazionale del terrorismo di Stato, organizzato, sembrerebbe, sotto l’egida dell’Argentina. Questa internazionale estende ormai le sue ramificazioni senza rispetto delle frontiere, a spese dei rifugiati politici che hanno commesso l’imprudenza di restare nel loro continente, in prossimità del loro paese. Molto presto, dopo il colpo di Stato del 24 marzo 1976, i rapimenti e gli assassinii in Argentina dell’ex-presidente boliviano, il generale Juan José Torres, e dei dirigenti politici uruguayani Zelmar Michelini e Hector Gutierez Ruiz, così come di numerosi rifugiati cileni, uruguayani, paraguayani, brasiliani.
Ma, anche fuori dell’Argentina, i fatti si moltiplicano. All’inizio del 1977, a Lima, scompare l’argentino Carlos Maguid. Poi, nel novembre e del dicembre del 1977, in Uruguay, le incarcerazioni, la scomparsa o gli assassinii di diversi argentini: così, Oscar de Gregorio, trasferito illegalmente in Argentina; Jaime Dri, trasferito illegalmente alla famosa Scuola di meccanica della Marina di Buenos Aires, da dove evade nel luglio l978; il pianista Miguel Angel Estrella, che resterà incarcerato a Montevideo fino alla sua liberazione, alla metà di febbraio del 1980, sotto la pressione internazionale. In Brasile: scomparsa nell’agosto del l978 a Rio dell’argentino Norberto Habegger; poi, nel marzo 1980, di Susanna Winstock e di Horatio Domingo Campiglia, che avevo avuto personalmente occasione di incontrare a Parigi. Non era un terrorista. Nei primi giorni di luglio. del l980, scomparsa nel sud del Brasile del reverendo padre Jorge Adur, che si era spostato dall’Argentina in Brasile con la speranza di incontrarvi papa Giovanni Paolo II. Io avevo avuto ugualmente occasione di incontrarlo a Parigi, nel 1978. Non era in nessun caso un terrorista: piuttosto un giusto, preoccupato della sorte dei miseri.
A metà giugno del l980, scomparsa in Perù di cinque argentini. Si sostiene e si scrive sulla stampa di Lima, che l’operazione è stata eseguita da un commando argentino con l’appoggio degli ambienti più reazionari dell’esercito peruviano. Comunque sia, un mese più tardi, uno dei cinque scomparsi, la signora Noemi Esther Gianotti de Molfino, di 54 anni, membro del “Movimento delle madri della piazza di Maggio”, viene ritrovata assassinata a Madrid, in Europa questa volta.
Al di là delle operazioni puntuali contro alcuni individui, la stampa internazionale denuncia infine la partecipazione di consiglieri militari argentini agli sforzi sanguinosi di Somoza per restare alla testa del Nicaragua; ai massacri repressivi che colpiscono l’Honduras e El Salvador; al colpo di Stato dei militari boliviani il 7 luglio 1980, contro le-autorità legali, elette, del loro paese.
Tutti questi militari d’America Latina che hanno la fellonia – grazie alle armi fornite dal loro popolo per la sua Difesa – di arrogarsi il diritto di vita o di morte su di esso in funzione di concetti venuti dall’estero, dovranno certo un giorno render conto dei loro crimini davanti ad un tribunale internazionale. Come hanno fatto prima di loro, a Norimberga, i responsabili e gli esecutori dei massacri totalitari in Europa.
È normale che ci si indigni per il modo in cui l’URSS o la Cecoslovacchia trattano i loro oppositori. Ma, quando si conosce la storia di queste torture, di questi assassinii e di queste decine di migliaia di scomparsi, bisogna comunque constatare che esistono delle gradazioni, ai nostri giorni, anche nell’orrore. E, se non è monopolio di nessuno, è disgraziatamente in questi paesi dell’America Latina – che ci fiancheggiano nella “cristianità occidentale” – che è massimo oggi, sotto l’effetto di una dottrina che sta per contaminarci a nostra volta, noi europei.

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La posizione speciale dei francesi in Argentina

Ciò sembra in realtà impossibile agli europei, e la maggior parte rifiuterà, senza dubbio, di crederci fino a quando sarà troppo tardi. Noi ci sentiamo molto lontani da questo terrore, da queste dittature che si sono diffuse in America in questi ultimi anni. Eppure!
Ciò che in generale non si conosce sono i legami privilegiati tra alcuni francesi e il regime di Videla: la giunta militare argentina opera in realtà seguendo una variante della dottrina di sicurezza, detta “lotta contro la sovversione”. Questa variante è stata messa a punto dall’Esercito francese sotto l’egida di colonnelli-pensatori, a partire dall’ortodossia NATO, per giustificare ed organizzare i suoi metodi di “lotta” in Algeria. Essa consisteva in una combinazione del Terzo Ufficio “Operazioni militari” e del Quinto Ufficio “Azione psicologica”. In conclusione, questi co1onnelli, che rifiutavano di riconoscere il loro errore e di confessarsi vinti dalle aspirazioni di, un popolo all’indipendenza, si sono ritrovati nell’OAS. Dopo la sconfitta, una parte degli attivisti si rifugiò in Argentina dove gravitavano già, intorno all’ambasciata, alcuni sopravvissuti della collaborazione Vichy-nazisti: un certo Jean-Pierre Ingrand, presidente dell’Alleanza francese, che aiutò De Brinon nella sinistra faccenda delle “selezioni speciali” di Vichy, e fu costretto per questo ad andarsene in esilio; o, nella colonia francese, il dottor Verger, vecchio capo della milizia di Haute-Vienne; la cui donna si vantava, a torto o a ragione, di essere in possesso di un sacco di pelle di partigiano. Con l’aureola dei loro gloriosi precedenti in fatto di tortura e di ratonnádes [violenze esercitate contro un determinato gruppo etnico], alcuni si sono messi al servizio della giunta argentina e attraverso loro, per nostra grave onta, di vecchi ufficiali francesi: accaniti nel voler provare che, se avessero avuto carta bianca, avrebbero conservato l’Algeria alla Francia. Certamente, ma al prezzo di quale massacro? Si cita il generale Gardy, che fu ispettore generale della Legione e che aiuterebbe Videla come esperto anti-sovversione; mentre invece colonnelli, come Trinquier, sono andati ad insegnare in alcune caserme. I suoi libri sono in vendita in tutte le librerie di Buenos Aires: nessuno dubita che l’ultimo, La guerra, recentemente comparso nelle edizioni Albin Michél, e nel quale Roger Trinquier giustifica ancora una volta, in modo particolarmente convincente, l’uso della tortura da parte delle forze dell’ordine, risulterà un grosso successo.
La collaborazione raggiunge a volte delle vette: secondo France-Soir del 3 febbraio 1978, è un veterano dell’OAS che ha rapito, nel dicembre 1977, le due religiose francesi che non sono mai ricomparse. Questo veterano dell’OAS, di cui il giornale non cita disgraziatamente il nome, è stato riconosciuto da un testimone, da lui torturato tre mesi prima; dirigeva un gruppo di servizi speciali dell’Esercito, a La Plata. Diversi reduci dalle carceri argentine, come Cecilia Vasquez o Estella Iglesias, liberate nell’agosto del l979 per intercessione del re di Spagna, testimoniano anche loro di essere state “interrogate” da francesi. E così Jean-Píerre Lhande, presidente francese dell’Associazione dei parenti e degli amici dì scomparsi in Argentina, e sua moglie, torturati uno di fronte all’altro sotto un fiotto di parole proprie di casa nostra.

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Esistono rapporti privilegiati tra Videla e la Francia?

Va detto che, a più riprese, davanti alla Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU a Ginevra, il rappresentante francese ha espresso ufficialmente disapprovazione per il regime di Videla. Ma la parte nascosta dell’iceberg è, come si conviene, molto più importante. Già nell’ottobre 1977, è Michel Poniatowski, ricevuto ufficialmente a Buenos Aires come “ambasciatore personale” del presidente Gíscard, che pronuncia un discorso, rimasto celebre laggiù, per felicitarsi con i suoi ospiti per i loro metodi. È Raymond Barre che si intrattiene personalmente con Videla in Vaticano, il 4 settembre l978, in occasione dell’investitura di Giovanni Paolo I. È il ministro francese del Budget, Maurice Papon, che fa un viaggio ufficiale a Buenos Aires il 6 agosto 1979. È il segretario di Stato all’Agricoltura, Jacques Fournier, che fa visita a Videla all’inizio d’agosto del 1980, accompagnato dalla moglie; la qual cosa ha permesso, all’ambasciatore argentino a Parigi di affermare che “le relazioni trai due paesi sono assolutamente normali”.
Sono «anche» più che normali. Il 18 ottobre 1979, una commissione, senatoriale che si era recata in Argentina ed in Cile in settembre sotto la guida di Adolphe Chauvin dell’UDF, veniva ricevuta, al suo ritorno, dal ministro francese per gli Affari esteri. Essa si è lamentata della passività della Francia a fronte delle scomparse in Argentina e dell’ardore dimostrato invece nel vendere armi al Cile: “l6, Mirage sono stati venduti al Cile”, ha ricordato Adolphe Chauvin “io avrei preferito che la Francia non l’avesse fatto. Certamente, come avrebbe preferito anche che non avesse venduto all’Argentina, nel l979, dopo delle Alouettes-3, due aerei avviso-scorta, il Drummond e il Guerrico. Avrebbe preferito che il Quai d’Orsay (Ministero degli Affari Esteri) non avesse scelto per la Jeanne d’Arc, la nave scuola francese, un itinerario che l’ha condotta a Buenos Aires dall’1l al 17 gennaio l980, e poi in Cile, Punta Arenas e Valparaiso, dal 22 gennaio al 4 febbraio. Senza dubbio si potrebbero trovare esempi migliori da mostrare ai nostri giovani ufficiali.
A meno che, a Parigi non si condivida la valutazione dell’attaché militare francese a Buenos Aires, che additava – il 9 settembre 1979 – l’esempio esaltante dell’esercito argentino. In fondo, quel che ci interessa è che sarebbe preferibile che esistessero minori legami, minori simpatie proclamate tra il regime di Videla, i rifugiati francesi a Buenos Aires, ed un governo parigino, diversi membri del quale furono vicini all’OAS. Si sarebbe contenti che non fosse apparso che la Francia si fosse fatta carico, durante l’interim Carter negli USA, di garantire il sostegno a questa dittatura – ed anche ad altre – in attesa di un Reagan affiancato da un vice-presidente che ha diretto la CIA. Si vorrebbe soprattutto esser sicuri, nel momento in cui cresce dappertutto l’autoritarismo in Europa, che l’Argentina non serva come banco di prova, per piccolo che sia, per una eventuale normalizzazione della situazione europea.

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La contaminazione progressiva dell’Europa

Insomma, tutti gli europei non sono perciò innocenti. In ogni caso, sotto l’effetto di questo concetto di sicurezza importato dagli USA con la NATO, il nostro continente è visibilmente sul punto di “sud-americanizzarsi” a sua volta. Gli indizi sono numerosi; aumento dell’amalgama tra la difesa della nazione e quella del sistema economico – ciò che si chiama la società – anche in Francia; controffensiva generalizzata della destra per riconquistare il potere o per rimanerci, anche in Francia; aumento in parallelo di una violenza fascista riconosciuta di estrema destra, anche in Francia; tentativi di attacco ad alcune libertà fondamentali, anche in Francia, nella pratica o nella legge.
In Europa, che costituisce dopo Yalta la seconda zona privilegiata d’influenza americana, gli Stati Uniti hanno potuto realizzare subito dopo la guerra, con la NATO, una forza armata internazionale sotto il comando americano che è sempre stata rifiutata in America Latina. Ciò permetteva perciò, ancor più facilmente che laggiù, l’indottrinamento degli ufficiali sulla nozione di pericolo sovversivo. Detto questo, i militari del nostro continente non rappresentano, come in America Latina, il mezzo migliore per ancorare il loro paese all’Impero americano. Essi sono troppo solidamente tenuti in pugno dai politici. E loro stessi sono stati istruiti, da lunga data, dalla pratica democratica, a non gettarsi sul potere in funzione dei loro capricci o delle loro ambizioni.
Le strutture generali dell’Alleanza, al contrario, con il loro susseguirsi di riunioni periodiche di capi di Stato, di ministri, di parlamentari, permettono agli americani di fare a meno del tramite dei militari e di trovare direttamente, al livello degli uomini politici conquistati all’atlantismo, gli strumenti per il mantenimento delle buone scelte ideologiche. Hanno così potuto indottrinare e legare a sé il personale politico, incosciente in gran parte della manipolazione e della minaccia.
Le parole non sono neutre, ed il vocabolario usato è spesso la causa diretta del processo di ragionamento. Ora, è un. fatto che oggi la parola-chiave di “sicurezza”, caratteristica dell’approccio ideologico ai problemi di Difesa, è passata nel linguaggio corrente dei governi europei, e testimonia del loro impegno.

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La destra rialza la testa un po’ dovunque

Nella logica di questo processo, sembra che i campioni della libertà d’impresa e del capitalismo selvaggio ritengano che sia giunto il momento di ritardare i tentativi di emancipazione economica dei popoli occidentali. Le aspirazioni socialiste crescono dovunque nel mondo, e   l’emancipazione dovrà pure realizzarsi un giorno: perché non si possono sfruttare o asservire indefinitamente i popoli. Ma, più si ritarda, più costerà cara.
Oggi, in ogni caso, la destra si sente sempre più sicura di se stessa e rialza la testa in tutta l’Europa. Anche le forme più morbide di socialismo, come la socialdemocrazia, sono minacciate. Si poteva credere, tuttavia, che questa non costituisse una difficoltà ma piuttosto un alibi, per i ricchi insaziabili che dirigono il mondo. Ebbene no! Vi ricordate delle grida di gioia quando questa è stata battuta in Svezia, il 19 settembre l976, dopo 44 anni di governo, con un infimo scarto di voti, del resto? Negli altri paesi nordici (si era nel 1977, in Danimarca a febbraio, in Olanda a maggio, in Norvegia a settembre) i socialisti non sono stati battuti. Ma sono piccoli paesi, dal peso politico, limitato. ln Gran Bretagna, al contrario, è la vittoria: Margaret Thatcher, la dama di ferro, la Giovanna d’Arco dei conservatori, accede al potere il 3 maggio 1979. Anche il Portogallo, colpevole della “rivoluzione dei garofani” contro una aspra dittatura, è stato ricondotto «progressivamente, ad una maggiore ortodossia attraverso pressioni economiche ben impiegate; e le elezioni del 5 ottobre l981 lo hanno confermato. Mentre in Spagna, dove c’era stata una speranza reale di democratizzazione, le pressioni dei nostalgici del franchismo si accentuano sempre di più. Aggiungiamo, infine, a questa rubrica la vittoria inattesa della “Maggioranza” alle elezioni legislative francesi del 1978, vittoria amplificata certamente dallo scrutinio maggioritario in. esercizio, ma sempre vittoria.
La realtà profonda infine, sotto questo camuffamento di un “liberalismo” indefinito, è il riemergere dei peggiori fascismi; che si appoggiano l’un l’altro in un’internazionale neonazista. Non avendo reagito a tempo in Europa negli anni trenta, il mondo ha conosciuto 50 milioni di morti negli anni ’40. È necessario soprattutto, che non lo dimentichi, quando è ancora in tempo. Bisogna prendere coscienza che non sarà facile liberarsene. Più si aspetta, e più ci saranno sangue e lacrime.

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Primi attacchi ai diritti democratici

È evidentemente nelle grandi nazioni, Francia, Germania, Italia o Spagna, quelle che hanno fatto la storia, che si giocherà l’avvenire della nostra società ed il destino europeo. E’ questa la ragione per cui la Germania occidentale e l’Italia vivono una fase preoccupante. In questi paesi, sebbene a livelli molto diversi, è nata e cresciuta – in alcuni intellettuali usciti dalla classe privilegiata –, una tentazione di violenza totalmente inaccettabile. Che deve essere combattuta in quanto tale. Detto questo, è deplorevole che ciò avvenga; spesso con mezzi incompatibili con i valori ai quali la nostra civiltà sostiene di richiamarsi: gli stessi mezzi dell’avversario. Andiamo più lontano. Il terrorismo non ha giustificazioni. Ma che ruolo possono svolgere in esso la provocazione, o la manipolazione?
In Italia, l’Esercito al completo, compreso quello di leva, ha ricevuto, in occasione del rapimento di Aldo Moro, il compito di scendere in strada per completarvi l’azione della polizia. Ora, noi sappiamo – noi francesi –, attraverso l’esperienza dell’Algeria, che l’Esercito non deve mai immischiarsi nelle lotte all’interno, né soprattutto delle violenze all’interno: perché è orientato verso metodi di guerra che fanno astrazione dal diritto comune e generano immancabilmente degli abusi inammissibili. Si poteva perciò temere il peggio tanto più che l’apparato legale di repressione fascista non è mai stato totalmente abolito. Fortunatamente questo popolo civile, che sa cosa vuole dire il fascismo, dà testimonianza della sua maturità politica, reagendo con una moderazione e una dignità esemplari di fronte agli atti più barbarici, come l’attentato di estrema destra alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980.
Quanto alla Germania federale, come in America Latina, la repressione si rivela sproporzionata rispetto alla minaccia: per 16 terroristi ricercati nel l977, autori di 24 attentati in otto anni, attività minore in rapporto a ciò che abbiamo conosciuto noi stessi in Francia, con il FLN o l’OAS, si sono sviluppati l’amalgama, la delazione, il delitto d’opinione, il condizionamento delle masse. Il pericolo è irrisorio in rapporto agli incidenti stradali, ad esempio. Ma i mezzi di comunicazione di massa tedeschi si sono resi disponibili a creare artificialmente una psicosi d’insicurezza. senza misura alcuna con i fatti reali. E questa è servita come pretesto e come giustificazione, ovviamente, per un’evoluzione del diritto che attacca alcune libertà fondamentali.

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Il “Berufsverbot” in Germania

Ci sono state le interdizioni dalle professioni, o Berufsverbot, che costituiscono un flagrante attacco al diritto al lavoro, perciò alla vita; sotto pretesto d’opinione. Si applicano ai membri del partito comunista e vengono rispettate con raro accanimento: non è senza interesse per un francese analizzare un caso, per prendere coscienza di cosa si tratti. Farò riferimento al caso di un professore, Klaus Lipps, 37 anni, sposato, una figlia, insegnante di francese, matematica ed educazione fisica al liceo di Bühl. Sindacalista attivo e membro del partito comunista tedesco, gli viene revocato l’incarico una prima volta nel l975 dal governo del Bade-Wurtemberg diretto da un vecchio giudice della marina hitleriana, Hans Filbinger. In seguito a proteste diverse, nazionali ed internazionali, viene tuttavia reintegrato provvisoriamente a Bühl, con una disposizione provvisoria. L’anno successivo, 1976, dopo una querela al tribunale nella quale gli si rimprovera, tra le altre cose, di aver parlato ai suoi alunni della Resistenza francese contro il nazismo, viene trasferito a Baden-Baden. Tuttavia, nel novembre del 1976, l’atto di revoca del 1975 viene annullato dal tribunale. Il governo regionale fa comunque appello, ma nel maggio 1977 l’appello viene respinto dalla più alta corte del Land, quella di Mannheim. Klaus Lipps, sostenuto dalla opinione pubblica internazionale, crede di essere stato reintegrato definitivamente. Non per molto. Nel novembre 1977, in dispregio del giudizio consolidato, lo stesso governo regionale, ostinato, pronuncia contro Klaus Lipps una seconda interdizione dalla professione. Di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica, Hans Filbinger è costretto a dimettersi, ma il suo successore, Lothar Späth, conserva l’interdizione; senza poterla per questo giustificare, se non per l’adesione di Lipps al comunismo, che ne fa un “nemico della costituzione”, nel più puro stile “dottrina di sicurezza”: “Il Rettorato riconosce di non aver notizia, per quanto riguarda l’esercizio della sua professione, di trasgressioni agli obblighi di un funzionario. Ma è certamente concepibile che tali trasgressioni abbiano potuto esserci, senza che nessuno le svelasse o le denunciasse … Perché è ben noto che i membri del partito comunista cercano, nel loro comportamento pubblico, di dare l’impressione di perseguire degli obiettivi conformi all’ordine liberale e democratico, di essere fedeli ai suoi principi, e di difenderli. Ciò fa parte della loro strategia”, Il ministro dell’Istruzione, M. Herzog, indubbiamente impressionato dall’ondata di proteste, ha dichiarato in televisione, il 24 luglio 1979, che Klaus Lipps sarebbe rimasto al suo posto fino a quando i tribunali avessero deciso la causa. Che si sarebbe tenuta nel luglio del 1980.

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Limitare la democrazia con il pretesto di difenderla

Nel 1977, il caso Klaus Croissant, nel quale la Francia ha avuto un ruolo essenziale, è cominciato in Germania sotto l’aspetto inammissibile di un attacco ai diritti della difesa. Un anno dopo la sua burrascosa estradizione dalla Francia, il l6 novembre 1977, in Germania, nel dicembre l978, c’erano circa 70 avvocati processati ed alcuni di questi sono stati interdetti dalla professione. Tre di loro vennero incarcerati allora: Klaus Croissant già nominato, Arnd Muller arrestato il 30 settembre 1977, lo stesso giorno dell’arresto di Croissant in Francia, e Armin Newerla. Tutti e tre accusati di “favoreggiamento di una organizzazione criminale”, la qual cosa ha comunque come risultato – se non è questo l’obiettivo – di isolare al massimo i terroristi della Germania federale imprigionati, e di impedire loro ogni difesa politica. Questi processi contro avvocati sono spiacevolmente simili al trattamento riservato in Argentina ai difensori dei prigionieri politici.
Per tornare a Klaus Croissant, il tribunale di Stoccarda ha dovuto contentarsi, in mancanza di prove, di infliggergli – nel febbraio 1979 – due anni e mezzo di prigione: la qual cosa è senza proporzione rispetto all’accusa di complicità nelle attività terroristiche della RAF, la celebre “banda Baader”. La corte federale di giustizia di Karsruhe, sull’appello della procura, ha rifiutato il 27 maggio 1980 di appesantire condanna, ma ha tuttavia radiato definitivamente Croissant dal foro: un altro caso di interdizione dalla professione, dalla professione di avvocato, questa volta.
Infine, il caso della fine della “banda Baader” nella prigione di Stammheim – anche se l’assassinio ufficiale non si è mai potuto provare – ha mostrato almeno delle pratiche di incarcerazione nel segreto delle prigioni-fortezze, di isolamento e di degradazione della dignità dei prigionieri, che ci riporta al Medio Evo ed alle sue “botole”. Bühl, Baden-Baden, Mannheim, Stuttgart, Karlsruhe, tutte queste città fanno parte del “Land” di Bade-Wurtemberg, dominato e governato. dai democratici cristiani. In precedenza, poi, prima dello sviluppo della “banda Baader”, una legge del l3 agosto 1968 – la Germania era ancora una volta sotto un governo democratico cristiano – aveva autorizzato la sorveglianza segreta della posta e le intercettazioni telefoniche in nome della sempiterna sicurezza. Una denuncia è stata sporta nel giugno 1971 presso la Corte europea dei Diritti dell’Uomo da cinque giuristi della Repubblica Federale Tedesca, secondo i quali questa legislazione violava la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo della quale la RFT era firmataria. Questa denuncia è stata respinta l’8 settembre 1978. Così, si può continuare a violare impunemente i principi della democrazia, con il comodo pretesto di difenderla. Tutti questi casi illuminano comunque e in maniera interessante lo scontro elettorale del 5 ottobre 1980 tra Helmut Schmidt e Franz-Josepf Strauss, per il posto di cancelliere federale. Una vittoria di Strauss avrebbe portato certamente ad un aumento delle “restrizioni auspicabili per la democrazia”, raccomandate dalla Commissione Trilaterale (Cfr., al riguardo, Corrispondenza Internazionale, Anno IV, NN. 8 /9 marzo 1978).

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La Francia minacciata a sua volta

Detto questo, la Francia non è così innocente da permettersi, senza riserve, di scagliare la pietra contro i nostri vicini. C’è innanzitutto la macchia dell’OAS, come ho già detto prima. Ma non dimentichiamo nemmeno che se la Germania ha dato origine al nazismo, la Francia è la sola, tra tutte le nazioni occidentali, occupate militarmente, il cui governo legale sia sceso a patti con il nazismo. Ha fornito numerosi collaborazionisti, che più di 35 anni dopo non riconoscevano sempre i loro torti, ma molti rappresentanti dei quali sono oggi assai vicini al potere. Questo solo fatto le impedirebbe, se ne fosse tentata, di condannare il suo vicino. Si tratta piuttosto di aiutarlo a sventare la trappola degli eccessi dei due estremi, e a rispettare le regole democratiche.
In realtà, la Francia – che aveva saputo recuperare ad un certo momento, sola tra tutti i partner, la sua libertà di valutazione e di dottrina – è tornata poi all’ortodossia dell’ideologia occidentale. Questa è così riapparsa progressivamente in tutti i discorsi ufficiali, civili o militari. Il fatto è che era subito comparsa, fin dall’inizio del regno, sulla bocca del capo dello Stato, in particolare il 25 marzo 1975 alla televisione: “Io devo parlarvi questa sera della sicurezza, la sicurezza esterna della Francia, la sicurezza della sua economia, la “sicurezza delle persone”. Immediatamente, in una sola frase, si sviluppa come in America Latina il miscuglio caratteristico tra pericolo. interno ed esterno, economico, e militare, individuale e collettivo, tra compiti di difesa, e di polizia. E’ il processo che ha condotto d’altronde all’interdizione del pensiero “sovversivo”, cioè quello che contesta il capitalismo. Il rischio è di provocare gli stessi danni. Intendiamoci bene; in Europa non siamo in Cile né in Argentina, né lo saremo mai: è più sottile Ma la strada può essere la stessa: prendere il pretesto da fatti di terrorismo, relativamente benigni o isolati, per mettere in atto legislazioni eccezionali. Poi, quando si saranno liquidati i terroristi, si conserveranno queste deroghe esorbitanti dal diritto comune, ed il gioco sarà fatto!
Bisogna prenderne coscienza: prima che ci venga propinato, essendo cadute tutte le coperture, un modello specifico di “liberalismo autoritario’”: una sedicente democrazia, dove gli attacchi alle libertà tradizionali e fondamentali ci verrebbero presentati come una necessità provvisoria in nome della sicurezza di tutti.

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Tentazioni, intenzioni, azioni ed intimidazioni

Disgraziatamente, numerosi fatti – sopravvenuti negli ultimi sei anni –, sembrano segnare il passaggio dalle tentazioni, o dalle intenzioni nascoste, alle realizzazioni. Questi fatti si presentano perciò come altrettanti indizi di una evoluzione inquietante. Ce ne sono tanti, dopotutto, che non si potrebbe pretendere di farne un elenco esaustivo. C’è innanzitutto il “Piano di sicurezza per tutti i francesi”, presentato da Michel Poniatowski, ministro degli Interni, approvato dal Consiglio dei ministri del 7 aprile 1976, e che suscita fin dal primo giorno vive reazioni nel corpo giudiziario. Le sue prime disposizioni relative alla perquisizione dei cofani delle auto o delle abitazioni, senza ragioni né mandati, vengono votate ugualmente a dicembre dal Parlamento; ma annullate quasi immediatamente il 12 gennaio l977, dalla Corte Costituzionale perché contrarie alle libertà fondamentali. Le disposizioni contestate vengono riprese in un “Piano contro la violenza” del febbraio 1978, che trasferisce al livello dei regolamenti ciò che la legge rifiuta di prendere in considerazione. Citiamo ugualmente qui, a titolo informativo, gli appelli televisivi del guardasigilli alla delazione, nello stesso giorno, in occasione dell’enigmatico “rapimento” del barone Empain. C’è allo stesso tempo il recupero del controllo di una magistratura che ci tiene alla sua indipendenza teorica. Dopo i precedenti dei giudici Pascal e De Charette, apertura il/13 giugno 1976 di un procedimento disciplinare contro il giudice Ceccaldi di Marsiglia: trasferito a Hazebrouk il 12 maggio precedente, per essersi battuto: contro accordi di società petrolifere; rifiuta di fatto il trasferimento. Una settimana dopo, sciopero della magistratura – è il primo – per protestare contro i procedimenti giudiziari decisi contro questo giudice. Di fatto è l’inizio di un lungo percorso che sarà seguito più recentemente, a metà luglio del 1980, dalla sospensione del giudice Bidalou; ed il trasferimento d’ufficio di Jean-Pierre Michel, colpevole di aver partecipato ad una trasmissione di “Radio-Riposte”.
C’è un inizio di intimidazione degli avvocati, con il controllo a vista dell’avvocato di Jacques Mesrine, il l0 maggio 1978, e le nuove pratiche di perquisizione dei difensori all’entrata delle carceri di massima sicurezza. Per l’opinione pubblica, gli avvocati sono ormai persone sospette. Ci sono i casi di “violenze anarchiche” del maggio 1978; e soprattutto del 23 marzo 1979, dove poliziotti in borghese vengono direttamente utilizzati come provocatori; aldilà dei fatti, condanne pesantemente esemplari di poveracci, scelti a caso; o accuse senza fondamento, come quella. Di Maurice Lourdez, della CGT, che non beneficia di un non luogo a procedere se non il 21 agosto 1980; sempre in seguito a questi casi, c’è la direttiva di Valery Giscard d’Estaing (VGE) in persona, nel Consiglio dei ministri del 29 marzo 1979, di vietare le manifestazioni che non presenteranno garanzie assolute di sicurezza. Il che vuol dire vietarle tutte: di fronte all’ampiezza delle proteste la misura viene abrogata.
La Costituzione, infine, riconosce il diritto di sciopero “nel quadro delle leggi che lo regolamentano” ed alla Francia di estasiarsi sul suo liberalismo. Ma il 27 aprile l979 giunge la legge Médelin-Vivien, due deputati UDF e RPR, a limitare gli scioperi alla radio ed alla televisione, con minaccia a termine di estenderla a tutti i servizi pubblici. Ed infatti, nella primavera del 1979, c’è la proposta di legge di Robert-André Vivien, sempre lui, per limitare gli scioperi a EDF; a seguito di quella del 12 giugno 1980, c’è un’altra proposta simile di Fernand Icart, del1’UDF, che non vuole essere da meno. Il caso verrà discusso in Parlamento nell’autunno 1980. Ma in fondo questo diritto di sciopero che cos’è se non, sempre più, un falso problema, quando la pratica fa, sempre di più, della sospensione dal lavoro un motivo di licenziamento e di perdita dell’impiego?
Completiamo questa sommaria nomenclatura con le due leggi d’iniziativa del governo, “informatica e libertà” e “sicurezza e libertà”, che hanno suscitato notevoli resistenze nel paese, e non soltanto negli ambienti dell’opposizione, e sulle quali tornerò più avanti.

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Sugli spazi internazionali di sicurezza

Come altrove, alcuni europei progettano di organizzare una cooperazione internazionale per battere il terrorismo. Il 22 maggio 1975, a Obernai, Jean Lecanuet, allora guardasigilli, lancia 1’idea di una “Convenzione europea contro il terrorismo”, che viene firmata a Strasburgo, il 27 gennaio 1977, da 18 membri del Consiglio d’Europa su 21. Ma, facendosi attendere le ratifiche, i Nove decidono di metterla in opera tra di loro: è la “Convenzione di Dublino”, che obbliga gli Stati ad estradare i “terroristi”, definiti in senso lato. In realtà, nessuna di queste due Convenzioni è stata presentata al Parlamento francese per essere ratificata, come vuole la Costituzione. Il caso avrebbe sollevato senza dubbio troppe proteste da parte dei sostenitori dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, il governo si comporta come se ciò sia avvenuto. Attacchi diversi perciò al diritto d’asilo, inscritto anch’esso nella Costituzione: con in particolare le estradizioni di Croissant il 16 novembre 1977, di Piperno il 18 ottobre 1979, di Pace l’8 novembre 1979. Tutte estradizioni emesse su semplici sospetti, senza fondamenti giuridici: dal momento che il primo successivamente non è stato condannato che ad una pena leggera, come ho già detto e rimesso in libertà nel gennaio 1980; e gli altri due sono stati rilasciati il 30 giugno 1980 dalla giustizia italiana, per “insufficienza di prove”.
Questa presa di posizione contro queste estradizioni, in particolare quella di Klaus Croissant, non significa evidentemente che io condivida le posizioni dei terroristi: io non accetto questa violenza politica, e non saprei perciò né difenderla né scusarla.
Ma Croissant non era che un avvocato, indispensabile ad ogni giustizia, e che deve sposare moralmente la causa dei suoi clienti. Non era lui stesso accusato di nessun crimine. Noi non possiamo ammettere questa degradazione del diritto d’asilo politico, che costituisce una delle grandi tradizioni umanistiche del nostro paese. Noi dobbiamo restare sensibilizzati ai problemi dei Diritti dell’Uomo. La situazione può evolvere pericolosamente, se non stiamo attenti al facile ingranaggio del terrorismo, nel contro-terrorismo, nell’accoppiata ipocrita violenza/sicurezza, che favorisce dovunque lo smottamento progressivo delle leggi e lo sbriciolarsi delle libertà fondamentali.
E poi noi, i francesi, dovremmo anche prestare attenzione al fatto che l’iniziativa di questi accordi internazionali parte sempre da noi. Dopo Jean Lecanuet, è VGE stesso che propone, il 6 dicembre 1977, al Vertice dei Nove a Bruxelles, uno “Spazio giudiziario europeo” che organizzi la cooperazione penale, caratterizzato, per bocca del suo proponente, dalla mostruosa formula della “estradizione automatica”. Questo progetto doveva essere firmato il 19 giugno 1980 a Roma, ma gli olandesi si sono rifiutati di farlo perché vedevano in esso un grande pericolo per il diritto d’asilo, molto al di là del caso dei terroristi. E’ spiacevole che il paese. che ha inventato le libertà debba oggi ricevere delle lezioni di umanesimo dai suoi partner. Il progetto di una Europa giudiziaria è perciò in panne. In tutti i casi, perché possa essere un giorno legalmente operativo, è necessario normalizzare i diversi codici penali europei. Con questo obiettivo, la riforma del codice penale francese doveva essere presa in esame nel l979: il Presidente lo aveva annunciato nel suo discorso al rientro solenne della Corte di Cassazione, il 3 gennaio 1979. ln realtà, ci sarà bisogno di un altro anno: è la legge “sicurezza e libertà”, di cui parleremo più avanti.

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Gli eserciti nel dispositivo di sicurezza

Insomma, per coloro che ci governano, una legislazione adeguata, appoggiata su una stampa e dei mass-media complici, può essere sufficiente per rendere un popolo sottomesso e benpensante. E non ci sarà bisogno, in principio, in questo modo, di dover arrivare a mettere in piedi una repressione. Ma, tuttavia, questo non sempre è vero. In ogni caso sarà perciò prudente prendersi delle garanzie per ogni evenienza, e di disporre dei mezzi necessari per evitare ogni contrattempo.
I funerali di Somoza, l’ex-dittatore sanguinario del Nicaragua, si sono svolti a Miami in Florida il 20 settembre 1980. Alcuni membri del Congresso ed alcune personalità americane presenti alla cerimonia, hanno criticato Jimmy Carter per non aver aiutato Somoza, costretto all’esilio nel luglio del 1979 dalle forze popolari sandiniste, a conservare il potere. È un fatto che nel loro insieme le prese di potere delle dittature militari dell’America Latina sono state favorite di nascosto, o direttamente suscitate ed appoggiate, dalla CIA, in mancanza del tacito consenso pubblico del popolo americano. E che tutti questi militari sono stati istruiti e condizionati nelle scuole dell’esercito americano.
Su un teatro completamente diverso, la stampa occidentale riferiva, nell’estate 1980, del processo e della condanna a morte, il l7 settembre; di Kim Dae-jung, capo dell’opposizione sud-coreana. La Corea del Sud è l’alleato preferenziale degli USA in Estremo Oriente dopo la guerra di Corea degli anni ’50. Condannato da chi? Dal regime militare dittatoriale del generale Chon, uomo della provvidenza, come ce ne sono tanti nel “mondo libero”. Condannato perché? In nome della sicurezza nazionale, per “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Decisamente, da un capo all’altro del pianeta, troppi protetti degli USA presentano delle analogie.
In Europa, passiamo pure sopra i regimi portoghese e spagnolo di Salazar e di Franco. Passiamo sopra i colonnelli greci, fedelmente sostenuti dagli americani. Ma quando l’esercito turco, integrato nella NATO, fa il suo colpo di Stato “per la democrazia”, il 12 settembre 1980, nel corso di una manovra della NATO, tutti i giornali hanno evidenziato la soddisfazione ed il “sollievo” degli Stati Uniti; e tutti hanno testimoniato che erano loro, avvertiti in anticipo, che avevano annunciato il putsch.

 

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Le cose succedono solo agli altri

Il capo di Stato Maggiore di questo esercito turco, nell’aprile e poi il 30 agosto 1980, auspicava che l’esercito venisse liberato dai compiti di mantenimento dell’ordine derivanti dallo stato di assedio in vigore da due anni: “Dal momento che, negli ultimi venti anni, si è accertata la necessità di dover far ricorso allo stato di assedio un anno su due, occorre trovare una soluzione”. Pensava veramente di avere trovato quella giusta? E se l’agitazione politica che turba la Turchia da venti anni esprimeva i sentimenti di una popolazione sempre più umiliata per essere mantenuta schiava di una grande potenza straniera ed irritata di non poter cercare una soluzione economica adeguata alla sua miseria?
Che cosa è che fa cadere le riserve di caccia degli Stati Uniti, una dopo l’altra, sotto i regimi militari? Io ammetto senz’altro che alcuni temano gli attacchi ai Diritti dell’Uomo che vengono evidenziati nei regimi comunisti. Ma questo li autorizza a fare altrettanto, se non peggio, a titolo preventivo? In nome di che cosa pretendono di opporsi al socialismo dell’autogestione e al sindacalismo? Si pensa che si potrà soffocare indefinitamente lo scontento popolare? E respingere le loro legittime aspirazioni con la forza, invece di soddisfare le loro speranze di giustizia sociale? Voi mi direte che, nelle nostre vecchie democrazie, non siamo in queste condizioni. Forse, ma tutto questo resta. Ed è anche presente il rischio che prestissimo ci si possa trovare anche da noi di fronte a gravi scadenze; i sostenitori del capitalismo selvaggio che la fa da padrone da anni non potranno attribuirne ad altri le responsabilità; e quando la ristrutturazione economica diventerà insopportabile per i popoli, si dovrà pure tenerli a bada. I governi al potere nel nostro paese lo sanno bene, e procedono da anni alla messa a punto dei mezzi necessari per farvi fronte all’occorrenza. Non accade soltanto tra i turchi!
Anche in Francia c’è stata, da cinque anni a questa parte, una riforma dell’Esercito destinata ad assegnargli una posizione di suddivisione a scacchiera del territorio, e delle capacità di intervento all’interno che prima non aveva. Mi occuperò di questo più avanti, in dettaglio, Bisogna mettersi in testa che la democrazia è sempre instabile, che la libertà è un bene precario e che le cose non succedono sempre e soltanto agli altri!

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Ogni ideologia di Stato apre le porte al totalitarismo

Il processo che ho appena fatto al mondo occidentale, avrei potuto farlo anche, evidentemente, al mondo sovietico, cementato da parte sua dall’ideologia comunista. Ma questo, i difensori occidentali dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà lo sanno e lo denunciano, e lo fanno a giusto titolo. Il loro solo errore è quello di attribuirlo a tale dottrina economica, il comunismo in questo caso, mentre il totalitarismo deriva semplicemente, e per forza, da ogni assunzione di un’ideologia di Stato, e del manicheismo che questa comporta.
Per l’Unione Sovietica – proprio come avvenne per la Francia rivoluzionaria –, è la conseguenza logica della sua posizione di patria del comunismo, che può portarla alla repressione interna ed alle invasioni territoriali all’esterno, per estendere o preservare l’impresa della sua dottrina. Per le nazioni dell’Europa occidentale, è viceversa il timore più o meno giustificato di una tale invasione che «le ha portate, inizialmente, a mettere loro stesse le dita nell’ingranaggio di un’altra ideologia, differente ma altrettanto espansionista ed alla fine militarista. E, se il processo è stato inverso, i risultati tendono ineluttabilmente a ricongiungersi un giorno, dal momento che le stesse cause generano gli stessi effetti.
Di fatto, la nozione di sicurezza come quella che ha corso nel campo occidentale – poiché lega l’avvenire politico ad un dogma, “libera impresa” e “libero scambio”, in questo caso – porta ineluttabilmente in questo campo nei confronti dei cittadini, a più o meno lunga scadenza, alle stesse reazioni e alle stesse negazioni dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà che esso rimprovera veementemente al campo comunista.

È tutta l’Europa occidentale che oggi, con la scusa tuttavia di non essere più sempre padrona del suo gioco, è manifestamente sulla china fatale dell’intolleranza ideologica, poggiata sul militarismo: anche se ostenta di volerlo ancora ignorare e anche se il liberalismo al quale si richiama è “avanzato”.



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Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società

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Scritti brevi su politica, scuola e società

Luca Grecchi
Scritti brevi su politica, scuola e società

ISBN 978-88-7588-209-9, 2019, pp. 192, Euro 15 – Collana “Il giogo” [101].

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Questo libro raccoglie diversi articoli per quotidiani e riviste composti dall’autore negli anni 2015 e 2016, relativi soprattutto ai temi della politica, della scuola e della società (intesa in senso ampio). Il filo conduttore degli stessi è costituito da una critica progettuale al nostro tempo alla luce del pensiero greco classico, soprattutto di Aristotele.


Indice

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Premessa

Aristotele e i politici di oggi

L’ideologia degli altri

Sbarchi: problemi, cause, soluzioni

Aristotele e la disoccupazione

I giovani e il bene

I giovani e il piacere

Gli stranieri nella cultura classica

Il “sociale” e il “famigliare”

Nutrire il pianeta. Davvero?

I filosofi in televisione

Considerazioni filosofiche sul jobs act

Il primato della teoria sulla prassi:

una riflessione per la politica

I giovani e l’amicizia

Aristotele e la politica come servizio

Andronico di Rodi ed il Partito Democratico

Aristotele e la guerra

Tutto scorre?5

Euro sì, euro no

Quale “buona scuola” se non si sa riflettere sul bene?

Le virtù teologali … per gli antichi Greci

Astratti i filosofi? Magari lo fossero i politici…

Perché la filosofia è necessaria per tutti

Riforme o tagli? Politica e retorica viste dagli antichi

Modernizzare la scuola?

Piagnistei o critiche?

La mafia e la filosofia greca classica

Essere se stessi?

Sulla scelta della Università (e del Liceo)

Platone e il piacere

Aristotele e gli elettori del PD

Le riforme per le riforme

Socrate ed il “sapere di non sapere”

“A chi non basta il necessario, non basta nulla”

Filosofia, verità, felicità

L’Italia che corre di Renzi, ed il Motore immobile di Aristotele

Tra Platone ed Aristotele

Scrivere o parlare? Sui vari modi di fare filosofia

Pochi insegnamenti, ma buoni

Chi non è con me è contro di me? Riflessioni sulla dialettica

Gli antichi e i moderni alle scuole elementari

Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari

Scuola “elementare”?

Virtù e gloria

La metafisica umanistica

Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale

Platone, la democrazia e la riforma costituzionale

Aristotele: la rivoluzione è nel progetto

Sulla progettualità

 

 


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.

Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?

Luca Grecchi – Sulla progettualità

Luca Grecchi – Perché la progettualità?

Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]

Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.

Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.

Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.

Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri

Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.

Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.

Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini

Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico

Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.


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Freccia rossa  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore al 25-02-2019)

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Alberto Gajano – Dialettica della merce. Introduzione allo studio di «Per la critica dell’economia politica» di Marx

Karl Marx - Alberto Gajano 01

Coperta 320

Alberto Gajano

Dialettica della merce.

Introduzione allo studio di Per la critica dell’economia politica di Marx.

Postfazione di Roberto Finelli:
Il peso storico di un’astrazione: tra logica e realtà.

ISBN 978-88-7588-205-1, 2019, pp. 160, Euro 15. Collana “Divergenze” [62]

indicepresentazioneautoresintesi

 

Logo-Adobe-Acrobat-300x293   Alberto Gajano, Dialettica della merce   Logo-Adobe-Acrobat-300x293

 

Il volume propone un’analisi del primo capitolo, dedicato alla merce, di Per la critica dell’economia politica, opera che rappresenta il primo tentativo marxiano di esposizione scientifica delle categorie della critica dell’economia politica secondo il metodo elaborato nei Grundrisse. Nell’esposizione della categoria della merce il momento analitico muove dalle forme fenomeniche per introdurre, come presupposto esplicativo strutturale, una determinata divisione del lavoro. Il momento genetico del metodo consente di spiegare, dai punti di vista sistematico e storico, le forme della merce e del denaro come si sviluppano necessariamente dalla struttura esplicativa e dalle sue contraddizioni. La dialettica della merce costituisce, per tanti aspetti, una valida introduzione allo studio di Per la critica dell’economia politica, immettendosi nel vivo del dibattito sulla centralità che i Lineamenti fondamentali assumono per la comprensione del pensiero di Marx. Ad evidenziare la ricchezza di spessore teoretico e di dottrina filosofica del testo di Gajano interviene Roberto Finelli con la sua Postfazione dal titolo: Il peso storico di un’astrazione: tra logica e realtà.

 

Alberto Gajano ha insegnato Sociologia della conoscenza, Storia della filosofia e altre discipline filosofiche, prima nell’Università di Roma, poi in quella di Siena. I suoi interessi scientifici attraversano tutto l’arco cronologico, dalla filosofia antica a quella contemporanea, toccando una molteplicità di temi: anzitutto Descartes, sul quale ha scritto vari saggi; il commento tomista alla Metafisica di Aristotele; Platone, con i saggi sul Protagora, il Carmide e il Fedone, e sul rapporto fra giustizia e polis nella Repubblica; e ancora la filosofia di età moderna e contemporanea: Hegel e Marx, studiati in questo volume La dialettica della merce; e la Scuola di Francoforte, l’ermeneutica di Paul Ricoeur e il pensiero di Habermas.

 

 

Indice

Premessa

Valore d’uso e valore di scambio

Dal valore di scambio al lavoro

Il carattere determinato del lavoro

che si presenta nel valore di scambio

I punti di vista capitali

L’esistenza effettuale del lavoro astrattamente generale

Il carattere sociale specifico del lavoro che pone valore di scambio

Carattere duplice del lavoro

Il valore d’uso forma fenomenica del valore di scambio

Dalla considerazione analitica alla considerazione genetica

La considerazione genetico-sistematica

Dall’opposizione alla contraddizione

La soluzione dialettica della contraddizione

La considerazione genetico-storica

 

Postfazione di Roberto Finelli

Il peso storico di un’astrazione: tra logica e realtà


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Emily Dickinson (1830-1886) – La bellezza e la verità sono una cosa sola. Bellezza è verità, verità è bellezza.

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Tutte le poesie

Tutte le poesie

 

 

Bellezza è verità, verità è bellezza; questo
è tutto ciò che voi sapete sulla terra, e tutto ciò che avete bisogno
di sapere.

John Keats*

 

Morii per la bellezza – ma non m’ero ancora abituata alla mia tomba
quando un altro – morto per la verità – fu adagiato nel sepolcro
vicino.
Piano mi domandò perché ero morta –
«Per la bellezza» – gli risposi – e lui: «E io per la verità – loro sono
una cosa sola e noi siamo fratelli», disse.
Così, come congiunti che s’incontrano di notte, conversammo
dall’una all’altra stanza
finché il muschio raggiunse le nostre labbra e coprì i nostri nomi.

 

Emily Dickinson, Morii per la bellezza, poesia n. 449, in Tutte le poesie, a
Cura di Marisa Bulgheroni, Mondadori , Milano 2001, p. 495.

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  • John Keats, dipinto di William Hilton

    John Keats, dipinto di William Hilton

  • John Keats, Ode su un’urna greca [1819]. versi 49-50, in Iperione,odi e sonetti, a cura di Raffaello Piccoli, Sansoni, Firenze 1984, p. 67.

    Iperione, odi e sonetti, 1949

    Iperione, odi e sonetti, 1949

 


Emily Dickinson – Un’anima al cospetto di se stessa

Emily Dickinson (1830-1886) – La parola comincia a vivere soltanto quando vien detta.

Emiliy Dickinson (1830-1886) – Ciò che è lontano e ciò che è vicino

Emily Dickinson (1830-1866) – Semi che germogliano nel buio

Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo

Emily Dickinson (1830-1866) – Distilla un senso sorprendente da ordinari significati


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Alexis de Tocqueville (1805-1859) – È questo un potere che non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina. Non distrugge, impedisce di nascere.

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La democrazia in America

La democrazia in America

 

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto
che il dispotismo potrà avere nel mondo,
vedo una folla innumerevole di uomini eguali,
intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari,
con i quali soddisfare i loro desideri.

A. de Toqueville

 

*
***
*

 

 

«Si crede che le società nuove mutino faccia ogni giorno; io invece per parte mia temo che finiscano con l’essere troppo invariabilmente fissate nelle stesse istituzioni, negli stessi pregiudizi, negli stessi costumi, così che il genere umano si arresti e si limiti, che lo spirito si pieghi e si ripieghi eternamente su se stesso senza produrre idee nuove, che l’uomo si esaurisca in piccoli movimenti solitari e sterili e che, mentre tutto di continuo si muove l’umanità non progredisca più […].

Sopra di essi un potere tutelare e forte si incarica unicamente di procurar loro delle gioie e di vegliare sulla loro sorte. Esso è assoluto, pervasivo, previdente e dolce […]. Sembra quasi ricordare il potere paterno se, al pari di questo, avesse per scopo quello di educarli all’età adulta. In realtà e al contrario, questi non mira che a farli restare eternamente nell’infanzia. […] È un potere che non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione, ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore».

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America [1835], Rizzoli, Milano 1992, p. 324.

Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau

Alexis de Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau.


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Domenico Losurdo (1941-2018) – Le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità. Una lettura di «La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra». Integralismo economico e culto dell’astratto.

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Salvatore A. Bravo

Integralismo economico e culto dell’astratto

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*

 

Domenico Losurdo nel 1991 pubblica il testo La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra. È l’anno della fine dell’Unione sovietica, è il trionfo del liberismo. La storia – da quel momento – cambia ad Oriente e ad Occidente: si accelerano i processi di economicizzazione delle comunità. L’Unione sovietica, con la sua presenza, era apparsa un mondo di valori altri rispetto all’americanismo mercatile e – specialmente nell’Occidente – sembrava limitare l’esiziale avanzata del liberismo. Il testo del 1991 è profetico nelle sue intenzioni: con la fine dell’Unione sovietica ogni ideale internazionale – politico ed antropologico – scompare dall’orizzonte culturale. L’economicizzazione livellatrice avanza, i trattati europei si avvicendano, si viaggia in direzione euro, tutto avviene per opera di plutocrati, mentre i popoli – senza punti di riferimento partitici ed ideologici – assistono alle (e soprattutto subiscono le) trasformazioni, spesso senza consapevolezza. L’integralismo economico è vincente, la globalizzazione inaugura un nuovo tipo di umanità dedita al valore di scambio a livello planetario, umanità astratta in quanto sradicata da ogni tradizione, da ogni storia, un essere umano senza volto con l’unico intento prometeico di dominare sui mercati. L’onnipotenza mercantile – trascorso l’ottundimento iniziale dei primi anni – comincia a mostrare le proprie contraddizioni. La solitudine dell’uomo globale, lo sradicamento dovuto al livellamento in nome del mercato, espone gli esseri umani ad uno stato di continua precarietà ed angoscia. Il livellamento coatto non riesce a dare un senso alle esistenze, ed aggrava le sperequazioni materiali. Il mercato promette false utopie pronte a rovesciarsi in distopie. Mercato ed economia, liberi dai residui vincoli della politica, applicano il darwinismo a livello globale: l’essere umano è solo un accidente, un dettaglio nei giochi dell’economia.

La scissione economia-politica
Domenico Losurdo ci invita a riflettere sui pericoli attuali, analizzando la condizione europea tra le due guerre, nel regno degli anni ruggenti dove alla crematistica succede la crisi del 1929, con i suoi effetti. Ci sono modelli che nella storia si ripetono in modo simile, mai in modo eguale. L’economia, nei decenni successivi alla dissoluzione dell’Unione sovietica, scissa dalla politica, innescando processi di omologazione, crea un essere umano astratto, globale, che nei decenni della crisi diviene il nemico da abbattere in nome di una riconquistata identità non mediata da nessun valore universale. L’universalismo è invece associato al liberismo più aggressivo, come nei decenni tra le due guerre:

«D’altro canto, la denuncia del mondo contemporaneo, devastato da “un processo di livellamento che ispira orrore” e “caratterizzato dalla superficialità, dalla nullità, e indifferenza” e soprattutto dal fatto che le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità, questa denuncia chiama esplicitamente in causa l’influenza rovinosa del “positivismo anglosassone”». [1]

La decadenza degli intellettuali
Gli intellettuali restano inascoltati in quanto rappresentanti dell’universalismo astratto, dell’economia che ha causato l’iperinflazione trasformando i popoli in moltitudini di sradicati, di alienati dalla propria storia. In assenza di valori universali, ci si rifugia nei particolarismi nazionali, nella storicità dei popoli devitalizzata dall’economia. I singoli che vivono uno stato di nullità dinanzi all’economia che tutto decide senza nessuno ascoltare, trovano sollievo all’angoscia che li attraversa fondendosi nella propria comunità di destino, radicandosi in comunità chiuse e rifiutando ogni mediazione razionale intellettuale che cerchi, nella contingenza della storia, l’universale. Il destino è la propria comunità:

«Sì, il destino rinvia in qualche modo all’essenza o essenzialità, ma “è solo un pregiudizio dell’intelletto e della sola logica ritenere che l’essenza debba sempre essere universale e generica (gattungsmäßig)”. Il destino è l’essenza, in quanto rappresenta l’elemento stabile nelle alterne vicende di una comunità storica, cioè ma determinata, ma, proprio per questo, esso è sinonimo non di universalità ma di irriducibile peculiarità. La “vera comunità popolare” chiarisce in testo più immediatamente politico si tiene a debita distanza da una “inconsistente e disimpegnato affratellamento universale”». [2]

 

La comunità come salvezza dall’angoscia
L’economia/crematistica minaccia l’esistenza, espone l’essere umano ad un senso di nullità, solo il particolarismo e la fusione senza mediazione può risolvere la solitudine del soggetto gettato tra le fauci dell’economia. Non ci si salva da soli dalle forze violente che sbriciolano e disperdono comunità millenarie, la morte biologica e specialmente morale trova nella fusione con la comunità, nel sacrificarsi per la comunità, la sua soluzione esistenziale:

«Il saper affrontare la morte in tanto può produrre l’autentica comunità in quanto è elemento costitutivo dell’autentica individualità. Ma questo è un tema largamente presente in Essere e tempo che insiste sul fato che l’angoscia singolarizzata, lungi dal ridursi a presenza isolata (isoliert), è essa solo capace di realizzarsi come autentico “essere nel mondo” e quindi in una storicità e comunità determinata». [3]

L’essere umano è un animale simbolico e relazionale. Necessita di definirsi nella storia e nella relazione con gli altri. Ogni definizione universale destoricizzata è foriera di ansie, è negatrice di un bisogno autentico negato: l’identità. Tra le due guerre, nella vecchia Europa aggredita dai fascismi quali sintomi di un male profondo che nessuno vuol guardare e capire, come nei nostri tempi, ogni universalismo è rifiutato in quanto flatus vocis, poiché l’essere umano comunitario per natura reagisce all’anonimato dell’economia con il radicamento nella propria storia:

«E come Spengler dichiara che parlare di genere in riferimento all’uomo significa far un uso in realtà di un “concetto zoologico”, così Heidegger afferma che ciò comporterebbe la riduzione dell’uomo a semplice ente intramondano, a cosa». [4]

Storicità e destino
Ogni ideale internazionale è tacciato di essere distruttore delle comunità. Il nazifascismo è stato il sintomo della malattia: l’integralismo economico. Il nazifascismo è parso un’ancora di salvezza, il ristabilimento dell’equilibrio nazionale mediante l’economia posta sotto il controllo della politica:

«Potremmo dire, facendo ricorso caro soprattutto ad altri autori minori di questo periodo, che all’ebreo manca il senso della “storicità” e di “destino” alla stessa stregua dei nemici della Germania. Si potrebbe dire che è il tipico rappresentante della Zivilisation. Non a caso si entusiasma per la parola “internazionale”: è per questo che finisce con agire oggettivamente in senso “distruttore” sulla cultura del paese in cui vive, allo stesso modo in cui “distruttrice” si presenta la “cultura occidentale nei suoi territori coloniali”».[5]

L’universalismo è la forma deteologizzata dell’universalismo cristiano, dietro il paravento dell’universalismo i popoli colgono un ordito ben preciso, l’intervento di potenze straniere per dominare popoli, per renderli sudditi privandoli della loro storia, della loro lingua, del suolo e del sangue:

«Anche per un altro ideologo del regime, Heyse, universalismo, che affonda le sue radici sempre nella tarda antichità e nel cristianesimo, cancella progressivamente “le differenze individuali degli uomini e dei popoli”. Il tema è poi onnipresente, e con una dimensione nettamente politica, Schmitt. Universalismo è qui sinonimo puro e semplice d’intervenzionismo e di <<pretesa d’ingerenza mondiale”». [6]

 

Contro la metafisica nichilistica: storia dei popoli ed universalismo
L’universale è così sostituito dal nichilismo metafisico, ovvero il fondamento di un essere umano è il destino del suo popolo, per il quale deve lottare fino alla morte, la lotta è la difesa del proprio popolo, della propria comunità dalle forze economiche internazionali che in nome di valori astratti entrano nel suolo-comunità dei popoli per infeudarli. L’Europa ed il mondo attuale vivono un clima simile a quello descritto da Losurdo tra le due guerre. La storia è sempre maestra di vita, anche se come affermava Gramsci pochi l’ascoltano. Dinanzi all’avanzare dei particolarismi senza fondamento universale, ci è di ausilio la tradizione filosofica. Herder ci ricorda che tutti gli esseri umani condividono la stessa umanità, le stesse potenzialità, ma nella storia il potenziale simbolico si storicizza nei singoli popoli che non perdono l’unità della loro comune umanità pur nella differente espressione:

«Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci é innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità». [7]

 Il nichilismo metafisico, il particolarismo senza fondamento universale è uno spettro che si aggira per l’Europa ed è il veicolo concreto dell’integralismo economico e dello Stato ad esso asservito che lascia i singoli al loro destino di solitudine, mentre sovvenziona il mondo imprenditoriale. A tale urgenza la filosofia deve rispondere senza compromessi. Senza risposte libere dal conformismo non può che scomparire nell’astratto mondo del totalitarismo economicistico e con essa scompare anche la speranza della prassi. Senza risposte mediate dalla razionalità filosofica la politica non saprà fronteggiare in modo adeguato le spinte reazionarie che si stanno delineando in Europa. Solo il ristabilirsi di un nuovo umanesimo in cui gli esseri umani sono riconosciti nella loro concretezza e nel contempo nella loro universalità può limitare l’avanzata dell’inverno dello spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 1991, pag. 28.

[2] Ibidem, pag. 37.

[3] Ibidem, pag. 48.

[4] Ibidem, pag. 57.

[5] Ibidem, pag. 99.

[6] Ibidem, pag. 83.

[7] Herder www.filosofico.net


Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.


Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo nell’aprile 2011

Domenico Losurdo

(1941-2018), in memoriam

di Stefano G. Azzarà

Università di Urbino

 

Sinistrainrete

 

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz’altro sbagliata. È un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi. A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in primo luogo di se stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell’oggettività. La volontà pervicace, cioè – radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della “via hegeliana” rispetto alla “via fichtiana” – di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell’oggetto, ovvero nella cosa stessa. L’idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall’attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell’oggettività. In un tessuto ontologico, cioè, che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all’appello la fatica del concetto.

Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c’è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunque richiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all’improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono la sue prime pubblicazioni); qualcosa cioè che può assumere un valore generale che vada al di là dell’esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un’intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il tramonto di un’epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti.

Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experimentum crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, spesso, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose.

Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l’ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso nient’altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heidegger nel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l’idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all’ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell’universalismo, nella cui esplosione si annunciava già all’epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient’altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludeva Losurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera».[1] Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell’ideologia raffinatissima ma di natura tutta reazionaria.

La politica come “dissacrazione” del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l’ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l’ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»;[2] il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale – e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali – a prendere posizione. Ebbene, poiché ha praticato in prima persona questo «engagement oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili – in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d’anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente –, a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle sue spalle – e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all’emancipazione del genere umano – si poteva riconoscere non il fragore di un’avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni.

Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un’epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l’accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l’angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere sul terreno accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico “puro”, e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali – sempre pronti a denunciare l’ideologia ovunque tranne che presso se stessi – si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava – e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili – poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una cultura sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell’Occidente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui.

Torniamo sul terreno dell’oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell’eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza.

Con Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»[3] consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all’ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente all’opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione».[4] Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere “giacobino” perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla trasformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach manchen Revolutionen der Umbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».[5]

Con saggi come Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua,[6] oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca[7] o ancora Fichte e la questione nazionale tedesca,[8] Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell’ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda […] come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell’assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una pace duratura o perpetua in Europa e nel mondo», ecco che con l’invasione napoleonica e i Befreiungskriege, al modificarsi della situazione concreta, si produce un mutamento netto. Un mutamento all’insegna della gallofobia e della teutomania, però; un mutamento che lo porterà lontano da ogni equilibrio critico e a respingere in toto, assieme all’inviso napoleonismo, anche lo spirito del 1789 in un primo momento esaltato. E a contestare dunque la rivoluzione politica ma soprattutto quell’universalismo filosofico che ne era alla base, e che dagli esiti della rivoluzione era stato tradito, dando vita in tal modo alla lunga stagione del particolarismo culturale tedesco, con le sue drammatiche ripercussioni tra le due guerre mondiali.

Ed eccoci a Hegel, infine, studiato in testi come Hegel, questione nazionale, Restaurazione,[9] Tra Hegel e Bismarck,[10] La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel,[11] Hegel e la libertà dei moderni[12] e infine Hegel e la Germania:[13] non solo per questo grande filosofo «La libertà della persona è un diritto inalienabile e imprescrittibile e non c’è positivo ordinamento giuridico che possa annullarlo»,[14] farà notare Losurdo, ma questa posizione andrà anche molto al di là del contrattualismo dell’epoca. Già nelle lezioni sulla Filosofia del diritto, per Hegel «Il Notrecht [era] diventato il diritto del bisogno estremo, dell’affamato che rischia ti morire d’inedia e che pertanto non solo ha il diritto, ma “il diritto assoluto”» di rubare il pezzettino di pane capace di assicurargli la sopravvivenza, “il diritto assoluto” di violare il diritto di proprietà, la norma giuridica che condanna comunque il furto».[15] Lungi dall’essere il difensore filosofico della Restaurazione e l’ispiratore del militarismo prussiano, dobbiamo riconoscere in lui, in questa prospettiva, lo scopritore di un continente filosofico e politico interamente nuovo, un continente che va molto al di là del liberalismo e che toccherà poi a Marx, non per caso, esplorare a fondo.

Ma proprio con il liberalismo, ossia con le posizioni culturali che sono risultate vincitrici alla fine di quella ulteriore guerra mondiale che è seguita alla Seconda guerra dei Trent’anni, Losurdo andava affrontando nel frattempo un corpo a corpo che si sarebbe rivelato ultracedennale. A metà degli anni Novanta ne Il revisionismo storico sottolineava l’emergere di una «gigantesca rilettura del mondo contemporaneo» il cui obiettivo era in realtà «la liquidazione della tradizione rivoluzionaria dal 1789 ai giorni nostri» e che rappresentava dunque una «svolta storiografica e culturale epocale»[16] che era al contempo anche una svolta interna al liberalismo stesso. Il quale, assorbito «il radicale mutare dello spirito del tempo nel passaggio dalla grande coalizione antifascista alla Guerra fredda» e maturata «la conseguente elaborazione di un’ideologia “occidentale”»,[17] si liberava adesso delle componenti democratizzanti acquisite nel corso del suo confronto storico con il movimento radicale e con quello socialista per tornare al proprio passato e riorientarsi in chiave nettamente conservatrice. Quando dieci anni più tardi questo percorso sarà compiuto, e cioè quando l’affermazione del neoliberalismo si sarà consolidata, ecco allora la Controstoria del liberalismo, un testo con il quale viene definitivamente confutata la classica definizione del liberalismo come teoria della libertà e dei diritti individuali: il liberalismo rappresenta semmai sul piano culturale «un’auto- designazione orgogliosa, che ha al tempo stesso una connotazione politica, sociale e persino etnica».[18] Con esso, cioè, «Siamo in presenza di un movimento e di un partito che intende chiamare a raccolta le persone fornite di un’”educazione liberale” e autenticamente libere, ovvero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la “razza eletta”[…] la “nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà”». La teoria liberale è dunque in primo luogo l’autocoscienza della comunità dei liberi, dei «ben nati»,[19] la quale crea uno spazio sacro che distingue uomini e sottouomini a partire da precise clausole d’esclusione fondate sul censo, sull’etnia, sul genere.

Ecco allora che proprio la tanto celebrata «limitazione del potere» consente alla società civile di sfuggire alla mediazione dello Stato o di neutralizzare quella sua universalità formale che, per quanto spesso posta a copertura di un blocco di interessi di classe, è comunque diversa dal mero nulla. E si configura perciò come la mossa politica che sollecita nel sistema dei bisogni l’«emergere di un potere assoluto senza precedenti», invitando a una delimitazione della comunità dei liberi che si contrappone a quella dei servi non solo sul piano filosofico ma anche sul piano concretamente materiale e geografico. E fungendo infine da legittimazione di una conquista coloniale che attraversa tutta l’età moderna e che con le sue pratiche di sterminio liquida ogni pretesa liberale di “individualismo”.

Proprio la volontà pervicace di limitare la dignità umana al solo Occidente e l’incapacità di pensare il concetto universale di uomo, tra l’altro, è il terreno filosofico che Losurdo mostrerà accomunare il liberalismo e il pensiero reazionario, del quale si è occupato una prima volta con La comunità, la morte e l’Occidente e una seconda con il suo monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Con la sua «polemica contro la modernità e il presente»,[20] il filosofo considerato a lungo “inattuale” si collocava in realtà inizialmente in tutto e per tutto sul terreno del liberalismo europeo e della sua denuncia, oggi ignorata o rimossa, dell’avanzata massificante dei movimenti socialisti e democratici, e si identificava con la concomitante esaltazione liberale del primato dei popoli europei sui sottouomini delle colonie, destinati ad essere sottomessi e a erogare lavoro servile. E saranno semmai la pavidità e la debolezza del liberalismo stesso, ormai in difficoltà e disposto al compromesso di fronte alla rivolta dei barbari proletari e alle loro grida rivoluzionarie, a spingerlo, sul finire della sua vita cosciente, al «radicalismo aristocratico» e all’ideazione di quel «partito della vita» che, per la salvezza della civiltà occidentale, arriverà ad auspicare l’«annientamento di milioni di malriusciti»[21] e delle «razze decadenti». Ma anche il pensiero di Heidegger, del resto, non può minimamente essere compreso senza far riferimento a quel «pathos dell’Occidente»[22] che all’epoca della Prima guerra mondiale si accompagnava all’esaltazione della Gemeinschaft, della Entscheidung e della morte e che era condiviso da entrambe le «ideologie della guerra» in campo. Né la sua duratura adesione al nazismo può essere spiegata senza tener conto di come quel movimento fosse anzitutto la prosecuzione, radicalizzata e proiettata sul continente europeo, della lunga avventura coloniale dell’Europa stessa, con le sue pratiche di de-umanizzazione e di sterminio fondate sulla riduzione del genere umano a una mera specie zoologica già su un piano che pretendeva di essere filosofico.

Non possiamo che ricostruire per sommi capi qui una produzione intellettuale gigantesca, che ha scandagliato i più diversi aspetti della tradizione filosofico-politica europea (31 sono le monografie pubblicate, altrettanti i volumi da Losurdo curati, 200 i saggi usciti su rivista, come attesta la bibliografia che egli stesso aveva approvato e che riportiamo in appendice a questo testo). Rimane però fermo – e ci sarà modo in futuro di precisarlo meglio – che in tutto questo lavoro l’impegno principale della sua esperienza intellettuale è stato dedicato a quel momento di questa tradizione che certamente più gli stava a cuore e cioè all’auto-critica e alla ricostruzione del materialismo storico. Se la storia del marxismo è la storia di un’ininterrotta catena di “crisi” che inizia già con Marx e che più volte si sono manifestate nel corso del Novecento, muovendo da posizioni e con intenzioni ed esiti diversi Losurdo e la sua generazione si sono scontrati infatti con la più importante di queste crisi, con la crisi ultima e forse definitiva. Perché la loro riflessione sulla tradizione storica e culturale del movimento operaio è avvenuta quando questo movimento e i suoi apparati intellettuali erano ormai a pezzi e non sembrava sensato né produttivo avventurarsi per quella via: dopo cioè la sconfitta di sistema intervenuta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento.

Losurdo lo ha fatto in numerosi libri: Marx e il bilancio storico del Novecento,[23] Utopia e stato d’eccezione,[24] Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico,[25] Fuga dalla storia?,[26] La lotta di classe[27] e infine Il marxismo occidentale,[28] oltre che in ancor più numerosi saggi. E lo ha fatto, soprattutto, evitando la strada consolatoria e auto-assolutoria di chi, la maggioranza, spiegava le ragioni di un fallimento scaricando le colpe su un unico individuo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera)[29] e scegliendo semmai – scandalosamente – di andare al cuore del problema, dissodando in maniera impietosa i limiti interni al marxismo stesso, senza risparmiarne i fondatori.

Losurdo ricorderà più volte, di fronte al nichilismo e alla autofobia che dilagavano a sinistra dopo la fine dell’Unione Sovietica – e che rendevano anche questo campo non meno ostile alle sue tesi di quanto non fosse il campo liberale –, quanto l’esperienza del marxismo e del comunismo storico avessero cambiato in profondità le sorti del mondo e dello stesso Occidente capitalistico, costringendo quest’ultimo a un percorso di democratizzazione che aveva in parte dovuto accogliere persino il programma del Manifesto comunista.[30] Tuttavia, non esitava a riflettere sulle ragioni di una sconfitta inequivocabile, le cui radici andavano individuate nell’incapacità del marxismo di farsi istituzione e di dar vita, nel consenso più ampio possibile, a quella stabilizzazione che sarebbe stata indispensabile per una normalità socialista e per un suo funzionamento rispettoso degli stessi diritti individuali. Animato da un insormontabile afflato messianico, desideroso di una palingenesi totale del mondo, il marxismo novecentesco non aveva in realtà tagliato i ponti sino in fondo con l’anarchismo. E, nel suo sogno di una società completamente “altra” rispetto a quella esistente, aveva immaginato la fine delle nazioni, del mercato, del denaro, del potere, lo svanire del conflitto stesso, rivelandosi – ogni volta che l’utopia sognata si scontrava infine con le durezze della storia e del conflitto – incapace di fuoriuscire da un perpetuo stato d’eccezione e di farsi Stato all’insegna del governo della legge, conciliando comunità e individuo. Non sarà sufficiente, in questo senso, la rivoluzione filosofica e politica operata da Lenin, il quale porterà per la prima volta il marxismo fuori dai propri limiti eurocentrici coniugando la lotta di classe del proletariato europeo con le lotte di emancipazione nazionale dei paesi colonizzati dall’Occidente e comprendendo al tempo stesso la complessità di un processo rivoluzionario che, in un mondo tanto ostile, continuava in forme nuove anche dopo la conquista del potere.

Da qui la scelta di Losurdo di andare controcorrente anche rispetto ai propri compagni, sfidando con caparbietà il rischio dell’isolamento fino, alla lunga, a sconfiggerlo. La scelta di criticare a fondo il marxismo occidentale, a partire da quella insuperata subalternità nei confronti del liberalismo che si esprimeva in maniera macroscopica nella sua crescente indifferenza verso la questione coloniale e che aveva costretto l’intera sinistra a rendersi ad un certo punto «assente». Da qui soprattutto, anche alla luce del diverso esito dell’esperienza del socialismo cinese (da lui sempre rispettato e osservato con attenzione simpatetica) rispetto a quello russo e occidentale, la necessità di ripensare integralmente i fondamenti del marxismo. A partire da una rilettura della lotta di classe che fosse capace di oltrepassare lo schematismo binario e economicistico di chi, ad ogni livello, vede un’unica e sola contraddizione, quella di un proletariato mai ben definito contro una borghesia non meno malintesa, per riproporla invece come una teoria generale del conflitto che presiede ad ogni processo di emancipazione (e che ha a che fare in primo luogo con la lotta per il riconoscimento della propria dignità umana da parte dei gruppi esclusi e discriminati). Una teoria in grado di illuminare le grandi crisi storiche, inoltre, quelle accelerazioni nelle quali non c’è mai un’unica dimensione ma sempre la compresenza di una pluralità di contraddizioni oggettive. E in grado di comprendere, da questa prospettiva, l’intreccio indissolubile tra questione sociale e questione nazionale, o questione di genere, come quello tra universale e particolare, alla ricerca di un universalismo concreto che consenta di pensare la comune umanità fuori da ogni astrattezza irenistica.

La durezza del conflitto di classe, ma anche quella della guerra civile europea o internazionale e dello stato di guerra mondiale permanente che aveva accompagnato il processo di decolonizzazione, avevano inevitabilmente esaltato e cristallizzato la dimensione religiosa e messianica del marxismo, quella componente che pure si era rivelata indispensabile nei processi di mobilitazione delle masse necessari in quella lunghissima fase. A lungo persuasi dell’imminenza di una rottura rivoluzionaria che sarebbe presto dilagata in tutto il pianeta a partire dai punti alti dello sviluppo industriale, e ancora più a lungo accerchiati sul piano geopolitico ma anche su quello culturale e psicologico dalla potenza egemonica del mondo capitalistico, i marxisti avevano perduto il senso della storia e disimparato la dimensione dei tempi lunghi che sono propri dei movimenti reali. Il fatto cioè che la trasformazione non ha la struttura temporale dell’attimo e non conduce a un’immediata coincidenza tra il corso degli eventi e il loro significato, a una totale riappropriazione, trasparenza e pienezza di senso, ma è essa stessa il percorso di una faticosa catena di contraddizioni, fatta di conquiste e retrocessioni legate ai rapporti di forza e in cui ogni tappa non è mai assicurata una volta per tutte. Negli auspici di Losurdo, alla luce del bilancio storico del XX secolo e delle sue tragedie, il marxismo doveva affrontare perciò un processo di secolarizzazione complicato e non indolore, per proseguire quel passaggio dall’utopia alla scienza (intesa come la Wissenschaft hegeliana) che era stato indicato da Engels ma si era interrotto per via delle urgenze del conflitto permanente dell’età contemporanea. Per riscoprire, cioè, quella forma di coscienza che al suo sorgere ne aveva rappresentato la radicale novità: quel peculiare e quasi miracoloso equilibrio tra critica e legittimazione del moderno che nessun’altra tendenza filosofico-politica è mai riuscita sinora ad elaborare.

Pensiero dialettico significa comprensione della processualità della storia e della conoscenza umana. Ma è anche comprensione della loro natura strutturalmente conflittuale e perciò è anche consapevolezza della totalità sempre lacerata alla quale il conflitto allude. È per questo che l’Aufhebung toglie e conserva a un tempo, integrando ad un nuovo livello e in una nuova posizione anche quella parte di verità che è sempre presente persino presso il nemico assoluto. Marxismo, alla luce di questa considerazione e cioè come materialismo storico, non significa rifiuto indeterminato della realtà ma, a partire dalla comprensione della dimensione strategica e razionale della sua struttura più profonda, è negazione sempre determinata. Enormi e a volte indicibili sono le contraddizioni della modernità e del progresso, a partire dal dominio totale espresso già nell’accumulazione originaria, passata per la brutale de-umanizzazione di intere classi sociali e di interi popoli e sfociata non di rado nello sterminio, e inaccettabile è ancora oggi l’ingiustizia dell’ordine borghese all’interno e al di fuori della metropoli. Tuttavia, questa stessa modernità è l’epoca che ha scoperto il concetto universale di uomo e che persino nel dolore del diventare-astratto di ogni rapporto sociale o persino semplicemente umano, ha saputo distillare quel progresso che consiste nel superamento dei vincoli di dipendenza personale e diretta dell’uomo sull’uomo, lasciandosi alle spalle il feudalesimo e mettendo in discussione la schiavitù. Quell’epoca che ha sviluppato le forze produttive materiali integrali del genere umano, spezzando la ristrettezza dei bisogni ma anche delle soggettività e dando vita a un’ininterrotta circolazione delle idee.

Non si torna indietro rispetto ad essa. La critica della modernità, come comprensione delle sue condizioni di possibilità e dei suoi limiti, è dunque possibile solo a partire dal riconoscimento delle sue conquiste. Dall’eredità, cioè, dei punti alti di una tradizione che ha certamente a che fare con l’orrore ma che è anche quella civiltà che, attraverso i suoi esponenti più lungimiranti, ha saputo vedere il proprio orrore e denunciarlo. Muovendo dalla conoscenza di queste contraddizioni, ma anche di quelle che accompagnano la storia del marxismo e del comunismo storico, bisogna perciò intraprendere un percorso di apprendimento che tagli definitivamente i ponti con il dogmatismo degli assoluti senza al contempo cadere nel relativismo del postmoderno e della sua impotente negazione ermeneutica di ogni oggettività e cioè della politica e della trasformazione del mondo.

Domenico Losurdo – al quale dobbiamo tra l’altro l’ispirazione iniziale che ha dato vita a questa rivista e che di “Materialismo Storico” presiedeva il Comitato scientifico – ci ha lasciati nel momento più difficile. Nel momento cioè in cui la crisi della democrazia moderna in Occidente e nel resto del mondo sembra piegare in direzione di una inquietante ridefinizione delle forme politiche che promuove nuove modalità di esclusione e discriminazione, all’interno di ciascun paese come su scala internazionale. In un’epoca nella quale la ricolonizzazione del pianeta, che parla nei termini di quel Linguaggio dell’impero[31] da lui così accuratamente decostruito e che ha fatto seguito alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale, fa svanire sempre più in lontananza le speranze di un’epoca di pace espresse in un libro come Un mondo senza guerre.[32] Ci ha lasciati però con gli strumenti migliori e più affilati per fronteggiare questo mondo a partire dai suoi conflitti cruciali e per criticarlo, ovvero per comprenderne le ragioni, le condizioni di possibilità. E per contrapporgli infine uno scenario diverso, per quanto sempre fondato nell’oggettività di ciò che è reale e e razionale non nei sogni e nei desideri di chi pensa di potersi permettere di ignorare la durezza del mondo: come scriveva Marx a Ruge – un’altra citazione molto amata da Losurdo –, «Noi non anticipiamo il mondo ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo».

C’era un’ultima cosa che Losurdo ripeteva spesso ai suoi allievi, citandola criticamente come esempio negativo di intimismo, di soggettivismo narcisistico e «ipocondria dell’impolitico».[33] È una celebre poesia scritta da Ungaretti nel 1916, in piena guerra mondiale, dal titolo San Martino sul Carso:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanto
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.[34]

Ebbene, il nostro cuore oggi è straziato ma, come già ai tempi del poeta, assai più gravi di quelli della nostra coscienza sono gli strazi che abbiamo attorno a noi: le guerre che continuano a dilaniare il pianeta, la sopraffazione imperialistica che non cessa, l’odio razziale che monta, il rischio di una crisi radicale di civiltà e del riemergere di pulsioni che ci eravamo illusi fossero state superate per sempre. Di fronte a questi pericoli non possiamo certo far rivivere Domenico Losurdo. Ma anche grazie a questa piccola rivista, alla quale tanto teneva, possiamo far durare ancora – e a lungo – il suo pensiero, cercando di esserne all’altezza.

Stefano Azzarà, Università di Urbino

[1] Domenico Losurdo, Le catene e i fiori. La critica dell’ideologia tra Marx e Nietzsche, «Hermeneutica» 6, 1987, p. 108.

[2] Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi, in G. M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Prassi. Come orientarsi nel mondo, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1991, p. 128.

[3]Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Bibliopolis, Napoli 1983, p. 14.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], tr. it.: Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. Testo tedesco a fronte, Mimesis, Milano 2015, citato in Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, op. cit., p. 27

[6] Domenico Losurdo, Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua, «Il Pensiero», pp. 131-78.

[7] Domenico Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, «Studi storici» 1/2, pp. 189-216.

[8] Domenico Losurdo, Fichte e la questione nazionale tedesca, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici» 1-2, pp. 53-79.

[9] Domenico Losurdo, Hegel, questione nazionale, Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Pubblicazioni dell’Università, Urbino 1983.

[10] Domenico Losurdo, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983.

[11] Domenico Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel, Guerini, Milano 1987.

[12] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997.

[14] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, op. cit., p. 74.

[15] Ivi, p. 115. Cfr. Domenico Losurdo, cura e trad. di G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Leonardo/Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1989.

[16] Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 242.

[19] Ivi, p. 238.

[20] Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 326.

[21] Friedrich Nietzsche, citato in Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, op. cit., p. 644.

[22] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 89.

[23] Domenico Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Bibliotheca, Roma 1993.

[24] Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del «socialismo reale», Laboratorio politico, Napoli 1996.

[25] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997.

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La Città del Sole, Napoli 1999.

[27] Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

[28] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma- Bari 2017.

[29] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

[30] Cfr. Domenico Losurdo, Introduzione e traduzione (in collaborazione con Erdmute Brielmayer) di K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999.

[31] Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] Domenico Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016.

[33] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001.

[34] Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso, in Id., Vita d’un uomo. 106 poesie 1914-1960, Mondadori, Milano 1992, p. 36; ed. orig. In II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916.



Alcuni libri
di Domenico Losurdo

 

La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel

La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel

Editore: Guerini e Associati, 1988

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Editore: Bollati Boringhieri , 1991

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Democrazia o bonapartismo

Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale

Editore: Bollati Boringhieri, 1993

Descrizione

Tormentata è la storia del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno Novecento, dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di più consolidata tradizione liberale. Un nuovo modello di democrazia sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. Gli Stati Uniti costituiscono il privilegiato paese-laboratorio del “bonapartismo-soft” che ora si affaccia anche in Italia e di cui ci parla Losurdo.

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La seconda Repubblica

La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo

Editore: Bollati Boringhieri, 1994

Descrizione

Nonostante i toni spesso trionfalistici, la Seconda Repubblica è l’espressione di una crisi profonda: se revisionismo storico e postfascismo cancellano l’identità nazionale del nostro paese, le riforme elettorali e istituzionali in atto, sancendo il peso immediatamente politico della grande ricchezza e del potere multimediale, bandiscono ogni idea di democrazia intesa come partecipazione di massa. L’odierna crociata neoliberista mira a liquidare i “diritti economici e sociali”, promuovendo in pratica una sorta di redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi. Nei paesi a forti squilibri regionali tale redistribuzione passa attraverso l’autonomia “federale”. Liberismo, federalismo e postfascismo si mescolano così in una miscela esplosiva.

 

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Antonio Gramsci, dal liberalismo al ...

Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico»

Editore: Gamberetti , 1997

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Dai Ffatelli Spaventa a Gramsci

Dai fratelli Spaventa a Gramsci.
Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia

Editore: La Città del Sole, 1997

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1997 - Nietsche e la critica della modernità

Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica

Editore: Manifestolibri, 1997

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2006 - Controstoria derl liberalismo

Controstoria del liberalismo

Editore: Laterza, 2006

 

Descrizione

Il liberalismo sottolinea il valore positivo della libertà individuale, l’autonomia del singolo, l’opposizione al conservatorismo sociale. Sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, il liberalismo non è però riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Come per ogni movimento storico, si tratta di indagare sì i concetti ma anche in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si è espresso. E la storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde risulta inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento.

 

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2007 - Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Editore: Bibliopolis, 2007

Descrizione

Considerato da non pochi dei suoi contemporanei come un “democratico radicale “, Kant è stato in seguito stilizzato da una radicata e composita tradizione interpretativa a teorico dell’obbedienza all’autorità costituita, e questo a causa della sua negazione del diritto di resistenza. Punto di partenza della presente ricerca è proprio tale negazione: essa, mentre rassicurava le corti tedesche, al tempo stesso permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese. Emerge qui con chiarezza la ricercata “ambiguità “, la ” doppiezza” di Kant, costretto ad un logorante esercizio di autocensura, ad una continua dissimulazione, tormentosa anche sul piano morale, per sfuggire al controllo delle autorità di censura e del potere politico. In questo quadro si procede ad una rilettura del pensiero politico di Kant; che, se è sufficientemente noto il difficile rapporto del filosofo con la censura, non sembra sia stata finora indagata la connessione tra “persecuzione e arte dello scrivere”; ma forse è solo questa indagine che può permetterci di sbarazzarci dell’oleografia tradizionale, per collocare Kant in una luce nuova, più umanamente drammatica e inquietante.

 

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2007 - Il peccato orginakle del Novecento

Il peccato originale del Novecento

Editore: Laterza, 2007

 

 

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2010 La non-violenza

La non-violenza. Una storia fuori dal mito

Editore: Laterza, 2010

 

Descrizione

Dopo un secolo tragicamente carico di violenza e di terrore, l’ideale della non-violenza esercita un fascino crescente sulle coscienze di donne e uomini. Ma quali sono stati i primi movimenti ad agitare questo ideale e quali difficoltà essi hanno dovuto affrontare in un periodo storico particolarmente ricco di guerre e rivoluzioni? Dalle organizzazioni cristiane che nei primi decenni dell’Ottocento si propongono negli Usa di combattere congiuntamente e in modo pacifico i flagelli della schiavitù e della guerra, fino ai protagonisti della non-violenza: Thoreau, Tolstoj, Gandhi, Capitini, Dolci, M.L. King, il Dalai Lama o i più recenti ispiratori delle ‘rivoluzioni colorate’. Costante è il confronto tra il movimento non-violento e il movimento anticolonialista e antimilitarista di ispirazione socialista e sono prese in considerazione anche le posizioni di illustri teologi cristiani (R. Niebuhr e D. Bonhoeffer) e filosofe di diverso orientamento ma entrambe autrici di importanti contributi sul problema della violenza, come Simone Weil e Hannah Arendt.

 

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2011 - Hgel e la libertà dei moderni

Hegel e la libertà dei moderni

Editore: La Scuola di Pitagora, 2011

 

Descrizione

Hegel legittima le rivoluzioni che hanno segnato la nascita del mondo moderno e rende omaggio alla rivoluzione francese quale “splendida aurora”; nel momento in cui la schiavitù fiorisce negli Usa e nelle colonie, egli condanna tale istituto come il “delitto assoluto”. Da un lato il filosofo sottolinea la centralità della libertà individuale, dall’altro teorizza i “diritti materiali” e il “diritto alla vita”, paragona ad uno schiavo l’uomo che rischia la morte per inedia ed esige l’intervento dello Stato nell’economia, in modo da porre fine a questa nuova configurazione del “delitto assoluto”. Alla luce di tutto ciò come appare ridicola la lettura di Hegel quale teorico della Restaurazione. Tradotto in più lingue e apparso anche negli Usa e in Cina, il libro di Losurdo analizza il contributo decisivo che il grande filosofo tedesco fornisce alla comprensione della libertà dei moderni e, misurandosi con le interpretazioni di Bobbio, Popper, Hayek, mette in evidenza i limiti di fondo del liberalismo vecchio e nuovo.

 

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2012 -Fuga dalla storia?

Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi

Editore: La Scuola di Pitagora, 2012

 

Descrizione

Nel 1818, in piena Restaurazione e in un momento in cui il fallimento della rivoluzione francese appariva evidente, anche coloro che inizialmente l’avevano salutata con favore prendevano le distanze dalla vicenda storica iniziata nel 1789: era stata un vergognoso tradimento di nobili ideali. In questo senso Byron cantava: “Ma la Francia si inebriò di sangue per vomitare delitti/ Ed i suoi Saturnali sono stati fatali/ alla causa della Libertà, in ogni epoca e per ogni Terra”. Dobbiamo oggi far nostra questa disperazione, limitandoci solo a sostituire la data del 1917 a quella del 1789 e la causa del socialismo alla “causa della libertà”? Confutando i luoghi comuni dell’ideologia dominante, Losurdo analizza e documenta l’enorme potenziale di emancipazione scaturito dalla rivoluzione russa e dalla rivoluzione cinese. Quest’ultima, dopo aver liberato prima dal dominio coloniale e poi dalla fame un quinto dell’umanità, mette oggi in discussione al tempo stesso l'”epoca colombiana” e il modo tradizionale di intendere la lezione di Marx.

 

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2014 - La sinistra assente

La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Editore: Carocci , 2014

Descrizione

Le promesse del 1989 di un mondo all’insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una “piccola guerra” (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un’altra. Per di più, all’orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l’esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la “società dello spettacolo” riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l’alternativa? A queste domande l’autore risponde con un’analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.

 

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2015 - Il revisionismo storico

Il revisionismo storico. Problemi e miti

Editore: Laterza , 2015

 

Descrizione

Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest’opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l’analisi critica del revisionismo storico – a cominciare dalle tesi di Nolte sull’Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese – si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com’è confermato dall’omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall’altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il “secolo delle umiliazioni”. Sarà in grado l’Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l’incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?

 

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2015 - La lotta di classe

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica

Editore: Laterza, 2015

Descrizione

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche “sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”, come denunciava Marx, e l’oppressione “del sesso femminile da parte di quello maschile”, come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

 

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2015 - Rivoluzione d'Ottobre e democrazia nel mondo

Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo

Editore: La Scuola di Pitagora, 2015

Descrizione

“Se per ‘democrazia’ intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni (di genere, censitaria e razziale), è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla rivoluzione d’ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale”.

 

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2015 - Stalin

Stalin. Storia e critica di una leggenda nera

Editore: Carocci , 2015

Descrizione

C’è stato un tempo in cui statisti illustri – quali Churchill e De Gasperi – e intellettuali di primissimo piano – quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski – hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un “mostro”, paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell’identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.

 

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2016 - Un mondo senza guerre

Un mondo senza guerre.
L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente

Editore: Carocci , 2016

Descrizione

Nel 1989, la realizzazione di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano; oggi, oltre al terrorismo e ai conflitti locali, torna a incombere il pericolo di una terza guerra mondiale. Come spiegare tale parabola? Losurdo traccia una storia inedita e coinvolgente dell’idea di pace dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Da questo racconto, di cui sono protagonisti i grandi intellettuali (Kant, Fichte, Hegel, Constant, Comte, Spencer, Marx, Popper ecc.) e importanti uomini di Stato (Washington, Robespierre, Napoleone, Wilson, Lenin, Bush Sr. ecc.), emergono i problemi drammatici del nostro tempo: è possibile edificare un mondo senza guerre? Occorre affidarsi alla non violenza? Qual è il ruolo delle donne? La democrazia è una reale garanzia di pace o può essa stessa trasformarsi in ideologia della guerra? Riflettere sulle promesse, le delusioni, i colpi di scena della storia dell’idea di pace perpetua è essenziale non solo per comprendere il passato ma anche per ridare slancio alla lotta contro i crescenti pericoli di guerra.

 

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2017 - Il marxismo occidentale

Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere

Editore: Laterza, 2017

 

Descrizione

Nato nel cuore dell’Occidente, con la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

 

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2018 - Marxismo e comunismo

Marxismo e comunismo

Editore: Affinità Elettive Edizioni, 2018

Descrizione

“La storia del movimento comunista è stata un grande capitolo di storia per abolire la schiavitù coloniale e per l’affermazione di un’autentica morale capace di rispettare ogni uomo”.



Alcuni libri
di
Stefano G. Azzarà

 

2006- Pensare la rivoluzione conservatrice

Pensare la rivoluzione conservatrice.
Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar

Editore: La Città del Sole, 2006

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2011 - L'imperialismo dei diritti universali

L’ imperialismo dei diritti universali.
Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa

Editore: La Città del Sole, 2011

 

La fine della Prima guerra mondiale si accompagna alla perdita del potere per l’establishment liberalconservatore in Germania, nonostante il fallimento in extremis della rivoluzione comunista. In condizioni politiche ed economiche molto difficili, segnate dal forte condizionamento del Paese da parte delle potenze vincitrici, si tratta adesso di fronteggiare l’affermazione definitiva della società di massa e l’avvento del metodo democratico nella sfera pubblica. Comincia una riflessione tormentata, che costringerà le classi dirigenti e intellettuali tradizionali ad una rottura “rivoluzionaria” con il proprio passato e con ogni nostalgia verso la monarchia e la società agraria. Poco noto in Italia, Arthur Moeller van den Bruck è stato tra i principali ispiratori di un rinnovamento di categorie e forme politiche che porterà la destra tedesca – ma anche quella europea – a contendere alle sinistre rivoluzionarie come a quelle riformiste il terreno della politica di massa.

 

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2011 - Un Nietzsche italiano

 

Un Nietzsche italiano.
Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario

Editore: Manifestolibri, 2011

 

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra. Il volume ripercorre criticamente la storia dell'”oltreuomo” dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso. Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico. Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi il più grave rischio per la democrazia moderna. Con un’intervista a Vattimo su “Nietzsche, la rivoluzione, il riflusso”.

 

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2014 - Friedrik Nietzsche

Friedrich Nietzsche.
Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice.
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck

Editore: Castelvecchi, 2014

 

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e leggerlo quando la lotta di classe cede il passo al conflitto tra la Germania e le altre potenze europee? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la guerra, quando una sconfitta disastrosa ha mostrato la fragilità del Reich? Questo libro ricostruisce le interpretazioni nietzscheane di Arthur Moeller van den Bruck, padre della Rivoluzione conservatrice e precursore di Spengler, Heidegger e Junger. Moeller ridefinisce la filosofia di Nietzsche adattandola ai salti della storia europea tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la fine della Prima guerra mondiale. Il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce così nel passaggio di secolo come il filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi diventare, nella Repubblica di Weimar, l’improbabile teorico di un socialismo mistico e spirituale. Tre diverse letture emergono perciò da tre diversi momenti della storia europea e stimolano il passaggio dal pensiero liberalconservatore alla Rivoluzione conservatrice. In appendice, la prima traduzione italiana dei quattro saggi di van den Bruck su Nietzsche.

 

 

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2014- Democrazia cercasi

i

Democrazia cercasi.
Dalla caduta del muro a Renzi:
sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia

Editore: Imprimatur, 2014

Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno favorito una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e hanno relegato molti cittadini nell’astensionismo o nella protesta rabbiosa. In nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

 

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2017- Nonostante Laclau

Nonostante Laclau.
Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna

Editore: Mimesis, 2017

È il populismo di sinistra la risposta giusta alla crisi della democrazia? La decostruzione postmoderna delle identità storiche apre una nuova stagione di libertà e pluralismo oppure finisce per accettare un terreno di gioco regressivo, nel quale viene già precostituita l'”egemonia” delle tendenze più particolaristiche e la produzione di appartenenze naturalistiche? Stefano G. Azzarà si interroga sui conflitti del nostro tempo, tra neoliberalismo e ricerca di un nuovo orizzonte di progettualità politica.

 

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2018- Comunisti, fascisti e questione nazionale

Comunisti, fascisti e questione nazionale.
Fronte rossobruno o guerra d’egemonia?

Editore: Mimesis, 2018

Dopo decenni di entusiasmo per la globalizzazione e l’unificazione europea, l’emergere dei movimenti sovranisti e populisti in un’epoca di crisi organica sembra rendere di nuovo attuale la questione nazionale ed evoca la suggestione di un blocco trasversale di contestazione del capitalismo neoliberale e apolide che unisca tutti i “ribelli” della società borghese, lasciandosi alle spalle l’alternativa tra destra e sinistra. Anche nella Germania degli anni Venti, ai tempi delle riparazioni di guerra e dell’occupazione della Ruhr, questi temi erano all’ordine del giorno. L’appello di Karl Radek per un fronte unito dei lavoratori, aperto ai ceti medi e alla piccola borghesia patriottica e capace di difendere l’indipendenza del Paese dall’imperialismo straniero, non era però la proposta di un’alleanza totalitaria degli opposti radicalismi estremistici ma la dichiarazione di una furibonda guerra d’egemonia. Uno scontro ideologico che puntava semmai a bruciare il terreno sotto i piedi al fascismo nascente e a candidare la classe operaia tedesca, sulla scorta dell’esperienza bolscevica e del dibattito aperto nel Komintern da Lenin, alla guida della nazione e della sua rinascita. La disputa dei comunisti con Arthur Moeller van den Bruck e la Rivoluzione conservatrice tedesca sfata il mito dell’estraneità del materialismo storico agli interessi nazionali. Tuttavia, al contrario degli odierni equivoci eurasiatisti e socialsciovinisti, attesta l’insuperabile incompatibilità filosofica – prima ancora che politica e morale – tra il particolarismo naturalistico delle destre, con le loro persistenti pulsioni discriminatorie di stampo coloniale, e l’universalismo concreto del marxismo e del suo sogno di un mondo senza guerre.

 

 

 


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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Aldo Capitini (1899-1968) – Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.

Aldo Capitini 02

alta passione

 Aldo Capitini scrive nel 1956

«Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.
Piú volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Ma sappiamo anche che noi non possiamo far tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo piú forti) liberare il mondo da tutto il male. E allora torneremo indietro? non faremo nulla? ci faremo prendere dallo scoraggiamento? lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati? Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi, raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti. […]
Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto; la storia deve mutare e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.
Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze. Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte e con la fede che il resto del dolore, del male, della morte scomparirà. Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale. Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagni troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo. Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta».


Aldo Capitini
Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte, Firenze 2016, pp. 292-294

Lanfranco Binni, responsabile del Fondo Walter Binni, e Marcello Rossi, direttore de Il Ponte la “rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei”, hanno recentemente curato una ricca e approfondita raccolta di scritti politici di Aldo Capitini – il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta – che coprono un arco temporale dal 1935 al 1968, anno della sua morte, dal titolo “Un’alta passione, un’alta visione”  (Il Ponte Editore). Ne pubblichiamo qui la premessa dei due autori.

Il volume cartaceo può essere richiesto presso Il Ponte libreria, mentre il sito web del Fondo Walter Binni mette a disposizione dei lettori la versione integrale in .pdf  

Questo volume di scritti di Aldo Capitini è un percorso di attraversamento diacronico della sua esperienza rivoluzionaria, teorica e tenacemente pratica, dall’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica e alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla puntuale teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.
I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.
Al centro dell’intera esperienza umana, intellettuale, poetica, pratica di Capitini c’è la politica, una concezione della politica come intreccio di etica e creazione del valore, tensione alla trasformazione, alla liberazione rivoluzionaria della realtà. Tutti gli scritti di Capitini sono intimamente politici: è politica la sua elaborazione filosofica sulla «compresenza», è politica la sua poesia che nomina la realtà liberata qui e subito, è politica la sua libera ricerca religiosa, è piú che politica la sua concezione della politica, è piú che socialista la sua concezione del socialismo, è piú che libertaria la sua concezione della libertà.
I veri maestri agiscono a distanza e nel corso del tempo. Il tempo di Capitini è ora, nella fase della crisi della «democrazia» liberale (il sintomo) e della crisi strutturale del capitalismo (la malattia), della guerra globale e della devastazione del pianeta: «democrazia diretta», «omnicrazia», «compresenza», «realtà liberata» affermano oggi la loro urgenza teorica e di orientamento per la prassi rivoluzionaria.
I testi che abbiamo scelto e montato cronologicamente non costituiscono un’antologia, ma un percorso di attraversamento del «centro» delle idee e dell’azione di Capitini, nelle loro molteplici e costanti «aperture», per sollecitare un rapporto ulteriore con le sue opere, da leggere e studiare. Il titolo è di Capitini: in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, 8 denuncia il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza: «Nelle città, nei paesi e nelle campagne specialmente, vedo folle di giovani e di ragazzi inerti, che non hanno canzoni, non incontrano apostoli, non sanno come salutare, che grido lanciare, che non può e non deve essere piú quello di odio a un uomo e a un regime scomparsi. O dare tutto questo, un’alta passione, un’alta visione, o non ci meraviglieremo se dilagherà la tendenza a un individualismo scettico peggiore della morte».
Il libro è di Capitini, e inizia con la sua voce: lo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo, scritto nel 1968 a due mesi dalla morte. Ci limitiamo a premettere un sintetico profilo della vita e delle opere, e una doverosa insistenza sul socialismo libertario di Capitini, il cuore e l’anima della sua stessa «religione aperta».

Lanfranco Binni (Fondo Walter Binni)

Marcello Rossi (Il Ponte Editore)


Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

 


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