Salvatore Bravo – Capitale e felicità sono un ossimoro. Il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità, è la necessaria utopia che progetta l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso, esigendo in premessa una una rivoluzione culturale ed educativa di lunga durata.

Utopia e comunismo capitale felicità
Carmine Fiorillo – Luca Grecchi

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”

indicepresentazioneautoresintesi
Salvatore Bravo

Capitale e felicità sono un ossimoro

Capitale e felicità sono un ossimoro. Il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità, è la necessaria utopia che progetta l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso, esigendo in premessa una una rivoluzione culturale ed educativa di lunga durata.

«Funzionario dell’umanità»
Husserl, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936),[1] ha definito il filosofo «funzionario dell’umanità», in quanto deve assumersi la responsabilità del destino umano, e non delle “accademie”. Affinché ciò sia possibile è necessario vivere la tragedia della condizione umana nella storia. Non vi è filosofia che nella partecipazione ai destini umani: partecipazione significa sentire/pensare fortemente la storia che collettivamente si vive. La storia personale si lega indissolubilmente alla storia collettiva. Perché e come questo accada è sovente un mistero. Non sono sufficienti l’educazione, le esperienze, il radicamento non sclerotizzato in una tradizione, ma è necessario un dono che sfugge ad ogni categoria e indagine: il filosofo “sente” il mondo della vita prima di indagarlo. Tale disposizione già rivela un tratto incontestabile della natura umana: l’essere umano è diviso nello spazio dagli altri esseri umani, ma unito mediante il tempo vissuto della coscienza. Il logos vive e si sviluppa all’interno della relazione. La sofferenza, specialmente il dolore non necessario, se vissuto, osservato e compreso muove a delle domande. La contemporaneità si dipana dinanzi a noi con il suo carico eccedente di sofferenze: dinanzi ad esse si può distogliere lo sguardo o porsi delle domande.

La domanda prima
La domanda prima è: se il sistema capitale sia in armonia con l’umanità o se sia in contraddizione con la condizione umana. La domanda già svela una contraddizione: il sistema capitale decreta l’infelicità sia di coloro che vivono nell’abbondanza crematistica, sia di coloro che vivono nell’indigenza: capitale e felicità sono un ossimoro.[2] I rapporti basati sul principio di sussunzione (formale e reale) non fondano il benessere di nessuno, ma ciascuno – a seconda della posizione che occupa nel modo di vigente produzione – vive la propria personale tragedia: la separazione, l’atomistica delle solitudini nella società liquida, produce consumatori di farmaci, di ansiolitici, nel tentativo di calmierare il senso di minaccia che opprime passando attraverso l’ottundimento farmaceutico che allevia i sintomi, ma non cura. Il sistema capitale dimostra la sua disarmonica disumanità nell’incapacità di curare (nell’incapacità di “aver cura”); esso offre soltanto prodotti con cui obnubilare la paura che si trasforma in minaccia e panico a causa della precarietà e della solitudine. Il filosofo deve rispondere a tali quesiti, deve sollevare domande per mostrare con debita argomentazione che il presente non è tutto.

L’utopia, il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità
L’utopia,[3] parola coniata da Thomas More, solitamente è tradotta come “luogo che non c’è”, ma la si può tradurre anche come “luogo buono”. Il comunismo è infatti il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità. L’utopia indica l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso. L’idea del comunismo – con le sue verità e finalità – emerge dalla vita concreta, dalla storia collettiva:

«In un contesto come l’attuale, in cui regnano ingiustizia, sofferenza, povertà, alienazione, sfruttamento, l’unico motivo che spinge le persone a non voler abbandonare il capitalismo è l’incertezza del mondo che potrà esserci, una volta che quello presente sia stato sostituito. Ebbene: nei limiti del possibile, ossi nei limiti della contingenza storica che necessariamente accompagnerà l’eventuale realizzazione di questo progetto, la “buona utopia” vuole proprio ridurre questa incertezza, ritenendo di poterlo fare on descrivendo le presunte leggi scientifiche della storia che dovrebbero portare al superamento del capitalismo, bensì delineando i principi filosofici tramite cui questo progetto di superamento può e deve essere realizzato. La filosofia infatti, assai più della storia, costituisce la principale modalità culturale che può produrre una risposta politica di ampio respiro, la quale abbia come Soggetto l’intero genere umano trascendentalmente inteso. L’armonia, la comunità, la felicità o sono di tutti o di nessuno, poiché non si può essere realmente felici (ossia vivere in modo armonico e comunitario) quando una così gran parte dell’umanità soffre per cause evitabili».[4]

Natura umana e comunismo
Il comunismo reale del Novecento è fallito. Abbiiamo il compito e il dovere di capire le ragioni della sconfitta per rendere l’utopia nuovamente possibile e comunicabile. Luca Grecchi e Carmine Fiorillo analizzano l’impianto filosofico marxiano per poterne scorgere limiti e possibilità da cui trarre linfa per una nuova teoretica fondativa del comunismo. In Marx si rileva una carenza teoretica, ovvero il Moro non ha concettualizzato sul piano teoretico la natura umana. La ragione di ciò è nella sfiducia verso la filosofia in un periodo storico in cui trionfava il positivismo. Marx si affida alle leggi della storia, le quali inesorabilmente “debbono” portare al comunismo. In Marx – specie nelle opere giovanili – vi è un abbozzo teorico della natura umana che però non viene sviluppato, anzi non è più esplicitato per prediligere le leggi scientifiche, benché il suo umanesimo scorra in modo carsico a dare unità all’opera del filosofo di Treviri. Si tratta di riprendere il sentiero interrotto da Marx e svilupparlo per rendere il comunismo un ideale che rispecchi la natura umana, perché non a caso dove vi è comunità ed accoglienza gli esseri umani sono più felici. Il comunismo riflette il fondamento ontologico della natura umana: l’essere umano, in quanto limitato, si completa e si conosce nella condivisione e nella comunità solidale. Sono innumerevoli le culture e le religioni che hanno giudicato la proprietà privata, in quanto divisoria, nemica dell’armonia sociale. È necessario confrontarsi con tali espressioni culturali per consolidare l’ideale del comunismo. La proprietà privata è stata ritenuta elemento perturbatore dell’armonia tra gli esseri umani da culture diverse, e ciò dovrebbe indurre a riflettere sul fatto che il comunismo è una possibilità vera e concreta della natura umana:

«Il comunismo insomma, inteso solo come “movimento antagonistico”, non ha futuro, in quanto esso risulta privo di un progetto realizzabile, e si pone pertanto come non desiderabile. Una tale concezione negativa del comunismo conduce addirittura a svilire, agli occhi delle persone, proprio il contenuto umanistico e comunitario di questo progetto ideale, che in queste pagine stiamo cercando di esporre sulla base di quelle che sono le nostre idee di riformularle. Poiché però, in questo campo, il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels rappresenta tuttora il riferimento massimo, occorrerà necessariamente analizzare alcune delle tesi in esso espresse.
Innanzitutto: il Manifesto, in conformità a quelle che abbiamo poc’anzi definito come le due tesi strutturali del marxismo, è anch’esso intriso di sfiducia nella filosofia – sfiducia che è riscontrabile in buona parte del pensiero del Marx maturo, tanto che è necessario chiedersene il perché. La risposta, a nostro avviso, può essere solo la seguente: nel tempo storico di Marx la filosofia, rispetto alla scienza, era considerata troppo fragile, ritenuta soprattutto incapace di far valere i propri principi nei confronti della realtà, ossia di trasformare il mondo, e dunque era largamente diffuso il pregiudizio scientista secondo cui ad essa non potesse essere affidata la progettualità politica».[5]

Il lungo cammino, una “lunga marcia”
Il comunismo è un ideale verso cui tendere che si concilia con il materialismo storico, e dunque con l’attività trasformatrice degli esseri umani. Il comunismo è fondamento non istintivo o pulsionale, ma potenziale, per cui gli esseri umani devono trasformare la potenza (dynamis) in atto (energheia) in un lungo cammino storico. L’umanesimo è il fondamento del comunismo, in quanto è solo dell’essere umano l’essere responsabile di tale prassi:

«Occorre dunque non continuare a ripetere il medesimo errore, e compiere al contrario una operazione teoretica che si compone di due parti. La prima parte, più importante, è costituita dalla fondazione filosofico-politica umanistica del pensiero comunista, la quale riempirà il nuovo modo di produzione ideale di contenuti arricchenti, realizzabili e desiderabili, così da creare la maggiore armonia comunitaria possibile. La seconda parte di questa operazione sarà costituita dalla integrazione della tematica del materialismo storico in questo quadro, con il quale non è affatto in opposizione». [6]

 

Rivoluzione culturale
La struttura economica con le sue contraddizioni non è sufficiente a rendere dinamica tale potenzialità, ma necessita di una rivoluzione culturale ed educativa. La transizione intermodale, se si riconosce il fondamento naturale del comunismo, non riguarda solo talune categorie o classi sociali, ma tutti gli esseri umani, poiché il sistema capitale mortifica ed aliena la natura di tutti. Naturalmente la posizione che si occupa all’interno del modo di produzione può favorire l’adesione al comunismo, ma è una condizione contingente, poiché primario è riconoscere l’innaturalità del sistema capitale:

«Si tratta dunque di unire, con un processo insieme culturale ed educativo, quindi politico, che necessariamente dovrà porsi nella lunga durata, tutti gli uomini su questa terra che condividono, pur attraverso diverse tradizioni e religioni, contenuti umanistici e crematistici. Questi uomini, che sapranno maturare tale convincimento, costituiscono il solo Soggetto intermodale (in grado, cioè, di attivare la transizione da un modo di produzione ad un altro) universale e trascendentale, capace anche di porsi, sul piano storico-filosofico, come fondamento della verità dell’essere e della sua realizzazione».[7]

 La storia del comunismo non è terminata, poiché essa è ontologicamente legata alla vita ed alla speranza storica dell’umanità. Se ci si limita ad osservare il breve segmento storico attuale, si potrebbe cadere nello sconforto, ma se si affina lo sguardo storico, ci si può rendere conto che l’ideale del comunismo ha radici antiche, perché è consustanziale all’essere umano e si trasforma con l’umanità, poiché è posto da essa, è la speranza a cui ogni generazione deve tendere lo sguardo.

Salvatore Bravo

***

[1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, in L’obiettivismo moderno. Riflessioni storico-critiche sul pensiero europeo dall’età di Galileo, premessa, introd. e a cura di G.D. Neri, trad. it. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1976, 7 ‘ Il proposito di queste ricerche’, pp. 27-28.

[2] Ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς, «acuto» e μωρός, «ottuso») è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso. La stessa parola ossimoro è a sua volta un ossimoro («acuto»/«ottuso»; «capitalismo»/«felicità»).

[3] Utopia, parola coniata da Thomas More nel 1516 – con le voci greche ou- (‘non’) e tópos (‘luogo’), o forse eu- (‘buon’) e tópos (‘luogo’) –, quando scrisse appunto Utopia, trad. it. di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 2016. Cfr. AA.VV., Quale progettualità? L’uomo è un essere progettuale, Petite Plaisance, Pistoia 2017

[4] C. Fiorillo – L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 68-69.

[5] Ibidem, pp. 74-75.

[6] Ibidem pag. 76 77.

[7] Ibidem pp. 33 34.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Jules Vallès – Studenti della Sorbona, è ora di ribellarsi. Non serve a nulla una educazione che renda chi la riceve vanitoso o miserabile.

Jules Vallès, ribellarsi è giusto
Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

indicepresentazioneautoresintesi

«La franchezza di Vallès lascia sconcertati».
Julien Gracq

 

 

Jules Vallès
Studenti della Sorbona, è ora di ribellarsi

Erano le sette meno cinque, la Sorbona era circondata. Da rue Saint-Jacques e rue Victor-Cousin affluivano plotoni di scolaretti e liceali della capitale, scortati ai fianchi, guidati da sorveglianti scolastici con la barba nera o con basettoni rossi, sotto un sole rovente. Avevano l’aspetto meno stupido di quanto non l’avessero gli studenti della mia generazione. La loro età era compresa fra i quattordici e i diciotto anni, ed erano tutti là, in attesa che aprissero le porte e potessero finalmente tradurre in francese moderno un testo in greco antico o unire qualche emistichio tradizionale a un esametro latino, come si attacca una coda di carta al posteriore di un insetto. Mi è parso che non avessero alcuna fiducia, quelle giovani creature, e non credo fossero davvero convinte che le operazioni che si apprestavano a compiere potessero effettivamente metterli al sicuro dal diventare, da grandi, uomini inutili, anche nel caso in cui avessero strappato il primo premio. Alcuni erano tristi, altri preoccupati. Erano soprattutto quegli studenti che, vivendo in un pensionato, sapevano quanto il loro destino fosse legato ai risultati ottenuti. Erano figli di povera gente, i loro genitori si dissanguavano per farli studiare, pensando che un giorno quei figli avrebbero ripagato e mantenuto l’intera famiglia. Talvolta i genitori li accompagnavano direttamente alla porta, buttando là un ultimo incoraggiamento, o confessando una angoscia segreta e lo scolaro, allora, il cuore gonfio, il cervello teso, cominciava a salire le scale che conducono alla sala comune.

[…]

Nel mucchio era facile riconoscere quelli che parevano nati per diventare maestri di scuola e a scuola sarebbero rimasti per tutta la vita, il collo stretto nei colletti di crine della pedanteria, votati al nero, con pantaloni rigonfi sulle ginocchia, una barbetta da smorfiosi, rigidi e inflessibili in qualunque luogo o circostanza, nella vita privata come in quella pubblica, con gli amici, i figli, le mogli, in classe, a tavola, per la strada e persino a letto! Mi tornava alla mente il tempo in cui, io stesso, riponevo qualche speranza nei versi latini. Un tempo triste, che non rimpiango di certo. Mai mi sarei annoiato tanto come in quello stanzone quasi vuoto della mensa di un convitto. Un giorno venni rimproverato e mi fu detto di stare bene attento, perché, continuando di questo passo, sarei finito alla ghigliottina prima dei trent’anni. […]

Quanti penosi ricordi mi tornano alla mente, davanti a questa casa squadrata che si chiama Sorbona, fra quegli scolari che portano i loro dizionari, i lessici, e se ne vanno carichi di sportine di cibo e di gavette come i soldati in una campagna di guerra, pronti a difendersi e a salire in alto, su quell’albero di cuccagna che dovrebbe essere l’università.

In alto? Ma cosa c’è lassù in alto? Come premio, ci sono dei bicchierini forati, dei frutti pieni di cenere. Inutile farsi illusioni, dall’università non si può trarre profitto che a condizione di indossare una livrea o di avere un bel maggiordomo al proprio servizio, ovvero se si è figli di gente ricca o di agenti di cambio. A chi ha gradi e diplomi, lo stato concede volentieri, come pane, la croce. Per quanti pochi libri uno abbia letto, basta conoscere una signora della buona società e, pure senza idee, senza talento, e persino senza troppi compromessi morali, e si può intraprendere una carriera piena di onori e di profitto. Ma i posti sono pochi e per «arrivare» bisogna se non inchinarsi, quanto meno rimpicciolirsi.

Bisogna lusingare l’uno e abbandonare l’altro, bisogna giocare con malizia, mettendoci dentro tutti gli assi disponibili, come a carte. Questa, in sintesi, è la storia di tutte le amministrazioni pubbliche passate, presenti e future. Ecco che cosa offre l’università ai suoi impiegati e ai suo privilegiati. Vale la pena affaticarsi sui libri e sui banchi di scuola per dieci anni, al fine di prendere parte a questa corsa a ostacoli, quando il premio di tutto è tanto misero, e sulla pista ci sono così tante barriere, buche, insidie, e al traguardo vi aspettano giudici che, palesemente, barano? A meno che uno non si chiami Girardin, Laboulayé o Littré! Ma chi? Chi tra loro ha davvero provato l’umiliazione della sconfitta? Avrebbero avuto tanto successo e tanta popolarità se un qualsiasi ministro non avesse dato loro una spintarella? Tutto diventa facile, quando si gode di una buona rendita economica e si può ambire a una buona poltrona universitaria. Basterà prendere una specializzazione dopo avere conseguito uno o due dottorati. Questi vecchi baroni, ingrigiti sotto il peso della scienza, si inorgogliscono quando vedono schiere e schiere di volontari occuparsi di materie delle quali sono loro le vestali e, nel loro intimo, forse provano persino stupore nell’osservare la retrograda e sterile curiosità di certi giovanetti. Ma, a parte questi uomini che nell’università trovano il loro scopo, e quegli altri che vi cercano la gloria, chi trae dunque beneficio da questo sistema di educazione? Bisognerebbe radere tutto al suolo, prendere a picconate questa bastiglia del Ministero dell’Educazione nazionale che tiene le sue assemblee in rue de Grenelle-Saint-Germain, ed espone le bandiere della Francia alle finestre.

Forse mi spiego male: chiedo libertà per tutti. Lascio al ministro la sua facoltà di dare ordini a chi gli pare, ma pretendo per me e per i miei figli il diritto di istruirmi come meglio ci pare. Non serve che ci si trascini come bestie alla Sorbona per prendere una laurea, o ci si porti in galera per oltraggio alla religione, non serve a nulla una educazione che renda chi la riceve vanitoso o miserabile.

Così, il mattino scorso, guardando tutti quei ragazzi che, sotto il sole cocente, se ne andavano a riempire una aula impestata d’inchiostro, mi dicevo che no, non siamo ancora degni della libertà. La società deve apportare alcune correzioni al sistema, ora che alimenta in se stessa, nei suoi collegi, una fiamma eterna di sommossa! È necessario che questi declassati si sistemino o si vendichino, ecco da dove viene tutto l’assenzio che scorre nei petti e tutto il sangue che cola sulle pietre, nelle strade. I figli abbandonati diventano alcolizzati o omicidi. Quando mi capita di incrociarne uno, come fosse un malato in un letto di ospedale, lo rialzo e gli mostro dove sta il suo nemico, dove si trova l’assassino che lo ha ridoto to in quello stato. Ho ascoltato molta gente che si dichiarava atterrita da «questo spettacolo». A ogni angolo di strada, vedremo sempre più miseria, più fame. Le vittime di questa educazione sterile e inconcludente, le vittime della Sorbona riempiranno presto prigioni e ospedali.

Spero che una nuova generazione, reclamando la propria libertà, spazzi presto via questi vecchi stracci che ancora ci legano, facendo dei nostri ragazzi degli uomini e che, invece di imbrattare ogni intelligenza con ammuffite versioni di greco e latino, impari a parlare la sola lingua che serve e che può parlare alle aspirazioni e ai bisogni dell’umanità.

il manifesto, 29-08-2007, p. 12 (Traduzione di Marco Dotti)


Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Angelini – Ripristinare un’economia morale fondata sul dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

Angelini Massimo

… quando diciamo grazie, sostanzialmente diciamo “dono”,
e così facendo chiamiamo il dono per nome.

GRAZIE viene dal latino gratiae che a sua volta è calco del greco chárites, plurale di cháris. E cháris esprime il dono: non il controdono – quello che si fa per avere qualcosa o per contraccambiare qualcosa che si è ricevuto – ma il dono incondizionato, libero, quello che non attende di essere ricambiato.
Da cháris vengono parole come carità, la propensione al dono; carisma, sono chiamati così i doni dello Spirito; carezza, il piccolo dono […]. Poi, poiché ciò che è prezioso spesso è anche raro, si ha un capovolgimento del significato fino a fare denotare con il latino càrere, ciò che manca, del quale c’è carenza, fino alla carestia. Da cháris viene anche eucaristia (prefisso greco eu, buono), il buon dono, e ancora oggi, in Grecia, per dire grazie si dice eucharistò.
Dunque, quando diciamo grazie, sostanzialmente diciamo “dono”, e così facendo chiamiamo il dono per nome. […] Ecco: dicendo grazie riconosciamo la natura del dono, compiamo un riconoscimento, agiamo la riconoscenza che è sinonimo di gratitudine; affermiamo, riconoscendo che è un dono, che quella cosa non è nostra e non ci è dovuta. Ché quando qualcosa ci viene restituita o ci è dovuta, il grazie è solo formula di cortesia, ma non è necessario. […]

Grazie, cioè: so che è tuo e non mi è dovuto. In alcuni linguaggi sociali e anche qui da noi, fino a non molto tempo fa, era consueto aprire il pasto con un ringraziamento, sotto la forma della preghiera o della benedizione. Era un modo per dichiarare la natura di dono di quel cibo, per dire la consapevolezza che quel cibo non è dovuto, non è scontato. Oggi, persuasi che l’unico vero mediatore di valori e senso sia il denaro e che, in buona sostanza, tutto può essere comprato e se lo compro allora è mio, suonerebbe strano ringraziare per il cibo a tavola […]. Insomma: è mio, e se è mio chi e perché dovrei ringraziare? Siamo in una economia morale fondata sul denaro e alla sua ormai indiscussa centralità nel comporre le relazioni tra gli umani e tra gli umani e il mondo.
Ma a rigore non c’è nulla che sia veramente nostro: tutto è stato dato e tutto sarà restituito. È evidente, è l’esperienza del mondo. E neppure il cibo è davvero scontato che arrivi sulla nostra tavola. Ringraziare […] è un atto di consapevolezza […] E, per consapevolezza, l’atto del ringraziamento potrebbe essere espresso anche quando ci si sveglia, perché non è affatto cosa scontata […] perché per tutti verrà il giorno nel quale non ci sveglieremo. Svegliarsi non è dovuto, non è un diritto, non un merito, e non c’è nulla di scontato. […] E ancora esteso ad alcuni momenti, quando ci accorgiamo che camminiamo, che vediamo, che respiriamo, tutto ciò che inconsapevolmente diamo per scontato fino a quando un incidente o una malattia lo impediscono o lo rendono penoso. Perché attendere che venga meno la vista per dire quanto sono belli i colori? […] Risvegliarsi accanto alla persona che si ama non sarebbe motivo abbondante per ringraziare? Basta pensare che un giorno non sarà più così. La dimensione del ringraziamento può ristabilire in modo sano, perché aderente alle cose come sono, la nostra relazione con la realtà e la nostra posizione nel mondo, come posizione di chi accoglie la vita come un dono e dunque non può che rallegrarsene, ciò che invece non succede finché quello che abbiamo lo intendiamo come dovuto, semplicemente atteso e persino scontato.
Ripristinare un’economia morale fondata sul dono e una ecologia di comportamenti fondata sul riconoscimento del dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

Massimo Angelini, Ecologia della parola. Il sale, gli occhi, le stelle, il dono … Conversazioni per un altro modo di sguardare la realtà, pentàgora, Savona 2017, pp. 91-95.

Massimo Angelini

Autore di saggi di antropologia filosofica, storia delle idee e cultura rurale; dirige la casa editrice Pentàgora; ogni anno compila l’almanacco “Il Bugiardino”.
Ha studiato a Genova e a Perugia dove, dopo avere terminato gli studi in Filosofia e in Storia, ha conseguito il dottorato in Storia Urbana e Rurale.
Ultimi libri: “Le meraviglie della generazione” (2012); “L’enigma Garibaldo” (2012); “Minima ruralia” (2013); “Participio futuro” (2015); “Ecologia della parola” (2017).
Vive a Ronco Scrivia (GE). 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luciano Curreri – La Comune di Parigi e l’Europa della comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della «Commune de Paris» (1871)

Luciano Curreri, Comune di Parigi

«Nous écrivons sur notre drapeau :
États-Unis d’Europe» ;
«Paris veut, peut et doit offrir à la France,
à l’Europe, au monde, le patron communal, la cité exemple
».

Questo libro è una scommessa, è una specie di corda tesa tra due momenti-monumenti diversi della nostra storia moderna, che abbiamo celebrato e celebreremo di recente, ovvero il Trattato di Roma, del 1957, e la Commune de Paris, del 1871: è un filo quasi invisibile, allungabile, su cui l’autore, come un saltimbanco, cerca di camminare avanti e indietro, recuperando un certo numero di corrispondenze immaginarie e ideali tra la Comune di Parigi e l’Europa della Comunità. Sono briciole di immagini e di idee che provano a “inventare” – tra noticine d’utopia e sassolini nelle scarpe – un ritorno della Commune. Detto questo, non è il solito libro da anniversari, bucati o anticipati peraltro: è il libro di un italiano all’estero che è deluso dall’Europa della Comunità – una specie di madre senza figli e senza futuro, sempre incinta di popoli che vuole “sterilizzati” o sulla via di esserlo, anche e soprattutto da un punto di vista storico-culturale e linguistico – ma che ama l’Europa in sé e vive nel cuore della stessa, e più per necessità che per potersene vantare (o per dirsi – come altri vorrebbe – in geniale esilio); non mira con sdegno un paese né si arruffiana le sue corti per essere dentro o fuori l’Europa; cerca più semplicemente un’altra Europa. Ed è per questo che ha sentito la necessità di coniugare con una certa, problematica urgenza, la Comune di Parigi e l’Europa della Comunità. Sa bene che corre il rischio di presentare la Commune come proto-europea malgrado sé stessa. Anche se stralciando e valorizzando – a partire dalla loro fermezza (specie se pensiamo al disimpegno facile, codardo, di molti altri scrittori) – certi partecipi appelli e lettere che Victor Hugo (1802-1885) elabora in diretta nei giorni della paura dell’assedio e poi dell’«insurrection parisienne», dove il rapporto tra Parigi, l’Europa e la Commune c’è («nous écrivons sur notre drapeau : États-Unis d’Europe» ; «Paris veut, peut et doit offrir à la France, à l’Europe, au monde, le patron communal, la cité exemple»), l’autore cerca di intercettare, nei dintorni, tra Occidente e Oriente, tra Ottocento e Novecento, una serie di dettagli testuali che rischiano di fare sistema, come quella Rêverie d’un fédéraliste libertaire, relativa al sogno di un’Europe parallèle (1976) di Denis de Rougemont (1906-1985) che è vicino alle posizioni federaliste di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), cioè al punto di vista di uno dei pensatori che hanno maggiormente ispirato la Commune. E in quel mezzo e in prospettiva, Curreri, da saltimbanco birichino, chiama a raccolta, in chiave interdisciplinare e comparata, tanti altri autori, tra loro più o meno diversi: Agamben, Bachtin, Benjamin, Bensaïd, Boucheron, Cassou, Chabrol, Cioran, Fournier, Harvey, Hazan, Herzen, Hillgruber, Kracauer, Kropotkine, Jiang, Jourde, Lacoste, Laurent, Lavrov, Lefebvre, Lenin, Lidsky, Lordon, Malon, Manara, Marx, Morris, Noël, Oehler, Rieuneau, Ross, Riot-Sarcey, N. Rosselli, Rougerie, Rude, Tardi, Traverso, Vallès, Vautrin, Watkins, Zoja…

 

Luciano Curreri, La Comune di Parigi e l’Europa della comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della «Commune de Paris» (1871), Quodlibet, Macerata 2019.

 

 



Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi


Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.

Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.


 

Introduzione

 

Perché proporre al lettore italiano, a più di sessant’anni dall’ultima traduzione nella nostra lingua,[1] questo testo di Jules Vallès, scrittore che anche il suo Paese ha messo all’indice già quando era in vita e, in seguito, ben volentieri relegato nella semioscurità di quegli autori di cui si possono salvare alcune pagine – la testimonianza sulla bohème parigina, per esempio – per meglio rimuovere il fondo che anima e sostiene l’insieme dell’opera e che proprio ne L’insurgé trova la sua espressione più compiuta?

Non certo per un recupero di tipo filologico (considerate le traversie del manoscritto che fu pubblicato postumo), o per offrire una rarità da bouquiniste alla curiosità di un lettore alla ricerca di qualcosa di originale.

Il punto è che L’insurgé continua ad interpellarci al di là del silenzio che lo ha avvolto, della sufficienza dei critici che l’han­no espulso dalle storie della letteratura, del crollo decretato dal pensiero unico liberista delle grandi istanze ideali che nutrirono la rivolta della Comune di Parigi, la quale alimentò, a sua volta, i successivi movimenti per l’emancipazione del XX secolo.

Ci parla di qualcosa di essenziale, di uomini e di storia e di libri e di come un uomo diventa quello che è, passando attraverso l’esperienza della storia e della scrittura. Di uomini che, non riconoscendosi in «un mondo malfatto», si misero all’opera – con serietà, semplicità e generosità – per rivoltarlo dalle fondamenta, e dare alla vita – la loro e quella collettiva – un respiro più grande, restituendole dignità e libertà; di storia che è la presenza costante che infonde senso a questo tentativo, stendendo un ponte – più accidentato che lineare – tra il passato ricco di reminiscenze rivoluzionarie dall’89 al ’48 e un futuro ancora da inventare, ma che comincia faticosamente a maturare nel travaglio del presente; di libri dove sia l’autore, sia il lettore si ritrovano e mangiano lo stesso pane, impastato di sofferenza, disgusto, miseria, speranza, rivolta.

Libro del riconoscimento, L’insurgé, e di un duplice riconoscimento: l’autore riconosce i suoi compagni, e loro riconoscono se stessi – la propria vita e la propria ansia di riscatto – nelle sue pagine. Libro partigiano, dunque: Vallès ha scelto la sua parte – i refrattari che rifiutano l’inquadramento nei ranghi della società del Secondo Impero, il minuto popolo di operai e artigiani che abita i sobborghi parigini, gli insoumis, eredi delle rivolte sociali del 1848, brutalmente represse nel sangue dagli stessi repubblicani.

Il libro contiene in sé un altro libro, quello che Jacques Vingtras – alter ego di Vallès protagonista di una trilogia che si apre con L’enfant, prosegue con Le bachelier e si conclude con L’insurgé – riesce finalmente a pubblicare dopo avere ingaggiato una personale battaglia contro la fame e il freddo che rischiano di avere la meglio sulla sua volontà di scrivere e contro gli editori piuttosto sospettosi nei confronti di un giovanotto in fama di irregolare e sovversivo.

Il libro ha successo, i critici riconoscono che l’autore ha stile, ma questo riconoscimento del nemico di ieri, pronto oggi ad incensarlo, Vallès-Vingtras non può che rifiutarlo, proprio perché negherebbe quella possibilità di riconoscersi che si è appena dischiusa e che si dispiega all’interno di una comunità, di un vincolo più forte di quelli del sangue, stretto dalla sofferenza, dalla miseria, dall’ingiustizia, dal rifiuto di un ordine sociale iniquo. Non intende venire meno alla promessa fatta pubblicamente, nei caffè popolari che frequenta, che il giorno in cui sarebbe riuscito a sfuggire all’oscurità della sua condizione, sarebbe saltato al collo del nemico.

Una scelta di campo definitiva, dunque, fino all’impegno nella Comune, dai suoi primi passi alla semaine sanglante, malgrado le divergenze anche profonde che lo separano dalla maggioranza “giacobina” e che ne L’Insurgé non nasconde. Il ricorrere della metafora dell’oscurità da cui il suo lavoro di scrittore e di giornalista lo ha strappato, per lanciarlo nel vivo dei conflitti sociali e politici dove la sua voce può finalmente risuonare, farsi ascoltare e dare voce ad altre voci condannate, altrimenti, al silenzio invita ad andare oltre l’interpretazione della letteratura come arma nella lotta politica, pure presente in Vallès (conformemente, del resto, ad una tradizione ben radicata nelle lettere francesi), che coglie solamente l’aspetto superficiale della sua scrittura.

Sarebbe fargli l’ultimo torto, quello di attribuirgli la concezione di una funzione strumentale dell’opera letteraria: essa è piuttosto il grembo fecondo in cui un groviglio contraddittorio, lacerato e dolorante di sentimenti, aspirazioni, ripulse, collere, paure, speranze si dischiude per mettere al mondo uno scrittore che si riconosce tale per avere saputo domare questa materia ribollente – senza rinnegarla – e sublimarla fino a farne la sua forza, una forza messa a disposizione di coloro che continuano a dibattersi nell’oscurità e a cercare faticosamente di allargare le pareti anguste delle miserabili case in cui sono stati confinati, per scorgere un lembo di cielo e ritrovare il gusto di respirare un poco di aria pura. Dunque, la scrittura come incisivo travaglio di riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente.[2]

D’altra parte, il Libro – l’esperienza libro, l’oggetto libro – si è imposto presto e con forza alla riflessione di Jules Vallès, ne ha guidato il modo di rapportarsi con la condizione umana. Già nel 1862, una ventina d’anni prima che la sua trilogia lo consacrasse romanziere, ne proclama la presenza, ovunque. Dove crediamo di vedere emozioni, passioni, amori, felicità, angosce, in realtà è nel libro che inciampiamo, o meglio, affondiamo, ci invischiamo. È inchiostro quello che galleggia su «questo mare di sangue e di lacrime» che è l’esistenza degli uomini.[3] Basterebbe questa consapevolezza della partita disseminata di trappole, sorprese e invasioni di campo che si gioca tra realtà e finzione romanzesca per risparmiare a Vallès l’infausto destino di essere annoverato tra i cultori di un ingenuo realismo sociale.

L’Insurgé è un testo che si legge d’un fiato, spinti dal vento di libertà e di passione che lo ispira, ma non è un testo semplice, quanto a collocazione negli scaffali di una biblioteca attenta alle classificazioni per generi. Non è un romanzo nel senso tradizionale, per quanto sia costruito sull’io narrante di un personaggio di cui il lettore viene a conoscere alcune peripezie che sono, tuttavia, riconducibili quasi esclusivamente alla sua dimensione pubblica. Non conosciamo nulla, per esempio, della sua vita sentimentale, tranne un breve e più che pudico accenno ad una vicina di pianerottolo con la quale Vingtras è in amichevole relazione.

Lo stesso si può dire per i personaggi che lo affiancano: sono colti, e con una profondità psicologica sorprendente affidata a qualche pennellata talmente efficace da avere un’evidenza pittorica, sempre sulla scena della Storia che costituisce la trama profonda di un romanzo senza trama.

Tuttavia, non ci troviamo davanti ad un romanzo storico: mancano i grandi quadri d’insieme, all’interno dei quali si dipanano i destini individuali di personaggi ben caratterizzati. D’altra parte, chi cercasse di ricostruire la complessa vicenda della Comune parigina su queste pagine, se ne farebbe un’impressione certamente molto parziale, anche se, probabilmente, riuscirebbe a catturare lo spirito che la animò più che attraverso i tanti saggi ad essa dedicati. E nemmeno a un romanzo corale od epico, per la robusta presenza di un io, quello del narratore, che tutto filtra – personaggi e situazioni – e per il frequente procedimento della messa a distanza attraverso il registro ironico.

Non è una cronaca puntuale degli eventi succedutisi, malgrado l’inserzione di interi pezzi tratti da Le cri du peuple, il giornale fondato da Vallès e che conobbe una grande diffusione nei mesi convulsi, tragici ed eroici della Comune, se non altro per la presenza di numerosi capitoli che precedono la sua proclamazione e per l’onnipresenza dell’io narrante, che toglie ogni pretesa di oggettività a quanto raccontato.

Non è nemmeno un’autobiografia, dietro la finzione di Jacques Vingtras, alter ego di Jules Vallès, perché, come già si è sottolineato, il materiale narrativo è stato sottoposto ad una drastica selezione che, della vicenda del narratore-autore, coglie solo determinati aspetti.

Ci sono sicuramente elementi appartenenti a tutti questi generi, ma è più la loro sottrazione che la loro somma a dare L’Insurgé. Che può ambire a rappresentare il testo nella sua primitiva accezione: è trama, intreccio, fili o legnetti messi assieme con sapienza, perché essi perdano nell’insieme colore e forma originari e costruiscano un tessuto unitario che non lascia facilmente scorgere i materiali di partenza. Lo scenario perfetto per la storia di un uomo che della propria avventura esistenziale ritiene valga la pena di trasmettere solo ciò che è in rapporto con la Storia.

È, in un certo senso, un romanzo di formazione di un giovane uomo che diventa se stesso, approdando dall’istintivo rifiuto dellasocietà – «cette gueuse» [4] maturato nel corso di un’infanzia infelice e di una giovinezza di stenti ed umiliazioni, minacciata dal rischio di perdersi in una bohème distruttiva per i suoi accoliti ed innocua per il potere, ad una consapevole e convinta adesione alle ragioni della rivolta sociale, culminate nella Comune.[5]

Il che non significa che il nostro insorto sia un dottrinario: a più riprese Vingtras confessa la propria ignoranza delle teorie sociali che ormai da anni infiammavano le discussioni nei circoli democratici e repubblicani. Troppo preso dall’esigenza di guadagnarsi il pane con una serie di lavori saltuari – compilatore di voci per i dizionari, ripetitore, collaboratore di giornali che lo mettono alla porta, o vengono soppressi dalla censura dell’Impero – il tempo gli è mancato per affinare una coscienza teorica che vada oltre l’adesione ad un socialismo con qualche eco di Proudhon, grande simpatia per l’Internazionale salutata come il nuovo Parlamento in abiti da lavoro e molta inclinazione anarchica, più per predisposizione personale che per meditata rielaborazione intellettuale.

Pagina dopo pagina, Jacques Vingtras, ex baccelliere che ha cercato di arringare la folla il 2 dicembre e che ha preso parte ad una cospirazione studentesca contro Napoleone III, matura un distacco sempre più forte rispetto alla tradizione rivoluzionaria di impronta giacobina, sostanzialmente sorda alla questione sociale, contro la quale rivolge i suoi ironici strali, per buttarsi a capofitto nei circoli della democrazia socialista che si rifa alle sommosse operaie del 1848. Certo, gli mancò una teoria della rivoluzione, come osserva Gaston Monmousseau nella sua prefazione a L’enfant,[6] ma è altrettanto vero che Vallès non ha minimamente aspirato, con la sua trilogia, a costruirne una da offrire ai suoi compagni di lotta e non è sotto questa lente che la sua opera va avvicinata. Non nutrì mai pretese di teorico e nemmeno di politico; pur avendo scelto di impegnarsi a fondo nella vita pubblica, fu sempre consapevole che il meglio di sé lo poteva dare come scrittore.

Ed è attraverso la sua scrittura che egli cerca di dare corpo, voce e gesti a questa rivolta divenuta rivoluzione: la voce e i gesti di Jacques Vingtras e dei suoi compagni. Alcuni dei loro ritratti sono indimenticabili: Briosne, un Cristo strabico; Blanqui, freddo matematico della rivolta; Vermorel, prete rosso; Rouiller che calza la gente e scalza i selciati; Ranvier che, nella magrezza e nel pallore, porta già il segno della sua fine tragica. È la loro verità umana – non la giustezza delle loro teorie – che lo scrittore cerca di penetrare e di restituire, per offrire loro un’altra possibilità di vita, perché la morte sulle barricate o lungo il Muro dei Federati, la deportazione, il carcere e l’esilio non li seppelliscano definitivamente e, con loro, lo spettro della rivoluzione che tentarono, con disperazione, con coraggio, con entusiasmo, con freddezza, con imperizia, con generosità, con determinazione, con ingenuità, con rabbia, con amore.

Romanzo di formazione sui generis, L’insurgé, focalizzato com’è su una dimensione pubblica, dove ardore politico ed indignazione sociale catalizzano ed assorbono tutte le altre passioni. La Bildung di Vingtras ha come perno – fulcro, ma anche passaggio fondante – il momento della scelta che funziona pure da ressort narrativo. Da un lato, una certa sicurezza economica garantita da modesti impieghi statali comportanti la rinuncia a manifestare le proprie idee, il successo nell’attività giornalistica e letteraria, cui lo destina l’indubbio talento, le occasioni di carriera politica socchiuse dalla stessa militanza fra le fila dell’opposizione e di cui molti racco­glieranno il frutto alla caduta del Secondo impero, la possibilità di sottrarsi al tragico destino cui sa destinati i suoi compagni di barricata, tanto più che non condivide alcune delle posizioni prese dalla Comune in materia di repressione dei fiancheggiatori del governo di Versailles; dall’altro, la necessità di restare fedeli non solo alle proprie convinzioni sociali e politiche, ma ad un’idea molto severa, che confina con l’intransigenza, di cosa siano dignità ed onore personali, tanto più notevole in un uomo sempre pronto a prendersi gioco dell’inflessibilità dottrinaria di molti suoi compagni. La scelta è fatta, sin dalle prime pagine de L’insurgé, in cui Jacques Vingtras, lasciatosi per un momento tentare dall’inaspettata tranquillità offertagli da un posto di istitutore in un collegio di provincia, si ritrova per le strade di Parigi più povero e disperato di prima, per non avere saputo e voluto continuare a giocare la commedia dell’ipocrisia a cui avrebbe dovuto piegarsi per non morire di fame.

Due sono i momenti culminanti in cui il suo destino si gioca irrevocabilmente e lo scrittore li affida a scarne, taglienti frasi che disegnano con precisione geometrica tutta la portata della scelta. Licenziato da un giornale per i suoi articoli oltraggiosi per il gusto di un pubblico in cerca di distrazioni, il narratore rifiuta il consiglio del direttore che vorrebbe continuare a garantirsi la collaborazione di una penna di prim’ordine. «“Se voleste, tuttavia, con il vostro colpo di pennello!”. “Se volessi … Sì, ma ecco, non voglio! Ci siamo sbagliati entrambi. Voi volete un intrattenitore, io sono un ribelle. Ribelle resto, e riprendo il mio posto nel battaglione dei poveri”» (cap. VII). E qualche anno più tardi, nel corso dell’ultima settimana della Comune, quando i Versagliesi sono ormai entrati in città e panico e disperazione stanno spingendo alcuni alla fuga, altri a propositi di resa ed altri ancora ad azioni sconsiderate che Vallès-Vingtras non approva, il ribelle divenuto comunardo prende la sua decisione. «Resto con quelli che sparano – e che saranno fucilati!» (cap. XXXII).

Inutile nasconderlo: le passioni che trovano spazio in queste pagine – orgoglio, fierezza, senso dell’onore, della dignità e dell’integrità personali, coerenza e coraggio fino all’abnegazione, rifiuto dei compromessi, intransigenza morale di fronte alle seduzioni del potere e del denaro, bisogno di identificare amici e nemici – sono fortemente inattuali in un mondo come il nostro che esalta come principale qualità individuale la capacità di adattamento e come massimo orizzonte collettivo l’inclusione. Vingtras-Vallès è un disadatto che rivendica fieramente la propria inadattabilità e che rinvia al mittente ogni invito – che sia vergato con l’inchiostro solenne della retorica repubblicana classica o con quello allusivo dell’apprezzamento delle sue doti intellettuali – ad includersi nel sistema.

Un réfractaire irriducibile, insomma, che, a differenza di molti confratelli caduti nella trappola della bohème che lui si incaricherà di smascherare,[7] invece di consumare una rivolta solitaria, intraprese il cammino della Storia. E un antidoto salutare contro il mito di una pretesa pacificazione che nega ed esorcizza il conflitto sociale, nel tentativo di attribuire caratteri di inevitabilità, naturalità ed universalità al dominio del capitale e agli assetti politici che lo garantiscono. C’è chi non esita, fra i suoi avversari, ad ascrivere i suoi incitamenti alla ribellione ad istinti banditeschi; oggi, qualcuno potrebbe additarlo alla pubblica esecrazione come “odiatore”, hater armato d’inchiostro, e come tale emarginarlo nella “spirale del silenzio” auspicata nei confronti di questa nuova colpa sociale. Che è, poi, quanto già fecero gli ambienti letterari dell’epoca, prima espellendolo dalla Société des gens de lettres (1874), poi relegando la sua opera nelle soffitte della letteratura, fra gli abiti fuori moda, buoni a suscitare qualche curiosità fra i cultori delle stranezze e i nostalgici dei moti di piazza.

Jules Vallès, dunque, si impone come una voce tanto più ur­gente, quanto più inattuale: di fronte ad una conclamata “fine della storia” che è solo assolutizzazione e naturalizzazione del presente, nel congelamento di ogni altra possibilità, e ad un ripiego minimale sulla quotidianità, L’insurgé ci proietta in un paesaggio completamente diverso, occupato a tutto tondo dalla Storia, la cui presenza fisica si impone al lettore lungo l’intero testo, con l’odore della polvere da sparo, il profumo delle mattine di rivolta, l’affollamento delle sale dei club rivoluzionari, il risuonare delle parole degli oratori, il fremito di bandiere cucite in fretta, o recuperate da vecchi nascondigli, il sussurro dei cospiratori, le grida della folla esasperata, il fumo degli incendi, il contorno irregolare delle barricate. E sopra tutto ciò, «il mormorio di questa rivoluzione che passa, tranquilla e bella come un torrente limpido» (cap. XXVI): la rivoluzione degli straccioni ha allure da regina, disegna uno spazio rinnovato dove si lava la vergogna dell’impero e si prepara la gestazione di un mondo nuovo.

Proiezione quasi mitica, sicuramente, dell’ansia di riscatto di chi non ha collezionato che disfatte, sullo sfondo di una palingenesi collettiva, ma a cui fa da contrappunto, qualche pagina più avanti, la lucidità del narratore che non distoglie lo sguardo dalle ombre della sua rivoluzione, o che non rinuncia all’ironia sulle sue scarse capacità militari o su certa retorica della grandezza e dell’eroismo professata da alcuni compagni. E non perché egli sia estraneo alle sue suggestioni, ma preferisce declinarle nei termini della semplicità, della parola efficace e del gesto preciso, come il tiro del giovane artigliere dell’ultima barricata che resiste a Belleville.

Ed è questo gusto per la semplicità che lo spinge a legarsi di fraterna amicizia con diversi operai dei sobborghi di Parigi, decisi a resistere ad oltranza ed indifferenti alla spartizione degli incarichi. È quel popolo che dal ’48 si fa massacrare nei moti di strada, con il risultato di aprire con il proprio sangue generosamente versato la via agli abili politicanti dell’opposizione borghese – liberali e repubblicani moderati, ai quali Vallès-Vingtras riserva tutto il suo sarcasmo e tutto il suo disprezzo – e che ora, con la Comune, ha preso in mano il proprio destino. E con lui il nostro scrittore, doppiamente scrittore, portando in grembo L’insurgé di Jules Val­lès – storia di un uomo che trova se stesso nella temperie di una rivolta collettiva in cui le ragioni del cuore si saldano con quelle dell’intelligenza – il libro di Jacques Vingtras, proiettile lanciato contro l’ipocrisia, la stupidità, la meschinità e la ferocia di una società che costringe a fame, disperazione ed oscurità chiunque non sappia o non voglia conformarsi all’ordine stabilito.

Certo, la narrazione si sviluppa intorno ad un unico io, ma questo io diventa tale solo attraverso l’incontro con loro, riconosciuti come i propri.

Se L’insurgé partorisce un libro, esso è, a sua volta, figlio dei due libri della trilogia che lo precedono, anche se il rapporto è molto più indiretto di quello che stabilirebbe una lineare successione cronologica, un ordinato succedersi di vicende. Il legame è più sottile: qui giungono a scioglimento una serie di nodi – psicologici, morali, politici, esistenziali ed estetici – rimasti irrisolti nei due precedenti.

Così, la conquista di una duplice, matura dimensione letteraria e politica – d’altronde strettamente intrecciate – riscatta l’enfant poco amato e per niente capito e il bachelier sconfitto, confuso e disperato all’indomani della disfatta del 2 Dicembre. Né é casuale – e non è solo espediente narrativo – che L’insurgé si apra sulle ultime battute del romanzo precedente che vedono un Vingtras costretto a cercarsi un lavoro per vivere incorrere nell’accusa di viltà da parte di alcuni compagni. Come nota giustamente Roger Bellet, che all’autore ha consacrato studi illuminanti, L’insurgé diventa allora una risposta al Bachelier.[8]

D’altronde, il futuro insorto ha ben intuito che la libertà della bohème cela le sabbie mobili pronte ad inghiottire – dopo un’agonia più o meno lunga – energie creative e determinazione a lottare. Una trappola mortale, contro la quale il libro faticosamente venuto alla luce in una cameretta fredda e lugubre mette in guardia quei giovani generosi, ingenui e idealisti, pronti a scambiare per libertà la caduta nell’abisso della miseria senza ritorno, della follia, dell’insignificanza.

L’ex studente ribelle ad ogni sistemazione scopre la libertà offertagli da un modesto posticino in un municipio di periferia che gli lascia la possibilità di dedicare alcune ore del suo tempo alla scrittura, senza doversi porre il problema assillante di cosa mettere sotto i denti o quale tetto mettersi sopra la testa. E scopre anche la complessità del mondo che ha deciso di sfidare e intanto incammina la sua libertà dalla negazione individuale di ogni vincolo sociale imposto verso l’istanza di un comune operare in quell’atelier delle guerre sociali che lo vedrà operaio – e non dei più fannulloni –[9] in mezzo ai suoi amici operai. Allo stesso tempo, avvia irrevocabilmente il giovane scrittore che, secondo il giudizio dei critici all’indomani dell’uscita del suo travagliato libro, «andrà lontano», su una strada che lo porterà davvero lontano da quel successo profetizzatogli, per condurlo diritto verso il muro delle fucilazioni – evitato per una fortunosa combinazione –, l’esilio, durato nove anni, e la solita miseria che gli è compagna, a Parigi, come a Londra.

E l’espulsione dalla società letteraria, disposta a perdonare gli scarti di percorso di una giovinezza bohémienne, se non ad acclamarli come espressione di uno spirito orginale che da essi trae ispirazione per scavarsi il proprio posto all’interno di quella stessa società, ma non l’adesione incondizionata alla Comune.

È proprio essa a segnare il punto d’approdo della Bildung di Jacques Vingtras che, costretto a nascondersi nei mesi successivi alla semaine sanglante, in attesa di un’occasione propizia per varcare la frontiera, solo di fronte a se stesso, ripercorre la propria esperienza in quei mesi decisivi e riconosce di avere avuto la sua ora, di avere vendicato l’infelicità dell’infanzia e la fame della giovinezza. La sua sofferenza non gli appartiene più, è uno dei tanti rivoli confluiti nella «grande federazione dei dolori» che fu la rivolta della Comune.

Morti i rancori personali nell’azione collettiva, la maturità raggiunta, lontano dal rappresentare il porto sicuro di un’esistenza pacificata, è condizione per continuare quella battaglia che la repressione dei Versagliesi non ha certo stroncato, ma solo costretto a muoversi sottotraccia. È quanto fa scrivere a Roger Billet[10] che L’insurgé è il libro di come una lunga rivolta si trasformi in Rivoluzione, là dove il salto è dato dal passaggio dal rifiuto individuale dell’ordine sociale e della sofferenza su cui si fonda alla sua messa in discussione collettiva.

La dedica iniziale ai morti del ’71 e a tutti coloro che si riconobbero nella Comune, oltre a segnare senza possibilità di equivoci quella scelta di campo di cui già si è detto, si rovescia dialetticamente nella chiusa, dove i vinti di ieri sono coloro che porteranno di nuovo domani la loro battaglia nelle strade di Parigi.

Si istituisce così una simmetria in un testo fortemente asim­metrico sotto il profilo temporale. I due mesi della Comune – per quanto centrali per raccogliere le fila di tutta la narrazione – occupano non più di un terzo del libro e si concentrano in particolare sull’ultima settimana. I capitoli precedenti si dispiegano nell’arco temporale di una decina d’anni in cui si consuma la parabola discendente del Secondo Impero, dalla rinascita di una prudente opposizione liberale alla disfatta di Sedan, seguita dalla proclamazione di una “repubblica” talmente timida da non osare proclamarsi tale e desiderosa innanzitutto di firmare una resa incondizionata con i Prussiani, giunti alle porte della capitale.

Il punto è che è proprio in questo lungo periodo che il ribelle affina le sue armi e la sua coscienza, matura la propria forza espressiva e le proprie convinzioni politiche, sperimenta la censura sui suoi articoli, il licenziamento dai giornali su cui ha osato toni troppo forti e la prigione per le opinioni pubblicamente espresse, denuncia la finta opposizione e la sostanziale connivenza nella difesa dell’assetto sociale dei «galli della sinistra», frequenta i circoli socialisti e i sopravvissuti della rivolta del giugno ’48, conosce coloro che gli saranno compagni nei due intensi mesi in cui si riassumerà tutta la sua vita.

Non libro “della” Comune, L’insurgé, quanto libro “nella” Comune, proteso verso la Comune, orizzonte in cui confluisce la materia narrativa antecedente, tempo qualitativamente diverso, concentrato di conoscenze e di esperienze che vengono alla luce dopo un travaglio ventennale. Non è casuale che il presente sia il tempo verbale dominante, a sancire il presente storico dell’evento. Ad esso il testo deve un suo ritmo particolare, dettato dall’urgenza di imporre la presenza della Comune, affinché non corra il rischio di restare congelata nei magazzini della storia. Né è casuale che Vallès scriva i suoi veri libri dopo il 1871 – le sue prime pubbli­cazioni essendo costituite da una serie di articoli intorno ad un tema di fondo –, a confermare che maturità artistica e maturità politica procedono di pari passo, innervandosi vicendevolmente e finiscono per incontrarsi nelle opere scritte nell’esilio londinese, dopo che si è conclusa l’esperienza fondamentale della sua vita.

Scrittura dell’urgenza, dunque, alle prese con il tempo e con la materia. Cè un gusto molto pronunciato di Vallès per la fisicità della parola e per la materialità dell’atto dello scrivere. È il manoscritto sporco di macchie d’inchiostro, disseminato di aggiunte e cancellature, ferito da colpi di forbici e spilli che l’aspirante scrittore Jacques Vingtras riesce a confezionare dopo avere lottato per giorni e giorni contro il freddo della sua tetra stanza che gli congela l’ispirazione e il caldo della biblioteca dove si è rifugiato che gli ammollisce e scolora il pensiero.

Ne esce un testo che morde, alla lettera: un istrice che punge a causa degli spilli che lo tengono assieme e pronto a scagliare i suoi aculei nel bel mezzo della società letteraria. È l’opera di un sarto che ha cucito pezzi della sua vita ai pezzi della vita degli altri e questa materia ribollente e tagliente gli è entrata nel corpo, gli ha graffiato le ossa, lo ha scorticato, fino a farlo sanguinare (cap. III).

Quel sangue si è fatto inchiostro, ma l’inchiostro non sfugge alla metamorfosi e può ritrovarsi sangue: sangue che scorre sotto la penna dello scrittore lungo tutta l’opera sino all’immagine finale, la nuvola rossa, simile ad un camiciotto da operaio insanguinato, che corre nel cielo limpido sopra Parigi, mentre Vingtras varca la frontiera belga.[11]

Non creda il lettore di trovarsi davanti a un gusto pulp per il truculento: invano cercherebbe in Vallès il compiacimento appena mascherato esibito da romanzi e film di vario genere, nemmeno nella scena della corsa in calesse del narratore in mezzo ad una Parigi trasformata in macello, dopo l’entrata dei Versagliesi (cap. XXXIV).

Il discrimine sta innanzitutto proprio nel carattere metamorfico del sangue, oltre che nel suo valore simbolico che richiama la vita, più forte della sua negazione di cui si faranno carico le truppe governative durante la semaine sangalnte: esso è anche pianto, l’enorme sofferenza umana, e vino che riscalda i cuori e acqua che scorre limpida nell’alveo del torrente e passa attraverso i campi come la rivoluzione di marzo attraverso la città risvegliatasi alla libertà. E inchiostro, naturalmente: tutto quel fluire si trasforma in una materia più densa e più scura, decisa a fissarsi sul bianco della pagina. Ma con una certa riserva: Vallès doveva davvero diffidare dell’inchiostro, quello dei manoscritti e quello della stampa,[12] in ragione del suo carattere artificiale e della sua pretesa a essere definitivo.

Come spiegare gli spazi bianchi che tagliano la narrazione, interrompono le descrizioni, rinviano le considerazioni, frammen­tando il corpo de L’insurgé? Ha voluto, forse, lasciare respirare la pagina e, con essa, il lettore, obbligato a correre dietro il suo stile rapido, a saltare in lungo tra un evento e il successivo, a incontrare una moltitudine di personaggi, resi attraverso qualche magistrale tocco? O è l’abitudine contratta dal giornalista al testo breve e conchiuso? E la punteggiatura, con la sua profusione di punti e di virgole, che, incidendo solchi profondi nel periodare, ne alimenta il ritmo discontinuo? C’è una punteggiatura che raccorda, costruendo un edificio che assicura l’agevole passaggio da una stanza all’altra e ce n’è una che erige muri, per isolare e sottolineare una parola, un’espressione, una frase.[13] La punteggiatura de L’insurgé appartiene sicuramente a questo secondo tipo. Pause e tagli forniscono, forse, allo scrittore la possibilità di districarsi da una materia oggettivamente pesante – lacrime e sangue – e dalla pretesa dell’inchiostro di domarla e sublimarla?

Come il libro-istrice di Jacques Vingtras, anche il testo che lo partorisce ha conosciuto le forbici e gli spilli, è passato attraverso rimaneggiamenti e correzioni, dalla prima versione, maturata negli anni dell’esilio londinese e pubblicata in parte sulla Nouvelle Revue nel 1882 (due anni dopo l’amnistia per i comunardi), fino alla definitiva, uscita postuma nel 1886, grazie alla disponibilità della collaboratrice di Jules Vallès, Séverine, e rivista, comunque, dall’autore.

Una gestazione sicuramente tormentata, a riprova che una certa impressione di spontaneità e immediatezza che può cogliere il lettore de L’insurgé è, in realtà, il frutto di scelte stilistiche e lessicali molto meditate. Vivacità della lingua e ricchezza delle immagini rappresentano gli esiti più riusciti di questa ricerca. Alla prima concorre in modo determinante la capacità dello scrittore di giocare con registri linguistici diversi, da quello popolare che non indietreggia di fronte a certa crudezza a quello colto, con echi di reminiscenze classiche dagli sbocchi imprevisti che operano inversioni di significato rispetto a quello consolidato dalla tradizione. Locuzioni gergali, ripresa di espressioni del compagnonnage – le antiche associazioni di mestieri – calembours che riconducono la generalità di una situazione alla concretezza degli elementi che la definiscono, neologismi dalla connotazione sovente ironica, termini della vita quotidiana, ma anche attinenti alla sfera pubblica si inseriscono con naturalezza nel quadro di un periodare ora conciso, ora movimentato, caratterizzato dal gusto per la precisione dell’aggettivo e l’incalzare dei verbi che sovente si snodano uno dopo l’altro, quasi a spingere il lettore nel bel mezzo dell’azione.

È, ancora una volta, lo stile di Jacques Vingtras, fatto di «pezzi e bocconi che si direbbero raccolti, a colpi di uncino,[14] in angoli sporchi e desolati. Eppure, lo vogliono, questo stile!» (cap. VII). L’esito dell’operazione alchemica tentata da Vallès è di avere ottenuto con questa materia sporca una frase pulita, che scorre spesso impetuosa, talora grave e calma, limpida sempre. La drammaticità stessa di alcuni snodi narrativi è costretta entro il quadro di una voluta essenzialità linguistica che esalta la serietà dell’evento, proprio nel rifiuto della teatralità e della declamazione, oppure è stemperata nel liquido benefico dell’ironia che salva dalla tentazione del solenne e dell’eroico, sempre in agguato in momenti decisivi, in cui vive la consapevolezza di muoversi sotto i riflettori della Storia. Unico cedimento, l’abbondanza dei punti esclamativi che se, da un lato, sottolineano l’urgenza del dire, dall’altro pagano un debito d’enfasi ad una tradizione tribunizia non priva di implicazioni romantiche cui la formazione dello scrittore non poteva essere del tutto estranea.

Lingua che scorre, dunque, e che scende in profondità, scavando il suo alveo, per attingere la verità di fondo di uomini ed eventi, di convinzioni ed azioni. Sono le immagini a perforare la crosta, a rompere l’opacità del reale, a forzare la parola al limite delle sue possibilità. Se alcune sono di evidente segno politico (come quella su cui si conclude il romanzo), molte – e non fra le meno efficaci – sono radicate nel terreno aspro di un quotidiano fatto di stenti, lavoro, fatica, umiliazione, dolore, violenza.

Che sia la selvaggina da camera ammobiliata (cap. I), o la miseria dalle mani di mammana (cap. II), o il flutto umano che ha trascinato un uomo come fosse una briciola di carne (cap. XXX), Vallès-Vingtras non si rifugia nei cieli del simbolismo, ma resta ancorato alla fisicità di quel fardello che la sua esperienza esistenziale gli ha posto sulle spalle. Il fatto è che questo insorto parigino, questo giornalista pronto a salire sulle barricate ha dietro di sé generazioni di contadini e ama calcar bene i suoi piedi per terra, come se dovesse piantare un albero (cap. XXVIII). E le sue immagini mantengono un legame carnale con il fondo esperienziale, dove si intrecciano e talora si scontrano natura e cultura, che le nutre.

La scrittura di Vallès è di quelle che fanno grande uno scrittore, ma ho motivo di ritenere che il nostro si rivolterebbe nella tomba a sentirsi definire un grande scrittore. La vita non gliene lasciò né il tempo (morì relativamente giovane, a cinquantatre anni), né l’opportunità, avendolo messo alle strette, a districarsi fra povertà, persecuzioni, sommosse, fughe, esilio. E poi gli mancò l’aura del grande scrittore, lo sguardo superiore che si eleva sulle miserie del mondo e tutto comprende e sublima e riporta all’universale. Fu uomo di parte, volle prendersi il suo carico di infelicità e portarlo fino in fondo assieme agli altri infelici.

Amò e coltivò il libro, ma con la consapevolezza che un vasto continente si stendeva tutt’attorno e che venti molto forti ne sfogliavano le pagine, né lui aveva alcuna intenzione di chiudere le finestre della sua casa. Questo soffio porta nella sua opera un ritmo ineguale – accelerazioni e rallentamenti – che se da un lato le conferisce un tono tutto peculiare, dall’altro rischia di minarne l’impianto unitario.

Al di là della morte prematura, che lo colse mentre rivedeva il manoscritto de L’insurgé, la sua opera trasmette un senso di incompiutezza, per un piccolo tarlo che la rode dall’interno, per una tensione irrisolta – non poté o non volle mettervi mano – fra il presente dell’azione e la durata della scrittura. Uno scarto che custodisce il segreto ultimo di questo anomalo romanzo, un’incrinatura feconda in cui il lettore può introdurre il suo sguardo per intravedere il luogo nascosto da cui muove il libro.

Un libro imperfetto è un libro che si può continuare a scrivere, che ne custodisce un altro, proprio come L’insurgé di Jules Vallès racchiude il libro di Jacques Vingtras.

 

Fernanda Mazzoli

 

 

 

[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.

[1] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edizione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.

[1] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.

[1] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».

[1] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.

[1] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.

[1] Cfr. J. Vallès, I refrattari, op. cit.

[1] Cfr. il commento a J. Vallès, L’insurgé, Le Livre de Poche, Paris 1986, p. 344.

[1] Cfr., infra, cap. XXXV.

[1] J. Vallès, L’insurgé, op. cit., p. 345.

[1] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.

[1] Cfr. ivi, p. 58.

[1] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.

[1] Strumento usato all’epoca dagli spazzini.

[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.

[2] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edi­zione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.

[3] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.

[4] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».

[5] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.

[6] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.

[7] Cfr. J. Vallès, I refrattari, op. cit.

[8] Cfr. il commento a J. Vallès, L’insurgé, Le Livre de Poche, Paris 1986, p. 344.

[9] Cfr., infra, cap. XXXV.

[10] J. Vallès, L’insurgé, op. cit., p. 345.

[11] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.

[12] Cfr. ivi, p. 58.

[13] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.

[14] Strumento usato all’epoca dagli spazzini.

 

 

Edoarda Masi (1927-2011) – Lu Xun, classico solitario. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica.

Edoarda Masi, Lu Xun

La sfortuna di uno scrittore non è tanto essere attaccato o ignorato mentre è in vita. Ciò che è veramente tragico è se, una volta morto, le sue parole e azioni sono dimenticate e buffoni pretendono di essere suoi amici e dicono questo e quello per diventare famosi o arricchirsi, servendosi di un cadavere come strumento per ottenere notorietà e profitto.

Lu Xun, 1934

***

Il consenso massmediatico ai successi della Cina nella competizione economica internazionale e nella velocissima e superficiale imitazione di usi e costumi europei-americani-giapponesi ignora la realtà autentica di quel paese, la sua civiltà, la sua storia lontana e recente. Trascura le strade maestre della conoscenza, come la lettura dei grandi saggisti, primo fra tutti Lu Xun. Personaggio a un tempo centrale e solitario. Lu Xun oggi è un classico, incontestabilmente il più grande scrittore cinese del Novecento e fra i maggiori della saggistica mondiale. Eppure fu attaccato per anni da ogni parte, in vita, fino a quando la sua figura si impose al pubblico in misura tale da rendere sconsigliabili gli attacchi, come pure la persecuzione politica aperta. Ma rimane profonda l’ostilità in molti settori intellettuali, e periodicamente riemerge.

Il suo primo racconto, Il diario di un pazzo, fu accolto come una svolta storica nelle lettere cinesi. La novità non consisteva nel fatto che fosse scritto in volgare: gran parte della narrativa, inclusi alcuni dei massimi capolavori, era stata scritta in lingua parlata. E non sarebbe stato una novità neppure il carattere eterodosso, la sua opposizione alla morale e ai principi tradizionali e ufficiali: le più grandi opere della letteratura cinese sono opere di opposizione più o meno velata. Ma qui non si trattava di eterodossia all’interno di un contesto ma di rovesciamento: l’intera civiltà cinese era messa sotto accusa: «quattromila anni di cannibalismo». L’espressione «mangiatori d’uomini» (cannibali) sarebbe divenuta in breve proverbiale, ed è impiegata ancora oggi. Quanto alla «via dei re» – il buon governo – non è cosa diversa dalla «via dei tiranni». Se lo scandalo non fu poi così grande, tranne che presso i conservatori, è perché le condizioni di una rivoluzione formidabile erano già mature e Lu Xun dava voce a quello che molti già sentivano e pensavano. La gerarchia è il dato sociale fondamentale.

«In cielo ci sono dieci soli, fra gli uomini ci sono dieci classi. Gli inferiori servono i superiori, i superiori obbediscono agli spiriti immortali. Così i principi hanno sottoposti i duchi, i duchi i grandi dignitari, i grandi dignitari i gentiluomini, i gentiluomini i funzionari medi, i funzionari medi i funzionari di grado più basso, i funzionari di grado più basso gli impiegati, gli impiegati i servi, i servi i servi di infimo grado […]. Però per i servi di infimo grado non è assai penoso non aver sottoposti? Non c’è da preoccuparsi: ci sono, ancor più in basso, le mogli, ancor più deboli, i figli. E anche per i figli c’è speranza, cresceranno […]. A ciascuno tocca il suo […]. Questa civiltà non solo inebria gli stranieri ma ha già inebriato tutti quanti i cinesi, fino a farli sorridere».

Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, che rivendicano vuote glorie e peculiarità nazionali e superiorità morale. Con strazio senza perdono si denuda nell’alienazione estrema di personaggi come Ah Q o Kong Yiji. Attacca i funzionari delle classi dirigenti vecchie e nuove e in formazione, «rinviando il fair play» e guardando in faccia senza rimuoverla la condizione propria di abitante della periferia. Svestito l’abito della civiltà centrale offesa, è realmente cosmopolita perché colonizzato, nella miseria, fra i colonizzati del mondo. Anche i letterati occidentalizzanti e i sostenitori della «letteratura rivoluzionaria» furono oggetto della polemica e dell’ironia di Lu Xun. «Figli ribelli di famiglie

decadute»: i membri della Ozuangzao she (la «Società creazione») in particolare, dove decadentismo e lotta politica, romanticismo e rivoluzione, Nietzsche e surrealismo si mescolavano in un unico zibaldone, nutrimento del ribellismo di un ceto medio nascente. Erano gli stessi che attaccavano Lu Xun per i vizi di piccolo borghese, per la debolezza sentimentale e l’atteggiamento di spettatore alla finestra (anzi, con lo sguardo un po’ annebbiato, da una finestra d’osteria).

È compito degli intellettuali evitare la demagogia e aiutare il popolo a liberarsi dall’ignoranza e dai pregiudizi, che gli vengono dalla inferiorità anche culturale imposta dalle classi dominanti. «Gli studiosi […] spesso credono che espressioni relativamente nuove e difficili possano capirle loro ma non le masse e che quindi per il bene di queste sia necessario sbarazzarsene: per essi, più si è rozzi nel parlare e nello scrivere, meglio è. Se questa opinione si sviluppa, senza accorgersene finiranno per diventare una nuova corrente sostenitrice delle peculiarità nazionali. […] E arrivano, per “adeguarsi” alle masse, a deliberatamente impiegare espressioni volgari per guadagnarne il consenso […]».

Perfino la possibilità di comunicare per mezzo di una lingua comune resterà sterile privilegio del letterato, finché non si estenderà a tutti: è necessaria, per questo, la rivoluzione politica. Ma a cominciare dagli anni successivi alla fondazione della Repubblica Lu Xun è consapevole anche dell’insufficienza della politica. Prima che la liberazione maturi, il rinnovamento ancora in embrione tornerà a imputridire, riemergeranno le strutture del vecchio ordine, si riaffermerà la morale di colpevolizzazione degli individui e di invito al sacrificio, a garantire lo stato di oppressione del popolo. Alla necessità dell’azione politica e alla sua inadeguatezza fanno riscontro il significato peculiare e, ad un tempo, l’insufficienza della letteratura come strumento di rivoluzione. E l’insufficienza anche dei “lumi” che il letterato può trasmettere; più e più volte la realtà delude le speranze di mutamento. Lu Xun è fra gli scrittori che fin dall’inizio hanno avuto chiaro questo aspetto tragico del XX secolo, e per esso hanno visto cancellato o irriso il senso delle proprie parole.

Dal 1927 fino alla morte vive a Shanghai del lavoro di scrittore. Come decano partecipa alla fondazione della Lega degli scrittori di sinistra. Sembra che in questa fosse rispettato di più e contasse di fatto meno dei più giovani attivisti e organizzatori. Nell’indirizzo ad essi rivolto nel 1930 individua con una chiarezza precorritrice i fenomeni di integrazione della sinistra nel sistema dominante. In realtà – come risulta anche dall’epistolario nei primi anni Trenta – egli ha una coscienza lucida sia della propria condizione contraddittoria nel rapporto con la politica, sia della incompatibilità fra rivoluzione e attività auto-conservatrice degli apparati. Ormai è in corso la rivoluzione, la guerra civile nelle campagne e la lotta clandestina nella città. Lu Xun sa che il discorso letterario è un’allegoria. Allegorie sono perfino la professione di scrittore e le organizzazioni di scrittori. I giovani “scrittori di sinistra” sono in realtà militanti comunisti che svolgono attività politica clandestina più che attività letteraria. Vengono uccisi prima di raggiungere l’età in cui generalmente si è abbastanza maturi per diventare veri scrittori – qualche loro poesia ha la bellezza di un grido o di un lamento. La Lega è uno strumento del partito comunista per organizzare non tanto gli scrittori quanto la lotta politica. Se ne occupa, clandestinamente, Qu Qiubai, che è stato segretario del Pcc. Lu Xun collabora con lui, lo ospita nella sua casa. Durante le repressioni del Guomindang nel 1930-31 è ricercato dalla polizia ed è costretto a fuggire con la famiglia e a nascondersi. Sono vicende che rientrano nella “normalità”, coperte dalla normalità della vita quotidiana e dell’attività di scrittore. No c’è più bisogno né possibilità di confondere e surrogare la rivoluzione con la letteratura rivoluzionaria. Con l’invasione giapponese e la guerra di resistenza, la guerra civile è formalmente sospesa, il partito nazionalista e il partito comunista promuovono nel 1936 il fronte unito – in obbedienza, in Cina come in Europa, alle direttive dell’Internazionale comunista.

Nel periodo iniziale il mondo della cultura ebbe un ruolo rilevante nella sua formazione. Nella contingenza di un’apparente uscita dal settarismo da parte dei comunisti, di una liberalizzazione e apertura a tutte le correnti, si accentuava la pretesa delle dirigenze politiche di imporre le proprie direttive alla letteratura, in particolare definendone le tematiche. Da queste infatti la lotta di classe doveva essere esclusa, o dovevano esserne smussati i termini, per porre al centro l’antifascismo e la difesa nazionale. In Cina, come in Europa, la protesta contro la svolta in questi termini venne da grandi scrittori comunisti di spirito non servile (in Europa, in primo luogo da Bertolt Brecht al Primo congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, a Parigi nel 1935).

Nel medesimo periodo Lu Xun, già quasi dal letto di morte, interviene in quella che fu chiamata «la battaglia degli slogan». Affinché l’alleanza sia la più larga e aperta – egli sostiene – ciascuna sua componente deve conservare la propria identità; così per i comunisti, i fini e i contenuti propri non possono essere sostituiti dal solo tema della «difesa nazionale». La «letteratura di difesa nazionale» è la porta aperta al patriottismo-nazionalismo, la mistificazione per anni presa di mira dalla sua satira. Egli accetta un fronte di lotta fondato sull’alleanza di classi diverse e di gente con opinioni diverse, per interessi temporaneamente e parzialmente comuni contro un comune nemico. «Non è che i letterati rivoluzionari debbano metter da parte il compito di guida della classe; anzi questo compito si deve fare ancor più pesante ed esteso.» La «letteratura di difesa nazionale», cioè il fronte unito indiscriminato e non qualificato, equivarrebbe alla proposta di battersi per gli interessi del nemico di classe (non opposti ma in competizione con quelli dell’aggressore imperialista). Ma Lu Xun va più in là, quando afferma che ciascuno scrittore può partecipare alla comune resistenza contro il nemico adottando qualsiasi forma, e trattando di qualsiasi argomento. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica. «La politica mira a bloccare le condizioni presenti realizzando l’unità […]. La letteratura provoca la scissione della società […]», aveva scritto nel 1927. Nel momento in cui la scelta rivoluzionaria è contro «la politica» che «mira a

realizzare l’unità», gli interessi del popolo e quelli dello scrittore tornano a coincidere.

 

Edoarda Masi, Lu Xun classico solitario, pubblicato su il manifesto del 9 gennaio 2005, p. 12


Edoarda Masi (1927-2011) – Una «rivoluzione culturale»: utopia necessaria nella società di oggi, che assume il profitto a valore dominante e universale, così come predicano gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Svetlana Boym (1959-2015) – È in atto una epidemia globale di nostalgia. Il XX secolo iniziò con un’utopia – gettata via negli anni Sessanta – e finì con una nostalgia, rifiuto della responsabilità individuale e collettiva per il futuro.

Svetlana Boym 01

«[…] è in atto una epidemia globale di nostalgia».

«Nostalgia (da nostos – ritorno a casa, e algia – desiderio [e dolore]) è il desiderio per una casa che non esiste più o non è mai esistita. La nostalgia è un sentimento di perdita e di spaesamento, ma è anche una relazione d’amore con la propria fantasia».

«Il ventesimo secolo iniziò con un’utopia futuristica e finì con una nostalgia. La fiducia ottimistica nel futuro fu gettata via come un’astronave fuori moda a un certo punto negli anni Sessanta.
La nostalgia stessa ha una dimensione utopica, solo che non è più diretta verso il futuro. A volte la nostalgia non è nemmeno diretta verso il passato, bensì piuttosto verso una strada laterale» .

«L’utopia prova a identificare i particolari di un quadro generale esposto in piena luce; la nostalgia vive di un
riverbero soffuso.  A prima vista, la nostalgia è il desiderio di un luogo, ma in realtà è uno struggimento per un tempo diverso – il tempo della nostra infanzia».

Questa regressione infantile, come sentimento sociale, corrisponde a un rifiuto della storia e quindi della responsabilità individuale e collettiva per il futuro.

Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, Basic Books, New York 2001 (Kindle Edition): cfr. la Introduction.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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1° Maggio ricordando Antonio Gramsci che moriva 83 anni fa e con il pensiero per i manifestanti uccisi a Chicago il 1° maggio 1886, e gli innocenti operai impiccati dalla “giustizia” USA.

Primo Maggio 2020

Il 1º maggio 1886, in piazza Haymarket, a Chicago, Illinois, si tenne un raduno di lavoratori ed attivisti anarchici a sostegno delle lotte di lavoratori in sciopero. Uno sconosciuto lanciò una bomba su un gruppo di agenti di polizia, uccidendone uno istantaneamente.  La polizia inizio a sparare ad altezza d’uomo: furono uccisi altri sette agenti da fuoco amico ed altri civili. Nel processo successivo venne emessa una condanna a morte per impiccagione di otto lavoratori anarchici di oginine tedesca (August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe), che in seguito vennero riconosciuti innocenti. Nell’immagine la copertina di un numero di «Corrispondenza Internazionale» del 1978 , con l’illustrazione d’epoca dell’impiccagione di quattro di essi (11 novembre 1887: Spies, Parsons, Fischer ed Engel ). August Spies, prima di essere ucciso, pronunciò la celebre frase “Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate oggi“. 


La memoria del Primo Maggio. Storia iconografica della festa dei lavoratori. Gli inizi del radicamento, Marsilio, 1988

Questo sardo, gobbo, e’ intelligente.
Troppo.
E per questo dobbiamo fare in modo
che questo cervello smetta di funzionare

Benito Mussolini

Ottantatré anni fa moriva Antonio Gramsci.
Vogliamo “pensare” questo «Primo Maggio», con i pensieri di Antonio Gramsci.

Petite Plaisance

 

Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.

Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico.

Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio.

Odio gli indifferenti. […] Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa (lettera a Tania, 2 luglio 1933).

La bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri.

Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. (19 dicembre 1929)

Antonio Gramsci

Antonio Gramsci (1891-1937) – Odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. Vivere vuol dire essere partigiani. L’indifferenza non è vita.
Antonio Gramsci (1891-1937) – Cultura è capacità di comprendere la vita. Ha cultura chi ha la coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Max Picard (1888-1965) – L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione.

Max Picard 02
Hitler in noi stessi. Distruzione della verità . Ordine nuovo – propedeutica nazista – possibilità di salvezza

«L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione. L’uomo contemporaneo non si trova più di fronte alla stabile datità delle cose e le cose non gli vengono più incontro una ad una, né egli stesso s’avvicina alla singola cosa compiendo un atto particolare: verso l’uomo contemporaneo, la cui interiorità è un coacervo incoerente, si muove oggi un sconclusionato arruffio esterno. Non si presta neppure più attenzione a cosa ci viene incontro, poiché si è soddisfatti purché qualcosa venga ed è proprio in una siffatta confusione che qualsiasi cosa e chiunque può immischiarsi».

Max Picard, Hitler in noi stessi, Pgreco, Roma 2016, p. 14.


Max Picard (1888-1965) – Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale perché sta al di fuori della dimensione dell’utile. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. La parola sorge dal silenzio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«La preghiera del partigiano» – I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia, animati da un progetto politico e da speranza comunitaria. La speranza si radica nella storia, ed è la conoscenza veritativa il fondamento da cui ricominciare

Preghiera del Partigiasno copia
Vasilij Kandinskij, Destino (Muro rosso), 1909. The Astrakhan State Art Gallery n.a. P.M. Dogadina

Preghiera del partigiano 

Là sulle cime nevose
una croce sta piantà.
Non vi sono né fiori né rose
è la tomba d’un soldà.
D’un partigian che il nemico uccise,
d’un partigian che tra il fuoco morì;
a mamma tua lontana
ti piange sconsolata
mentre una campana
in ciel prega per te.
E noi ti ricordiamo,
o partigiano che guardi di lassù,
mentre scendiamo al piano
ti salutiamo, caro compagno.

Non pianga più la mamma
il figlio suo perduto sull’Alpe sconosciuto
un altro, eroe sta là.
Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti
al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.
Questo dolce ricordo
mi fa sognare, mi fa cantare
tutta la melodia
che riempie il cuor di nostalgia.
Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti
al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.


Salvatore Bravo

La preghiera del partigiano

La preghiera del partigiano è un canto della resistenza. L’autore non ha un nome: l’esperienza partigiana è stata un’esperienza di prassi comunitaria. Nulla si teme maggiormente nei nostri anni che la prassi politica e storica, per cui l’esperienza partigiana è stata ridimensionata a presenza liturgica svuotata di ogni valenza rivoluzionaria. Si susseguono gli appelli a cantare “Bella ciao”, ad inneggiare sui balconi alla Liberazione in una triste festa confinata all’urlo di circostanza in un microspazio, che denota la restrizione delle nostre libertà. L’urlo liberatorio in un momento di grande incertezza serve a dare l’ennesima illusione, ovvero quella di essere protagonisti della storia. Il velo dell’ignoranza scende con le sue illusioni, permette di non vedere che il 25 Aprile 1945 è uno dei tanti furti a cui la comunità è sottoposta. La festa della Liberazione dovrebbe essere la festa con cui si festeggia e si rende vivo il ricordo del progetto costituzionale.
La Costituzione affonda il suo senso nell’esperienza della dittatura e nell’esperienza partigiana. La dittatura aveva offeso la volontà di ciascuno, le volontà erano coartate ed oggetto di perenne di violenza, i partigiani mostrarono che non vi è comunità, se non nel rispetto nelle volontà di ciascuno. Ci furono errori, certamente, ma devono essere letti all’interno della cornice storica del momento. Il loro agire dimostrò che la volontà non può essere nullificata, che la volontà senza giustizia non è che una vuota forma di volontarismo fine a se stesso.
I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia. La volontà della giustizia implica il “no” al potere, la capacità di distanziarsi rispetto alla coercizione del potere per poterlo sovvertire. La parola giustizia sociale, oggi, è temuta, mentre imperversano gli effetti dei tagli alla sanità, dopo decenni di partecipazione ai “bombardamenti etici” della NATO e con la distribuzione delle ricchezze sempre più ineguale. Al posto della parola giustizia, “essenza dell’esperienza partigiana”, oggi ci si propone di ricordare la data fondativa della Repubblica con la spettacolarizzazione della festa: sui balconi si canta e si balla come se si fosse su un piccolo palcoscenico, i video virali impazzano, così il messaggio cade svilito tra il narcisismo e l’incoscienza collettiva. Negli ultimi anni si è ipotizzato anche, non poche volte, di festeggiare il 18 Aprile 1948 data in cui il fronte popolare fu sconfitto, piuttosto che il 25 Aprile 1945. Si teme l’esperienza partigiana, poiché ci ricorda quanto i padri fondatori siano stati traditi e dimenticati.

Festa della giustizia che non c’è
Si dovrebbe, in questa data, rileggere la Costituzione nella quale la giustizia, in nome della quale si è combattuto, ha trovato forma giuridica ed etica. La giustizia partigiana ha favorito processi di concretizzazione dei diritti sociali: non vi è giustizia senza diritti sociali. Al posto di essi prevalgono i processi di privatizzazione, di individualismo, si esaltano i soli diritti individuali scissi dai diritti sociali tradendo la lotta partigiana. La stessa rete è privatizzata, per cui la conoscenza non è per tutti, ma solo per alcuni. Di tutto questo si tace, si riempie il vuoto con canti e balli che servono a “tenere buoni” su un balcone una popolazione che subisce provvedimenti con il parlamento esautorato dalle sue funzioni. Intanto si canta e si balla e non si comprende cosa ci stanno portando via: la nostra storia e con essa la nostra identità. Il regime fascista, nella sua morte, rivelò la sua verità: era un regime violento e dunque la sua fine fu violentissima, ma i partigiani seppero pensare “quella morte” e la trasformarono in progetto politico e in speranza comunitaria. Vissero un processo dialettico di rinascita con cui ridiedero dignità ad un popolo umiliato ed offeso, anche se a volte complice. Di tutto questo sembra non esserci più traccia, al suo posto vi è solo una breve gioia da consumarsi esibendosi sul balcone tra gli sguardi dei passanti e le riprese degli smartphone.

La cultura partigiana che non c’è
Sorge un ulteriore dubbio: cosa conoscono i nostri giovani dei partigiani? Poco o nulla. I tagli alla scuola, la storia ridotta ad una presenza curriculare senza spessore e la scuola che quest’anno non c’è, fanno in modo che ne abbiano un’idea vaga e fuorviante, pertanto festeggiano ciò che non conoscono. Si permette di festeggiare ciò che non si conosce, in quanto non crea nessun concetto, non c’è pericolo che l’esperienza partigiana si trasformi in attività politica, per cui li si lascia festeggiare … sono innocui, e domani non sarà un altro giorno.
A tutto questo è necessario non reagire, ma agire, ed ancora una volta è la conoscenza il fondamento da cui ricominciare. Coloro che vivono la conoscenza come missione con cui umanizzarsi ed umanizzare devono far sentire la loro resistenza civile non abbandonando le nuove generazioni allo squallore di una gioia belante.
La speranza si radica nella storia, pertanto si tratta di conoscere e cogliere che i partigiani non hanno lottato solo per se stessi, ma per la comunità intera. Le loro storie ci raccontano di vicende umane, in una situazione storica eccezionale, capace di comprendere la giustizia ed il suo valore. Senza giustizia non vi è comunità, ma solo la giustapposizione violenta di individui espressione della politica che non c’è anche in questa giornata.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Anna Bravo (1938-2019) – Non dobbiamo smembrare e sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Le donne erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne. Domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile.

Anna Bravo

Intervento di

Anna Bravo

Storica, Università di Torino

Movimenti di liberazione e riduzione del danno

(Cerimonia di consegna del Premio “Diana Sabbi”, Provincia di Bologna, Bologna, 12 maggio 2006)

Grazie per questo invito che per me è un onore ed una gioia. Ovviamente non solo per me, perché è come se ci fosse un filo di continuità, tra la grande donna che ha fatto così tante cose nella sua vita, e alcune rappresentanti delle nostre istituzioni elettive, storiche, ricercatrici giovani, filo che lascia pensare ad una tradizione che corre attraverso persone diverse. Una tradizione in cui sono benvenuti gli uomini, quelli che sono interessati a questo tema e portano un contributo nuovo.
Ho pensato di presentare alcune riflessioni su un concetto a me molto caro in questo periodo: quello della riduzione del danno. Negli anni c’è stata una campagna mediatica e di molti libri completamente centrata sull’aspetto cruento della resistenza (non credo assolutamente che bisogna sacralizzare la resistenza) che ha favorito un’immagine non rispondente al vero. Parlerò di riduzione del danno non per contrapporre dei pro a dei contro, per fare la conta del bene e del male che c’è stato (non penso sia un tema interessante), tratterò invece questo concetto, perché, insisterere tanto sull’aspetto cruento della resistenza ha causato un effetto deleterio: quello di smembrare, di sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Il secondo pericolo che vedo è che si crei un solco tra resistenza armata e resistenza non armata: due fenomeni diversi ma con punti in comune importanti da rintracciare per evitare contrapposizioni inutili che non fanno procedere nella ricerca storica. Quindi si tratta di prendere lo spunto da una campagna mediatica ‘brutta’ per capire se ci sono delle cose da ricavare per andare avanti.
Vorrei, preliminarmente dire due cose: primo, quando si parla di riduzione del danno, non si parla del cosiddetto male minore che significa contemplare una situazione e scegliere il male meno grave. Parlare di riduzione del danno, in particolare in una situazione di guerra, significa, invece, agire perché un danno diventi più piccolo, si tratta di una posizione molto attiva e forte in cui le donne sono state particolarmente protagoniste. Secondo, il concetto di riduzione del danno non appartiene solo ai movimenti di resistenza; nella corrente giuridica del pacifismo, che nasce già nella seconda metà dell’800, vi è un grande lavoro di riduzione del danno affidata ad accordi bilaterali, a trattati internazionali che fissano divieti ed obblighi sia per i prigionieri di guerra sia per i civili (la massima esponente di questa corrente pacifista è una donna che si chiamava Berte von Suttner, che ha avuto il premio Nobel nel 1905), vi è il tentativo di creare una struttura giuridica che ponga dei limiti oltre i quali erano previste ritorsioni più gravi. (Purtroppo tutto questo è sempre accaduto solo dopo una guerra, basti pensare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo).
L’aspetto interessante delle pratiche di riduzione del danno nella resistenza, intesa nel suo senso più ampio, è che avvengono dentro la guerra, in piena guerra. Parlerò della resistenza in Italia per squarci, poiché il tempo è poco. Comunque, lo sforzo di ridurre il danno è un punto tipico, per certi versi ovvio. Il partigiano combatte nel suo territorio, a che fare con i suoi connazionali, concittadini, compaesani, è interessato a proteggere il paese pertanto è quanto mai scontata questa caratteristica dell’azione. Ma il movimento partigiano, il movimento armato, ha anche una priorità, quella di contribuire alla sconfitta di fascisti e tedeschi. Far saltare un treno mette in difficoltà il nemico, ma c’e la consapevolezza che tale ponte nel dopoguerra non ci sarà più. Qui emerge l’aspetto drammatico che il partigiano in armi spesso vive.
Vi è un’insieme di ricerche italiane molto belle, parlo di Pezzino, Contini, Portelli, Paggi, che hanno analizzato tale dilemma nelle conseguenze della memoria di cittadini vittime di stragi naziste, registrando contraddizioni, come è normale che sia. Il partigiano, perciò, si trova di fronte questo dilemma, che non si può risolvere in modo indolore, mentre la resistenza disarmata, civile, ha come sua priorità quella di diminuire al massimo il dominio e lo sfruttamento che il nazismo esercita sulle popolazioni occupate. Ossia, limitare la razzia di beni, di persone, le deportazioni degli ebrei e quelle politiche. La resistenza civile si muove molto all’interno di questa logica attiva di diminuzione del danno.
Pensando alla contrapposizione che poteva nascere dalla campagna mediatica in cui da un lato c’è la resistenza armata uguale sangue e violenza, la resistenza civile uguale salvezza ed angelismo, il concetto di riduzione del danno è interessante, poiché presenta punti di contatto tra questi due settori della resistenza, che noi donne non abbiamo mai contrapposto l’uno all’altro, ma che spesso sono stati tenuti divisi. Durante le pratiche armate c’era infatti la possibilità di ridurre il danno.

Nelia Benissone
Anna Maria Bruzzone
Rachele Farina

Partirò portando l’esempio di alcune donne che erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne che come noto sono l’organizzazione più attenta a salvaguardare la comunità, la sua sopravvivenza ed i suoi valori. (Un esempio vicino a noi, dall’altra parte dell’Italia, è quello dei gruppi di Carrara, che riescono a bloccare gli sfollamenti forzati vanificando il piano tedesco di ritirarsi attraverso territori sgombri. Essi impediscono questa manovra e la distruzione completa della città di Carrara). Una donna che lavora nei due settori è Nelia Benissone, una delle partigiane intervistate da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta.
Nelia aveva come specializzazione il sequestro di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani o con ostaggi, una classica azione che si fa con le armi, prendendo una persona per strada e portandola ai comandi per dare avvio alla trattativa. Nello stesso tempo era molto impegnata nel soccorso rosso, nei gruppi di difesa della donna, contribuiva a creare ambulatori per i giorni della liberazione, essendo così, parte di una cosa e dell’altra. Sentendola raccontare dopo tanti anni, non si capisce la cosa che più le dava soddisfazione, gioia di sé, l’unica cosa che si comprende è che le mancava la politica, perché i casi della vita hanno fatto sì che lei non potesse più avere un impegno politico. Comunque, come si è potuto vedere, anche il partigiano in armi, in questo caso la partigiana, può muoversi nell’ottica della diminuzione del danno, insieme ad altre donne, determinando un punto di convergenza.

Un secondo terreno, che stranamente non è emerso durante la polemica di due o tre anni fa intorno al libro di Pansa, è costituito dalle pratiche armate che nascono proprio per ridurre il danno. Uno degli aspetti meno citati è il fatto che, se l’Italia nel dopoguerra ha avuto danni limitati all’apparato industriale, è perché i partigiani hanno difeso le fabbriche. Militarmente, con le armi in pugno, hanno salvaguardato gli impianti industriali. Infatti, gli indici di distruzione sono più alti per quanto concerne l’agricoltura rispetto all’industria, proprio per questa azione difensiva dei partigiani. Nelle campagne vi era l’abitudine dei fascisti di bandire gli ammassi e di requisire gli animali, mucche, cavalli ecc. I partigiani spesso arrivavano disturbando e facendo fallire la requisizione, sapendo bene che requisire una mucca, significava togliere ad una famiglia il modo di tirare avanti ancora per un anno di guerra o di quanto sarebbe stato. Tali sono casi di grande interesse, ma poco valorizzati.
Un altro caso in cui bisognerebbe far partire delle ricerche è il problema delle tregue, visto finora in maniera molto limitativa. Spesso le tregue venivano fatte per motivi politici, per isolare una certa parte politica rispetto ad altre, ma in alcuni casi, come nel biellese, sono state fatte per dare un po’ di respiro alle popolazioni, per consentire di fare uscire dalle valli i tessuti e far entrare denaro per la sopravvivenza. In tal caso, concordare una tregua è proprio un atto di riduzione del danno, abbandonando l’idea di bellicosità come valore da perseguire sempre e comunque, vuol dire aver capito quando è più importante che si possano esportare tessuti e dar da mangiare alle persone piuttosto di fare uno scontro a fuoco.
Sempre nel biellese, nella primavera del ’45, viene firmato un contratto molto avanzato nell’industria tessile, con ridistribuzione del potere e ridistribuzione economica. Esso è stato “incoraggiato” dai partigiani dimostrando un altro modo di intervenire nella società civile: essi mostrano le armi ma non le utilizzano.
E’ possibile così individuare il valore di riduzione del danno connaturato a certe pratiche armate. Infine l’aspetto, di cui si è discusso poco, ossia la riparazione del danno sul piano simbolico. E’ vero che c’e stato un dibattito molto forte intorno all’idea di morte della patria (penso da un lato a Ernesto Galli della Loggia e Elena Aga Rossi, dall’altro a Claudio Pavone, Vittorio Foa e molti altri). Alcuni sostengono che l’8 settembre con il disfacimento dell’esercito vi è la fine della patria, altri come Vittorio Foa pensano, diversamente, alla rinascita della patria perché quella che muore è la patria fascista. Si tratta di due posizioni inconciliabili se viste a livello dei vertici, come questione di apparati, crollo dell’esercito e degli alti comandi, disfacimento degli uffici ecc. In ogni caso, pensando ad alcune ricerche che ho fatto tanti anni fa, mi rendo conto che il concetto di morte della patria non colpisce solo i fascisti, i monarchici o chi pensa che la sfera pubblica delle istituzioni debba mantenere il suo potere, per essere rispettabile e rispettata. Ci sono anche borghesi ‘piccoli-piccoli’ che non sono particolarmente legati a queste tesi, ma che si sentono, in qualche modo, vicini al destino dell’esercito e delle istituzioni e che, trovandosi occupati, vivono l’umiliazione di un popolo che non osa agire perché occupato e sfruttato dai nazisti.
E’ chiaro che il riscatto dall’occupazione fascista e dalla sua primogenitura, nonché la riduzione del danno, sono rappresentati dalla resistenza, come movimento. Guardando la storia ad un livello micrologico, si vede l’esistenza del disagio, della sofferenza, dello smarrimento, in persone che non sono legate ad ideali militaristi, patriottici o monarchici. E si vedono situazioni in cui le armi possono funzionare come riscatto sul piano simbolico. Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo, che aveva combattuto con i partigiani in Jugoslavia e poi era tornato al suo paese nel Monferrato. Era molto combattivo e in poco tempo aveva tirato su un gruppo di amici e fatto molti colpi rifornendosi ampiamente di armi nemiche. Nel giro di poco più di un anno era diventato capo di una divisione garibaldina grande e combattiva. La sua inclinazione “anarcoide”, “ribellistica” aveva causato in parte screzi con la dirigenza garibaldina composta da persone molto più adulte e con una storia molto diversa.
Prima ancora di conoscere questa persona, di diventare sua amica, ho sentito parlarne proprio da questi borghesi ‘piccoli piccoli’ che ho nominato. Come sapete le trattative tra partigiani e tedeschi esistevano per lo scambio di ostaggi di prigionieri, trattative per stabilire una tregua momentanea, per non fare rappresaglie in un certo paese. Nel momento della trattativa ad un lato del fiume vi erano gli ufficiali e dall’altro questo mio amico (vestito in maniera spettacolare: con i pantaloni corti, gli stivali, un berretto con una enorme stella rossa, giubbotto di pelle e carico dalla testa ai piedi di armi tedesche) che pianissimo senza scorta attraversava questo ponte. Questi borghesi piccoli piccoli avevano paura della durezza leggendaria di questo comandante partigiano, paura dei grandi rivolgimenti che la resistenza prometteva all’Italia.
Avrebbero forse preferito restare come erano, ma vivendo quella situazione di umiliazione, di non osare di ribellarsi, di sentirsi nessuno, come si sente chi è occupato, si identificavano moltissimo con questo ragazzo, utilizzando la frase “andava a trattare da pari a pari”. Tale può definirsi una forma di riduzione del danno simbolico, attuata paradossalmente, attraverso l’ostensione di un corpo maschile ricoperto completamente di armi. Si tratta di una forma di riduzione del danno molto vicina ad una cosa che forse può sembrare il suo contrario.

Parlando dei gruppi di difesa della donna ho dimenticato di dire una cosa molto importante. Essi cercavano di dare sepoltura ai morti partigiani. (Qualcuno ricorderà le ragazze dei gruppi che nei funerali portavano un garofano rosso e alle quali i fascisti giravano intorno) ed alle vittime dei tedeschi anche non partigiani. Il tentativo era di rendere giusto onore alle vittime e di sanare quella ferita enorme che prova una comunità quando i morti non vengono sepolti. Le esequie rappresentavano un’alta strategia politica simbolica che paradossalmente rientrava nello stesso piano di ricostituzione della fiducia in sé, del senso dell’onore che aveva questo mio caro amico.
Partendo dal fastidio di vedere questa campagna che ha smembrato l’interezza di un’esperienza molto complicata, in cui nessuno ha parlato del fatto che si stabilivano tregue che consentivano alla gente di sopravvivere, di questi funerali ancora molto vivi nella memoria delle persone anziane, credo, per concludere, che gli storici uomini, per lo meno alcuni, sono stati troppo legati a quest’immagine della lotta armata come sola vera forma di lotta antifascista, mentre è acclarato che ci sono forme di lotta altrettanto importanti come ad esempio la protezione degli ebrei che significa sottrarre prede ad Hitler, fatti che hanno lo stesso valore. Nel dibattito di due-tre anni fa, non sono venuti fuori questi temi, impoverendolo molto, ma aprendo per alcuni un altro punto di vista, con uno sguardo di riflessione di genere maschile e femminile, libero da questo primato delle armi e dalla falsa idea che non usarle costituisca un atto di codardia, di rinuncia al conflitto.
Chiudo dicendo che sono di fede atea e nonviolenta. In giro domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile e cerca di gestirlo riducendo al massimo il danno, quindi è la forma più alta a cui noi possiamo rifarci e che esisteva già nella resistenza.

Anna Bravo


“Ma, insomma, se sapessero solo cos’han fatto le donne!”. A vibrare così è la voce di una delle dodici partigiane piemontesi le cui testimonianze sono state trascritte e raccolte qui da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Erano gli anni settanta del secolo scorso e, nonostante fossero passati decenni dalla fine della guerra, ancora “non si sapeva”. O meglio, il prevalente “manierismo resistenziale” conveniva, nell’ufficialità degli anniversari, sul “prezioso” contributo delle donne alla lotta di Liberazione, ma non si spingeva ad accreditarne l’indispensabilità. Concentrata sulle vicende politico-militari, la storiografia continuava a ignorare una parte essenziale dell’accaduto. Grazie al libro di Bruzzone e Farina, oggi riproposto in una nuova edizione, la soggettività femminile ha invece preso la parola, determinando una svolta nella percezione collettiva della Resistenza. Si è abbandonata la logica subalterna del puro affiancamento – supporto logistico, ruoli di staffette, vivandiere, infermiere, infine custodi memoriali delle imprese maschili – per restituire piena dignità di azione, lungimiranza, caratura morale e civile a chi aveva esposto la propria giovinezza a ogni rischio, quanto e talora più dei compagni in armi, e nel dopoguerra non aveva preteso medaglie o riconoscimenti. La Resistenza troppo a lungo taciuta di queste donne, in gran parte di origini proletarie, è stata risarcita solo dal loro tardivo racconto.


Le pubblicazioni di Anna Bravo

La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato, Torino, 1964
Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, 1991 (curatela)
In guerra senza armi, Laterza, 1995 (con Anna Maria Bruzzone)
Donne del ‘900, Liberal, 1999 (con Lucetta Scaraffia)
Storia sociale delle donne, Laterza, 2001 (con Lucetta Scaraffia)
Il fotoromanzo, Il Mulino, 2003
I Nuovi fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, 2003 (manuale per le scuole superiori,
La vita offesa, FrancoAngeli, 2004
Sopravvissuti, Alinari, 2004 (con Liliana Picciotto Fargion)
Comune di donna. Sindache in provincia di Bologna, Clueb, 2004
La prima volta che ho votato, Scritture, 2006 (con Caterina Caravaggi e Teresa Mattei)
A colpi di cuore. Il Sessantotto, Laterza, 2008
Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, 2011 (curatela, con Federico Cereja)
La conta dei salvati, Laterza, 2013
Raccontare per la storia, Einaudi, 2014


Emanuela Minucci, Addio ad Anna Bravo, studiosa delle donne e dei movimenti politici del novecento, in La Stampa, 8 dicembre 2019.

Federico Cravero, Addio ad Anna Bravo, una vita dalla parte delle donne, in Repubblica, 8 dicembre 2019.

Alberto Leiss, Anna Bravo, storica, su donneierioggiedomani.it


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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