Monica Quirico – Resistenza, Anpi e intellettuali minuscoli: dieci spunti di riflessione

Molta gente
prende la parola
per non dire niente.

[…]

E c’è chi rifiuta la parola
agli altri (non a sé)
per timore che gli altri vedano
dentro la sua che cosa c’è.

Franco Antonicelli



Monica Quirico

Resistenza, Anpi e intellettuali (minuscoli):

dieci spunti di riflessione

 

I. Nemico pubblico numero unoII. Maiuscole e minuscoleIII. Solidarietà a senso unicoIV. Quale Resistenza?

V. Strategie complementari di manipolazione della storia  – VI. La resa degli intellettuali

VII. Acribia filologica a corrente alternata – VIII. Il capro espiatorio – IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia

X. La Resistenza come promessa

I. Nemico pubblico numero uno. Il linciaggio, personale oltre che politico, cui è sottoposto da settimane il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ha pochi precedenti nella storia repubblicana; che a compierlo siano per lo più giornalisti, intellettuali e politici “progressisti” (alcuni con trascorsi rivoluzionari), a cui la destra ben volentieri delega il lavoro sporco, rende la vicenda paradigmatica dell’imbarbarimento del sistema mediatico e dell’irreversibile declino di un intero ceto intellettuale.

II. Maiuscole e minuscole. La nostra Resistenza (ma anche quella francese, norvegese, jugoslava…) si fregia dell’iniziale maiuscola perché costituisce uno specifico fenomeno storico (la guerra partigiana contro l’occupazione nazifascista); allo stesso modo, si scrive Rinascimento per distinguere, nella storia della cultura, una determinata epoca da usi generici, talvolta impropri, del termine – come ad esempio il luminoso avvenire che Renzi preconizza per l’Arabia Saudita. Che le altre resistenze, a partire da quella ucraina, si scrivano con la minuscola non comporta una loro deminutio capitis, ma semplicemente il riconoscimento di diverse condizioni storiche.

III. Solidarietà a senso unico. Giornalisti e intellettuali con l’elmetto (indossato sulla poltrona) vedono nell’invio di armi all’Ucraina un discrimine morale: la solidarietà (dei veri democratici) contro l’inerzia (delle anime belle). Vano sarebbe cercare, nei loro interventi passati, tracce di un appoggio altrettanto incondizionato ad altre resistenze, che pure ci sono state, negli ultimi decenni: quella irachena (non riducibile ai sostenitori di Saddam Hussein), quella afghana (non identificabile coi soli talebani), per tacere di quella curda (scomoda, con il suo confederalismo democratico) e, ça va sans dire, quella palestinese. Tutti popoli che hanno subito l’aggressione di uno o più paesi stranieri (dagli Stati Uniti alla Turchia) e che però, anche quando non sono mancate espressioni di condanna dell’occupante, non sono stati considerati meritevoli, da parte del “Corriere” o di “Repubblica” o di “Micromega”, di un sostegno armato da parte dell’Occidente e dell’Italia. Forse perché gli aggressori erano gli Stati Uniti o qualche loro irrinunciabile (per quanto impresentabile) alleato. E meno che mai si è rispolverata la nostra Resistenza. Quanto ai civili siriani bombardati implacabilmente dalla Russia, hanno agonizzato nell’indifferenza generale. Certo non hanno chiesto di inviare armi a movimenti per cui pure simpatizzano (come quello curdo o palestinese) l’Anpi o altre organizzazioni pacifiste, ritenendo che in qualsiasi caso rispondere alla guerra con più guerra conduca solo alla catastrofe, come ha ben visto Emergency in questi anni. Piuttosto, hanno insistito per una soluzione diplomatica dei conflitti. Inascoltati, come oggi. Chi è di parte, dunque? Chi è “passivo”?

IV. Quale Resistenza? Polemizzando con Luigi Salvatorelli, che equiparava la lotta partigiana a quella dei caduti del Grappa e del Piave, Franco Antonicelli, fulgido intellettuale che per fare il suo dovere aveva assunto la presidenza del CLN Piemonte, puntualizzava: “Il definire meglio le due «resistenze» non significa opporle fra loro per farne risultare vincitrice una: significa fare una più perspicua opera di storia e trarne le naturali conseguenze. Nasce il sospetto che nell’equiparazione si voglia a bella posta togliere i caratteri distintivi, annullarli in una superiore ma arbitraria identità”. In alcuni paesi, tra cui il nostro, la Resistenza fu, certo, una lotta di liberazione nazionale (dall’invasore nazista), ma anche una guerra civile (contro il fascismo come regime e contro i fascisti che quel regime incarnavano) e, per una parte del movimento partigiano, una guerra di classe (contro il padronato agricolo e industriale, che aveva appoggiato Mussolini come “soluzione” della crisi sociale). Quest’ultima dimensione costituisce uno dei maggiori rimossi della nostra storia, non secondariamente per la scelta del PCI di oscurarla, con la svolta di Salerno, per accreditarsi come partito dell’unità nazionale. Della Resistenza invocata oggi come “patentino” della legittimità della resistenza ucraina si recupera ovviamente solo la componente di liberazione nazionale nella sua dimensione armata, con buona pace del contributo della resistenza non violenta.

V. Strategie complementari di manipolazione della storia. La memoria pubblica funziona ormai come Amazon: chiunque può cliccare sull’articolo (il personaggio o il fenomeno) che più gli conviene in quel momento, senza curarsi né della filiera, né della destinazione e dell’impatto. La strumentalizzazione della storia, una piaga non solo italiana, si presenta sotto due volti. Il più rozzo, che nel nostro paese produce effetti particolarmente mefitici, è quello dell’appiattimento di processi ed eventi sul paradigma vittimario: nell’indistinzione dei morti, si compie l’assoluzione dei vivi (i fascisti e gli esponenti del potere istituzionale ed economico), mentre il giudizio della Storia condanna all’infamia i “rossi”. Il volto più raffinato, per così dire, consiste nell’appropriazione di personaggi e processi “eccentrici”, non prima di averli depurati delle loro componenti disturbanti: così il socialdemocratico Olof Palme, odiato dalla destra in vita, da morto viene canonizzato, ma in quanto campione del liberalismo; analogamente, Antonio Gramsci diventa icona di italianità, ma per la sua indiscutibile (?) ispirazione liberale. Nel caso della Resistenza, si è passati con la massima disinvoltura dalla criminalizzazione degli ultimi decenni a una repentina (e verosimilmente assai transitoria) beatificazione. L’arroganza intellettuale e morale della classe dirigente ha passato ogni limite.

VI. La resa degli intellettuali. Scomparse le organizzazioni di massa (se non quelle di destra) che assicuravano loro un ruolo sociale, gli intellettuali “progressisti” (il maschile è intenzionale) si sono adeguati alle modalità comunicative di un sistema mediatico ibrido, in cui la logica binaria dei social avvelena anche i media tradizionali; non vi è posto per l’argomentare razionale e il confronto civile tanto cari ai liberaldemocratici, ma solo per la rissa. Ecco allora che, anziché contribuire al dibattito pubblico mettendo a fuoco le aporie del diritto internazionale (dalle ambiguità del principio di autodeterminazione dei popoli all’impotenza dell’Onu di fronte al militarismo), i nostri intellettuali democratici hanno sfoderato, in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina, una logica binaria amico-nemico, alleato-traditore, degna delle peggiori fasi della Guerra fredda e per giunta incattivita da una comunicazione urlata e diretta alla delegittimazione dell’interlocutore. Pochi vi si sono sottratti; tra loro, Michele Serra, che, pur dichiarandosi a favore dell’invio di armi all’Ucraina, si è rifiutato di partecipare al derby fra le opposte tifoserie, confessando anzi il suo tormento interiore. Ma, appunto, si tratta di casi isolati. Lo “stile” del dibattito è stato dettato piuttosto da chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha definito “oscena” la posizione di Pagliarulo, salvo poi invitarlo a un confronto pubblico (prima ti demolisco, poi parliamo, insomma).

VII. Acribia filologica a corrente alternata. Mediocri pennivendoli con l’elmetto si sono presi la briga (sottraendo tempo a cause più nobili) di andare a spulciare i post sul Donbass scritti da Pagliarulo a partire dal 2014, per dimostrarne in modo inequivocabile il “putinismo”. Dunque, commenti di sette-otto anni fa, su cui si può essere più o meno in accordo, sono usati per squalificare le dichiarazioni di oggi, e con esse la persona tout-court; un procedimento metodologicamente assai discutibile, considerando che Pagliarulo, e l’Anpi, hanno immediatamente e ripetutamente condannato l’aggressione russa. Ancora più strumentale appare poi una pubblicazione dei post di Pagliarulo completamente avulsa dalle contemporanee prese di posizione di organismi transnazionali al di sopra di ogni sospetto, che constatavano nella regione contesa gravi violazioni dei diritti umani da entrambe le parti: i nazionalisti filorussi come l’esercito e le formazioni paramilitari ucraine (si veda, tra gli altri, il rapporto del 2017 dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/Countries/UA/UAReport19th_EN.pdf). La stessa sorte è toccata del resto al comunicato di Pagliarulo sul massacro di Bucha. Il presidente dell’ANPI ha chiesto una commissione d’inchiesta indipendente per accertare le effettive responsabilità: esattamente quello che ha sollecitato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per la semplice ragione che è ciò che prevede il diritto internazionale. Ma questo particolare deve essere sembrato ininfluente, ai guerrafondai nostrani, che lo hanno per lo più taciuto.

VIII. Il capro espiatorio. Per gli avversari dell’Anpi e del movimento pacifista, Pagliarulo rappresenta un bersaglio perfetto: ha un passato comunista (una colpa da cui non ci si redime, in Italia, se non rincorrendo la destra fino ad autoliquidarsi) e non può contare sull’appoggio di organizzazioni di massa. Il PD, che di massa non è più, si pone anzi come uno dei suoi più accaniti detrattori. Attribuendo a Pagliarulo posizioni “vergognose”, si vende all’opinione pubblica una narrazione rovesciata, in cui a essere faziosi (perché “putiniani”) e inerti (perché complici) sono i pacifisti. In questo modo, si devia l’attenzione da chi è davvero compromesso con Putin così come da chi si preoccupa soltanto di vendere armi, non di perseguire la pace per via negoziale. Così, mentre i sinceri democratici chiedono le dimissioni di Pagliarulo, Salvini, i cui rapporti con Mosca sono noti a tutt@, se l’è cavata con la passeggera umiliazione patita in Polonia. Anche in questo caso sono stati rispolverati vecchi post, che hanno, sì, dato adito a sarcasmo, ma non alla richiesta di dimissioni della Lega dal governo. Mentre Pagliarulo viene additato al pubblico ludibrio come traditore della patria e della democrazia, chi sacrifica i diritti sociali delle classi popolari, imponendo, dopo due anni di pandemia, l’aumento delle spese militari e le ricadute energetiche di una guerra che in alcun modo tenta di arrestare, riceve il plauso di un apparato mediatico nelle mani di un oligopolio (i cui azionisti controllano anche buona parte dell’industria bellica: si pensi a Gedi/Exor). Infine, mentre si infierisce su Pagliarulo, nessuno chiede lo scioglimento di Forza Nuova, che ha legami ideologici nonché militari con la Russia di Putin.

IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia. Perché l’Anpi oggi è ancora, anzi, più che mai, necessaria? Dovrebbe bastare un semplice dato, per chiudere la questione: l’Associazione dei partigiani conta 120.000 iscritti; Fratelli d’Italia 130.000. In un paese in cui, stando ai sondaggi, il 40% dell’elettorato voterebbe per due partiti di estrema destra, l’Anpi, con tutti i limiti che può avere, è uno dei pochi presidi di democrazia rimasti. Ed è proprio per questo che la si vorrebbe liquidare, con argomenti pretestuosi, come la sua obsolescenza (come se non si fosse rinnovata, nelle finalità e nel corpo militante, già da diversi anni) o la sua “faziosità”: celebri pure il 25 aprile, ma non si impicci di politica (una logica introiettata, purtroppo, anche da non pochi dei suoi iscritti). Delegittimando l’Anpi, si vuole archiviare definitivamente l’antifascismo come DNA della cultura politica nazionale e, con esso, quella Costituzione che, nata dalla Resistenza, ne raccoglie la triplice eredità di lotta di liberazione, guerra antifascista e lotta di classe: un circolo virtuoso che risulta intollerabile, nell’epoca di irreggimentazione permanente che sempre più ci imprigiona.

X. La Resistenza come promessa. “Come non illudersi che il nuovo Stato italiano avrebbe preso atto di tutto quello che la lotta partigiana significava: la forza di un popolo quando gli comanda la coscienza morale; l’intuito giusto della salvezza e libertà nazionali; la distruzione dei vecchi sistemi statali a base militaristica; la possibilità di un’esperienza di autogoverno? Come non ritenere inevitabile che la Resistenza, che oggi osava affrontare armata il fascismo e lo sconfiggeva, avrebbe distrutto tutto quanto il fascismo aveva rappresentato nella storia italiana e non soltanto italiana: la boria nazionalistica, lo spirito di divisione dell’Europa e del mondo intero, l’ossessione imperialistica, il bruto attivismo, lo stato etico, il capitalismo cieco? La «liberazione» doveva diventare «tutta la libertà»”. In queste parole, pronunciate da Antonicelli nel 1949, sono scolpiti i fondamenti dell’antifascismo italiano, quello rinnovatore, nato ben prima dell’8 settembre 1943 e non esauritosi con il 25 aprile 1945; a noi, fuori e dentro l’Anpi, il compito di inverare la promessa di redenzione dal nazionalismo, dal militarismo e dall’ingiustizia che esso ha dischiuso.

Franco Antonicelli (1902-1974) – Molta gente prende la parola per non dire niente. E c’è chi rifiuta la parola agli altri (non a sé) per timore che gli altri vedano dentro la sua che cosa c’è.


Monica Quirico, Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022.

Partigiano, letterato, poeta, giornalista, editore, senatore: tutto questo è stato Franco Antonicelli, una figura di spicco del Novecento italiano. Consapevole della parabola discendente della memoria della Resistenza, dai primi anni del dopoguerra, e per tutta la sua vita, Antonicelli ha fatto dell’antifascismo non mera testimonianza, ma un impegno da rinnovare di continuo per la trasformazione della società, un compito cui si è dedicato con inesausta energia nell’attività politico-culturale – fino ad approdare alla battaglia nelle istituzioni come indipendente nelle liste del Pci. In questa prima biografia documentata – intellettuale e politica – Monica Quirico ci restituisce il ritratto di un uomo che, a distanza di quasi cinquant’anni dalla morte, continua a impressionare per la vastità di interessi e la perenne lotta per la libertà e la giustizia che portava avanti animato dal costante bisogno di fare il proprio dovere.


Alcuni libri di Monica Quirico

Collettivismo e totalitarismo. F. A. von Hayek e Michael Polanyi (1930-1950), Franco Angeli, 2004.

La differenza della fede. Singolarità e storicità della forma cristiana nella ricerca di Michel de Certeau, Effatà, 2005.

Il socialismo davanti alla realtà. Il modello svedese (1990-2006), Editori Riuniti Press, 2007.

L’ Unione culturale di Torino. Antifascismo, utopia e avanguardie nella città-laboratorio (1945-2005), Donzelli, 2010.

Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo, Rosenberg & Sellier, 2018.

Guardare, Cittadella 2020.

Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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25 Aprile 2022 – Una nuova resistenza sotto la bandiera del bene e della verità.

Anna Magnani in una celebre sequenza di “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini.
Salvatore Bravo

Una nuova Resistenza sotto la bandiera del bene e della verità

Esodo per una nuova cultura della Resistenza

Resistenza e riduzionismo

 

 

Il 25 Aprile è il giorno in cui la democrazia sociale afferma i propri valori sconfiggendo le forze oscure del nazifascismo. Nella liturgia annuale della ricorrenza però si tende da più parti ad occultare che il sistema capitalistico – già vigente in tutto il Novecento  (prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale) e oggi globalizzatosi –, non è così antitetico al nazifascismo come sovente ama dipingersi: il nazifascismo è parte sostanziale della ormai lunga storia del capitalismo.

 

La multinazionale capitalistica della IBM, al servizio di Mussolini e di Hitler

In un articolo pubblicato il 14-02-2001 su “il manifesto” si poteva leggere a proposito di un libro di Edwin Black (La IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001):

«[…] uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dal libro di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è persino trasfigurato in una istituzione “morale”, fonte dei valori che contano […]. Sul versante della casa madre IBM il libro mette in luce l’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare […]. Le schede perforate della IBM grondano di sangue […]. I manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocifio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”. […] Thomas Watson [si vedano immagini cliccando qui], presidente della IBM, sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, e fu ricevuto dal Führer con tutti gli onori a Berlino nel 1937 [Si vedano le foto cliccando qui]. Ancora nel marzo del 1941 un manager IBM telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”. […] Dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 i rapporti con la filiale svizzera della IBM non si interruppero, e per questo tramite […] forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data».[1]

 

Mettere a nudo la realtà capitalistica del presente

La vittoria del 25 Aprile e le sue celebrazioni ritrovano il proprio autentico significato se davvero riescono ad individuare le forze che oggi operano (in vario modo) nel controllare, soggiogare, silenziare ogni istanza comunitaria alternativa: è questo l’unico modo per resistere e non lasciarsi avvolgere e stritolare dai tentacoli del capitale. Se ci si limita ad una monumentale celebrazione del passato, e specialmente, se la giornata del 25 Aprile è usata ideologicamente dalle attuali forze capitalistiche per autocelebrarsi, la ricorrenza è svuotata del suo significato etico e politico. Costoro dicono che il nemico è stato sconfitto nel passato e affermano che ora regna il miglior sistema sociale e politico possibile, che bisogna “solo gestire” l’ordinario costituito dai bombardamenti etici e dalla flessibilità (sfruttamento) sul lavoro in nome della libertà del capitale. Resistere significa, invece, far emergere “il nemico” della democrazia e della libertà.

 

L’inganno del riduzionismo

La contemporaneità ha nel riduzionismo e nel capitalismo (nella sua forma globale) i nemici da combattere. La bestia selvatica del mercato, come l’ebbe a definire Hegel, produce riduzionismi in campo culturale, in modo da congelare le coscienze individuali e comunitarie condannate a ipostatizzarsi.
Il feticismo dei mercati sta divorando le libertà mediante l’inganno del riduzionismo: si elimina ogni discorso sul bene e sulla verità per sfuggire allo sguardo critico e non svelare le dinamiche dei processi di accumulo e profitto.

 

Accogliere solo chi testimonia dialetticamente la verità

In tale clima infausto bisogna leggere e pensare autori che testimoniano dialetticamente la verità. Senza la ricerca veritativa il sistema capitale non si palesa nella sua miseria culturale, la quale si traduce in nichilismo e squallore antropologico. Il dialogo tra Carmelo Vigna e Luca Grechi dona uno sguardo critico e fuori dal coro accademico che consente di comprendere le dinamiche in atto. Si resiste al presente, se si introduce il parametro della qualità e del bene con cui giudicare e pensare la totalità.
Il riduzionismo è il velo di Maya con il quale il capitale neutralizza il pensiero dialettico e la prassi. I riduzionismi devono essere letti nella loro valenza storica e ideologica per poterli smascherare nella loro verità strutturale e ideologica:

«Vigna: […] Questo riduzionismo si associa ad altre forme di riduzionismo: naturalistico, psicologico ecc. L’epistemologia è, comunque, sul piano filosofico, la fonte (e la forma) maggiore di questi riduzionismi, specie se coltivata senza la consapevolezza ch’essa è solo riflessione su un frammento dell’esperienza, e non sul senso della esperienza nella sua totalità».[2]

 

Adattarsi passivamente oppure agire criticamente dall’interno?

Resistere significa scegliere. Gli uomini e le donne che hanno resistito al nemico nazifascista hanno scelto la libertà, non sono stati “idioti” nel significato greco del termine. Gli idioti erano coloro che si occupavano solo degli affari privati e non avevano nessun senso del pubblico.

Resistere implica avere il senso etico del pubblico che si costruisce attraverso lo sguardo olistico con il quale si giudica il valore qualitativo della totalità, in cui siamo implicati:

«Vigna: […] La massa può solo fare i conti col proprio “starci dentro” quotidiano, cioè dentro la vita quotidiana. E, in questo quotidiano, si può vivere sostanzialmente in due modi: adattandosi passivamente oppure agendo criticamente dall’interno».[3]

 

Resistenza e flessibilità

La mercificazione totale dell’essere umano e della vita è il vero nemico. Il male è tra di noi e con noi, ogni tentativo di occultarne la verità va combattuto e denunciato. Bisogna tenere la posizione, non cedere all’adattamento che in questo caso è già assimilazione. Le gioie e le promesse del grande tentatore, il capitalismo, si stanno rilevando nella loro effettualità: gli esseri umani con le loro relazioni sono merce di scambio. Il dialogo ha ceduto il posto al solo calcolo utilitario, per cui si è tutti in pericolo e minacciati dal valore di scambio e dai processi di alienazione che producono l’infelicità generale e le guerre nel privato, nel pubblico e tra gli Stati nazionali:

«Grecchi: […] Tutto, nel modo di produzione capitalistico, diventa inevitabilmente merce: non più solo il lavoro, la natura, la moneta (come sottolineava K. Polany), ma anche tutte le relazioni umane, e in un certo senso perfino le strutture della personalità, che il capitale tende a produrre appunto come merci, funzionalmente al proprio valore processo di valorizzazione complessiva».[4]

  

Resistenza significa cambiarne i processi produttivi

Il nucleo del problema resta la produzione. Resistenza significa cambiarne i processi produttivi. Nela produzione capitalistica gerarchizzata i soggetti imparano la normalità del dominio, assimilano e riportano nel loro privato la logica dello sfruttamento e della negazione dell’altro. La produzione forma soggettività passive pur nella loro aggressività competitiva.
Resistere, oggi, significa trasgredire gli inutili specialismi astratti per una critica argomentata al sistema capitale non scissa dalla prassi. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita è la violenza legalizzata col sistema capitalistico.
Bisogna spostare l’attenzione sul problema essenziale, il quale, non è la distribuzione, ma la produzione che si esplica con la gerarchizzazione e con la sussunzione. La produzione con la divisione tra dominatori e dominati addomestica ed insegna la passività. La genesi della passività è nella produzione la quale forma coscienze che ipostatizzano la gerarchizzazione produttiva con cui si nega l’attività politica. La produzione passivizzante vuole formare alla normalità della pratica del dominio. Resistere e sperare significa storicizzare i sistemi produttivi per emanciparli dalla normalità della violenza globale:

«Grecchi: […] Engels ha chiarito bene che la ridistribuzione della ricchezza dipende dalla forma (privatistica e sociale) della sua produzione, e oggi la forma produttiva è quella capitalistica privata dei gruppi transnazionali…».[5]

 

La fioritura della nostra umanità

Resistere significa coltivare nella lotta la speranza di una nuova fioritura nella vita e nella storia:

«Vigna: […] La fioritura della nostra umanità è sempre inizialmente un sogno, ed è un sogno che vuole (e che deve anche) farsi reale. Perciò è necessario coltivare cose come l’audacia e la speranza, fin da quando si è giovani».[6]

Il primo esodo per una nuova cultura della Resistenza è capire i significati delle nuove liturgie del sistema con il suo linguaggio falsamente libertario e orwelliano. La speranza è prassi critica e consapevolezza teorica del luogo-mondo in cui siamo. Bisogna trovare le ragioni per resistere e sperare, non vi è resistenza senza speranza. Gli adulti devono testimoniare non la flessibilità-adattamento al sistema capitale, ma la speranza critica in opposizione alla crematistica alienante e violenta. La speranza e la resistenza hanno la loro genealogia nella testimonianza critica a cui le nuove generazioni guardano per orientarsi in una realtà depressiva che li vuole perennemente flessibili e adattabili agli ordini del capitale.

 

Note

[1] Un test statistico chiamato Shoah

il manifesto 14/02/01

La Ibm e l’Olocausto Il ramo tedesco del gigante informatico Usa fornì a Hitler il know how dello sterminio. Un libro lo svela, cinque scampati chiedono i danni GUIDO AMBROSINO – BERLINO

Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.

In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.

Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).

Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.

Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.

Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.

Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.

Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documementazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.

Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.

I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.

Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.

In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.

L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.

Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.

[2] Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia 2011, pag. 18. [indicepresentazioneautoresintesi ]

[3] Ibidem, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 77.

[5] Ibidem, pag. 115.

[6] Ibidem, pag. 118.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leonardo Boff – Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo. 

Leonardo Boff

Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo.



Il libro dell’Apocalisse che narra gli scontri finali della nostra storia, tra le forze della morte e quelle della vita, ci dipinge un cavallo di fuoco che simboleggia la guerra: «il cavaliere fu dato per bandire la pace dalla terra perché gli uomini si decapitino l’un l’altro» (6, 4). La guerra tra Russia e Ucraina e l’ordine del presidente russo di tenere in allerta le armi nucleari, ci suscitano l’azione del cavallo di fuoco, la decapitazione dell’umanità, vale a dire, un Armageddon umano.

Le severe sanzioni imposte dalla NATO e dagli USA alla Federazione Russa possono portare al collasso dell’intera sua economia. Di fronte a questo disastro nazionale, la possibilità che il leader russo non accetti la sconfitta come se Napoleone (1812) o Hitler (1942) avessero preso il paese, cosa che non riuscirono a fare. Quindi realizzerebbe le minacce e avvierebbe un attacco nucleare. Solo l’arsenale russo può distruggere la vita umana sul pianeta più volte. E una vendetta può danneggiare l’intera biosfera senza la quale la nostra vita non potrebbe sopravvivere.

Dietro questo confronto Russia-Ucraina si nascondono potenti forze in lotta per l’egemonia mondiale: la Russia, alleata con Cina, e gli USA. La strategia di quest’ultimi è più o meno nota, guidata da due idee principali: “one world and one empire” (gli USA), garantito da un dominio a tutto spettro: dominio in tutti i campi con 800 basi militari distribuite nel mondo, ma anche con il dominio economico, ideologico e culturale. Tale dominio completo sarebbe alla base della pretesa degli Stati Uniti di essere “eccezionali”, di essere “la nazione indispensabile e necessaria”, “l’ancora della sicurezza globale” o “l’unico potere” (lonely power) veramente mondiale.

In questa volontà imperiale, la NATO, dietro la quale si trovano gli USA, si è estesa fino ai limiti della Russia. Tutto ciò che serviva era l’inserimento dell’Ucraina per chiudere l’assedio. I missili piazzati al confine ucraino avrebbero raggiunto Mosca in pochi minuti. Da qui la richiesta della Russia che l’Ucraina rimanesse neutrale, altrimenti sarebbe stata invasa. Questo è quello che è successo con le perversità che ogni guerra produce. Nessuna guerra è giustificabile perché uccide vite umane e va contro il senso delle cose che è la condizione per continuare a esistere. La Cina, a sua volta, contende l’egemonia mondiale non con mezzi militari, anche alleandosi con la Russia, ma attraverso la via economica con i suoi grandi progetti come la Via della Seta. In questo campo sta superando gli USA e raggiungerebbe l’egemonia mondiale anche con un certo ideale etico, quello di creare “una comunità di destino comune partecipata da tutta l’umanità, con società sufficientemente rifornite”.

Ma non voglio prolungare questa prospettiva bellicosa, davvero folle fino al punto di essere suicida. Questo scontro tra potenze rivela l’incoscienza degli attori in campo sui reali rischi che gravano sul pianeta che, anche senza il ricorso ad armi nucleari, potrebbero mettere in pericolo la vita umana. Va detto che tutti gli arsenali di armi di distruzione di massa si sono rivelati totalmente inutili e ridicoli di fronte a un virus minuscolo come il Covid-19.

Questa guerra rivela che i responsabili del destino umano non hanno imparato la lezione fondamentale del Covid-19, che non ha rispettato le sovranità e i limiti nazionali. Ha colpito l’intero pianeta. L’epidemia richiede l’instaurazione di una governance globale di fronte a una problema globale. La sfida va oltre i confini nazionali, è costruire la Casa Comune.

Non si sono resi conto che il grosso problema è il riscaldamento globale. Già siamo immersi nella crisi climatica, gli eventi fatali di questi mesi – dovuti alle inondazioni di intere regioni, ai tifoni e alla scarsità di acqua dolce – sono visibili. Abbiamo solo 9 anni per evitare una situazione di non ritorno. Se entro il 2030 aumentiamo di 1,5 gradi Celsius la temperatura del pianeta, non saremo in grado di controllarlo e ci dirigeremo verso un collasso del sistema Terra e dei sistemi vita. Stiamo toccando i limiti di sostenibilità della Terra. I dati di sovraccarico della terra (Earth Overshoot) indicano che il 22 settembre 2020 le risorse non rinnovabili necessarie alla vita erano esaurite. Il persistere del consumismo, pretende dalla Terra quello che lei non può più dare. In risposta, lei ci invia virus letali, aumenta il riscaldamento, destabilizza i climi e distrugge migliaia di esseri viventi.

La sovrappopolazione associata a una nefasta disuguaglianza sociale, con la stragrande maggioranza dell’umanità che vive in povertà e nella miseria, quando l’1% della popolazione controlla il 90% della ricchezza e dei beni e servizi essenziali, può portare a conflitti con innumerevoli vittime e alla devastazione di interi ecosistemi. Questi sono i problemi, tra gli altri, che dovrebbero preoccupare i capi di stato, gli amministratori delegati delle grandi Corporation e i cittadini, poiché loro mettono direttamente a rischio il futuro dell’intera umanità. Di fronte a questo rischio globale, è ridicola una guerra per zone di influenza e di sovranità già obsolete.

Quelli che ci danno speranza sono quegli anonimi “Noè” che prosperano ovunque, a partire dal basso, costruendo le loro le arche salvifiche attraverso una produzione rispettosa dei limiti della natura, per un’agro-ecologia, per comunità solidali, per democrazie socio-ecologiche partecipative, lavorando a partire dai propri territori. Loro possiedono la forza del seme del nuovo e con una mente nuova (la Terra come Gaia), con un cuore nuovo (il legame di affetto e cura per e con la natura) garantiscono un nuovo futuro con la coscienza di una responsabilità universale e di un’interdipendenza globale. La loro guerra è contro la fame e la produzione di morte e la loro lotta è per la giustizia per tutti, la promozione della vita e la difesa dei più deboli e indigenti. Questo è quello che deve essere. E quello che deve essere, ha intrinsecamente una forza invincibile.

Leonardo Boff, http://www.leonardoboff.org

Fonte: Il faro di Roma, 9/3/2022.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sante Notarnicola (1938-2021) – Sante il 22 marzo 2021 è volato via come una farfalla … Ne ricordiamo la vita con i manifesti che a sua memoria sono affissi in varie città. Lui diceva che: «La libertà ha bisogno di attenzioni, di cure continue e soprattutto ha bisogno di memoria».

Sante Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere ancora,
per sempre,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.

Carmine Fiorillo

La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Chiara è una bimba felice.
Nata attrezzata
per i giochi infiniti.

Chiara lo sa, con lei
giocheremo tutta la vita.

Sante Notarnicola


Non c’è vita
che almeno per u n attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wislawa Szymborska


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]

Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]

 

«Caro Sante,
Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.

Primo Levi».[3]

***

[1] S. Notarnicola, Materiale interessante. Liberi dal silenzio, Edizioni della Battaglia, Palermo,1997, p. 10.

[2] Ibidem, p. 35.

[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.






Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Gli indifferenti, sempre loro! Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

Gli indifferenti, sempre loro!

Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica
corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

di Fernanda Mazzoli

In uno degli ultimi giorni della Comune, un insorto replicò ad un tale il quale, arrestato come sospetta spia dei Versagliesi, rivendicava la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, ricorrendo all’argomento che mai si era interessato di politica, che proprio per questo lo uccideva. Ed aggiungeva, dopo che il presunto traditore gli era stato tolto dalle mani per essere ascoltato dal Comitato di salute Pubblica:

«La gente che non si occupa di politica!…: Ma sono i più vigliacchi e i più furfanti! Aspettano, ‘sti tipi, per sapere su chi sbaveranno o chi leccheranno dopo il massacro!».[1]

Le parole dell’ignoto combattente delle barricate di Montmartre, che odiava gli indifferenti mezzo secolo prima di Gramsci, accompagnano da qualche tempo le mie giornate come un ritornello sconsolato o un commento tanto risolutivo quanto laconico all’attuale stato delle cose. E non perché io abbia intenzione di ammazzare qualcuno, ma per la loro capacità di individuare e considerare con lucidità quella zona grigia che rende possibile, con la sua indifferenza più o meno compiaciuta ed il ripiegamento sul particulare, il perpetrarsi di violenze ed ingiustizie, sino al massacro che, ai giorni nostri, per il momento prende il volto della messa al bando dalla società.

Quello che sta avvenendo da mesi nel nostro Paese ai danni di una considerevole minoranza di cittadini vittime di provvedimenti punitivi centrati sull’espulsione dal lavoro e misure di apartheid, preceduti e sostenuti da una criminalizzazione morale senza precedenti, non avrebbe potuto realizzarsi se milioni di altri cittadini non avessero voltato lo sguardo dall’altra parte, se non avessero nascosto la testa sotto le tonnellate di paura sparse a piene mani dal potere politico e dai suoi cani da guardia mediatici.

La strumentale divisione delle persone tra sì vax e no vax, funzionale ad uno dei principi cardine delle strategie di dominio, il divide et impera, spostando artatamente il baricentro della questione sui vaccini, ha efficacemente contribuito ad occultare la natura politica delle decisioni prese: una grande rimozione, resa possibile da decenni di abulia civile, a vantaggio dell’adesione, ora entusiastica, ora rassegnata, alla grande abbuffata consumistica in cui ciascuno, ivi compresi i detrattori, si è ingegnato a ritagliarsi un posto, a seconda delle possibilità e delle inclinazioni.

Una volta rimosso, del binomio politiche sanitarie, il primo termine, ciò che resta si presta al riduzionismo più facile e di maggior effetto, ad una nuova declinazione del paradigma salutista – la difesa della nuda vita dai molteplici attacchi che possono minacciarla – particolarmente sensibile a tutte le torsioni securitarie, da sempre fertile humus per le svolte autoritarie.

L’indifferenza, che già forniva la necessaria protezione nella lotta darwiniana per la sopravvivenza o, nei casi più riusciti, per il successo nella società del neoliberismo rampante ha generato altra indifferenza per tutto ciò che non fosse la salvaguardia dal virus che la perdita di qualsiasi senso storico, di qualsiasi concreta contestualizzazione nel più vasto quadro in cui la pandemia si è dispiegata ha promosso a male assoluto, per difendersi dal quale non resta che l’obbedienza alle superiori disposizioni dei governanti e degli esperti a loro allineati.

E così, chi non si è arruolato in questa guerra, chi ha mostrato qualche esitazione o palesato qualche dubbio è incorso in un’esclusione brutale, in un ostracismo sociale impensabile in un Paese che vanta crediti di democrazia e modernità. Molti nostri connazionali, al riparo della loro indifferenza per la politica e tutti assorbiti dalla preoccupazione di saltare fuori il prima possibile e con il minor danno possibile da una situazione che la propaganda di regime ha costruito come apocalittica, con il loro silenzio, quando non approvazione, hanno aperto la strada alla carneficina sociale e psicologica che si sta consumando oggi. Il limbo degli ignavi è l’anticamera dell’inferno dove vengono spediti coloro che i primi hanno ignorato o dimenticato.

Se i presidi si fossero rifiutati di sospendere dal lavoro e dallo stipendio migliaia di lavoratori della scuola, se gli insegnanti avessero inondato i Collegi docenti, la stampa, il Ministero di mozioni di protesta contro l’allontanamento dei loro colleghi, se i negozianti e i ristoratori, o gli impiegati di servizi essenziali si rifiutassero di chiedere il greenpass, se i conducenti dei mezzi pubblici ricusassero di controllare il lasciapassare, se, in breve, si sviluppasse una diffusa campagna di disobbedienza civile, capace di coinvolgere ampi strati di popolazione, le misure coercitive del governo inciamperebbero nello scoglio della loro realizzazione e finirebbero per diventare lettera morta e/o per essere messe in discussione fino al loro ritiro.

Questo non è avvenuto: la maggioranza ha accettato senza fiatare l’emarginazione di milioni di concittadini, i quali, prima ancora di rifiutare un siero sperimentale, rifiutano di accettare l’inedito ricatto che si avvale della sola terapia anti Covid ammessa per introdurre una nuova e pericolosa forma di cittadinanza condizionata e limitata.

Ed è sempre la dimensione politica ad essere in gioco e sono sempre l’indifferenza o l’ignoranza nei suoi confronti a regolare la partita: non si tratta, infatti, di condividere nel merito le ragioni di chi non si è vaccinato, ma di allargare la propria visione delle cose al di là del meschino recinto eretto dalle veline di regime sul terreno delle paure irrazionali per collocare le decisioni governative nell’ambito più vasto di una società che, sull’onda della pandemia, sembra pronta a rinunciare alle libertà costituzionali e al diritto al lavoro, a quanto, cioè, era stato conquistato in due secoli di lotte sul terreno e di battaglie culturali.

Essere vaccinati non significa necessariamente approvare il greenpass e negare a chi ha fatto una scelta sanitaria diversa l’esercizio di diritti civili e sociali primari, come hanno sottolineato a più riprese i portuali triestini, incapaci di accettare che i loro colleghi non vaccinati, e con i quali avevano costruito insieme una trama significativa di relazioni interpersonali, subissero discriminazioni. E non solo per elementare, ma basilare solidarietà umana, ma anche perché i diritti negati oggi agli uni, potrebbero essere domani rifiutati, per ragioni diverse, agli altri.

Invece, apatia ed insensibilità si trincerano nell’orticello del presente, cercando di strapparne qualche frutto avvizzito che, in epoche tribolate come la nostra, può dare l’illusione di avercela comunque fatta. E peggio per chi è restato fuori, avrebbe potuto obbedire invece di opporre sfida o diniego laddove i più hanno seguito la corrente, con minore o maggiore convinzione, ma con la comune voglia di lasciarsi trasportare e chiudere gli occhi per non vedere chi veniva travolto, fosse anche un familiare, o un amico di vecchia data, o un collega di lavoro.

I vincoli comunitari si sono terribilmente allentati e l’intera società è divenuta più fragile, più disperata e più smarrita, banco di prova perfetto per esperimenti di ingegneria sociale atti a traghettare i popoli verso nuove forme di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di cittadinanza, maggiormente funzionali alla distruzione creatrice con la quale il capitale rinnova se stesso.

Analfabetismo politico ed atrofia etica vanno di pari passo, mentre il loro combinato disposto corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva; se a ciò si aggiunge il ben noto conformismo italico, maturato, collaudato ed assimilato nel corso di secoli di storia, il nostro presente assomiglia sempre di più ad un incubo che proietta la sua ombra nera anche sul nostro futuro. C’è da temere che lo sfregio operato sul corpo di un intero Paese (perché è la totalità ad essere lacerata, quando una delle sue parti è così duramente colpita) sia una ferita che continuerà a sanguinare a lungo, dalla cui suppurazione prolifereranno altre cancrene. E l’incubo, tanto per non farci mancare nulla, esibisce i caratteri della distopia, in quanto la bacchetta magica dell’ideologia generosamente dispensata dal governo e distillata giornalmente dai media ha provato a rivestire la vecchia, opportunistica, timorosa, interessata indifferenza delle vesti pulite e ammodo della responsabilità, della subordinazione all’interesse generale, del sacrificio per il Bene comune.

Ma questa è un’altra storia, ancora più inquietante ed ancora più densa di moniti e di riflessioni.

 

Fernanda Mazzoli

 

 

[1]L’episodio è riportato da Jules Vallès nel suo testo largamente autobiografico, Linsurgé. La citazione è presa dalla traduzione italiana, Linsorto, Petite Plaisance, Pistoia, 2019, p. 281.



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Giorgio Riolo – Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare


Nikolaj Aleksandrovič Jarošenko, Il prigioniero, 1878.

Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare

di Giorgio Riolo

 

La guerra è un tragico catalizzatore. È la più grande politica di destra. Spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico. Alimenta istinti primordiali di sopraffazione, il tribalismo, lo sciovinismo. Arruola, inquadra, schiera, arma. “Noi” contro “loro”.
Dall’altra parte, induce donne e uomini di buona volontà a combattere con le armi spirituali della scelta etica, della cultura e della politica i soliti malvagi poteri che traggono profitto dalla guerra. Contro chi vuole sempre dominare, egemonizzare, contro i mercanti d’armi, il sempre attivo e feroce complesso militare-industriale.
Donne e uomini, la migliore umanità. La pace è sempre “pane, pace, lavoro”. È sempre a difesa dei deboli, di chi subisce morti, patimenti, distruzioni, stupri.

I.

È in corso l’immane ipocrisia e la ributtante retorica dei sempiterni “valori occidentali”, della libertà e della democrazia, delle guerre umanitarie, della missione civilizzatrice dell’Europa, degli Usa e della Nato contro i barbari di sempre. Nell’Est e nel Sud del mondo. Prima contro i “comunisti” e poi semplicemente contro i “russi”.
La mente colonizzatrice agisce sempre, dalle Crociate alle nefandezze dell’olocausto IndoAfroAmericano, al colonialismo e all’imperialismo dell’epoca moderna.
I mass media si sono scatenati qui in Europa, in Occidente, con i giornalisti “democratici” in prima fila. A incitare, a disinformare, a reclutare. Un’impressionante manipolazione è dispiegata. L’impero del bene contro l’impero del male. Il baraccone massmediatico costituisce un braccio armato indispensabile.
Il barbaro, folle, ultracorrotto, despota, Hitler contemporaneo, Putin è il bersaglio. È la Russia che minaccia l’Occidente e non il contrario. La Nato essendo un pacifico consorzio di pacifici signori i quali, per esempio, ogni anno tengono manovre chiamate “Defender Europe”. Nell’ultima, maggio 2021, per due mesi, attorno alla Russia, 28.000 soldati e migliaia di mezzi, blindati, aerei, navi. La motivazione delle manovre  “contro una possibile aggressione in Europa da parte della Russia”.

II.

Un poco di storia come retroterra. La Nato e l’atlantismo non hanno alcuna ragione d’essere. Allora. Ancor più dopo la fine dell’Urss e del cosiddetto socialismo reale nel 1991. È organismo sovranazionale di offesa. Contro l’Est, allora e oggi, e contro il Sud del mondo oggi. A guida e controllo totale Usa. Ed è lo strumento degli Usa per tenere l’Europa sotto scacco e ben schierata dietro di essa.
Con la fine dell’Urss, gli Usa e l’Occidente hanno voluto stravincere. Con lo smembramento dell’Unione Sovietica e con l’incitamento nazionalistico (come avverrà poi in Jugoslavia). Con il corrotto Boris Eltsin, a loro asservito, e con le bande oligarchico-mafiose imperversanti nei tragici dieci anni 1991-2000. A causa del capitalismo selvaggio e della rovina di molta parte della popolazione russa. Umiliando letteralmente quella parte del mondo. Ha detto recentemente l’ammiraglio tedesco Kay-Achim Schönbach “Putin e la Russia chiedono rispetto”. Semplice. Lo stesso ammiraglio subito fatto dimettere.
Il nostro Draghi, l’Unione Europea e il baraccone massmediatico all’unisono “la prima guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale”. Totalmente falso.
Nel 1999 la Nato a guida Usa, compresa l’Italia dell’allora governo D’Alema, aggredirono la Jugoslavia di Milosevič, ormai ridotta alla sola Serbia. La giustificazione fu la “guerra umanitaria” contro i serbi a difesa del Kosovo. 78 giorni di bombardamenti con 1.100 aerei, Usa e italiani in primo luogo. Bombardata Belgrado e nessuna immagine della popolazione terrorizzata nelle cantine. Come si fa oggi abbondantemente con gli ucraini. Ma i serbi erano “cattivi”, gli ucraini sono “europei” e buoni.
Nel tempo, la Nato si è allargata ai paesi ex Patto di Varsavia. Accerchiamento della Russia e grandi commesse militari da parte di questi paesi a vantaggio Usa. Mancava l’Ucraina.
Nel 2014 si inscena l’ennesimo “colpo di stato democratico” contro il presidente democraticamente eletto Janukovyč in Piazza Majdan a Kiev. Filorusso e quindi da eliminare. Con regia della Cia e con protagonisti i nazisti di Settore Destro e di Svoboda (dal nome di Stepan Svoboda, capo dei feroci collaborazionisti ucraini dei nazisti tedeschi nel 1941. Ogni anno nella innocente Ucraina si tengono sfilate per onorarlo).
Henry Kissinger dall’alto del suo sinistro realismo politico, in un articolo dello stesso 2014, metteva in guardia dal non portare la Nato sotto casa della Russia e di lasciare l’Ucraina come stato cuscinetto. Nel Donbass, la popolazione russofona nello stesso 2014 si ribella. La guerra nel Donbass ha fatto 14/15.000 morti e con protagonisti i nazisti del Battaglione Azov inquadrati nella Guardia Nazionale ucraina. Costoro hanno ammazzato vecchi inermi e hanno compiuto la strage di Odessa, dando fuoco alla sede del sindacato nella quale erano rinchiuse senza scampo 41 persone.

 

III.

Putin e la Russia agiscono da puro realismo politico. Da stato-nazione e da richiamo nazionale e nazionalistico del ruolo storico svolto nel passato, dall’impero zarista e dalla potenza dell’Urss, o da svolgersi oggi e domani. Molto revanscismo dell’umiliazione subita. Nessuna giustificazione della guerra. Ma almeno la comprensione dei processi storici che determinano questi esiti nefasti.

 

IV.

Occidente contro Oriente e contro Sud. Prima la Russia, poi verrà la Cina. Armi all’Ucraina. La Germania si riarma, l’Italia sempre obbediente manda armi.
Non arruoliamoci e adoperiamoci per un mondo multipolare antiegemonico. Dove ogni popolo e ogni stato-nazione possano contare.

 

Milano, 1 marzo 2022

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Fernanda Mazzoli – Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi.

Fernanda Mazzoli

Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile

Tutta la vita della società industriale divenuta globale
si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi


Ci sono libri la cui qualità ed importanza – in termini di capacità di leggere la realtà con lenti lucide ed originali, offrendo al lettore una visione delle cose che rovescia i capisaldi delle opinioni correnti – sono inversamente proporzionali alla loro notorietà e diffusione. Paradosso solo apparente e piuttosto scontato di un mercato editoriale che misura la qualità in base al presenzialismo mediatico degli autori e all’adeguamento al pensiero dominante che, di questi tempi, veste progressista e fa l’occhiolino al bene comune, il quale, per una svista della logica e della storia, è andato a cacciarsi sotto l’ombrello protettore dei miliardari filantropi, dei finanzieri divenuti salvatori della patria e dei grands commis ai vertici degli organismi internazionali. Così, un libro poco conosciuto e ancor meno citato come quello scritto a quattro mani da René Riesel e da Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable,1 dovrebbe, invece, essere uno dei testi di riferimento ineludibili per chiunque voglia comprendere il presente – tra minacce di catastrofe sanitaria e ricorso ad un’emergenza divenuta ordinaria amministrazione – senza piegarsi sotto le forche caudine dell’informazione di regime, della narrazione mainstreem e delle troppo facili semplificazioni offerte dagli adepti delle teorie complottiste.

Parodiando un celebre incipit, gli autori affermano che «tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi», diffuse con il supporto mediatico da esperti che si richiamano ad una conoscenza quantitativa, ad un insieme di dati posti a fondamento di un’analisi incontrovertibile della realtà e di risposte altrettanto assolute. Dall’inevitabilità delle catastrofi consegue il successo della propaganda per le misure autoritarie altrettanto inevitabili se si vuole garantire la sopravvivenza del pianeta, la realizzazione delle quali mobilita un apparato burocratico-tecnologico sempre più robusto e più pervasivo, capace di un controllo totale delle condizioni di vita.

Semprun e Reiser si erano dati come oggetto del loro studio l’emergenza ambientale (di cui, peraltro, erano ben lontani dal negare la portata, da convinti avversari della società industriale, nonché del modo di produzione capitalistico, di cui hanno denunciato a più riprese le diverse nocività) ed è quindi particolarmente interessante riscontrare l’aderenza del loro discorso alla situazione determinatasi oggi intorno all’emergenza sanitaria. È anzi ragionevole ritenere che se nello spazio di un anno e mezzo molte società occidentali sono state disposte a rinunciare a quelle libertà individuali e collettive esibite orgogliosamente come cifra distintiva rispetto al resto del mondo chiamato a regolare il proprio passo su quello delle democrazie liberali, il terreno della rinuncia sia stato abbondantemente irrigato in precedenza da un discorso pubblico sempre più centrato sulla minaccia di una catastrofe incombente che ha assunto volti diversi (dal terrorismo al riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse naturali), ma egualmente efficaci ad attivare le condizioni politiche, i presupposti ideologici e i condizionamenti psicologici e mentali atti a legittimare uno stato di perpetua emergenza. La grande paura, creata e diffusa artatamente da istituzioni, informazione, esperti a vario titolo a partire da fenomeni reali, di cui si tende a rimuovere l’origine e la funzionalità, qualora esse mettano in causa l’intero sistema sociale, ha naturalizzato lo stato di emergenza, ha trasformato l’eccezione in normalità, ha sollecitato un enorme bisogno di protezione da parte delle popolazioni, cui solo le misure che si accompagnano allo stato d’emergenza sembrano capaci di dare una risposta. Che il prezzo da pagare siano l’autodeterminazione, le libertà faticosamente conquistate da un’intera civiltà nel corso della sua storia, i legami sociali poco importa, purché la minaccia dell’annichilimento sia stornata o rinviata. Ci si affida, dunque, con abbandono quasi infantile a quelli che prendono in mano «l’amministrazione del disastro», alla burocrazia di esperti incaricata di «una gestione di crisi permanente», si sacrifica loro quel poco che resta di spirito critico e di capacità di pensare ed agire autonomamente. È qui che si annidano tutte le derive autoritarie che oggi non sbandierano più il mito consunto e poco credibile del sangue e della razza, o dell’ortodossia ideologica, ma quello del bene della società, o meglio di ciò che i suoi esponenti di punta avvalorano come tale.

«È un dovere civico quello di essere in buona salute, culturalmente aggiornati, connessi. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. […] Chi si opporrebbe al mantenimento dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera?».

Spetta proprio ad una visione antagonista rispetto alla moderna società industriale quale quella sostenuta da Riesel e Semprun e, pertanto, particolarmente sensibile ai problemi posti dalla predazione dell’ambiente individuare con lucidità e denunciare la conversione ecologica del capitale in cerca di nuove frontiere che consentano di avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

A questo proposito, gli autori citano uno studio di Pierre Souyri,2 pubblicato postumo nel 1983 e dedicato alle trasformazioni del capitalismo, che fa piazza pulita delle illusioni alimentate oggi dalla green economy – ultimo tentativo in ordine di tempo di dare un volto presentabile a questo modo di produzione e intanto impegnarlo in una nuova fase – e dal diffondersi di una coscienza ecologica di massa sapientemente orchestrata dall’alto e funzionale alla prima.

«Le campagne allarmistiche scatenate intorno alle risorse del pianeta e all’avvelenamento della natura da parte dell’industria non annunciano certamente un progetto degli ambienti capitalistici di fermare la crescita. È piuttosto vero il contrario. Il capitalismo si impegna attualmente in una fase in cui si troverà costretto a mettere a punto un insieme di nuove tecniche di produzione dell’energia, dell’estrazione dei minerali, del riciclaggio dei rifiuti e di trasformare in merce una parte degli elementi naturali necessari alla vita. Tutto ciò annuncia un periodo di intensificazione delle ricerche e di sconvolgimenti tecnologici che richiederanno investimenti giganteschi. I dati scientifici e la presa di coscienza ecologica sono utilizzati e manipolati per costruire dei miti terroristi la cui funzione è quella di fare accettare come imperativi assoluti gli sforzi ed i sacrifici che saranno indispensabili per il compimento del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica che si annuncia».

Il catastrofismo, dunque, diventa il dispositivo ideologico perfetto per creare un consenso trasversale nella società intorno a scelte politiche ed economiche di fondo dalle ricadute radicali sulla vita dell’intera collettività, persuasa da una batteria di fuoco aperta da esperti, scienziati, giornalisti, esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura non solo ad accettare tali misure coercitive, ma a richiederle con entusiasmo in nome della salvezza propria e del pianeta.

Sono esattamente le stesse dinamiche in gioco nella gestione dell’epidemia sanitaria da Covid 19: la creazione della grande paura, da Apocalissi del nuovo millennio, l’emergenza continua, la demonizzazione di ogni dubbio o dissenso, fino alla secca alternativa tra vaccinarsi o morire, di malattia o di messa al bando dalla società civile fino all’allontanamento dall’attività lavorativa.

Che si tratti di ambiente o di salute, è l’irreggimentazione forzata o volontaria nelle nuove armate del Bene, fertile humus per ogni torsione autoritaria che richiede e al tempo stesso presuppone quella che i nostri autori definiscono «normalizzazione degli spiriti».

«La domanda sociale di protezione nella catastrofe» non chiama più in causa solamente l’apparato statale e burocratico, ma è tutta la società, – «attraverso gli uomini qualunque che vi si mobilitano per raccogliere le sue inquietudini e fabbricare l’immagine di una pretesa “società civile” – che reclama norme e controlli».

Non si tratta tanto di negare la realtà del disastro ambientale o dell’epidemia, quanto di comprendere che il combinato disposto fra allarmismo mediatico, idolatria dei dati, declinazione della scienza in nuovo dogma religioso e conseguente intervento dello Stato in veste di tutore concorrono ad una condizione permanente di amministrazione del disastro dove, ad essere confermata e consolidata, è la sottomissione3 degli individui e dei popoli, mentre nuove catastrofi, ecologiche e sanitarie, si profilano all’orizzonte.

Dove trovare un giacimento di paura e di coercizione altrettanto prezioso per la governance globale, pronta ad approfittarne per ridisegnare l’economia, il modo di vivere, le strutture della politica in una direzione più funzionale alla fase in cui il capitale è entrato?

Fernanda Mazzoli

1 Pubblicato a Parigi nel 2008 dall’Encyclopédie des Nuisances, fondata e diretta dallo stesso Jaime Semprun, il libro è disponibile in traduzione italiana dal 2020 per i tipi della casa editrice dell’Ortica con il titolo Catastrofismo, amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Le citazioni del presente articolo sono state da me tradotte dal testo originale. Quanto agli autori, entrambi hanno preso parte al Maggio francese e sono stati vicini, per qualche anno, all’Internazionale Situazionista; hanno pubblicato studi di critica sociale, collaborando alla rivista dell’Encyclopédie des Nuisances, poi trasformata in casa editrice. René Riesel, allevatore di ovini, per la sua militanza anti-OGM ha subìto arresti ed un periodo di detenzione.

2 Pierre Souyri, La Dynamique du capitalisme au vingtième siècle, Payot, Paris, 1983. L’autore, di formazione marxista, è stato partigiano, militante comunista (uscito dal PCF nel 1944 su posizioni antistaliniste) e ha fatto parte del gruppo Socialisme ou barbarie.

3 Il titolo del saggio in questione gioca sul doppio significato del francese durable, durevole e sostenibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

***

Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Italo Calvino (1923-1985) – Due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino - Charles Fourier

È la contraddizione tra i due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, come il modello d’una società nuova che possa crescere in margine alla vecchia per eclissarla con l’evidenza dei nuovi valori, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino, Introduzione a Charles Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso, e altri scritti sul lavoro, l’educazione, l’architettura nella società d’Armonia, Scelta e introduzione di Italo Calvino, Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p. IX.


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …
Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
Italo Calvino (1923-1985) – Classici sono quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

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Cesare Pianciola – Gobetti editore, a 120 anni dalla nascita.

Piero Gobetti editore copia

Cesare Pianciola

Gobetti editore, a 120 anni dalla nascita



Nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, a cura di un comitato presieduto da Bartolo Gariglio, stanno uscendo dal 2011 – con nuove postfazioni e accurati apparati critici – le riedizioni anastatiche dei libri pubblicati dalle case editrici fondate da Piero Gobetti. È un’impresa perseguita con metodo e tenacia che si sta avviando alla conclusione (vedi immagini nella galleria in basso).
L’attività di editore fu centrale per il giovane intellettuale. Insieme a quello di giornalista, fu il suo mestiere.


Dopo i continui sequestri della «Rivoluzione Liberale» e dopo che il prefetto gli notificò il divieto di svolgere attività pubblicistica ed editoriale, Gobetti partì per Parigi il 3 febbraio 1926, come altri antifascisti prima di lui. Lasciò incompiuti i libri cui stava lavorando: Risorgimento senza eroi e Paradosso dello spirito russo. Dopo pochi giorni era già ammalato di una grave bronchite complicata da disturbi cardiaci, in un fisico duramente provato dall’aggressione fascista del settembre 1924. Morì nella notte del 15 febbraio 1926, non ancora venticinquenne (era nato il 19 giugno 1901), e fu sepolto al Père Lachaise non lontano dal Muro dei Federati.

Giuseppe Gangale ricordò su «Conscientia», vivace rivista degli evangelici italiani cui Gobetti collaborava, la sua figura:

«errò per l’Italia inquieto inquietando le coscienze nostre: […] veniva qui a Roma in terza classe, frettoloso, arruffato, con la grossa valigia carica dei suoi libri e dei suoi giornali che egli stesso distribuiva ai librai e collocava dai giornalai; […] a casa sua […] aveva impiantato una casa editrice in cui egli era tutto: autore, editore, contabile, spedizioniere, incollatore di fascette. E i giovani sentirono il fascino e il contagio di questa ascesi febbrile e operosa».

A Parigi Gobetti voleva continuare ad essere un editore: «Parto per Parigi – scriveva a Giustino Fortunato che citò la lettera nel numero del «Baretti» uscito nel marzo 1926 per commemorarlo – dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola […] Vorrei fare un’opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna». Già nell’articolo-programma del «Baretti» intitolato Illuminismo, nel dicembre 1924, aveva detto che si trattava di «salvare la dignità prima che la genialità» e di voler «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo». Sul «Baretti» furono presentanti e discussi gli autori europei più nuovi, da Proust ai surrealisti, agli espressionisti tedeschi.

Anche quando svolse un’attività più direttamente politica – dall’impegno durante gli anni universitari nei gruppi “unitari” ispirati a Salvemini, allo sforzo di organizzare in tutta Italia i gruppi della Rivoluzione liberale – si trattò sempre di un’attività culturale-politica tesa alla formazione di quadri in senso ampio, di una futura classe dirigente. In quest’opera di educazione politica gli aspetti più propriamente culturali hanno un grande rilievo e non sono mai piegati a fini politici contingenti e immediati.

Lo storico della letteratura italiana Natalino Sapegno, che collaborò alle sue riviste, ricorda «l’incredibile varietà e ricchezza delle sue curiosità estese in ogni direzione, dalla letteratura al teatro, dall’arte alla filosofia e alla storia, instancabili e insaziabili» (in Aa. Vv., Colloquio gobettiano, a cura di P. Bagnoli, La Pietra, Milano 1979, p. 32).
Fu critico letterario e teatrale e si occupò di teatro fino alla fine della vita (scrisse su invito di Antonio Gramsci numerosi articoli di letteratura e di teatro sul quotidiano «l’Ordine Nuovo» nel 1921-22, molti dei quali raccolti in La frusta teatrale, 1923, articoli polemici e complessi, che non concedono nulla alla divulgazione).
Fu un acuto critico d’arte (ricordiamo l’amicizia con Felice Casorati cui dedicò una monografia nel 1923). Casorati dipinse nel 1961, per la fondazione del Centro studi a Torino, il suo famoso ritratto: un Gobetti idealizzato, che espunge gli aspetti irrequieti e mobili del personaggio e lo fa rivivere in un’aura sacrale.

Felice Casorati, Ritratto di Piero Gobetti.

Fu anche studioso di filosofia di formazione idealistica; ammirò Croce e Gentile, più Croce che Gentile (contro il quale pubblicò all’inizio del 1923 I miei conti con l’idealismo attuale), e studiò a fondo la filosofia dell’azione francese di Blondel e Laberthonnière, insieme ad alcuni filosofi minori dell’Ottocento italiano cui attribuiva grande importanza (Luigi Ornato e Giovanni Maria Bertini).
Come storico del Risorgimento ricostruì soprattutto l’opera degli intellettuali radicali settecenteschi come Pietro Giannone e Alberto Radicati di Passerano trascurati o deformati dalla storiografia ufficiale. Come ha scritto Franco Venturi nella nota introduttiva agli studi gobettiani sul Risorgimento, «Gobetti prende quasi naturalmente ai nostri occhi il suo posto nella serie degli uomini del Piemonte che egli scoprì e studiò. I suoi eretici non vanno più da Radicati ad Alfieri, né a Cavour, ma da Radicati a Gobetti».
Ma Gobetti fu in primo luogo un «organizzatore di cultura di straordinario valore» (come lo definì Gramsci) attraverso le sue riviste e la sua casa editrice.
Documento dei suoi ampi interessi culturali sono i più di cento volumi che pubblicò come editore (114 se contiamo anche i non molti volumi, alcuni dei quali da lui programmati, usciti dopo la sua morte presso le Edizioni del Baretti).
Alla fine del ‘22, insieme a Felice Casorati e al tipografo Arnaldo Pittavino di Pinerolo, aveva fondato una casa editrice. Ci fu presto un tentativo di incendio doloso della tipografia di Pinerolo e Pittavino si ritirò dall’impresa pur continuando ad essere una delle tipografie di cui si serviva Gobetti.Nel marzo 1923 la casa editrice divenne la “Piero Gobetti editore”.
Pubblicò numerosi volumi di storia e politica (soprattutto saggi di antifascisti di vario orientamento: Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Francesco Saverio Nitti, Guido Dorso, Luigi Salvatorelli, autore nel 1923 dell’importante Nazionalfascismo).
Ma Gobetti pubblicò anche molti libri di letteratura e di poesia. Il più famoso è Ossi di seppia di Eugenio Montale, che uscì nel giugno del 1925. Quando, l’anno prima, il poeta aveva incontrato Piero a Torino, erano diventati amici, per cui Montale si impegnò anche a scrivere per «Il Baretti», la cui uscita era imminente. Nel 1925 comparvero sulla rivista tre articoli di Montale, che però si trasse poi in disparte temendo il troppo filosofismo e la troppa politica (su Gobetti e Montale ha scritto saggi illuminanti Ersilia Alessandrone Perona).
Dopo molti anni, in un articolo per il cinquantenario della nascita di Gobetti, uscito il 16 febbraio del 1951 sul «Corriere della Sera» il poeta scriveva che «Gobetti, pur senza additarci un sistema o tanto meno un partito, ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda che la dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale ci riempa di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo».

Qual è lo specchio, l’immagine della società italiana, alla quale alludeva Montale ?
È rimasta famosa, nelle interpretazioni del fascismo, la formula gobettiana del fascismo come rivelazione di mali secolari, come «autobiografia della nazione».
Il fascismo non è una parentesi nella marcia vittoriosa del liberalismo come sostenne Benedetto Croce e non è neppure riducibile alla «reazione capitalistica» dell’interpretazione marxista.
Nella formula del fascismo come autobiografia della nazione c’è la denuncia della tendenza all’unanimismo populista, alle vaste maggioranze trasformiste, al paternalismo addomesticatore, alla vuota retorica. Con il fascismo, «ci troviamo per una volta, davanti, il blocco completo dell’altra Italia, l’unione confusa di tutte le nostre antitesi, il simbolo di tutte le malattie […]» (Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 435).

Gobetti non poté vedere né gli aspetti di modernizzazione autoritaria del fascismo degli anni trenta né le dimensioni internazionali del fenomeno fascista. Il fascismo gli sembrò soprattutto un fenomeno italiano di arretratezza economico-sociale e culturale. Inizialmente lo confuse anche con una forma di giolittismo peggiorato, salvo ricredersi più tardi. Tuttavia colse con grande acutezza i tratti del mussolinismo come l’ultima manifestazione di una tendenza permanente nel costume etico-politico italiano all’opportunismo, alla demagogia, alla retorica. Queste abitudini affondano secondo Gobetti nella tradizione controriformistica di un Paese che non ha conosciuto né la Riforma religiosa né una rivoluzione borghese radicale. Alla fine del saggio La Rivoluzione Liberale Gobetti scrisse: «Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza» (così nel saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, 1995, p. 176; d’ora in poi cito con RL). Insomma, Gobetti individuò con grande precisione e denunciò con intransigenza i tratti di un populismo che ha segnato e minaccia costantemente la nostra storia.

Di Mussolini dice: «la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi riescono schiettamente popolari per gli italiani» (RL, 173).
A questi costumi contrappose la sua «religione della libertà».
Il motto in greco delle edizioni di Gobetti è Che ho a che fare io con gli schiavi?, disegnato elegantemente in un ovale da Felice Casorati. Fu suggerito nel 1923 da Augusto Monti, il grande professore del Liceo D’Azeglio di Torino, che l’aveva tratto da una lettera di Vittorio Alfieri del 1801. Fin dall’adolescenza Alfieri era l’eroe di Gobetti, il quale nella tesi di laurea La filosofia politica di Vittorio Alfieri diceva che in Alfieri c’è una «religione della libertà», che impegna tutto l’individuo, «esclude interessi e calcoli», vuole dedizione e intransigenza.
Moralismo di Gobetti? Sono molto chiare alcune righe che scrisse sul “moralismo” nell’ottobre 1924, nel pieno della crisi politica che si era aperta dopo l’assassinio di Matteotti: «Sempre bisogna che le nazioni trovino l’ora dell’esame di coscienza, che sappiano misurare la loro sensibilità morale a costo di aprire crisi dolorose e totali. Né ci si attribuisca preoccupazioni di astratti moralisti: in verità tutta la politica è possibile soltanto a patto che sappia trovare nei momenti solenni le sue origini di rigorismo e di rivoluzione morale» (Scritti politici, cit., p. 787). La politica non deve ridursi a meschini calcoli parlamentari e deve rifarsi a principi e a convinzioni ultime. Nel tener fede ai principi e alle convinzioni ultime Gobetti vide la migliore garanzia anche dell’efficacia dell’azione politica, almeno sul lungo periodo.
Quali sono le convinzioni ultime di Gobetti? A mio avviso, il filo rosso che lega insieme le sue posizioni e tutta la sua attività è l’autonomismo libertario.
Sul suo liberalismo Gobetti affermò: «la parola d’ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: “tutti liberali”. La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati» (RL, p. 51). Occorre «rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie» (RL, p. 43).
Tra queste correnti mise in rilievo soprattutto l’esperienza dei Consigli di fabbrica, che gli apparve «uno dei più nobili sforzi che si siano tentati» nella vita politica di quel periodo (RL, p. 103), mentre fu un critico impietoso della chiusura burocratica del PCd’I, come si vede nelle pagine del saggio La Rivoluzione Liberale dedicate ai comunisti.
Simpatizzò per le punte rivoluzionarie del movimento operaio da una visuale liberale e libertaria, per i valori autonomistici, di libertà, di iniziativa dal basso, di agonismo che erano capaci di suscitare, indipendentemente dai fini collettivistici del socialismo e del comunismo che Gobetti dichiarava di non condividere (anche quando nel 1924 scriveva che era giunta L’ora di Marx).
Il marxismo non gli apparve vivo nelle teorie economiche e nella prospettiva del comunismo, ma come «dottrina dell’iniziativa popolare diretta, preparazione di un’aristocrazia operaia capace, nell’esperimento della lotta quotidiana, di promuovere l’ascensione delle classi lavoratrici» (RL, p. 77).
Gobetti sperava che in Italia, rimasta sotto il peso dell’arretratezza economica e del conformismo religioso, si diffondesse, grazie allo sviluppo dell’industria e delle aristocrazie imprenditoriali e operaie, un’etica moderna, alimentata in Europa dalla Riforma protestante, della responsabilità personale e della dignità del lavoro.
A proposito di una visita agli stabilimenti della Fiat Lingotto appena inaugurati, Gobetti, dichiarava «l’orgoglio di essere stati i primi teorici di quella vita industriale», e scriveva che là, dentro la Fiat, «si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori» (Visita alla Fiat, «Il Lavoro», 15 dicembre 1923). In quanto costruttori di una «civiltà dei produttori», Gobetti ammirava sia le «aristocrazie operaie» rivoluzionarie sia i capitani d’industria come Henry Ford e Giovanni Agnelli. Questo oggi ci sembra far parte di un’ideologia novecentesca della modernizzazione molto lontana, se non altro per le trasformazioni intervenute nel lavoro e nell’industria.
Ma, insieme, c’è in lui l’idea più ampia, che trovò confermata in Cattaneo, dello Stato moderno come terreno della libera competizione degli individui e dei gruppi sociali. C’è la convinzione della positività permanente del conflitto sociale, c’è l’idea che la lotta politica è continuamente alimentata dai gruppi che si affacciano sulla scena rivendicando nuovi diritti e nuovi assetti democratici. Questa, scrisse, è «la religiosità dell’uomo moderno, la religiosità della democrazia come forza autonoma, liberamente operante dal basso senza limiti che la predeterminino fuori della volontaria disciplina che essa stessa si pone […]» (RL, p. 58).
Nelle pagine di Gobetti, che scrisse e fece l’editore immerso nelle lotte politiche e sociali degli anni drammatici che vedono la crisi dello Stato liberale e la vittoria del fascismo, vive una utopia libertaria che ci interroga ancora e che meglio di altre ideologie ha resistito nel tempo.

Basta questo oggi per rianimare una democrazia in grave affanno? Non credo, ma è una bussola preziosa di cui non possiamo ancora oggi fare a meno.


Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola – Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)
Cesare Pianciola – Il colloquio di Costanzo Preve con Norberto Bobbio

Un tuffo …

… tra alcune pubblicazioni di Cesare Pianciola …

Cesare Pianciola, Kosik e Sartre, «Quaderni piacentini», anno IV, n. 2, 1965dicembre-1965


Il pensiero di Karl Marx, Loescher, 1971


Filosofia e politica nel pensiero Francese del dopoguerra, Loescher, 1979


Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001


Piero Gobetti. Opera critica, Edizioni di storia e letteratura, 2013


N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile.
Testi inediti a cura e con una introduzione di Cesare Pianciola e Franco Sbarberi, Donzelli, 2014


Raniero Panzieri, Centro di Documentazione di Pistoia, 2014


Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Petite Plaisance, 2017 (con Giuseppe Cambiano)

Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo esistenzialista che negli anni Sessanta insegnò Filosofia della storia all’Università di Torino, è ricordato soprattutto per la sua attività di studioso e traduttore di Heidegger che ha ricreato per i lettori italiani il vocabolario filosofico del pensatore tedesco. Non meno importanti i suoi saggi su Kant e le traduzioni della ‘Critica della ragion pura’ e degli ‘Scritti morali’. Questo libro, curato da due tra i suoi primi allievi, contiene contributi sull’opera filosofica e sui confronti teorici in cui si è impegnato (con Abbagnano e Paci, con Sartre, con i marxisti), ma anche saggi sulla drammatica vicenda resistenziale consegnata a ‘Banditi’ – il diario partigiano che Fortini considerò “quasi un capolavoro” -, sul rapporto di profonda amicizia e di influenze reciproche con B. Fenoglio, sul suo interesse poco noto per le arti figurative. In appendice un inedito su socialismo e libertà, a proposito di ‘Riforme e rivoluzione’ di A. Giolitti, e una testimonianza della sua compagna, Aida Ribero, sulla coerenza tra filosofia e vita. Chiude il volume una completa bibliografia degli scritti di e su Chiodi.


La guerra d’Algeria e il «manifesto dei 121», Edizioni dell’Asino, 2017

Nel 1960 un gruppo di intellettuali sottoscrive il “manifesto dei 121”, che denuncia la brutale repressione e l’uso sistematico della tortura praticata dall’esercito francese in Algeria, e solidarizza con l’insubordinazione alle gerarchie militari e con il sostegno alla causa della indipendenza algerina. È un episodio della storia politica e culturale del Novecento da rimeditare nella sua complessità. Chiude il libro la testimonianza di Louisette Ighilahriz, algerina militante all’epoca nel Fronte di liberazione nazionale.


Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni, 2018

Felice Casorati (1883-1963) ci ha lasciato di Piero Gobetti (1901- 1926) un ritratto penetrante e idealizzato dipinto per la fondazione del Centro studi a lui intitolato. La critica d’arte, nella multiforme attività di Gobetti, fu seria e impegnativa. Tra i pittori contemporanei che apprezzò (Carrà, De Chirico, Soffici…), la figura centrale è Casorati, su cui scrisse e pubblicò nelle sue edizioni una monografia nel 1923. Il pittore era legato al suo critico da una «amicizia tenace completa perfetta», come la definì alla morte del giovane antifascista. Gobetti fu anche il primo a mettere in rilievo l’importanza della scuola di Casorati ai suoi inizi, vedendovi «una cosa completamente nuova, lontana da ogni sistematicità di accademia». Piero e Ada erano intimi delle sorelle Marchesini: Maria, Dadi e Nella, che fu la prima allieva del maestro. I saggi qui raccolti esplorano diversi aspetti di una vicenda che parte da Gobetti e si dipana in un tessuto culturale da cui è possibile trarre nuovi echi.


Marxismo. Tradizioni di pensiero, il Mulino, 2019

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati. Indice del volume: Premessa. – I. Dal marxismo a Marx. – II. Dall’opposizione al potere. – III. Marxismi occidentali. – IV. Lavoro e valore tra economia, filosofia e sociologia. – V. Un’eredità politica contrastata. – VI. Complicazioni: nazione, genere, ambiente. – Bibliografia. – Indice dei nomi.


La collana, realizzata in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti, nasce con un obiettivo ambizioso: ripubblicare l’intera produzione di Piero Gobetti editore, 114 titoli usciti dal 1922 al 1929. Le opere qui riproposte in edizione anastatica sono accompagnate da nuove postfazioni e da schede critiche e bibliografiche. Un patrimonio considerevole di autori, che comprende tra gli altri Luigi Einaudi, Wolfgang Goethe, Eugenio Montale (la prima edizione di Ossi di seppia), Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, oltre allo stesso Gobetti.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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