Salvatore A. Bravo – il genocidio kmer in cambogia palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che, in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Tiziano Terzani 01

Progettualità e storia
Negli ultimi decenni in modo sempre più radicale si assiste alla sostituzione della prassi con la poietica, alla spazializzazione del pensiero, il quale opera secondo una visione analitica e non olistica. La razionalità è rivolta al conseguimento dei risultati immediati, con l’effetto che la stessa razionalità si ribalta in irrazionale su lassi temporali più ampi, poiché è assente ogni riflessione sulle conseguenze delle azioni e specialmente sul valore qualitativo dei fini. Uno dei mezzi più efficaci per strutturare il silenzio del pensiero critico e profondo è l’esemplificazione della storia, che diviene così organica alla distopia del capitalismo assoluto. Non solo si divide per dominare, ma specialmente si occultano le verità storiche nel chiasso di informazioni spesso superflue, veri distrattori di massa. Si cela il verme nel nocciolo secondo la famosa metafora di Sartre, in modo da nascondere la verità del sistema. Uno dei mezzi con cui si effettua l’operazione ideologica di eternizzazione del presente è l’espulsione sostanziale e non formale della disciplina storica. La storia si eclissa dalle istituzioni che dovrebbero trasmetterla, che dovrebbero educare al senso storico, al senso dei contesti, e specialmente dovrebbero formare a cogliere dietro la cronologia il sostrato, senza il quale la storia non è che successione disordinata ed insensata di tumultuosi avvenimenti. Si mette in atto un processo di derealizzazione della realtà e della personalità La storia ridotta a cronologia disegna eventi che appaiono e scompaiono senza lasciare traccia e continuità. In tale maniera la disarticolazione della storia diventa il macrocosmo, a cui corrisponde il microcosmo delle vite che si succedono senza progettualità, vite che accadono, si succedono, si consumano come la grande storia punteggiata di accadimenti senza continuità: le storie e la storia si consumano nella malinconia dell’assenza.

Massimo Bontempelli e la derealizzazione
Massimo Bontempelli ha coniato due idealtipi per rappresentare i processi di derealizzazione: la personalità narcisista e la personalità concretista: la prima è autoreferenziale, e si connota per il disprezzo di sé, per cui manipola le altre personalità per avere conferma del proprio valore; la personalità concretista si muove all’interno di uno spazio limitato, è volta all’immediato, al risultato, non alla profondità interiore esattamente come la personalità narcisista. In entrambi casi, si tratta di personalità senza storia e dunque dall’identità apparente, poiché la scissione dell’io dalla comunità, dalla storia le destruttura in senso atomistico:

«In questa sede, però, la genesi psicologica interessa meno della base ontologica. Ontologicamente, il concretismo è, come il narcisismo, un’interruzione, sul piano specifico dello sviluppo della personalità individuale, della possibilità del passaggio dall’esistenza alla realtà, per l’inattivabilità dell’azione reciproca. Mentre però nel narcisista ciò che impedisce l’azione reciproca è la coazione all’azione unidirezionale, nel concretista ciò che la impedisce è la coazione a farsi assorbire dalle cose. Storicamente, questa determinazione della persona umana è, proprio come la de-terminazione narcisistica, un prodotto del meccanismo economico autoreferenziale contemporaneo. Abbiamo visto come tale meccanismo, facendo prescrivere i comportamenti umani dalle procedure tecniche, sottragga all’individuo l’immagine stessa dell’azione reciproca. Se tale immagine è sostituita da un modello di relazione strutturato dalla proiezione al consumo, si ha il narcisismo, mentre se è sostituita da un modello di relazione strutturato dall’adesione alla produzione, si ha il concretismo. Il concretista, infatti, fa molte cose senza mai chiedersi il senso del suo fare, per cui il suo agire, anche quando è del tutto esterno alla produzione economica, e persino quando si svolge in un ambito solidaristico, corrisponde perfettamente alla natura della produzione nel meccanismo economico autoreferenziale, che consiste nel produrre sempre di più senza alcuno scopo umano».[1]

Le controriforme
La storia, invece, nella quale si cerca il fondamento e la progettualità non profetica, è espressione vivente della prassi, dell’umanità in cammino nel dialogo che fonda l’ontologia dell’esserci. Le riforme contro la storia, gli attacchi strategici alle facoltà che dovrebbero formare gli studiosi, mediante tagli finanziari e discredito su studi giudicati improduttivi, palesano la verità del tempo presente: la riduzione del tempo a solo tempo della produttività, del PIL, oggetto di interventi ossessivi. L’agire contro la storia ha lo scopo di formare personalità gettate nel presente e quindi pronte all’uso ed al consumo. Si occultano le contraddizioni. In primis l’impossibile realizzazione, per tutti, del regno della dismisura, per cui destrutturare la storia, ridurne la presenza nei curriculum scolastici come nella memoria collettiva è una modalità d’attacco del capitalismo assoluto che erode le forme della prassi per sostituirle con la violenza della produttività dell’inautentico. Si misura tutto in modo maniacale per poter dominare e manipolare, ma si sottrae il senso della relazione tra quantità e qualità, pertanto la dismisura, regna, occultata da strumenti di precisione millimetrica, non mediata dalla razionalità speculativa.
Vi sono storie nella storia in cui la verità, il fondamento nichilistico che guida le tragedie della storia contemporanea, non solo si rilevano, ma esse sono portatrici, come in questo caso, di un’eccedenza. Dimostrano la cattiva coscienza dell’onnipotenza tecnocratica, poiché mettono a nudo la verità: sono rimosse dalla memoria collettiva, ridotte ad episodi regionali, ai margini della globalizzazione con i suoi splendori.
La Cambogia con il genocidio kmer palesa la verità del nichilismo della razionalità tecnocratica, dell’onnipotenza economica che in nome della trasformazione a qualunque costo, non conosce limiti nella sua azione distruttrice.

Razionalità tecnocratica e razionalità classica
Il Vietnam, durante la guerra (1960-1975), è stato oggetto di bombardamenti con l’agente arancio, un’erbicida che ha causato la deforestazione, desertificato il terreno con accumuli di diossina che hanno reso il suolo sterile per un tempo indeterminato. La Cambogia, stretta tra gli interessi cinesi ed americani è diventata il luogo dove l’onnipotenza della ragione calcolante, senza etica, ha mostrato il sonno della ragione, ovvero il sonno della ragione classica, il sonno della razionalità del limite, sostituita da una razionalità puramente tecnocratica e distopica e come tale tesa all’espansione integralista per la quale il limite è solo un labile confine da abbattere.
Tiziano Terzani descrive l’agonia di un popolo, il processo di formazione di un genocidio, la cui precondizione è nella violenza espansionistica delle potenze, le quali pur da posizioni ideologiche diverse, agiscono mosse dallo stesso fondamento economicistico e nichilistico:

«Ho visto questa città negli anni della guerra americana, fra il 1970 ed il 1973, quando centinaia di migliaio di rifugiati, scappati ai bombardamenti a tappeto dei B-52, venivano ad accamparsi lungo i marciapiedi del centro; l’ho vista lentamente strangolata del centro; l’ho vista lentamente strangolata dall’assedio dei khmer rossi, che il 17 aprile 1975 la presero in mano e per prima cosa la vuotarono in poche ore di tutta la sua popolazione, mandata allo sbaraglio nella giungla e nelle risaie; l’ho rivista, città fantasma, guscio vuoto, marcio e buio, poco dopo l’intervento vietnamita che nel 1979 rovesciò il regime di Pol Pot e mise al potere l’attuale governo di Hun Sen; e l’ho rivista varie volte negli ultimi dieci anni, di nuovo viva e popolosa, ma ancora misera, sporca, avvilita e scoraggiata da dall’ingiusto embargo economico che i paesi occidentali hanno deciso di imporre a questa gente ed a questo governo, definito “fantoccio di Hanoi”».[2]

Genocidi
Il numero dei morti è rimasto dubbio; è certo che tra il 1975 ed 1979 un terzo della popolazione cambogiana è scomparsa atrocemente. Non vi è stata nessuna Norimberga, nessuna giustizia: i processi iniziati negli ultimi anni hanno un valore formale e specialmente rimuovono le responsabilità internazionali, degli Americani e dei Cinesi in particolare. Costruiscono un’immagine della storia evenemenziale: i responsabili sono singoli, dietro di essi le strutture, i modi di produzione, le ideologie sono innocenti. Il modello di razionalità non viene messo in discussione, restano nel limbo dell’astratto, il sistema e la storia non conoscono dialettica emancipatrice: Stati Uniti e Cina continuano ad essere padroni del pianeta come se nulla fosse accaduto.
I morti, i genocidi non sono tutti uguali, alcuni sono pubblicizzati, resi pane quotidiano nella propaganda dei vincitori. Altri sono dimenticati, procurano imbarazzo con la loro verità che accusa i vincitori, e rammenta la sconfitta ai padroni e signori del pianeta:

«Perché i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall’intera comunità internazionale e quelli dei khmer rossi no? Forse perché le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri erano dei semplici cambogiani dalla pelle scura? Forse perché a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese, finita senza una chiara sconfitta, ma solo con milioni di morti, nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate?». [3]

Le responsabilità collettive
Per comprendere la storia è necessaria una visione olistica, la quale consente di riportare all’unità ciò che, invece è separato, esemplificato e diviene incomprensibile. I kmer rossi si rafforzano e si diffondono con i bombardamenti americani, e con il colpo di stato del 1970 orchestrato in Cambogia dagli Americani, mentre da un punto di vista ideologico, la Cina è la madre matrigna che sostiene per ragioni di espansione e competizione con l’Unione sovietica i kmer, in modo da presentarsi come polo catalizzatore per i paesi che escono dalla difficile esperienza della colonizzazione:

«I khmer rossi sono stati un’aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Ze Dong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva ed approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Zleng, a poche decine di metri dall’ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone complice dell’olocausto, era impazzito. […] La verità, come dicevo, è che i khmer rossi sono il prodotto di un’ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale. L’operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può fare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria. Da qui il progetto dei khmer rossi di spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi».[4]

 

I tempi della storia
L’uomo nuovo è il fine dei kmer come di Mao, i kmer accelerano, esigono il risultato in tempi brevi. Il tempo svela la contemporaneità dei kmer, il loro essere organici al nichilismo produttivo industriale e tecnocratico. In tempi brevi, inseguendo la temporalità espansiva degli apparati industriali, attraverso la microfisica del controllo, della manipolazione, l’uomo nuovo liberato dalle scorie impure del passato splenderà nella sua ritrovata innocenza e purezza.
Il tempo della storia è veloce, quando la razionalità critica si ritrae, per cui con la caduta del muro, la Cambogia comunista dietro la quale vi è il Vietnam e specialmente la Cina, reintroduce la proprietà privata, per cui i privilegiati durante il regime comunista diventano ora i ricchi. L’assenza di prassi e partecipazione politica agli eventi spingono i Cambogiani ad adattarsi, perché in fondo sanno che il vero cambiamento strutturale non è mai avvenuto. Dietro le tragedie della storia cambogiana non vi è che il susseguirsi con matrici diverse del sogno dello stesso sogno/incubo dell’onnipotenza[5]:

«La svolta avvenne nel 1989. Col mondo socialista in ritirata e l’Occidente che faceva pressione perché Phnom Penh cambiasse politica in cambio di una vaga promessa di riconoscimento e di aiuti, il regime di Heng Samrim e Hun Sen adottò una serie di riforme che hanno permesso la religione, abolito la struttura economica socialista, liberalizzato il commercio e reintrodotto la proprietà privata. Il primo maggio 1989 sono nati i nuovi milionari della Cambogia. In quella data, chi occupava una villa, un appartamento o una semplice stanza ne è diventato il legittimo proprietario. Questo ha ovviamente favorito i funzionari del nuovo regime che per primi erano tornato a Phnom Penh ed erano andati ad occupare gli edifici più centrali e spaziosi. Alcune di quelle ville, cui è stata data una mano di bianco e una ripulita, vengono ora fittate agli stranieri che lavorano a Phnom Penh per somme che variano dai mille ai duemila dollari al mese: un patrimonio, se si considera che lo stipendio mensile di un funzionario governativo è di 5000 riel, vale a dire 8 dollari. Lo stesso è avvenuto nelle campagne. I campi delle comuni sono stati distribuiti fra i contadini, creando enormi disparità tra quelli che hanno ricevuto terreni fertili e gli altri che hanno avuto pezzi improduttivi. L’improvvisa fine del sistema socialista comunitario ha per giunta penalizzato i più deboli. È così che città come Phom Penh si sono riempite di donne e bambini mendicanti».[6]

 Alla caduta dei kmer nel 1979 con l’invasione vietnamita, vi è un dettaglio non secondario, che denuncia il fondamento nichilistico in modo lapalissiano: gli Stati uniti non riconoscono la nuova Cambogia, in quanto legata politicamente alla Cina per mezzo del Vietnam, dunque all’ONU il seggio è dei kmer, malgrado il genocidio ormai pubblico, ma per la razionalità nichilistica che usa solo la categoria della quantità un milione e mezzo di persone trucidate non sono che numeri interscambiabili, sono niente davanti alla storia.

L’essere umano come animale storico
L’essere umano è un animale storico. Se rinuncia alla storia e con essa alla prassi, vive come un qualsiasi animale nell’eterno presente, pascola, rumina, ma non vive. La storia eleva all’universale, e dunque umanizza attraverso la razionalità dialogica che distingue l’accidentale dall’universale:

«Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di se stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse». [7]

L’uomo nuovo che il capitalismo assoluto vuole fondare è l’uomo senza memoria, limitato al solo pascolare tra gli infiniti pascoli del mercato. A questa visione impoverita e depauperata dell’umanità, bisogna contrapporre la visione hegeliana che nella Filosofia della storia ha dimostrato che l’essere umano conosce se stesso nella storia. Pensando il materiale storico l’uomo elabora la consapevolezza di sé, in modo da discernere l’eterno dal contingente. L’uomo nuovo al pascolo nei mercati non discerne, non giudica, non ha senso etico/universale, si disperde nella contingenza del particolare, nell’immanenza senza trascendenza. Il presente gli appare senza speranza, poiché è venuta a mancare la mediazione razionale sull’esperienza storica collettiva. Il futuro si gioca dialetticamente sul senso storico senza il quale non vi è libertà, né razionalità, ma solo veloce dileguarsi della ragione. Siamo al bivio parmenideo: la doxa è l’immediatezza del narcisista/concretista, mentre la verità è il senso storico in cui l’eterno prende forma e coscienza. L’errore nella scelta non potrà che essere fatale per il pianeta, poiché i mezzi di distruzione minacciano la vita come non mai.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà, Petite Plaisance ,Pistoia 2002, pag. 15

[2] Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Tea. Milano 2008, pag. 298.

[3] Ibidem, pag. 324.

[4] Ibidem, pag. 277.

[5] Ibidem, pp. 285-286.

[6] Ibidem, pp. 285-286.

[7] Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, pag. 8.

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Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Massimo Bontempelli 030

I Forchettoni rossi

Salvatore A. Bravo

Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli

Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico

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Coniugare storia e filosofia

Filosofo e storico Massimo Bontempelli coniugava storia e filosofia, poiché la storia senza la metodologia filosofica resta incompresa: è semplice cronologia. La storia è il campo di azione e di battaglia della filosofia, per cui è nella storia, come nel quotidiano, che la filosofia non solo adopera la sua metodologia di indagine, ma ne verifica anche il peso cognitivo. L’asse storico – per avere valore conoscitivo e critico – necessita della filosofia: solo attraverso la storia compresa e mediata dalla razionalità filosofica è possibile porre le condizioni per un movimento di emancipazione. Massimo Bontempelli da insegnante di scuola superiore aveva verificato quanto l’aziendalizzazione della scuola avesse comportato il depauperamento dell’insegnamento della storia fino a renderla una presenza formale. La geostoria nel biennio del liceo è il riduzionismo applicato a due discipline: la storia e la geografia. La sottrazione della storia al processo formativo ha evidentemente lo scopo di necrotizzare la conoscenza dei processi di trasformazione per eternizzare il presente e formare al dogmatismo del presente astratto:

«Il problema che dobbiamo porci è: quale potrebbe essere l’asse culturale della scuola attuale? Secondo me, per varie considerazioni che qui non posso svolgere, l’asse culturale della scuola oggi dovrebbe essere la dimensione della storicità. Occorrerebbe cioè reintrodurre la storia là dove è stata svuotata, e quindi insegnare la lingua e la letteratura dal punto di vista storico. La dimensione storica è poi di importanza cruciale per l’insegnamento delle materie scientifiche. Per esempio, quando si insegna la geometria euclidea non si dice chi era Euclide, dove aveva studiato, perché aveva costruito quel sistema deduttivo. Se si riscoprissero tutti i legami fra la geometria euclidea, i progetti dell’accademia platonica, la continuità e la separazione di Euclide rispetto alla filosofia platonica, la sua geometria acquisterebbe un profondo significato culturale ed educativo. Pensate che bello se l’insegnante di storia insegnasse la storia dell’età ellenistica, e l’insegnante di matematica insegnasse la geometria euclidea, e le cose si incastrassero. In mancanza di ciò, l’insegnamento scientifico, che dovrebbe quasi per definizione essere un insegnamento critico, diventa, paradossalmente, come ci spiega Lucio Russo, il più dogmatico. Perché le persone imparano delle leggi scientifiche, dei procedimenti, delle soluzioni di problemi in maniera totalmente dogmatica, tant’è vero che lo studente della scuola secondaria generalmente non sa che la scienza non è mai definitiva, che è un modello, che la fisica newtoniana non è più vera in senso assoluto, perché addirittura le sue disconferme sono state quasi cooriginarie alla sua formazione. Ad esempio le leggi di Keplero sulle orbite dei pianeti vengono imparate a scuola completamente svuotate di significato storico. Non si immagina che le ipotesi che hanno guidato quello scienziato nella scoperta dell’orbita di Marte sono ipotesi metafisiche, di tipo neoplatonico e neopitagorico. Io penso che una scuola dovrebbe coordinare le materie, i programmi, gli insegnamenti, insegnare cioè arte, letteratura, scienza, filosofia dal punto di vista di una connessione storica e penso che questo sarebbe molto importante».[1]

Pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico

Si organizza l’oblio per rafforzare e rendere adamantini i processi di alienazione delle esistenze. L’oblio pianificato non è solo la dimenticanza di sé, ma è rendere impossibile il presentare a se stessi l’identità comunitaria e linguistica, le quali, in quanto innominabili, insegnano l’incultura della decontestualizzazione acritica.
Si spingono verso il limbo dell’astratto professori ed alunni, in modo da decretare la fine della storia. Naturalmente il capitalismo assoluto dichiara in ogni modalità espressiva la fine della storia: pertanto la storia diventa disciplina superflua. La storia, invece, è forza plastica e vitale che mentre guarda al passato, si orienta al futuro. Si vuole giungere al termine di “ogni possibile”, di ogni transizione dalla potenza all’atto. In tal modo la temporalità si chiude su stessa, si rende monade senza passato e senza futuro.

I forchettoni

I forchettoni sono l’esempio simbolico e metaforico del nichilismo economico quale substrato della politica. Se per le “sinistre” è stato possibile adattarsi tanto facilmente al nuovo stato di cose post-1989 ciò è dovuto al fondamento economicistico e non veritativo che le ha connotate. Nel periodo immediatamente successivo la seconda guerra mondiale il nichilismo era contenuto dalla presenza di culture diverse, dalla memoria aggregatrice della Resistenza. Con la fine del comunismo storico novecentesco e, in assenza di ogni limite e di una autentica opposizione culturale e di massa nei confronti del liberismo edonistico, il nichilismo economicistico si è reso prevalente e tracotante.
Il termine forchetta già nell’immediato secondo dopoguerra denunciava la politica finalizzata al potere e non al servizio dei cittadini:

«Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, per “forchettoneria” s’intende, all’epoca, non tanto la ladroneria personale del politico, quanto piuttosto la sua voracità di potere istituzionale per il proprio partito e per se stesso in quanto uomo di partito. Ciò risulta chiaro dal referente in relazione a cui fu coniata l’espressione “regime della forchetta”: si tratta di un discorso di Scelba all’indomani del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, in cui quel ministro aveva dichiarato che il suo partito era autorizzato dalla sua vittoria su tutti gli altri nella competizione elettorale ad occupare i centri del potere pubblico a porre i suoi uomini alla testa delle aziende statali».[2]

Massimo Bontempelli riscontra le tracce del nichilismo, la lunga scia che ha portato all’attuale condizione, già nella logica del potere per il potere presente nei partiti della prima Repubblica:

«Forchettone è dunque, nell’accezione originaria del termine, colui che intende la politica come manovra volta all’acquisizione di quote di potere istituzionale, concepite anche come risorse da impiegare nell’attività a cui riduce la politica manovriera».[3]

La cannibalizzazione del pubblico

La spirale nichilistica attraversa la storia e presto il re sarà nudo: l’indebitamento pubblico, l’evasione fiscale, la normalità della corruzione condurranno a rendere sempre più esplicito l’esito nichilistico. Prodi rappresenta la trasversalità della logica acquisitiva ed economicistica, mentre è presentato dalla propaganda come il risanatore dell’Iri, ricoprendo l’incarico di dirigente liquidatore dal 1982 al 1989. In realtà la svende ai soliti noti. Ma c’è di più. Prodi è il punto di congiunzione delle destre con le sinistre, è un democristiano di “sinistra”. Prodi è il simbolo della perversa logica economicistica che attraversa l’arco dei partiti, ne è l’archetipo:

«L’Iri era allora carico di debiti, dovuti anche al fatto che vi si approvvigionavano i Forchettoni democristiani, così come i Forchettoni socialisti si servivano dell’Eni, dopo la morte di Mattei e l’estromissione di Cefis. Prodi è passato alla storia come il suo “risanatore”, che ne ha rimesso in pari bilanci grazie ad una competenza tecnica non succube della voracità dei partiti. Ma questa storia è una falsa leggenda, creata dalla stampa di proprietà dei poteri economici forti, la cui rapida circolazione e accettazione rivela quanto la figura pubblica di quest’uomo sia stata programmata per agire al servizio di quei poteri sotto l’opposta apparenza dell’indipendenza personale del “tecnico”».[4]

Il nichilismo acquisitivo assimila il pubblico a fini privati, lo divide tra i detentori del potere economico. Il fine è eliminare l’economia mista che si colpevolizza di ogni male per legittimare le logiche acquisitive ed individualistiche: è la premessa per l’aggressione alla Costituzione ed ai suoi valori comunitari.

I bombardamenti etici e l’astuzia conformistica

Un altro passo in avanti nella storia del nichilismo economicistico che funge da liquido fondamento del capitalismo si ha con la fine dell’Unione Sovietica e la corsa all’adattamento alla nuova contingenza storica: D’Alema ben rappresenta la fuga dalla realtà per il regno dell’astratto. Il nichilismo è la smaterializzazione di ogni contesto e senso, il soggetto prende le distanze dalla concretezza per ritrovarsi solo con la razionalità strumentale. D’Alema pur di conservare il potere si allea con la finanza internazionale ed accetta prono il bombardamento della Serbia (1999) a “fini umanitari”, la liquidazione dello stato sociale, il finanziamento alle scuole private:

«Fuori dall’ambiente politico non sarebbe nessuno, non saprebbe far niente. La sfera politica è la sua unica dimensione professionale. Si tratta, inoltre, non della politica intesa come fino a qualche decennio fa, non cioè della politica in senso etimologico del termine, ovvero di quell’attività che decide le sorti della polis, ma della politica in senso odierno del termine, come attività che, senza nulla decidere sulle sorti della vita collettiva, plasmate solo dalla dinamica autoreferenziale dell’economia, consiste nella lotta per la spartizione del potere di amministrare gli effetti sociali del meccanismo economico. D’Alema agisce come tutto il ceto politico di cui fa parte, esclusivamente entro questa cornice, che per lui, in particolare, è l’unico schema di realtà, cosicché ha potuto sviluppare il talento ad essa più congruo, appunto l’astuzia conformistica». [5]

Bontempelli definisce astuzia conformistica l’assenza di ogni fine etico e comunitario, la capacità tattica che si sostituisce alla politica, ad ogni valore oggettivo. L’astuzia conformistica è il carattere del nichilismo economicistico, vive e prolifera in un mondo di soli mezzi. E può farlo, poiché non discerne il bene dal male, ogni logica universale è sostituita dall’autoreferenzialità personale, dai propri interessi di carriera. Al partito dei tempi della forchetta, ora si è sostituito il carrierismo amorale personale.

 

Tatticismi e scacchiere

L’espressione massima del tatticismo nichilistico Massimo Bontempelli lo individua in Bertinotti che fa cadere il governo Prodi per aiutare D’Alema, che così accusa il massimalismo di Bertinotti ed appare, in tal maniera, come difensore dei diritti sociali, ma in realtà ha il solo fine di rafforzare la propria posizione di potere:

«Facendo cadere il governo proprio in quel momento, egli fa il gioco di D’Alema, che può così liberarsi di Prodi scaricandone la responsabilità sul massimalismo bertinottiano e apparendo addirittura il suo difensore. In questo comportamento di Bertinotti, se fosse davvero ciò che appare, cioè il rifiuto di sacrificare le ragioni sociali alle esigenze del compromesso politico, non ci sarebbe nulla di censurabile, per quanto D’Alema ne tragga vantaggio. Ogni lotta politica condotta per la giustizia sociale ha infatti ricadute indirette sulla scacchiera dei poteri istituzionali, da cui qualche giocatore di quella scacchiera viene svantaggiato e qualcun altro avvantaggiato, senza che ciò debba preoccupare, perché è quella scacchiera in se stessa che nei nostri tempi è nemica della giustizia sociale. Senonchè, come D’Alema appare in quella circostanza un difensore di Prodi contro Bertinotti quando in realtà si serve di Bertinotti contro Prodi, così Bertinotti appare radicalmente contrapposto a Prodi e a D’Alema, mentre non solo fa il gioco di D’Alema indirettamente, ma lo fa volontariamente in maniera tale da aiutarlo a vincerlo sulla scacchiera in cui viene giocato – scacchiera alla quale non è affatto disinteressato, ma al contrario molto interessato». [6]

In assenza di assi culturali ed assiologici non resta che il tatticismo, il gioco delle pedine. La razionalità nichilistica vive in un mondo di mezzi senza fini. In fondo il nichilismo, nella definizione nietzscheana, non è che l’assenza di fini.

 

L’omologazione della destra e della sinistra

Il fine di queste tattiche conformistiche è smantellare la Costituzione la quale – con la sua presenza giuridica, sempre più formale – rappresenta un limite all’aziendalizzazione integrale, vero ed unico fine dell’economicismo, e rappresenta e rammenta anche la resistenza culturale e civile all’integralismo del fascismo:

«Ogni Costituzione, si sa, è originata da un fatto storico: quello del testo del 1948 è la Resistenza uscita dall’antifascismo, quello del testo auspicato da D’Alema è una crostata uscita dal forno di casa Letta. Di fronte a tanta bassezza di mentalità, persino Occhetto (ed è tutto dire) sembra un gigante intellettuale quando osserva, intervenendo nella Bicamerale, che il testo in preparazione è costruito respingendo tutte le indicazioni dei giuristi pur di raggiungere un compromesso tra gli interessi diversi delle due coalizioni, tra aree diverse all’interno di ciascuna coalizione, e tra partiti grandi e piccoli partiti, e che ha per questo enormi incongruenze di cui è priva la Costituzione del 1948, in quanto nata da compromessi tra partiti, ma da un incontro tra tre culture, quella cattolica, quella marxista e quella liberale». [7]

Nel gioco del nichilismo destra e sinistra si ritrovano ad essere sostanzialmente interscambiabili, poiché sono accomunate dall’astuzia conformistica, dal tatticismo finalizzato al potere e specialmente perché sono entrambe organiche all’economia, in un circolo vizioso, in cui diviene difficile distinguere la politica dall’economia. La storia del nichilismo finisce con l’essere la storia del trionfo del capitalismo assoluto. Marino Badiale che ha condiviso con Bontempelli una parte della sua storia intellettuale, fa dell’autoreferenzialità la cifra della politica asservita al liberismo. L’autoreferenzialità implica il pervertimento della politica, perché il senso della politica è rispondere ai bisogni reali dei popoli. L’autoreferenzialità risponde solo alle carriere personali, alle ambizioni di piccoli gruppi mediaticamente onnipresenti:

«Al contrario, è proprio nella sua autoreferenzialità che la politica è funzionale alla logica profonda della fase attuale dell’economia capitalistica. Infatti, come abbiamo detto, la fase contemporanea è quella in cui l’economia del profitto si estende a tutti gli ambiti della realtà sociale piegandoli alla propria logica. La politica autoreferenziale non fa che giocare i propri giochi di potere, usando le carte che questa situazione le fornisce, e abbandonando così l’intera realtà sociale all’invasione devastante della logica del profitto. L’autoreferenzialità della politica è dunque nella situazione attuale, la migliore garanzia del procedere indisturbato dell’economia capitalistica». [8]

L’autoreferenzialità coincide con la crisi del linguaggio ridotto a distrattore di massa. La parola, non più dialogo, è solo un mezzo per distrarre le masse con la chiacchiera (Gerede), per spingerla verso temi che possano obliare le urgenze della vita. I potentati mediatici ed il clero orante sono lo splendore del nichilismo mediatico, del valore di esposizione che mentre illumina brucia significati e senso della realtà, e dunque la politica: tutto si consuma nel teatrino della parola-immagine che comunica la coazione a ripetere del sempre uguale senza prospettiva. La necessità di un linguaggio privo di contenuti è accentuata dalla globalizzazione che con il suo dinamismo estremo, non consente progettualità, ma esige adattamenti perenni per conservare il potere:

«L’unico modo per evitare questo grave rischio è allora non dire mai nulla, cioè usare un linguaggio completamente privo di contenuti razionali. Ai politici serve un linguaggio malleabile, manipolabile, piegabile all’esigenza del momento. I politici hanno bisogno di un linguaggio – argilla, che non faccia resistenza».

L’asse storico

La necessità di riportare la storia nelle scuole, nella formazione di ciascuno si rende evidente in questo breve iter dello sviluppo nichilistico. Capire la discesa verso il capitalismo assoluto, le sue contraddizioni ed i suoi inganni è la priorità del nostro tempo. Il riduzionismo applicato alla formazione, alle capacità critiche, lo smantellamento della scuola pubblica sono la realizzazione del modello liberista, il quale è oltre sia della destra come della sinistra, poiché non vuole altro che autoriprodursi omologando ogni centro di resistenza e pensiero, per cui destra e sinistra terminano la loro corsa nel ventre dell’ideologia dell’azienda per non creare più nulla. L’alternativa è il sovrapporsi di tanti visi tutti con le stesse finalità, per cui l’essere coincide con il nulla. Il trionfo del nichilismo, dell’assenza del fondamento veritativo, unica vera urgenza, non può che portare al trionfo dell’omologazione nel nulla. Il nulla dei volti come delle parole si sussegue con esiti esiziali. Se nulla accade, forse la causa profonda è l’assenza di ogni fondamento veritativo, di ogni dialettica della parola. La Filosofia e la storia sono trattate con sufficienza, ma la loro assenza nella cultura di un popolo ne decreta la sudditanza a logiche che ne minacciano la sopravvivenza culturale e biologica.

Il nulla non ha limite, è uno spazio infinito in cui perdersi. Affinché possa affermarsi una vita umana degna di essere vissuta è necessario che al caos si dia un fondamento, senza il quale non vi è progetto e non vi è storia.

L’asse storico è il terreno su cui ricostruire il fondamento veritativo, e per Bontempelli è l’antidoto al nichilismo crescente. Il bivio a cui siamo è tra un futuro nella storia ed un futuro senza storia. Il tempo storico necessita di riconciliazione, di trascendere le scissioni, per sostituire all’abbaglio del disvalore di esposizione dello spettacolo – che mentre illumina il narcisismo col suo niente brucia tutto intorno a sé – il principio di realtà che guarda gli effetti del saccheggio in assenza del senso veritativo.

Vorrei concludere ricordando un breve scritto di Gramsci, Il topo e la montagna, dedicata al figlio, sulla necessità di ricostruire dinanzi agli effetti del capitalismo acquisitivo:

«Carissima Giulia, puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di piú. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore. Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano. Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma dice che non serve a nulla correre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione dei bimbi. Ti abbraccio teneramente».

Senza la storia e la filosofia gli esseri umani non vedono le ossa della terra e dunque non se ne assumono la responsabilità. La svolta può avvenire in qualsiasi momento storico, poiché la minaccia è tale che è sempre più improbabile distogliere lo sguardo. Contro la cultura dei forchettoni, l’asse storico è un antidoto imprescindibile, poiché ricostruisce la genealogia dei processi del reale, permettendo la consapevolezza della gettatezza della propria condizione, e di elaborare risposte collettive:

«C’è però un ambito di studi che è capace di rammemorare, da un punto di vista diverso da quello filosofico, possibilità antropologiche cancellate dall’attuale distruttività sociale del mercato e della tecnica. Si tratta degli studi storici. Torniamo, per capirlo, agli esempi di prima. La possibilità dell’individuo di autodeterminarsi come soggetto libero, e la sua possibilità di partecipare a una sfera di finalità pubbliche separate dalla sfera privata degli interessi particolari, sono due grandi realizzazioni della civilità borghese moderna disperse dal totalitarismo del mercato e della tecnica. Perciò, lo studio storico della progressiva dissoluzione, per effetto del progressivo estendersi del capitalismo nella vita collettiva, dell’identità sociale e culturale delle classi borghesi, trasformate in meri aggregati di agenti atomizzati della produzione capitalistica, riconducendoci all’epoca in cui le classi borghesi si identificavano ancora con valori umanistici indipendenti dal mercato e dalla tecnica, ci consente di accedere alle possibilità antropologiche di cui abbiamo parlato. La conoscenza storica, d’altra parte, in un’epoca della cultura che non ammette più alcuna gerarchia ontologica dei saperi, rappresenta l’unico possibile riferimento unitario per settori disciplinari distinti. Ad esempio, saperi di tipo diverso come la geometria di Euclide, la statica di Archimede, l’astronomia di Aristarco, la filosofia morale di Epicuro, possono trovare una collocazione concettuale unitaria nella trama culturale del mondo storico ellenistico. Si delinea, così, la possibilità di un asse culturale dell’insegnamento delle discipline scolastiche costituito dalla conoscenza storica. Un grande valore educativo della conoscenza storica è, come si è visto, quello di far accedere a modi di essere umani che sono prima comparsi e poi divenuti inoperanti nel corso del tempo, e di cui sarebbe importante tornare a disporre per contrastare la degradazione della vita sociale. Ma non si tratta solo di questo. Si è visto, infatti, come il dominio totalitario sulla società di un meccanismo economico autoreferenziale richieda il contrappeso di uno spirito critico capace di relativizzare il primato del momento economico».[9]

La formazione storico-filosofica è dunque antinichilistica, poiché trascende le scissioni che non sono solo nella forma dell’atomismo sociale, ma specialmente si esprimono nella frammentazione della temporalità, la quale risulta in tal maniera ridotta al solo attimo consumante. L’educazione storica è dunque la condizione per formare al senso al quale si giunge attraverso la lettura della scissione nella storia.

Salvatore A. Bravo

[1] Massimo Bontempelli, La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2003, pp. 7-8.

[2] I Forchettoni rossi, con testi di M. Bontempelli, M. Nobile, M. Badiale, A. Marazzi, A. Furlan, Massari editore, 2007, p. 119.

[3] Ibidem, p. 129.

[4] Ibidem, p. 131

[5] Ibidem, p. 149

[6] Ibidem, pp. 159 160

[7] IIbidem, p. 157

[8] Ibidem, p. 218

[9] Massimo Bontempelli, Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, Petite Plaisance Pistoia, 2000, pp. 12-13.


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Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà.
Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo
.

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Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia.
Un manifesto filosofico della fine del XX secolo
.

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Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana

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Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria.
La filosofia del tempo tra memoria del passato,
identità del presente e progetto del futuro.

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Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia.
Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.

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Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male.

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Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945).

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Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.

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Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero.
Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

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Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.



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Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

L'albero filosofico del Ténéré

323 ISBN

Salvatore A. Bravo

L’albero filosofico del Ténéré.

Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve

Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt)
al fondamento veritativo
in Costanzo Preve

 

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il convitato di pietraL’ospite inquietante, il nichilismo, è fra di noi.

Perché possa esserci vita degna d’essere vissuta è necessario riportare il fondamento veritativo nella vita degli esseri umani. Costanzo Preve ha fatto dell’esodo dal nichilismo economicistico il telos del suo filosofare. Dalla periferia in cui si è posto ha guardato la complessità del problema e il suo volto meduseo, senza distogliere lo sguardo. Ha testimoniato con la vita e le opere che il nichilismo non è un destino, ma una condizione trasmutabile. Sentiamo l’assenza di uomini dalla passione durevole.

Questo testo è dedicato a Costanzo Preve e a coloro che vogliono accostarsi al problema avendo deciso di non distogliere lo sguardo, di non voler più vivere nell’indifferenza, in un mondo di sole merci.

 

convitato di pietra cop

Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo

 


 

Nel pensiero di Costanzo
che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, e…
Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno dei protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi*

Parole che ci ricordano quanto forte fosse in Costanzo Preve l’esigenza di saldare il passato al futuro, di leggere il presente con gli occhi del futuro, un presente che non dimentica il passato e sa trarne insegnamenti. Il futuro che trova dunque riverberi di senso in un passato e che – transitando per il presente – sembra attendere la sua ventura rammemorazione, orientando così il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo aspettative e speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Siamo una trama di significati. La storia è soprattutto trama di significati universali. E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino. La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali e, preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Siamo storia e siamo la nostra storia nella storia. Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro. Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”. Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione.Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” obliando che il senso profondo della cultura e della storia, anche della nostra storia, lo dobbiamo trovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato. Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.
E dunque, caro Costanzo, ad multos annos per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una sempre nuova “avventura” che occorre però desiderare (avventura, andare verso le cose future, ad ventura), impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita, proiettandola nell’altrove della buona utopia, che è negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta utopia comunitaria perseguita con itinerari da progettare insieme, non immemor aevi venturi. Ecco la sostanza della passione durevole che, a partire da Lukács, hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo, 2019

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].


Introduzione

«Una prospettiva di lunga durata. Dal momento che la storia non è caratterizzata dalla prevedibilità, ma dall’aleatorietà, non possia­mo sapere se il profilo culturale che proponiamo avrà successo o meno, resterà a lungo minoritario e marginale oppure si diffonderà in tempi non biblici. Non lo sappiamo. Teniamo però la barra del timone diritta, se siamo convinti di quello che pensiamo e soprattutto non giudichiamo i successi e/o i fallimenti con il parametro errato ed illusorio del cosiddetto “breve periodo”. La commedia del ciclo di illusioni e di successivi pentimenti ha già caratterizzato la generazione del sessantotto. Direi che ne basta ed avanza una».1

 

Costanzo Preve

 

Questo saggio è dedicato a Costanzo Preve
Non è stato un facitore di parole, ma un pensatore libero.

Mi sono dedicato alla lettura della sua produzione filosofica per una semplice ragione: leggendo i suoi testi ed ascoltando i suoi interventi, non poche volte ho sentito da lui pronunciare una frase, la quale è l’essenza del suo pensiero, e racchiude il telos2 del suo filosofare:

«Capire è molto più importante che appartenere».3

Per poter capire è necessario rimettere in moto con il pensiero la catena dei perché. La passione durevole per la Filosofia si struttura nella perenne domanda: “Perché?”. Si abbattono le abitudini, gli stereotipi di un sapere burocratizzato e parte del dispositivo di riproduzione sociale. Con la catena dei perché Costanzo Preve porta il lettore verso il riorientamento gestaltico. La domanda profonda è libertà nella mediazione concettuale domandante e senza di essa non vi è che l’animalizzazione dell’essere umano, il suo farsi ente ideologico negli automatismi della riproduzione sociale dei poteri e della produzione: il nostro è un mondo senza domande in cui regna la distopia dell’esattezza.

Preve ha scelto la Filosofia, non l’ideologia, la libertà, non il conformismo del “politicamente corretto”.

La disposizione alla libertà ha affinato la metodologia di indagine, per emancipare le domande dalle sovrastrutture ideologiche.

Se prevale l’appartenenza non si può filosofare: il filosofo è un cercatore peren­ne di concetti e superamenti.

Ci sono tanti modi di donarsi.

Costanzo Preve ha testimoniato la libertas philosophandi, ancora possibile, malgrado le burocrazie plutocratiche e mediatiche del sapere.

La postura periferica scelta da Preve, rispetto ai contesti strutturati delle accademie, ha consentito alla sua indagine di solidificarsi con il tempo senza chiusure. Pertanto, la sua priorità è stata: “Capire”. Ha sentito fortemente la vocazione politica e filosofica e, dato che filosofare è capire e vivere il proprio tempo, ha posto il problema del fondamento veritativo.

Trasgressivo – in un’epoca di nichilismo, nella quale la libertà è dimenticanza di sé e della propria identità umana – egli ha teorizzato l’uscita dal deserto del nichilismo, dell’alienazione, osando ricondurre la Filosofia nell’alveo della sua storia.

Contro la dispersione dei nichilismi, ha riportato in luce la verità quale fon­damento della pratica filosofica.

L’integralismo economicistico ha indotto a teorizzare il consumo dell’essere.4

Nella dipintura della Scienza Nova Vico utilizza un’immagine metaforica per rappresentare il suo progetto: il globo poggia di lato sull’altare e su di esso una donna simbolizza la metafisica. Il globo non occupa tutto lo spazio, ma lascia un ampio spazio libero, simbolo di libertà creativa.

La Storia è il campo del possibile che si coniuga con l’eterno (la luce). Nella contemporaneità la dipintura dovrebbe essere notevolmente diversa: l’economicismo potrebbe essere il globo che regge la nuova metafisica che a sua volta guida il mondo, ma che occupa tutto lo spazio dell’altare.

Nell’epoca dell’intemperanza, degli orci bucati,5 Costanzo Preve ha posto l’urgenza del problema: l’illimitato sta divorando la nostra natura umana ed il nichilismo di conseguenza va giudicato e compreso nei suoi effetti, per ipotizzare una collettiva via d’uscita dall’ospite inquietante.

In generale coloro che oggi si occupano di filosofia hanno legittimato il pensiero debole finendo in tal maniera per sclerotizzare il presente contribuendo alla sua riproduzione.

Costanzo Preve, dinanzi al bivio dóxa (opinione)/“lÉqeia (verità), ha scelto il percorso più difficile: si è assunto il rischio del nuovo e della verità.

Non si tratta di santificarne il pensiero e la testimonianza, operazione che ri­sulterebbe fortemente antifilosofica, ma di riconoscere un percorso, la cui onestà è di tutta evidenza.

Non oso propormi come esperto del pensiero di Costanzo Preve: l’abbondanza di fonti cartacee, digitali, mediatiche rende non semplice la genetica del suo pensiero.

Ho solo tentato di rintracciare – attraverso l’immagine del deserto in Nietzsche e nella Arendt – il processo genealogico di uscita dal nichilismo indicatoci da Costanzo Preve.

Nel deserto attuale, la Filosofia di Costanzo Preve è come l’Albero del Ténéré nel deserto del Niger: un punto di riferimento in quel nulla in cui tutti i grani di sabbia sembrano uguali. Per attraversarlo, per uscirne, occorre una bussola.

 

Salvatore A. Bravo

***
*

Note

1 Costanzo Preve, Torino, ottobre 2007.

2 Dal termine greco τέλος, “fine”.

3 «Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido» (C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6).

4 «Nel mondo filosofico italiano è stata dominante per almeno due decenni l’interpretazione di Heidegger data da Gianni Vattimo, un pensatore con cui sono in disaccordo radicale e nello stes­so tempo stimo come un produttore di proposte minimamente originali. Secondo Vattimo, Heidegger non avrebbe soltanto sostenuto che la lunga storia della metafisica occidentale si risolve in tecnica planetaria, ma addirittura che l’Essere si è consumato come fondamento ontologico ed è rimasto solo come prospettiva linguistica ed ermeneutica. Questo “consumo”, tuttavia, non deve essere vissuto come perdita da piangere in modo inconsolabile, ma come risorsa da valorizzare per un mondo post-metafisico. E sull’inesorabile avvento di un mondo post-metafisico da salutare come un destino e come una risorsa insieme sono d’accordo due fra i filosofi più conosciuti oggi al mondo, il tedesco Jürgen Habermas e l’americano Richard Rorty. Vorrei terminare questo terzo capitolo con una riflessione su questo punto. Io ritengo la teoria di Vattimo del cosiddetto “consumo” dell’Essere una formulazione spontanea (certamente inconsapevole e non avvertita come tale dal suo incauto formulatore) del segreto del momento storico che si sta aprendo, e cui accennerò nel prossimo capitolo. Non si tratta più del fatto, già noto agli antichi greci, che il tempo (chronos) ci consuma e ci divora e dunque ci trasforma in polvere» (ibidem, pp. 45-46).

5 «Socrate – Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui viene quella di cui ti ho appena parlato. Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi. Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?» (Platone, Gorgia, Acrobat in Internet, p. 26).

 


Indice

 

Venturi non immemor aevi
Introduzione
Il problema
Deserto e oasi
Nichilismo e macchinismo
Crescere senza nascere
La tecnoeconomia del nichilismo
Il nichilismo dello scambio interiorizzato
La categoria del possibile contro i nichilismi
L’oasi
La Filosofia come eterotopia
L’irrilevanza, paradigma del nichilismo
La megalopoli
La smart city
Intensità, estensione, automatismo
Behemoth
Il nulla nulleggia ancora
Guardare negli occhi il nichilismo/deserto
Nichilismo e riorientamento gestaltico
Misura, isonomia, isogoria, isorropia
Intermezzo
Oltre il nichilismo
Fuori dal deserto
Laico ma non ateo
Quale Rivoluzione?
La Filosofia: una difficile definizione
Conclusione
Indice dei nomi

 


Lalbero-del-Ténéré-1

L’albero del Ténéré (in francese arbre du Ténéré),

esemplare di Acacia tortilis (Acacia a ombrello), pianta che si ergeva solitaria nel deserto del Ténéré, una regione desertica nella parte centromeridionale del Sahara, nordovest del Niger. Costituiva un punto di riferimento per le carovane di cammelli che attraversavano questo deserto, in quanto non ve n’erano altri nel raggio di alcune centinaia di chilometri tutt’intorno.

 



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Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Superstizione scientista e verità
Salvatore A. Bravo

La superstizione scientista

La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica

*
***
*

L’epoca della superstizione è il “credo” senza la mediazione del logos. Scienziati ed economisti, ma non solo, assumono la postura riduzionista, ovvero non riconoscono la pluralità dei piani della conoscenza, giudicano il fondamento veritativo flatus vocis.
La verità ama la maschera affermava Nietzsche: la conoscenza è prismatica, da ogni piano traluce un aspetto fondamentale dei possibili, ma necessita dello sguardo della mente che, per giungere alla verità, individua la contraddizione della rappresentazione fenomenica.
Nei confronti della finitudine, vera sostanza della condizione umana, si può assumere una posizione di difesa (per cui si può rimuovere il problema per assolutizzare un piano e cadere nel riduzionismo) o aprirsi alla logica della modalità, dei potenziali aspetti conoscitivi che attraversano la condizione umana e non li esauriscono.
La Filosofia è disciplina del dialogo, insegna il logos, ma non vi è logos senza il limite, per cui il logos[1] è il ponte che pone in relazione con la dialettica, per trascendere i limiti.[2] L’epoca dell’assimilazione e del nichilismo economicistico – nel suo gran rifiuto della finitudine umana – tende a fagocitare ogni opposizione. L’onnipotenza dell’economicismo scientista non vuole vincoli e limiti, per cui – come un dio onnipotente – è autoreferenziale. Il Demiurgo platonico è ancora interno alla logica del limite, la chora (Χώρα) e le idee lo limitano. Lo scientismo economicistico ha piuttosto gli attributi del dio onnipotente, mondano ed unico: ambisce ad affermare se stesso ed a ridurre a nulla ogni posizione che si pone in dialettica con esso. Il primo suo imperativo è nell’affermarsi dell’unica conoscenza degna di tale nome, ovvero, la scienza. Pertanto la metariflessione – la riflessione teoretica sulla verità come fondamento – è tacciata d’essere semplicemente vuota astrazione, priva di ogni spessore conoscitivo e veritativo:

La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentaleLa filosofia parte in fondo da questa convinzione, che la verità sia da qualche parte e che basti colo contemplarla, utilizzando le apposite tecniche, per sapere tutto di tutto e definirsi filosofo […]. Matematica e filosofia hanno in comune il fatto che tutto si svolge a livello teorico, nel senso, che non appare necessario ricorrere a qualcosa di non mentale per trarre conclusioni e decidere che certe affermazioni sono vere oppure o no.[3]

La concretezza della Filosofia

La Filosofia non cerca la verità in giri di parole, in fantasie o in elucubrazioni scisse dalla realtà fenomenica. La Filosofia, anzi, è concretezza, perché opera sulle scissioni, ne ricerca il fondamento. Filosofare è soprattutto domandare, porre problemi che solitamente non sono osservati e tematizzati, perché si percepisce la realtà in modo depotenziato, secondo i dicitur imperanti, non cogliendo in tal maniera aspetti che, pur presenti nel nostro quotidiano, non sono percepiti ed ascoltati con l’occhio della mente, e dunque non sono problematizzati. La sospensione dell’agire poietico è la condizione imprescindibile del filosofare.
La verità, dunque, non è ricercata in mondi inesistenti, ma nell’orizzonte del corpo vissuto. Se poi si ritiene che la Filosofia almanacchi sull’iperuranio, è bene rammentare che il mondo delle idee platonico è la risposta al relativismo che rischiava di erodere il fondamento comunitario della polis.
Comprendere la filosofia, per quanto ciò è possibile, poiché si è sempre principianti in questa ricerca che è un’operazione concreta. Il pensiero non si genera dalla testa degli esseri umani all’improvviso, ma all’interno dei modi di produzione e non solo. Per cui ogni corrente filosofica e scienza, se scissa dalla storia, non è comprensibile.
Storia e correnti filosofiche sono due aspetti che non si possono separare, altrimenti la Filosofia diviene incomprensibile. Essa, se vera Filosofia, è risposta a problemi comunitari ed esistenziali che emergono nel farsi della storia.
Spesso si accusa la Filosofia di vuota astrazione, in quanto si è operato un’astrazione dalla storia, e questa è una legge della comprensione che si può applicare ad ogni sapere. Il regno dell’astratto della globalizzazione coincide con il declino della comprensione profonda. Al suo posto regnano dati, risultati, giudizi asettici, “fuori del tempo e dello spazio”, e quindi non compresi. Ne è un esempio il giudizio che Boncinelli dà sulle filosofie elleniche.
L’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo sono una risposta alla fine della polis, ad un mondo divenuto globale. Dinanzi alla minaccia di un mondo divenuto liquido, il fondamento comunitario della polis sopravvive nel giardino di Epicuro, comunità di amici della filosofia e nello stoicismo nei doveri verso la comunità. Per cui l’altro non è indifferente, ma si rimodulano le relazioni, a partire dalla relazione con il proprio io ed il cosmo. L’essere umano è apertura verso un’alterità, e tale apertura passa per la porta stretta del limite, per cui nessuna indifferenza, ma partecipazione razionale. Il giudizio di Edoardo Boncinelli non è condivisibile. Forse, addirittura, proietta l’indifferenza dell’attuale regno animale dello spirito nel mondo ellenico:

Della umana felicità si occupano, invece, lo scetticismo, lo stoicismo e l’epicureismo, anche se con sfumature diverse. La summa dell’insegnamento dei Greci (e dei Latini) per sopportare la vita e magari consolarsi dei suoi colpi è racchiusa in una massima geniale: Fregatevene! Questa suprema regola di saggezza, che tanto piace ai lodatori della filosofia in generale e della filosofia antica in particolare, può essere seguita senza troppo problemi se si esercita preliminarmente un’azione di deprezzamento e svilimento dei nostri desideri e passioni: per quasi nessuna vale la pena penare. In sostanza, per non soffrire occorre non dare importanza a niente o quasi. Questa è in nuce la tanto decantata funzione consolatoria della filosofia classica, che oggi alcuni filosofi d’oggi vedono con sospetto, ma della quale si è parlato e si parla spesso, e con nostalgia.[4]

Marx e lo spettro dei comunisti

Giudicare il pensiero di Marx è impresa improba, perché il sistema marxiano è un sistema aperto, lavora su stesso, poiché risponde alle mutate condizioni storiche, per cui l’eterno è in tensione creatrice con il transeunte. Il genetista –nel suo giudizio su Marx – preoccupato dalla presenza di pericolosi nostalgici, confonde, o associa in modo automatico, il comunismo reale ed il comunismo marxiano. Parafrasando Marx potremmo dire che egli teme che in Europa si aggiri, ancora, uno spettro: lo spettro dei comunisti. Marx non ha elaborato il suo sistema filosofico su fondamenta acquose, ma ha cercato di dare una risposta al bisogno di giustizia che ha attraversato la storia: ha immaginato, teorizzato la speranza sulla concretezza storica del modo di produzione. Non solo alla scienza spetta il diritto di “entrare nelle cose”, ma anche alla filosofia. È sicuramente diverso però il modo di porsi verso l’oggetto di conoscenza. L’approccio di Marx è sistemico/olistico, coglie il fondamento che dà senso e spiega il sistema capitalistico: associa al plusvalore l’alienazione:

A quelli che considero i pregi e i difetti delle idee di Marx ho accennato sopra. E ho attribuito il fallimento pratico del comunismo reale alla mancanza di conoscenza dell’animo umano da parte di sua. Ciononostante, la prese che le teorie di Marx hanno avuto sulla gente in giro per il mondo è stata veramente eccezionale e il marxismo ha assunto spesso connotati di fede religiosa, con il Diavolo rappresentato dal Capitalismo, e oggi dal cosiddetto neocapitalismo. Le idee di Marx sono molto bene elaborate e mostrano una volontà di entrare dentro le cose, ma non sono scienza, sono filosofia, e partono da assunti arbitrari ed indimostrati. Questo è molto piaciuto, e ha galvanizzato e infervorato molto menti, incluse quelle degli intellettuali più raffinati. È stato il suo carattere, a mezza via tra una buona novella e l’utopia, a far presa sugli animi, nella prospettiva di dare luogo a un sistema ideale e portare il paradiso in terra. Al punto da affermare che “Il privato è pubblico”, uno slogan particolarmente maldestro che ha rovinato tanti rapporti. E non è ancora finita. Anche se si dice che i comunisti non esistono più, molta gente soffre di struggente nostalgia e ispira la sua condotta al sogno di risuscitare tale ideologia. La parola “rivoluzione”, che tanto piace a quei popoli che amano l’idea dei miracoli, serpeggia di continuo nella mente, se non nel linguaggio di persone che ”sanno” e “hanno la ricetta”.[5]

Sfugge in queste affermazioni quanto la privatizzazione del pubblico, delle relazioni umane, e specialmente dell’aziendalizzazione dei servizi pubblici abbiano rovinato generazioni intere, popoli e culture. Naturalmente, se si ha un approccio finanziario legato al pareggio dei conti, la privatizzazione può sembrare un’ottima soluzione. Ma se si allarga l’orizzonte di percezione razionale ed empatica non si possono non cogliere gli effetti deleteri a livello sociale ed etico. Per cui ciò che sembra concreto, la finanza, in questo caso, o il dato empirico scisso dal tutto, si rivela astratto, pericolosamente astratto.

 

Il senso come forma dell’irrazionale

Se la concretezza riconosciuta dallo scientismo riduzionista è semplice dato verificabile in modo empirico, ogni problema sul fondamento ed il senso non ha ragion d’essere, anzi è rappresentato come semplice desiderio soggettivo e come tale non condivisibile. Il senso è racchiuso nella sfera dell’individuale irrazionale:

Aristotele non parla esplicitamente del senso degli eventi, forse perché nel vocabolario dell’epoca non figurava un termine specifico per designarlo. Molti ritengono, però, ovvio che, come tutto deve avere una causa o uno scopo, così tutto deve avere anche un senso; si arrovellano a cercarlo, e disprezzano e condannano chi tale senso non si preoccupa di cercarlo, come la scienza. Ma cos’è il senso? Più o meno sappiamo tutti di che cosa si tratta e cosa ci piacerebbe riuscire a trovare, ma se si entra nel dettaglio, la cosa si complica. Distinguiamo prima di tutto il senso di un’azione, individuale o collettiva, dal senso del tutto o anche della nostra vita. Dopo aver chiarito, se questo è possibile, il fine di un’azione consapevole, a noi piace anche giustificarla, agli occhi nostri ed altrui, anche diciamo su un piano etico, sulla base della sua rispondenza a un insieme possibilmente ordinato di valori che noi consideriamo validi, se non indiscutibili. Si tratterebbe, insomma, della sensazione di essere nel giusto e di fare qualcosa che vale, per noi e nel mondo, seguendo, però, un criterio esclusivamente nostro e di fare qualcosa che vale, per noi e nel mondo, seguendo, però un criterio esclusivamente nostro, ma vagamente giustificante e valorizzante. Nulla di oggettivo, quindi, ma psicologicamente molto gradevole. Siamo qui all’apoteosi del soggettivo travestito da oggettivo e solidale.[6]

Il problema del senso – che può sembrare soggettivo, perché viviamo in un’epoca di nichilismo realizzato, un’epoca che ha paura delle idee veritative –, in verità è il problema fondamentale della vita di una comunità, e non può essere lasciato, disperso nel relativismo organolettico, ma deve essere fondato con il logos, con la parola, nel fondamento della comune umanità. Altrimenti la scienza, pur con i suoi innegabili grandiosi risultati, non potrà che minacciare l’umanità. Da alcuna scoperta scientifica si può trarre il senso, esso riposa nella responsabilità della comunità, nella condivisione della ragione, la quale non è proprietà personale, ma possibilità di ciascuno che si potenzia nella relazione comunitaria. Il fondamento è il senso, senza il quale non vi è che l’esercizio della violenza nichilistica.
L’ostilità verso ogni sapere non strettamente empirico, impedisce di riflettere sui processi conoscitivi della scienza, la quale non coglie mai direttamente il dato, ma lo media attraverso l’osservazione, la quale non è neutra, ma orientata a cogliere aspetti e non altri, in relazione ai modi di produzione, alle esigenze del mercato, alle inconsapevoli pressioni sociali. Le neuroscienze studiano dell’essere umano aspetti utilizzabili dall’economia. Per cui la scienza è interna alle maglie del potere, non ha alcuna oggettività, è la scienza degli esseri umani, e non degli dei. La scienza, astratta dalla storia, è paragonabile alla la mosca nella bottiglia di Wittgenstein: guarda il mondo attraverso il vetro, si illude d’essere libera, ma è nella caverna della storia. Il compito della filosofia è indicare alla mosca “la caverna bottiglia” e la via d’uscita: bisogna scegliere se essere esseri umani o mosche. Il pungolo nella carne (Kierkegaard) non è oggettivabile, ma c’è. Rimuovere il bisogno di verità, sostituirlo con l’esattezza dell’algoritmo, non può che condurre alla disperazione, alla rivoluzione reazionaria di massa.
La verità è un’esigenza insopprimibile. Non è un caso che Hegel abbia posto l’arte, la religione e la filosofia, nello Spirito assoluto, poiché esprimono in forme diverse, con mezzi espressivi differenti «l’eternità storica» della verità. Non vi è umanità che nella ricerca della verità.
L’integralismo riduzionista deve condurre il complesso al semplice, agisce con il rasoio, elimina le variabili per poter dominare il reale e non essere turbato dall’imprevisto, dalla variabile che – come le onde del mare – restituiscono alla calma della battigia il fragore del nuovo. Anche Freud è giudicato inutilmente macchinoso, in quanto complica anziché esemplificare:

A prima vista sembra che la psicanalisi sia nata proprio per riempire il vuoto della nostra conoscenza dell’animo umano. E Freud è sempre stato convinto di aver costruito una vera e propria teoria (del modo di procedere) dell’animo umano. Ho scritto già tanto su questo argomento che non reputo necessario ripetermi. Quello che manca in questo caso è il rigore logico e la non contraddittorietà interna, anche se a livello narrativo Freud è uno scrittore drammatico di grande statura, alcuni concetti come “sublimazione” e forse “proiezione”, appaiono molto interessanti. A parte l’ulteriore moltiplicazione degli “inquilini” del nostro corpo mente, psiche, anima, inconscio e via di scorrendo niente si è chiarito della natura e della funzionalità della nostra “psiche”. Siamo sempre alla favolistica di Platone o alla dogmaticità degli Scolastici. Meno male che nel frattempo sono nate le neuroscienze che si presentano al momento come l’unico modo di affrontare seriamente lo studio dei moti del nostro animo![7]

 

Verità ed esattezza

È bene concludere con una precisazione filosofica che può avere valore anche per la scienza di cui la filosofia è amica: la differenza tra verità ed esattezza, la prima riguarda il fondamento logicamente accertabile, mentre la seconda riguarda la misura e prevedibilità degli eventi naturali, per cui alla scienza spetta il campo dell’esattezza, mentre alla filosofia il fondamento, il bene comune, ma non come dogmatica affermazione, ma come logica e razionale dimostrazione, passaggio per passaggio, in una coralità che non può che esserle imprescindibile:

In primo luogo il concetto di verità viene prima confuso, e poi identificato, con i concetti di certezza (sperimentabile), esattezza (verificabile) e veridicità (accertabile). Il fatto che Parigi sia la capitale della Francia, che la battaglia di Waterloo sia avvenuta nel 1815, che il pianeta Giove ruoti intorno al sole, che l’acqua bolla a cento gradi centigradi ecc., non dà assolutamente luogo a proposizioni vere, ma unicamente a proposizioni certe o esatte. Il modello fisicalista galileiano ed il modello sociologico weberiano non hanno a che fare con la verità, ma unicamente con la certezza e con l’esattezza. La “verità”, qualunque essa sia (ed io non penso affatto di disporne) concerne soltanto l’unione di fatto e di valore, e riguarda esclusivamente il benecomunitario condiviso e compreso. Chi pensa che la solidarietà verso chi ha bisogno sia una semplice “opinione”, mentre l’accertamento della rotazione della luna intorno alla terra sia “vera” (e vera in quanto effettivamente dotata di procedure di accertamento condivise dalla comunità degli astronomi) deve necessariamente disprezzare la filosofia. La cosa non sarebbe neppure grave (ognuno apprezzi o disprezzi cosa vuole) se non avesse terribili conseguenze sociali, per cui ciò che più conta per la riproduzione comunitaria complessiva diventa una semplice “opinione”, mentre la verità è riservata alle pratiche di laboratorio. In secondo luogo, il concetto di verità è temuto e disprezzato non solo come “residuo metafisico premoderno” (Habermas, ecc.), ma come fattore normativo autoritario. In nome del possesso della verità, infatti, potrei sentirmi autorizzato ad imporre norme giuridiche e costumi sociali autoritari, ed infatti è stato veramente così nell’esperienza millenaria europea dopo la fine del mondo antico. Ma questa indiscutibile rilevazione storica non deve, a mio avviso, delegittimare l’idea di verità. L’acqua sporca deve essere gettata via, ma non si getta il bambino con l’acqua sporca. Ci ritornerò nei prossimi capitoli, perché qui sta ovviamente il cuore della questione. Per ora mi basti ricordare al lettore la ragione della relativa lunghezza di questo capitoletto; se Ratzinger è per la legittimazione della categoria filosofica di verità, mentre i cosiddetti “laici” sono di fatto per il fisicalismo e per il relativismo, non ho dubbi. Pur essendo un allievo critico di Spinoza, Hegel e Marx, e non un pensatore cristiano, e neppure cattolico, sto dalla parte di Ratzinger. E non mi chiamino – per favore – “ateo devoto”! [8]

 

La mia filosofia

La mia filosofia

Il pungolo nella carne

Un mondo della sola esattezza non può che essere un mondo senza politica, senza giustizia, ma del solo dominio. Solo la verità può consentire la politica al servizio della comunità, un mondo della sola esattezza è un mondo ateo, perché privo della verità, nel quale nessuno è protetto. L’esattezza scientifica e dell’economia prive del fondamento, mentre affermano risultati strabilianti, conducono il pianeta verso l’apocalisse. L’esattezza lasciata a se stessa, priva del senso, non può che condurre al Prometeo scatenato, alla vergogna prometeica, che attende la verità per essere emancipato dalla distopia della sola esattezza. Se si sposa la tesi che solo l’esattezza è legittimata ad essere, si termina per dividere la realtà tra l’esattezza millimetrica e l’irrazionale, senza comprenderla nelle sue necessità profonde, non ascoltando il bisogno di verità e speranza che rende la vita veramente umana:

Per l’intelletto che ha come mèta e come punto di vista l’esattezza il resto vale solo come sentimento, come soggettività, come istinto. Con questa bipartizione, accanto al mondo luminoso dell’intelletto, rimane solamente l’irrazionale, nel quale viene a sboccare tutto ciò che, secondo le circostanze, viene disprezzato o portato alle stelle. Intanto bisogna riconoscere che l’esattezza pura e semplice non ci appaga. E il movimento, che, nel pensare, va alla ricerca dell’autentica verità, nasce appunto da questo inappagamento. […] La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.[9]

Un’esistenza senza verità, un’esistenza della sola esattezza, un’esistenza che non si ponga il problema della verità con le sue domande, a volte senza risposte, ma che proprio per questo umanizzano, è indegna di essere vissuta, poiché l’essere umano e la comunità a cui appartiene si ritrovano ad essere oggetto di calcoli scientifici ed economici, senza essere mai protagonisti della propria vita, della propria storia. L’esattezza misura, resta nel campo della pura strumentalità, mentre la verità stabilisce i fini oggettivi senza i quali non vi è che il regno animale dello Spirito. Assurda è la contrapposizione tra verità ed esattezza. In realtà l’una necessita dell’altra, perché la vita è complessità dinamica, e l’essere umano resta un animale metafisico per il quale i mezzi sono importanti, ma per la sua vita la verità è necessaria come l’aria che respira.

Salvatore A. Bravo

 

 

[1] λόγος, dal greco λέγω [légο] raccontare, parlare.

[2] Katéchon, dal greco antico τὸ κατέχον, ciò che trattiene dal caos informe.

[3] Edoardo Boncinelli, La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale, Raffele Cortina Editore, Milano 2018, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 57.

[5] Ibidem, pag. 183.

[6] Ibidem, pag. 52.

[7] Ibidem, pag. 182.

[8] Costanzo Preve, Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo.

[9] Karl Jaspers, La mia filosofia, trad. di R. De Rosa, Einaudi, Torino 1946, pag. 26.


Costanzo Preve



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Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Coding

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Salvatore A. Bravo

La pedagogia del coding

 

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Gli oratores sono al capezzale del capitalismo assoluto: la pedagogia ed i pedagogisti sono parte essenziale della sovrastruttura che contribuisce ad eternizzare il capitale. Il pensiero computazionale è l’ultima strategia per introdurre l’intelligenza di Stato attraverso una serie di pratiche metodologiche. Si vuole orientare l’intelligenza, che notoriamente è al plurale nelle sue forme, verso un modello organico al capitalismo. Il pensiero computazionale è molto più che una procedura di analisi, esso struttura, standardizza la personalità, la quale deve procedere e muoversi nel quotidiano secondo le procedure algoritmiche. L’introduzione-imposizione è organizzata con un artificio ideologico, ovvero si afferma di voler affinare la creatività, che il pensiero computazionale è imprescindibile per rivoluzionare in senso creativo la didattica e le personalità. Naturalmente è il cavallo di Troia, con cui riaffermare le pratiche del mercato all’interno della scuola e ridimensionare, fino a rendere complementare la formazione dell’essere umano: in sua vece vi è l’addestramento al mercato. Se fosse stato autentico l’intento di sollecitare la creatività, la scuola per tradizione ha innumerevoli potenzialità già in atto in tal senso: la lettura del classici, la traduzione, il dialogo quale buona pratica, le discipline artistiche.

Pensare come una macchina
Le macchine informatiche per risolvere problemi scompongono, analizzano le varie fasi, per individuare la soluzione finale. Si tratta di problemi empirici che presuppongono un orientamento lineare. L’azione della scomposizione, astrazione, generalizzazione sostanzializzano la logica del problem solving, per cui il soggetto macchina è interno alla realtà empirica, il suo l’orizzonte deve limitarsi ad una gittata limitata, deve agire all’interno di un cono poietico. L’essere e la macchina si avvicinano, la differenza qualitativa si assottiglia in favore della differenza quantitativa sempre più limitata. La scuola, in questa prospettiva, sin dalla più tenera età deve formare non la persona, ma il programmatore, deve in tal maniera canalizzare l’intelligenza con le sue innumerevoli sfumature e potenzialità verso un modello unico: l’uomo seriale da laboratorio diviene il fine di tale operazione. In un contesto in cui arretra il pensiero metafisico-teoretico a favore degli automatismi procedurali, nel quale ogni problema etico o politico è esemplificato, qualora si ponga il problema, l’introduzione obbligatoria con la legge 107 del pensiero computazionale, assume in tale contesto una valenza regressiva. In presenza di una formazione finalizzata all’uomo ed al cittadino, allo sviluppo delle intelligenze plurali, il pensiero computazionale avrebbe un’altra valenza, ma in un contesto di scientismo, di riduzione di tutto alla sola categoria della quantità, il pensiero computazionale assume un’inquietante presenza: il fine non è il pensiero critico, il quale necessita del pensiero complesso e della metariflessione finalizzata a pensare contenuti e metodologie di indagine, ma formare individui pronti all’uso per il sistema, e che pensano secondo procedure stabilite dal sistema. Tale operazione è da mettere in pratica sin dagli anni della scuola primaria, per plasmare le menti del cittadino-suddito futuro ad immagine e somiglianza del sistema capitale. La formazione della persona necessita dello sviluppo delle capacità linguistiche-relazionali, nel caso del pensiero computazionale la lingua (inglese) è solo una strumento positivistico per raccogliere dati, selezionarli, elaborarli in vista di problemi puramente empirici. Immaginiamo un contesto di svantaggio culturale sempre più diffuso, la vera urgenza sarebbe potenziale la formazione linguistica e relazionale: pertanto non si vuole rispondere alle reali esigenze educative degli alunni, ma semplicemente si vuole imporre dall’alto un sistema scolastico che soddisfa i bisogni del mercato.

Coding: la definizione degli esperti
Jeannette Wing in un articolo del 2006, Computational Thinking, ha definito il pensiero computazionale: «È quel processo mentale che sta alla base della formulazione dei problemi e delle loro soluzioni così che le soluzioni siano rappresentate in una forma che può essere implementata in maniera efficace da un elaboratore di informazioni sia esso umano o artificiale».
Nella guida per gli insegnanti Computing At School [3, p. 6] si definisce il pensiero computazionale come un «processo cognitivo e di pensiero che coinvolge logiche e ragionamenti attraverso i quali i problemi sono risolti e gli artefatti, le procedure e i sistemi compresi». Le abilità di riflessione computazionale devono diventare la struttura della personalità, infatti: «si riferiscono a capacità di pensare e risolvere problemi in tutto il curriculum e nella vita in generale. Il pensiero computazionale può essere applicato a una vasta gamma di manufatti».

 

Il principio di prestazione
Si tratta dunque di un pensiero e di una percezione dell’empirico finalizzata alla soluzione di problemi empirici per superare ostacoli organizzativi e produttivi. Il fine educativo è la prestazione. Con il pensiero computazionale si vuole non solo inibire l’intelligenza non organica al sistema, ma specialmente esso è la precondizione per la competizione globale. Nella lotta darwiniana per il pensiero computazionale è la riserva aurea che forma all’atomismo sociale, in quanto anche quando presuppone la collaborazione, essa non è un valore in sé, non si trasforma in solidarietà, ma è la giustapposizione di individui che devono risolvere un problema in funzione di un obiettivo legato alle sole logiche della produttività: la formazione all’imprenditore si integra con il pensiero computazionale. La razionalità strumentale è il presupposto del pensiero computazionale. Naturalmente una volta che l’obiettivo è stato raggiunto il gruppo si disfa. Ci si trova dinanzi a una nuova forma di repressione disciplinare. Il capitale necessita che il suddito consumatore trovi sempre nuove strategie di vendita, produca nuovi prodotti senza mai mettere in epochè la procedura. L’attore e lo spettatore sono così speculari, immediatamente biunivoci, per cui ogni dialettica concettuale è rimossa. L’efficienza è l’obiettivo finale, se il soggetto in tale contesto sia protagonista o oggetto è un dettaglio. Il potere non usa il terrore, ma la formazione per canalizzare i soggetti verso le necessita attuali del modo della produzione:

«Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. Indagare quali sono le radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea, teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o non usa, o di cui abusa, per migliorare la condizione umana. Ma quali sono i criteri di una critica del genere?». [1]

 

Il coding come dispositivo
Il coding diviene l’introiezione della macchina informatica (Gestell/dispositivo): attraverso di essa il potere diventa biopotere, poiché il soggetto pensa come una macchina, domina le contingenze con l’ausilio di strumenti tecnologici che comprende, anche perché ragiona e procede in modo simile, l’automazione è nella carne, l’ordine da dare al mondo ha trovato un protocollo universale:

«L’Io diventa precondizionato a dominare l’azione e la produttività, anche prima che si presenti un’occasione specifica che renda necessario questo atteggiamento. Max Scheler ha rilevato che “l’impulso o la volontà di potenza, consci e inconsci, che tendono a dominare la natura, sono il primum movens” nella relazione dell’individuo moderno con l’esistenza; essi strutturalmente precedono la scienza e la tecnica moderna – un precedente “pre- e a-logico” rispetto al pensiero e all’intuizione scientifica. La natura viene esperita a priori da un organismo teso alla dominazione, e quindi intesa come passibile di dominio e controllo. E il lavoro è quindi potenza e provocazione aprioristiche nella lotta con la natura; è superamento di resistenza. In un simile atteggiamento, le immagini del mondo oggettivo appaiono come “simboli di punti di aggressione”; l’azione appare come dominio, e la realtà in sé come “resistenza”. Scheler chiama questo modo di pensare “conoscenza attrezzata per il dominio e la realizzazione” e vede in esso il modo specifico di conoscere che ha improntato lo sviluppo della civiltà moderna».[2]

La rivoluzione reazionaria del coding
Il coding ha un fine sottilmente reazionario: eternizzare il presente espellendo le procedure disfunzionali alla produzione ed al consumo. La forza del nuovo sistema formativo “coding” è nel silenzio di ogni opposizione, non si pone il problema se esso sia funzionale ai bisogni del cittadino o del mercato, poiché “in ogni parte politica” si sovrappone politica ed economia, anzi l’economicismo, il martello dell’economia, come afferma Latousche guida tutti, per cui la cittadinanza è nella sola forma del mercato, non più cittadini dello Stato, ma del mercato:

«La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata; l’accettazione generale dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte, sono altrettante testimonianze di quell’integrazione degli opposti che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo».[3]

 

Disellenizzare
Il coding è una modalità per ridurre ulteriormente la formazione ellenica, la quale invece come ben rappresentano i dialoghi platonici è al plurale: essi sono una rappresentazione spaziale del pensiero, ovvero il confronto dialogico è incontro tra prospettive teoretiche differenti su diverse tematiche. Nel dialogo il logos esplora i fondamenti dell’empirico, in questo passaggio il soggetto passa da una conoscenza oscura, in cui rischia di naufragare ad una conoscenza teoretica che lo rende attivo rispetto all’esperienza sensoriale e storica. La cultura umanistica di per sé procede già alla scomposizione, ricomposizione, astrazione e generalizzazione, ma ha il fine di capire se stessa, di autofondarsi in modo universale per favorire lo sviluppo della virtù di ciascuno. Lo scopo non è semplicemente il risultato empirico, ma la conoscenza di sé e del mondo. La riflessione collettiva su dati e procedure è pensiero critico capace di fondare modelli politici, ma anche di ritornare all’empirico rigenerati dall’esperienza del teoretico.

Seymour Papert il maggiore assertore della pedagogia del coding così descrive la finalità di tale pratica pedagogica:

«Quale è la Sua opinione sull’uso delle nuove tecnologie nella didattica?
Risposta
Quando parliamo di nuove tecnologie nella scuola è importante chiarire se si parla di una prospettiva a lungo termine – cosa succederà tra dieci o venti anni – o se si parla di cosa accadrà domani. Usiamo questa metafora: immaginiamo delle persone dell’Ottocento che abbiano viaggiato nel tempo per vedere come si fanno le cose al giorno d’oggi. Tra loro c’è un chirurgo, e immaginiamo il chirurgo dell’Ottocento in una moderna sala operatoria: egli sarebbe del tutto disorientato, non avrebbe la più pallida idea di che cosa stia succedendo, con tutti quegli strumenti elettronici che suonano. Penserebbe che il paziente è morto, non saprebbe nulla dell’anestesia. Questo è quello che io chiamo un ‘mega-cambiamento’: noi assisteremo ad un mega-cambiamento nell’educazione; e cambierà tanto quanto sono cambiati i trasporti o le telecomunicazioni. Ci inganniamo se crediamo che ci saranno solo pochi, piccoli, cambiamenti. Quali sono i grandi cambiamenti? Io penso che la scuola si fondi sul modello di una linea di produzione in cui si mettono delle conoscenze nella testa delle persone. Si comincia con la prima fase e poi si passa alla seconda fase e si distribuisce un poco di conoscenza alla volta. Si passa dalla prima alla seconda alla terza, e tutto questo è necessario perché si pensa che gli insegnanti debbano insegnare un po’ per volta. Adesso i ragazzi non hanno più bisogno di acquisire nozioni in questo modo, e con la moderna tecnologia dell’informazione possono imparare molto di più facendo, possono imparare facendo ricerca da soli, scoprendo da soli. Il ruolo dell’insegnante non è quello di fornire tutte le parti della conoscenza ma di fare da guida, di gestire le situazioni molto difficili, di stimolare il ragazzo, forse, di dare consigli. Ma questa è un’immagine della scuola del tutto diversa. Io penso che il vero problema sia come agiamo oggi avendo in mente questa prospettiva a lungo termine, perché non possiamo cambiare la scuola dall’oggi al domani, non si può realizzare un megacambiamento dall’oggi al domani; si possono solo fare piccoli cambiamenti. Ma dobbiamo smettere di pensare che questi piccoli cambiamenti facciano fare pochi progressi al sistema così come lo conosciamo. Bisogna pensare ai piccoli cambiamenti come passi verso il grande cambiamento che avverrà».[4]

Il coding è costruzionismo attivistico
Il coding è costruzionismo attivistico. Dovrebbe correggere le cattive impostazioni della scuola, in cui gli alunni sono oggetto di modalità educative che li rendono passivi. Molto probabilmente il pedagogista generalizza e non conosce i casi specifici nazionali, o giudica l’esperienza nazionale ormai superata, poiché l’attività critica è il fondamento della cultura liceale italiana, la quale non teme di confrontarsi con il coding e la sua lingua, ma il pericolo è la marginalità della tradizione classica dinanzi alla capillare pervasività delle nuove e buone pratiche della buona scuola. Dinanzi a tali pericoli è necessario vagliare le nuove disposizioni ministeriali per limitarne gli effetti e dare ad esse un equilibrato peso didattico, per cui spetterà ai docenti, ancora una volta, difendere la cittadinanza dall’intelligenza ad una dimensione e specialmente cogliere che il coding è una pratica antifilosofica, poiché essa nega la riflessione sui fondamenti ultimi, per rafforzare l’attività del problem solving il quale è una delle possibilità del pensiero, ma non la sola.

Al coding si può opporre la cultura classica
Al coding si può opporre l’eros platonico che insegna non solo la conoscenza di sé, ma specialmente l’apertura all’universale, allo spazio pubblico contro ogni chiusura acquisitiva: in un momento della nostra storia nel quale la produttività fine a se stessa è un’utopia che si è ribaltata in distopia minacciando la vita del pianeta, necessitiamo della cultura classica e non solo, per pensare e rigenerare il mondo, per modificare paradigmi e visioni ormai obsolete.
La cultura classica disseminata può ancora parlarci del nostro futuro, poiché è portatrice di verità eterne.

Salvatore A. Bravo

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***
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[1] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1955, pag. 42.

[2] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1955, pag. 22.

[3] Ibidem, pag. 43.

[4] Fonte: http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=259&tab=bio

 

 

 


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Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo

La laicità all’epoca dell’integralismo laicista

 

 

 

Pifferaio-Magico-Vetrata

La normalizzazione laicista
La secolarizzazione del capitale non ha fondato la laicità, ma una nuova forma invasiva e infiltrante di clericalismo: i nuovi chierici non sono identificabili in una casta, in una lobby, sono trasversali, sono l’asse diffuso del nuovo “potere capitale” disciplinare e penetrante. Il circo mediatico laicista si struttura in modo sempre pervasivo: accademici, economisti, burocrati dell’economia, politici dal credo-pensiero unico, tutti nichilisti sempre pronti al trasformismo, sono la struttura ed il veicolo che inibisce ogni spazio plurale, lo riduce ad un’operazione di marketing, a plusvalore, ad un’operazione di perenne sussunzione. Il linguaggio dell’aziendalizzazione, della compravendita, l’inglese organico alla globalizzazione estendono le loro maglie d’acciaio: la rete informativa in nome del capitale trova nelle istituzioni pubbliche fiancheggiatori che diffondono il linguaggio e la lingua del mercato. Si osanna l’inclusione mediante la normalizzazione delle prestazioni: per essere normali ed inclusivi si fa appello sempre ai diritti individuali. Si forma all’orientamento accondiscendente, ovvero ad adattarsi alle esigenze del mercato, mentre i servizi pubblici, i servizi alla persona – vera precondizione di ogni democrazia – sono curvati sulla privatizzazione, sui bilanci. Il pubblico con i suoi servizi non rappresenta l’alterità rispetto al privato, ma nel pubblico l’organizzazione lavorativa ed i fini sono i medesimi del privato: pertanto la laicità scompare, si eclissa nel gioco ideologico della propaganda.

Gli oratores del circo mediatico laicista
La laicità non è semplice laicismo anticlericale. L’integralismo attuale trova nella religione una contraddizione, per cui i clerici mediatici e disinibiti abbondano in notizie sui crimini della chiesa, mentre tacciono dei crimini che quotidianamente avvengono in nome del capitalismo assoluto, in primis i crimini ambientali, i migranti ridotti in stato di schiavitù effettiva, i popoli declassati a plebe in competizione.

Costanzo Preve così definisce gli oratores del circo laicista:

«L’attuale “laicismo”, sotto la veste di una semplice neutralità dello “spazio pubblico”, riprende gli aspetti peggiori delle riduzioni illuministiche e positivistiche della religione. Le ragioni di questo, però, devono essere cercate al livello marxiano della struttura, e non della semplice sovrastruttura. Il clero (oratores) è stato per quasi mille e cinquecento anni essenziale per la riproduzione della società tripartita feudale, in quanto anello di collegamento ideologico fra la classe feudale-signorile dominante (bellatores) e l’insieme delle classi dominate (laboratores). Oggi però non è più così. Oggi il clero di collegamento è costituito da tre settori distinti ed interconnessi del tutto post-religiosi, il ceto politico professionale di intermediazione, il circo mediatico di simulazione e di manipolazione, ed infine il clero universitario di gestione della divisione del lavoro intellettuale, che viene ricomposto ex post dalla riproduzione della sintesi sociale capitalistica unificata».[1]

La parola laico deriva laico deriva dal gr. laïkós ovvero “del popolo”; popolo è da intendersi come luogo immanente nel quale le differenze entrano in tensione per trovare la sintesi. In quest’ultima, le posizioni non sono superate o trascese in formule astratte, ma sono sublimate in concrete determinazioni sempre riformabili. La laicità non è da intendersi, in modo semplicistico ed ideologico, in opposizione al clericalismo delle chiese. La cultura laica non ammette forme di sussunzione. La laicità è cultura dell’incontro senza obblighi, dal quale non si esce che modificati con l’attività della prassi, della parola e del dialogo. Laicità non è ateismo, rinuncia alla verità, per cui il soggetto è lasciato in solitudine alla mercé del mercato o delle forze economiche, laicità è ricerca collettiva di un fondamento comune, della verità. Non vi è comunità senza la ricerca dei processi di riconoscimento ed autoriconoscimento, che formano al senso del limite mediante la parola che – liberata dalle pastoie del calcolo, della razionalità strumentale – consente di riconoscersi nella verità senza dogmi. Laico è il popolo nell’incontro dialogico: ciò presuppone la teoretica del limite e della comunità. Nello spazio liberato dalla verità amministrata da una parte contro le altre, vi è la consapevolezza che il limite necessita della comunità, per completare, per definire, per attivare orizzonti di possibilità sul fondamento del riconoscimento della condizione umana.

La laicità non è ateismo
La Laicità è divenuta sinonimo di ateismo, poiché in tal modo è funzionale alla logica della mercificazione: in nome della laicismo ogni limite al mercato è ideologicamente tacciato di autoritarismo. La laicità è stata svuotata del suo senso, per essere il piano liscio nel quale le merci devono scorrere, i desideri incontrollati devono essere soddisfatti. La struttura economica della globalizzazione ha nel laicismo nichilista la sua sovrastruttura. Ogni discussione sugli effetti ambientali, etici, culturali è neutralizzata con accuse di controriformismo o di integralismo. Prassi e laicità, invece, sono speculari. La prassi (dal gr. πρᾶξις «azione, modo di agire») – in quanto trasformazione dei comportamenti – è laica, perché riguarda tutti, necessita della parola significante di ciascuno. La parola laica soprattutto sospende i dogmi correnti per ripensarli, essa è rigenerazione collettiva, spazio pubblico nel quale il privato ritrova la sua concretezza nella relazione. È il tempo strappato alla cronologia per essere tempo cairologico (καιρός), tempo qualitativo, in cui è possibile conoscersi e conoscere. I corpi medi sono la sostanza istituzionale e giuridica della laicità, in essi la parola ritrova la sua profondità, la politica governa l’economia. Nei corpi medi – partiti, sindacati, associazioni – la laicità ha la sua espressione massima, perché in essi si pensa e si discute, per vagliare criticamente l’operato politico: per cui sono i luoghi dove l’economia è posta al giudizio della politica, dove si progettano alternative.

La Costituzione italiana è fondata sulla laicità
La Costituzione italiana è fondata sulla laicità: essa è l’effetto consapevole dell’esperienza del nazifascismo nel quale la volontà e l’autonomia della persona è stata negata. L’integralismo è trasceso mediante la cultura laica, la quale è disponibilità all’ascolto. Non vi è competenza più ardua e difficile dell’ascolto dell’altro, ma non vi è altro modo per umanizzarsi, per diventare persona e non il suo mero simulacro. L’a priori della democrazia, per sua natura plurale e laica senza relativismo, è la scuola. Non è un caso che la Costituzione consente l’istruzione privata, ma senza oneri per lo Stato, poiché la scuola pubblica è in una posizione etica superiore rispetto alla scuola privata e confessionale, in quanto permette la formazione all’incontro, fa della dialettica della mediazione il fondamento del vivere civile. Rodotà evidenzia che nel 1964 si tentò di finanziare la scuola privata, ma tale manovra fu contrastata e cadde il governo. Era stridente l’incostituzionalità del finanziamento con i dettami della Costituzione:

«Le cronache di quegli anni sono piene di episodi significativi, alcuni dei quali politicamente rilevanti. Il 25 giugno 1964 il primo governo di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, viene costretto a dimettersi dopo essere stato battuto, per 7 voti, in una votazione sul finanziamento di 149 milioni alla scuola privata, che il ministro socialista del Bilancio e della Programmazione economica, Antonio Giolitti, aveva ritenuto in contrasto con l’articolo 33 della Costituzione, dove si stabilisce appunto che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza onere per lo Stato”».[2]

Democrazia censitaria e laicità
L’attuale finanziamento alle scuole private (il primo finanziamento fu attuato nel 2000 da un governo di centrosinistra) è sicuramente la spia lapalissiana dell’arretramento della cultura laica a favore della democrazia censitaria atea e laicista. Le scuole private sono state finanziate dai governi nominalmente di sinistra in connubio con la finanza. Si voleva, per erodere voti alle destre, far dimenticare agli elettori di essere stati comunisti: ciò ha portato a picconare il fondamento della democrazia. In assenza di fondamenti e progetti la politica svende gli ideali più alti per calcoli elettorali immediati. L’aggressione alla scuola pubblica, è attacco frontale alla democrazia, perché in essa si diventa cittadini e non sudditi del mercato o di qualsiasi altra ipostasi:

«La scuola pubblica è un luogo dove si entra per formarsi attraverso la conoscenza, il confronto, il coltivare lo spirito critico. Ed è nella natura sua, come dell’intero processo democratico, che ciò significhi esposizione di tutti e di ciascuno al mondo ricco e molteplice delle informazioni e delle idee. La scuola è tramite tra le culture, che solo così possono riconoscersi e sfuggire alle trappole del multiculturalismo identitario, dove la cultura dell’altro è vista come minaccia e si rinuncia a priori alla sua comprensione e condivisione». [3]

 

La scuola laica come organo costituzionale
Calamandrei definisce la scuola organo costituzionale, essa è il substrato della democrazia e della cittadinanza. La scuola è esercizio della parola, di contenuti, è sospensione dei dogmi. La scuola non insegue il mondo, ma lo pensa, lo rigenera per dargli vita. Come l’anima di Plotino è la luce che filtra nell’aria, essa insegna a vedere con gli occhi dell’anima. Non è il luogo del selfie, ma di dibattito, impegno, e disciplina, perché non vi è parola di senso se non è attraversata dal libero ordine delle idee. In essa si dovrebbe imparare a pensare criticamente:

«Con questa intuizione felice, Pietro Calamandrei parlò della scuola come “organo costituzionale”. E quella intuizione è stata confermata via via che diveniva sempre più evidente il nesso tra scuola e democrazia: l’istruzione è un diritto fondativo del modo d’essere cittadini, dunque una precondizione della democrazia; la scuola è il luogo dove ci si forma, si acquisisce sapere critico. Se, invece, si imbocca la strada della pura competitività aziendale, e si offre un incentivo economico alla creazione di scuole separate, dove ciascuno rinsalda la propria appartenenza (religiosa, etnica, ideologica, localista…), si contraddice proprio questo programma democratico e la scuola perde definitivamente la possibilità d’essere il momento in cui si avvia la costruzione dell’uguaglianza, del riconoscimento degli altri. Si frantuma in mille ghetti, luoghi di incubazione dei futuri conflitti. Tradisce la funzione che, più di prima, dovrebbe avere in società inevitabilmente pluralistiche, quella di rappresentare uno dei luoghi essenziali di unificazione e confronto. La scuola è sicuramente uno dei luoghi che ci portano a ripensare la nozione di laicità, che deve essere arricchita, sviluppando i motivi che la fondano, che sono insieme, la negazione del confessionalismo, il rifiuto dell’intolleranza. Il riconoscimento delle minoranze. Se la scuola, come altri luoghi del “pubblico”, non rende possibile il confronto, allora nella società rischiano di affermarsi con prepotenza le forme di una separazione non più benefica occasione offerta a ciascuno di conservare la propria identità, ma fonte di pericolosa contrapposizione. E allora: scuole confessionali armate l’una contro l’altra, famiglie o comunità religiose il cui integralismo non è più bilanciato da uno spazio pubblico dove si incontra l’altro».[4]

 

L’integralismo dell’aziendalizzazione
La laicità della scuola, della democrazia è oggi minacciata dall’aziendalizzazione, la quale non è un semplice o diverso modo di gestire la scuola, ma una forma mentis che deve penetrare in tutte le persone che popolano la scuola. Il fine è la rimozione di ogni valore universale per formare all’interesse privato, alla competizione, al conteggio. Gli alunni devono imparare l’opportunismo imprenditoriale, a fare del risultato l’unico fine del loro tempo. La formazione alla cittadinanza, alla maturità emotiva e razionale sono sepolte sotto i conteggi (crediti, debiti, offerta formativa, invalsi) e l’insegnamento al fare, poietico (dal gr. ποιητικός, der. di ποίησις: v. poiesi, fare, produrre) e dunque scisso dalla prassi. Nessuna formazione al bene comune. Le classi stesse in quanto luogo di comunità devono essere smantellate in nome della flessibilità didattica ed emotiva. Il senso della comunità è sostituito dall’integralismo del risultato, dalla categoria della quantità che deve sostituire la categoria della qualità e della relazione, senza le quali non vi è che la violenza del privato e dell’individualismo, per cui tutto è merce, dalla formazione alla salute.

La pienezza della vita ed il suo significato prende forma solo nello spazio pubblico che insegna a trascendere il confine dell’io chiuso per accogliere il noi: in questo movimento si acquisisce il senso del pubblico. L’imperativo kantiano è perversamente rovesciato “tutto è un mezzo per il fine”. L’individualismo proprietario ed acquisitivo deve neutralizzare ogni prassi del bene comune, l’aggressione e la svalutazione delle discipline classiche è funzionale al rovesciamento del bene comune in nome dell’individualismo proprietario:

«L’esistenza di beni comuni costituisce la base necessaria per i rapporti solidali tra le persone. L’accesso a questi bene in situazioni di eguaglianza è condizione della stessa cittadinanza. Se la salute finisce di essere un diritto e diviene una merce da comprare sul mercato, sì che avrò tanta salute quanta me ne consentiranno le risorse finanziarie, avremo cittadini di prima e seconda categoria con una rinascita della cittadinanza “censitaria”, legata al reddito. Se s’impoverisce l’offerta di scuola pubblica, con l’argomento di rendere ciascuno libero di scegliere la propria scuola grazie a un “buono scuola”, si rischia concretamente la chiusura nel proprio ghetto di ciascun gruppo etnico, linguistico, religioso, con la fine della scuola come luogo pubblico confronto dove la conoscenza reciproca favorisce l’accettazione dell’altro». [5]

 

Dignità e laicità
Il laicismo anticomunitario del capitale offende la dignità delle persone, perno della Costituzione, articolo tre:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali».

La cultura laica agisce per emancipare le persone, per renderle libere di essere e di esserci nella comunità. La scuola è il fondamento della laicità, poiché la scuola dell’obbligo agisce per rimuovere gli ostacoli che impediscono il passaggio dalla potenza all’atto della virtù-personalità di ciascuno. Ogni forma di costrizione autoritaria, di condizionamento che determina le scelte è dunque rigettata come violenza.
La scuola è aperta a tutti in quanto laboratorio laico dell’emancipazione comunitaria di ciascuno, così l’articolo trentaquattro:

«La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La dignità è il riconoscimento nelle istituzioni della condizione concreta di ciascuno, pertanto la persona è rispettata nella sua dignità solo se si favorisce la sua personale formazione partendo dalla sua materiale condizione:

«La dignità come sfaccettatura dell’esistenza. Si coglie così un’altra radice culturale del riferimento alla dignità, che consiste nello spostamento d’attenzione dalla soggettività astratta alla concretezza della persona, immersa nel fluire dei rapporti reali. Qui la dignità conosce le insidie delle disuguaglianze di fatto, delle differenze di potere che incidono sulla libertà delle scelte. Ma incontra pure una persona “costituzionalizzata”, dove s’intrecciano garanzie di libertà e difese della persona “contro se stessa”. La definizione della dignità si concretizza in un quadro in cui la persona si vede riconosciuta piena autonomia di decisione, tuttavia con un limite rappresentato dalla previsione di situazioni di indisponibilità». [6]

Laicità è ascolto ed autonomia culturale: solo la scuola, per dettato costituzionale, è il luogo dove i futuri cittadini imparano la difficile pratica della resistenza alle pressioni del potere, dei pari, delle istituzioni. La cultura laica è emancipazione non solo dalle condizioni materiali che limitano la cittadinanza, ma specialmente dai pregiudizi, dalle visuali ideologiche che rappresentano la parte per il tutto, spacciando per verità gli interessi di classe, per cui l’emancipazione all’interno del discorso laico è generativa come l’amore nel Simposio. L’emancipazione rimette in discussione i modi di produzione come le sovrastrutture, ha un effetto incontrollabile sugli equilibri sociali; l’inclusione è invece l’espressione del controllo disciplinare e del biopotere. La posizione laicista predilige la scuola dell’inclusione a cui è associato “il successo formativo”. Ancora una volta il linguaggio dello spettacolo e del mercato feconda la pedagogia dell’inclusione, eufemismo per riaffermare vincoli indiscutibili e modi di produzione sacralizzati. L’inclusione deve assimilare ciò che sfugge ai parametri del capitale, in modo che non possano determinarsi alternative, tale operazione pedagogica e sociale è messa in atto ammantandola con un linguaggio mellifluo, facendo appello ai vincoli di solidarietà coercitiva. La medicalizzazione del disagio è il volto disciplinare dell’inclusione, in tal modo ogni autonomia divergente è minata all’origine. Vi è dignità solo nell’emancipazione, perché essa favorisce lo sviluppo delle personalità in modo libero e dialogico.

Conclusione:  la scuola come luogo di resistenza
L’autonomia necessita di contenuti, di modelli del passato e del presente. Il nuovo che avanza ed invoca la modernizzazione, le riforme, ha il volto truce della reazione contro la quale gli operatori scolastici hanno il compito di smascherare i linguaggi ingannevoli, i nichilismi ideologici dietro i quali non vi sono che manipolazione e mercificazione, benché siano rappresentati come libertà. La scuola deve accompagnare la consapevolezza dei futuri cittadini a riconoscere i pressanti condizionamenti che mortificano l’istituzione e le loro scelte. La comunità scolastica deve impedire che la scuola diventi luogo dove si insegna una sottomissione silenziosa. La scuola oggi è la ghiandola pineale della democrazia, il luogo dove resistere alla mutazione antropologica in atto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni. Nessun dio ci può salvare, la salvezza può avvenire solo dal basso, a cominciare dal lavoro quotidiano nelle classi come in qualsiasi posto di lavoro, in attesa, ciò che è sempre possibile, che nuove forze sociali possano catalizzarsi per un nuovo inizio.

 

Salvatore A. Bravo

 

 

[1] Costanzo Preve, Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 2.

[2] Stefano Rodotà, Perché laico, Laterza, Bari 2009, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 153.

[4] Ibidem, pag. 63.

[5] Ibidem, pag. 172.

[6] Ibidem, pag. 138.


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Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Karl Marx di Bontempelli

Bontempelli, Marx

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Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario.
Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione.
La lotta era il suo elemento.
Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo
come pochi
hanno combattuto.

F. Engels

 

 

Salvatore A. Bravo

Il Marx di Bontempelli

Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011) interprete di Marx.

A Marx ci si approssima, affermava Costanzo Preve, per cui ogni illusione di rispecchiamento perfetto non è che l’esemplificazione di un autore. Massimo Bontempelli si accosta a Marx non solo con rigore metodologico, ma, anche in ragione della sua formazione hegeliana, con metodo olistico. Attraverso la lettura dei testi ne coglie il fondamento, evidenzia l’umanesimo marxiano ed il problema della reificazione, e dimostra soprattutto che non vi può essere nulla di più ingenuo che porre in antitesi Marx ed Hegel. Anzi, Bontempelli argomenta come Marx sviluppi e porti a compimento intuizioni, concetti e metodi presenti nel pensiero hegeliano. L’attività filosofica è ri-pensare, per ri-creare – in nuovi orditi teoretici – concetti già dati. Il breve saggio di Bontempelli si conclude con l’orazione funebre di Engels all’amico. Non è un caso che Bontempelli abbia voluto così chiudere l’introduzione a Marx. Engels omaggia l’amico che ha smesso di pensare. Ovvero, per Marx vivere è pensare: non è concepibile lotta senza prassi che si coniughi con la teoria. Il pensare marxiano è polisemico, speculare alla creatività stilistica del suo filosofare. Pensare per Marx non è il freddo calcolare logico, ma è il pensare partecipante, è attività, prassi, trasformazione dei comportamenti sociali, poiché ogni soggetto umano è comunitario per sua essenza. Il pensiero è sempre intenzionalità attraverso la quale sono messi in atto i processi di riconoscimento, autoriconoscimento e critica sociale. Così Engels nella sua orazione funebre (1883):

«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre».[1]

 

L’economia politica

L’economia politica marxiana nella sua impostazione è hegeliana. Vi sono due metodi di indagine. Uno parte dal dato concreto ed astrae dalle strutture: gli economisti inglesi iniziano la loro indagine dalla proprietà avulsa dai processi storici, per cui la proprietà e le differenze sociali sono rese ipostasi, dogmi indiscutibili: si costruisce in tal modo l’ideologia economica che rispecchia la condizione storica eternizzandola. Il secondo metodo di indagine è di matrice hegeliana. Si segue un processo che ricostruisce il dato, in modo processuale e storico, partendo dal dato generico per ricostruirlo nelle sue relazioni effettive e concrete. Nella logica hegeliana il concetto di essere generalissimo si determina nelle relazioni. Nella stessa maniera Marx analizza nell’economia politica: i concetti sono problematizzati e ricostruiti nella loro genealogia, trascendendo la pura empiria per dare spazio ai soggetti che li pongono ed alle loro relazioni. In questa maniera la genealogia scardina dogmi, pregiudizi culturali ed ideologici:

«Una volta compresa la Logica di Hegel, Marx riformula in senso dialettico la sua concezione dell’economia: da questa riformulazione nasce di getto nel 1857 Per la critica dell’economia politica (pubblicata poi nel ‘59) che è il preludio al Capitale cioè alla vera e propria scienza economica marxista. L’opera contiene una Introduzione e una Prefazione: la prima è del ‘57, la seconda del ‘59. A noi interessa l’Introduzione perché è qui che Marx illustra la metodologia con cui studia l’economia politica. Dice Marx che due sono i metodi che si possono seguire nel formulare la scienza economica: 1) quello di muovere dall’elemento concreto e reale e da qui costruire una serie di astrazioni ricavate dal concreto; 2) quello di muovere da categorie astratte, comprendere la loro connessione, e, attraverso questa comprensione, interpretare la realtà concreta. Marx respinge il primo metodo e accetta il secondo: pretendere, infatti, di partire da un dato concreto (poniamo la “popolazione”) è mera illusione, perché in ogni caso si parte sempre da un’astrazione (come appunto è il concetto di “popolazione”), e per di più da un’astrazione che proprio perché ha la pretesa di riflettere immediatamente l’empiria si rivela la più povera perché non è mediata dal pensiero (qui, Marx, riprende integralmente la critica hegeliana della certezza sensibile). Allora il metodo scientifico corretto è quello di partire da concetti già astratti e mediati dal pensiero che non pretendono di riflettere in quanta tali l’empiria cogliere le loro connessioni logiche e, alla luce di queste, illuminare la realtà concreta».[2]

Coscienza e linguaggio

Marx, mediante il metodo hegeliano, ricostruisce i processi di formazione di ipostasi che, in assenza di metodi interpretativi adeguati, sono negati e favoriscono – fino ad affermarla – la scissione che legittima le ipostasi contrapposte, perché prevale l’empirico e dunque l’astratto, mentre la processualità storica dimostra che ciò che appare astratto ed irrigidito è l’effetto di una visione astorica. La coscienza, evidenzia Marx, è il risultato del soggetto che modifica la natura per soddisfare i suoi bisogni economici. La trasformazione della natura modifica il soggetto. In tale relazione si sviluppa la coscienza e con essa il linguaggio, che è lo strumento per comunicare nel gruppo. Marx non indaga la coscienza come avulsa dalla storia, ma applica il metodo della logica hegeliana, ne palesa la storicità e dunque la soggettività che pone l’oggettività in una relazione di biunivoca trasformazione:

«La prima condizione della dimensione storica sta dunque non nella semplice esistenza fisica, ma nell’attività per mantenerla, perché l’esistenza fisica non si mantiene che attraverso un’attività trasformativa, quindi una storia. La produzione umana di beni economici e necessaria perché l’uomo non trova già dati i beni necessari alla sua sopravvivenza fisica, bensì deve procurarseli modificando la realtà esteriore. Ma producendo i beni che gli sono necessari per mantenere la sua esistenza fisica, l’uomo muta non solo la realtà esteriore sulla quale agisce con il lavoro, ma muta anche se stesso. Il lavoro, infatti, trasforma il modo di essere di chi lo esplica, e determina, data la sua natura intrinsecamente cooperativa, i rapporti tra gli uomini. Nasce cosi il modo di produzione, cioè il modo con cui gruppi sociali si sono organizzati in funzione della produzione economica per garantire la riproduzione biologica del gruppo stesso. Essendo per sua natura sociale, il lavoro implica la comunicazione tra gli uomini, quindi il linguaggio, e perciò la coscienza: “il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri uomini”. La coscienza, però, perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione».[3]

 

Essere/Merce

Il fondamento della logica hegeliana è l’essere, mentre il fondamento del capitalismo è la merce. Marx sostituisce l’essere hegeliano con la merce, ma similmente ne spiega la genesi attraverso il definirsi mediato da relazioni storico-sociali sempre più complesse. Le relazioni sono di ordine sistemico-olistico, per cui variando, si trasforma il sistema, poiché le parti si riposizionano secondo nuove figure:

«[…] in tutta la sua evidenza: nel testo hegeliano si parte dall’Essere – forma immediata e semplice se ne sviluppano dialetticamente tutte le determinazioni in un lungo cammino, e poi si ritorna all’Essere nella cui trasparenza si scorge l’Idea. Nel testo di Marx, si parte dalla merce – forma immediata e semplice -, se ne sviluppano dialetticamente le determinazioni e ad essa merce, nella cui trasparenza si scorge ora il capitale, infine si torna. Seguendo l’analisi dialettica condotta da Marx nel corso del Capitale, abbiamo modo di vedere come tutta una serie di aspetti della società (che è poi la società in cui viviamo) si presentino complicati l’uno con l’altro in modo tale che nessuno di essi può venire modificato senza la modificazione di tutti gli altri».[4]

“La verità è tutto” ha insegnato Hegel. Anche nel caso di Marx la concretezza è visuale relazionale e storica che riesce a strappare i soggetti dal torpore del dogmatismo. Il metodo hegeliano-marxiano è dunque antideologico e come tale potenzia il soggetto, lo strappa dalla passività dell’ignoranza. Il soggetto acquisisce “spinozianamente” potenza e ciò muta la qualità della sua vita e delle sue relazioni.

L’alienazione

L’alienazione è il fondamento del pensiero marxiano. L’opera di Marx non è che lotta alle forme di alienazione che rendono l’essere umano oggetto della storia, estraneo a se stesso ed alla comunità. Marx, sin dalle opere giovanili, descrive i limiti di coloro che ritengono che l’alienazione possa essere trascesa solo mediante cambiamenti politici. I diritti politici, senza il superamento delle differenze materiali e sociali, non possono che confermare l’alienazione e la divisione della comunità in classi, scissa tra dominati e dominatori, poiché il diverso peso economico dei soggetti cannibalizza i diritti politici che sono così solo il paravento ideologico dietro il quale la violenza è legittimata dalle leggi e si disorienta i subalterni con la chimera dell’uguaglianza politica:

«Marx interviene sull’argomento discutendo non tanto la questione della minorità politica degli Ebrei, quanto, piuttosto, ciò che è sottinteso in tutto il discorso di Bauer, e cioè l’identità tra emancipazione politica ed emancipazione umana. Stando a Bauer, infatti, (e anche al Marx democratico di qualche mese prima) attraverso la democrazia politica l’uomo diventerebbe padrone del proprio destino, emancipandosi da ogni alienazione. Ebbene, Marx ora precisa che emancipazione politica ed emancipazione umana sono due realtà distinte: ed è proprio da questa distinzione tra le due forme di emancipazione che nasce la sua idea comunista secondo cui la vera emancipazione umana può scaturire soltanto dall’abolizione delle diseguaglianze sociali. Marx comincia con il ricordare che in un paese modello di democrazia politica come gli Stati Uniti d’America, non solo non c’è stato superamento dell’alienazione religiosa – come avrebbe dovuto accadere se fosse vera l’identità posta da Bauer tra democrazia politica ed emancipazione umana –, ma al contrario, c’è tutto un fiorire di sette religiose più o meno intolleranti. Prendendo poi in esame i testi costituzionali elaborati dalla rivoluzione francese, ovvero i documenti che hanno stabilito i “sacri principi” della democrazia politica, Marx fa vedere come essi abbiano costituito una sfera quella dello Stato distinta da quella immediatamente sociale, postulando che nell’ambito di tale sfera gli uomini possono ritrovare la loro uguaglianza naturale pur permanendo le loro diseguaglianze sociali».[5]

L’alienazione, la sofferenza umana non necessaria possono essere risolte sono con il comunismo, poiché solo con la realizzazione della natura umana, con un’organizzazione umana finalizzata a sviluppare i singoli individui in relazione libera tra di loro, terminerà la storia come lotta tra dominanti e dominanti scissione prima da cui conseguono divisioni alienanti che negano l’umanità nella sua pienezza:

 «La fondamentale differenza è sintetizzata da Marx in una sua celebre frase in cui afferma che nel socialismo deve venire data a ciascuno secondo il suo lavoro nel senso spiegato prima – che la retribuzione deve essere proporzionale al lavoro svolto e che lo Stato deve obbligare gli individui a lavorare. Nella società comunista, invece, secondo Marx, di questa non ci sarà bisogno perché durante il socialismo gli individui avranno potuto plasmare il loro essere non sulla base di un’educazione individualistica così che principio regolatore della società comunista sarà non più a ciascuno secondo il suo lavoro, ma a ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni. In quest’ultimo approdo è condensato il sogno di Marx di una completa liberazione dell’uomo».[6]

 

La prassi contro l’alienazione

La prassi è la condizione, affinché il soggetto posa risolvere l’alienazione. Hegel e l’idealismo hanno fatto della prassi la libertà e la dignità dell’essere umano. Marx riporta la prassi al centro della storia dell’umanità: la libertà non cade dal cielo stellato, ma è nella prassi. O meglio: lottare, capire, smascherare l’ideologia che anestetizza la ragione è già prassi-libertà. La realizzazione della libertà è anch’essa un lungo iter che vive e si ridefinisce e ricategorizza con l’umanità che progetta nel presente il suo futuro, modificando le condizioni storiche, ponendo in atto ciò che è potenzialmente presente. La filosofia dev’essere filosofia della prassi, ma essa è concretizzabile solo se la riflessione teoretica vive la relazione circolare tra teoria e prassi: tale osmosi è già disalienante. Il materialismo storico è speculare alla prassi, anzi ne è l’espressione più completa, il materialismo è metafora della prassi:

«”I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo; si tratta ora di mutarlo”. Quindi mentre la “materialità” nella concezione borghese è intesa come Natura, ora, nella nuova accezione di Marx, la materialità è la società economica dell’uomo, per cui affermare la priorità della materialità sulla coscienza significa affermare la priorità sulla coscienza non di un qualcosa di esterno all’uomo (la Natura), ma della sua propria dimensione sociale. Si tratta di un mutamento cruciale di prospettiva: la priorità della Natura rispetto all’uomo, dice Marx, è un fatto filogenetico, legato all’antropogenesi, all’origine della storia, e dunque tale da non autorizzare a considerare la Natura la base materiale della coscienza nella storia. Scriverà infatti nell’Ideologia tedesca: “È vero che la priorità della Natura eterna rimane ferma… D’altronde questa Natura che prende la storia umana non è la Natura nella quale vive Feuerbach, non la Natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione […]. Accade così allora che per esempio Feuerbach vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano e scopre soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma, dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti”. Questa posizione di Marx che mette in prima piano il valore trasformativo dell’attività umana rispetto alla Natura, aiuta ad interpretare la prima delle Tesi su Feuerbach, dove (recuperando la critica hegeliana alla certezza sensibile) c’è un esplicito riconoscimento della superiorità dell’idealismo sul materialismo tradizionale: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto è concepito solo sotto forma di oggetto di intuizione sensibile, ma non come attività umana pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo della realtà è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto con il materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale”. Quindi Marx, come gli idealisti, concepisce la realtà sensibile quale prodotto dell’attività umana (“soggettivamente”), senonché, diversamente dagli idealisti, a fondamento di quella attività, dunque dell’uomo che crea il proprio essere, dunque della storia, pone i1 lavoro, la prassi sociale umana e non il pensiero. Inoltre: fino all’anno prima Marx ha creduto, seguendo Feuerbach, in un’essenza naturale dell’uomo sempre uguale a se stessa; ora, invece, l’essere dell’uomo è considerato un prodotto del modo di produzione che egli eredita, per cui in ogni epoca storica l’essere dell’uomo sarà diverso, proprio perché ogni epoca storica ha una sua propria determinata morfologia che la distingue dalle altre».

 

 

La dittatura del proletariato

La dittatura del proletariato ha contribuito ad alimentare pregiudizi ed esemplificazioni contro Marx. Bontempelli smaschera l’uso ideologico in chiave antimarxiana della dittatura del proletariato. In primis, se la dittatura del proletariato fosse un sistema autoritario effettivo, non si comprenderebbe il passaggio al comunismo, il quale è preparato dalla fase socialista, durante la quale l’umanità reimpara il senso della comunità, e si disintossica dalle tossine del capitalismo acquisitivo. La dittatura del proletariato è il governo della maggioranza che impara la partecipazione politica e la prassi come modello quotidiano di vita. Il percorso che conduce al comunismo ed alla disalienazione, non può essere improvviso, ma deve essere mediato dalla dittatura del proletariato, il processo è hegeliano, perché non vi è l’immediatezza, il passaggio improvviso da uno stadio di sviluppo ad un altro. Ma la mediazione garantisce il radicamento strutturale del processo, la prassi delle coscienze, la consapevolezza collettiva:

«La cosiddetta dittatura del proletariato è dunque elemento caratterizzante di un regime socialista secondo Marx, ma intesa come dittatura esercitata non da una minoranza bensì dalle classi lavoratrici, vale a dire dalla stragrande maggioranza della popolazione, esclusivamente sui gruppi borghesi espropriati dalla rivoluzione proletaria, ed esclusivamente al fine di indirizzare tale rivoluzione ad un esito comunista (la dizione precisa usata da Marx nella Critica del programma di Gotha è infatti dittatura rivoluzionaria del proletariato), e con un risvolto, quindi, di massima estensione della democrazia. II principio di una dittatura che sia anche massima espressione di democrazia quale è posto da Marx nel suo concetto di dittatura del proletariato, non è ovviamente comprensibile al di fuori della concezione marxiana dello Stato come espressione politica di un dominio di classe. Ogni Stato, infatti, realizza un potere tanto dittatoriale quanto democratico, con aspetti dittatoriali e aspetti democratici variamente proporzionati a seconda del tipo di Stato e variamente distribuiti sulle varie classi della popolazione. Da questo punto di vista una dittatura socialista del proletariato sulla borghesia contiene necessariamente, secondo Marx, più democrazia di quella contenuta dal più democratico Stato capitalistico che sia concepibile».[7]

L’attualità è dominata dalla categoria della quantità, per cui studiosi del calibro qualitativo di Massimo Bontempelli non hanno il riconoscimento che spetta loro. Ma il tempo è galantuomo: filtra e seleziona l’autentico dall’inautentico. Pertanto Bontempelli rimarrà quale testimonianza di un intellettuale che ha fatto dell’impegno silenzioso il senso della sua vita e del suo pensare, nel tempo dell’«utile», in cui il regno animale dello Spirito sembra non avere limiti e prospettive.

 Salvatore A. Bravo

 

[1] Massimo Bontempelli, introduzione a Marx (ed Engels), in Associazione Culturale Punto rosso, Libera università popolare p. 40.

[2] Ibidem, p. 29.

[3] Ibidem, p. 32.

[4] Ibidem, p. 36.

[5] Ibidem, pp. 16 17.

[6] Ibidem, p. 39.

[7] Ibidem, p. 38.


Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.

ISBN 88-87296-71-5, 2000, pp. 288, f Euro 15

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Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo.

ISBN 88-87296-00-6, 1997, pp. 192,  Euro 15 – Collana “La Crisalide”. I

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Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana.

ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10.

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Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro.

ISBN 88-87296-69-3, 1999, pp. 112, Euro 10.

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Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.

ISBN 88-87296-50-2, 2001, pp. 128, Euro 10.

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Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male.

ISBN 88-87296-10-3, 1997, pp. 160,Euro 15.

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Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945).

ISBN 88-88172-10-6, 2002, pp. 672, Euro 35.

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Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.

ISBN 88-87296-30-8, 1998, pp32, f Euro 5

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Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15

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Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

 


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Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

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Salvatore A. Bravo

I barbari e l’Occidente

I barbari non sono alle porte, sono nell’Occidente, fino ad essere l’Occidente. La barbarie è la cifra di un vivere civile senza dono, società senza comunità: è la condizione del capitalismo assoluto, niente è gratuito, ma tutto è usato, strumentalizzato per ottenere risultati immediati.
La comunità è il luogo del dono, è nella parola stessa il significato etico. Il bene che tale parola veicola è espresso nel suo significato etimologico: comunità, dal latino communitas (composto di cum e munus): il cumfa riferimento alla dualità nella quale è possibile e si materializza il dono. Quest’ultimo è gratuito, ed è nella forma del tempo solidale. Offrire il proprio tempo, donarlo, significa donare la vita.
La barbarie è l’incapacità, non tanto di donare, ma – più in profondità – è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. Il capitalismo assoluto ha eroso e corroso ogni idea di bene sostituendola con la violenza acquisitiva delle merci. In tal modo il bene ed il male – quali categorieassiologiche – sono scomparse, per lasciare il posto ad una società in-civile nella quale l’atomistica delle solitudini è segnata dalla volontà acquisitiva.

Società senza dono è dunque la barbarie
Non si è giunti allo stato presente in modo improvviso. A tutto ciò ha contribuito anche l’adattamento della filosofia, e di coloro che si autoproclamano filosofi, al modo di produzione capitalistico nelle sue forme integraliste ed assolute. Tale responsabilità della filosofia è da rintracciare nella fuga dall’universale, nell’indicare quale vera ricerca del bene solo ed unicamente l’adattarsi al trionfo delle scienze. Il positivismo con la sua filosofia adialettica, ancora vigente nel mondo accademico, ha rinunciato all’autonomia epistemica della filosofia per inseguire un modello di assimilazione che l’ha ridotta a presenza dipendente dalle scienze ed in una posizione subordinata. La filosofia, nel migliore dei casi, come in Herbert Spencer, astrae dai risultati delle scienze principi generalissimi, ha abdicato ad ogni ricerca del trascendentale nell’immanenza, come svolta dall’Idealismo, perdisperdersi nell’empirico, e rinunciare ad ogni catabasipolitica e sociale. La rinuncia all’universale significa declinare da ogni impegno politico e sociale per divenire lo sgabello silenzioso e servile del sistema capitale-azienda. Nel migliore dei casi la filosofia assume il ruolo di controllo ed esplicitazione per generalizzazione dei risultati scientifici:

«Le verità della filosofia, quindi, hanno lo stesso rapporto rispetto alle verità scientifiche superiori che queste ultime hanno rispetto alle verità scientifiche inferiori. Così come ogni più ampia generalizzazione della scienza ricomprende e consolida le generalizzazioni più ristrette di una certa branca, le generalizzazioni della filosofia ricomprendono e consolidano le generalizzazioni più ampie della scienza. Si tratta dunque di una conoscenza che si trova all’estremo opposto, per genere, a quella che l’esperienza accumula. È il prodotto finale del processo che muove da un mero collegamento di osservazioni non elaborate, istituisce proposizioni via via sempre più ampie e disgiunte da casi particolari, ed esita nella formulazione di proposizioni universali. Per semplificare al massimo questa definizione, diciamo che la conoscenza di genere più basso è una conoscenza non unificata, la conoscenza della scienza è parzialmente unificata, e la conoscenza della filosofia è completamente unificata».[1]

 

Attività senza metafisica: medicina e ginnastica
La rinuncia ad ogni metafisica ha favorito il prevalere della razionalità strumentale sulla razionalità oggettiva. Con il rifiuto preconcetto della metafisica, vero ossimoro filosofico, la filosofia servile dell’oggi ha ricusato la problematizzazione.
La Filosofia, invece, è dove il logos – attraverso processi di indagine mediati dall’argomentare logico e dialettico – trascende l’immediato per orientare la visuale verso l’universale, verso il bene: ogni attività scissa dall’universale e consegnata al particolare non può che mostrare gli effetti dell’assenza di senso e di fine.
Nel Gorgia Platone dimostra come la ginnastica senza l’oggettività razionale del suo agire, perde il suo senso, si svilisce in pura attività volta allo scopo di agghindarsi perdendo così la sua ragion d’essere oggettiva, ovvero la cura e la disciplina delle pulsioni al fine di ordinare la vita psichica. L’armonia è un processo di controllo delle pulsioni per sublimarle nell’universale comunitario. L’anima necessità del controllo del corpo, per poter fiorire, mentre la pratica della ginnastica funzionale all’estetica non può che far precipitare l’anima nel corpo, fino a far trascinare l’anima dal corpo. Anche la medicina, il cui fine è la cura, può essere sostituita dalla culinaria che offre i suoi alimenti per il piacere immediato, senza conoscere i significati profondi e gli effetti dei cibi-farmaci somministrati. La culinaria e l’agghindarsi sono una forma di positivismo, di risultato empirico scisso dall’universale. Si insegue l’edonismo per soddisfare le pulsioni, celando dietro il velo di Maya del piacere immediato il male. L’empiria fine a se stessa, in realtà è solo corpo (Körper), in quanto ha rinunciato ad ogni fine universale per essere corpo e parola del nichilismo (nihil, nulla). Il male è nella rinuncia al sommo bene, alla razionalità che fonda il senso dell’essere sociale in ogni attività quotidiana:

«Nell’arte politica, poi, l’arte della legiferazione è l’equivalente della ginnastica, mentre alla medicina corrisponde la giustizia. L’una e l’altra arte di ogni singola coppia sono fra loro in stretta relazione, dal momento che hanno a che fare col medesimo oggetto: la medicina con la ginnastica e la giustizia con l’arte della legiferazione; tuttavia in qualcosa si distinguono l’una dall’altra. Ebbene, che queste arti sono quattro e che curano, mirando sempre al meglio, le une il corpo, le altre l’anima, se n’è accorta la lusinga, non per via di conoscenza ma per averlo indovinato, e, divisasi in quattro, si è insinuata sotto ciascuna di queste parti, e finge di essere quell’arte sotto cui si è insinuata; di ciò che sia meglio non si dà alcun pensiero e con quello che di volta in volta è la cosa più piacevole tende trappole agli stolti e li inganna, al punto dì far credere loro di essere cosa di grandissimo valore. Dunque, sotto la medicina si è insinuata la culinaria, e finge di sapere quali siano i cibi migliori per il corpo così abilmente che, se un cuoco e un medico dovessero competere davanti ad una giuria di fanciulli, o di uomini tanto stolti quanto lo sono i fanciulli, per decidere chi dei due si intenda dei cibi buoni e dei cibi dannosi, se il medico o il cuoco, il medico morirebbe di fame. Ebbene, questo io lo chiamo lusinga, e dico che è una brutta cosa, o Polo, e con questo rispondo alla tua domanda, perché mira al piacere senza tener conto del sommo bene. E non la definisco arte ma attività empirica, perché offre le cose che offre senza avere alcuna intelligenza di quale sia mai la loro natura, sicché non può spiegare la ragione di ciascuna di esse. Ed io non chiamo arte un’opera che non si possa razionalmente giustificare. Ma se non sei d’accordo su queste mie affermazioni, sono disposto a renderne conto. Sotto la medicina, dunque, sta, come dicevo, la lusinga culinaria; sotto la ginnastica, parimenti, la lusinga dell’agghindarsi, malefica, ingannevole, ignobile e servile, che inganna con figure esteriori, colori, leziosità e vesti, al punto da far sì che gli uomini preoccupati di attirare su di sé una bellezza estranea, trascurino la propria, quella cioè che si ottiene grazie alla ginnastica. Ma per non farla troppo lunga, voglio spiegarmi usando il gergo dei geometri, perché così , forse, riuscirai a seguirmi, e voglio dirti che, come l’arte di agghindarsi sta alla ginnastica, così la sofistica sta all’arte della legiferazione, e che, come la culinaria sta alla medicina, così la retorica sta alla giustizia. Ebbene, quello che intendo dire è che, pur essendo le due arti per natura distinte, dal momento, però, che sono fra loro vicine, sofisti e retori si confondono in uno, e così le cose di cui si occupano, e non sanno che funzione attribuire né loro a se stessi né gli altri a loro. Se, infatti, l’anima non governasse il corpo, ma questo si governasse da sé, e se non fosse l’anima a riconoscere e a distinguere la culinaria e la medicina, ma fosse il corpo a giudicarle stimandole in base ai piaceri che gliene vengono, allora, o Polo, varrebbe quanto dice Anassagora visto che tu di queste cose sei pratico, e tutte le cose si confonderebbero in una, senza che si potessero più distinguere le cose della medicina, della salute e della culinaria. Hai sentito, dunque, quello che io sostengo che la retorica sia: essa è per l’anima l’equivalente di quello che la culinaria è per il corpo. Ma ecco che, forse, ho fatto una cosa assurda: pur non permettendo a te di fare lunghi discorsi, proprio io ho tirato il mio discorso per le lunghe. Ma merito il perdono: quando parlavo in modo conciso, non capivi, e non sapevi cavare nulla dalla risposta che ti avevo dato, ma avevi bisogno che ti venisse spiegata per esteso. Ebbene, se anch’io, a una tua risposta, non saprò cavarne nulla, allora anche tu potrai sviluppare il tuo discorso; se, invece, io saprò che utilità cavarne, lascia che ne faccia buon uso, come è giusto che sia. E ora, fa’ pure quello che vuoi di questa mia risposta». [2]

 

Immediatezza e diniego
Le arti, i saperi dispersi nel gioco del subitaneo, divengono oggetto delle peggiori passioni, si danno allo spettacolo, alla competizione, scambiano il piacere per il bene, fanno di sé un mezzo per gratificazioni impossibili, e dunque sono degli orci bucati, metafora che Platone espone nel dialogo con Callicle nel Gorgia: dove l’universale pone il limite consapevole, si ritrovano gli orci che vivono la pienezza di sé in essi sedimentata. L’orcio bucato è l’edonismo (dal greco antico ἡδονή, edoné, piacere) nichilistico, mentre l’orcio che pensa e dà ordine alle esperienze crea un ordine, un cosmo ed è dunque disposto all’eudemonia (dal gr. εὐδαιμονία, der. di εὐδαίμων «felice», comp. di εὖ «bene» e δαίμων, «demone, sorte»).
La bellezza germina nel pensiero che media e medita sull’esperienza per trarne la vita, l’agere, un nuovo inizio radicato nell’identità e nella consapevolezza di sé. Il buon demone conduce l’essere umano dal particolare all’universale, lo umanizza, ne scolpisce la potenzialità, la rende atto.
L’edonismo, l’empiria, strutturano un mondo senza intelligenza, senza armonia e benessere. Il pratico inerte, secondo la definizione di Sartre, è la condizione della passività. E l’edonismo addestra: è la caduta del soggetto nella mobilitazione edonistica di massa, il suo evaporare nella plebe. Si ha così l’individualismo senza soggetto, l’individuo è interscambiabile, sostituibile, rilevante solo per la quantità dei consumi.
L’immediatezza è il trionfo della scomparsa del soggetto, la cui libertà è nell’assenza di forma e di contenuti.
Il diniego è l’altro volto del consumismo totale. L’abitudine all’automatismo acquisitivo struttura il diniego del malessere che, pur sentito, non è ascoltato e accolto: il diniego è la rimozione del male che puntualmente ritorna. La barbarie è il diniego dello stato presente obnubilato dai miti che la sovrastruttura del capitalismo assoluto offre quali oppiacei per sopportare la notte del mondo.

Subitaneo e trascendentale
Nella filosofia antica il problema è stato posto: la condizione umana si dibatte nel tentativo di superare la scissione tra il subitaneo e il trascendentale. Non si è umani se non si ascolta e si vive il problema. Con il trionfo della adialettica positivistica, la filosofia, in particolare la filosofia accademica, ha rinunciato ad ogni fondazione metafisica, consegnandosi all’empiria con l’effetto che ha sostenuto i processi di scissione e frammentazione, per cui l’insegnamento scisso dal senso profondo è divenuto didattica, la politica propaganda narcisistica, la medicina arte della cura di organi e non arte sistemica della persona e così via.
Dalla scissione si può uscire, ancora una volta il potenziale è conservato nel grembo della filosofia. Platone, nel Parmenide, teorizza l’essere, il fondamento come unità nel molteplice. In tale maniera il fondamento non nega la molteplicità, ma le parti si ricompongono in un’unità più grande. Il fondamento comunitario è nella consapevolezza di appartenere ad una comune natura, e ciò dispone al dono, al limite (katéchon), al fine di accogliere la parola dell’altro. In tal maniera le parti si ritrovano nel tutto, senza la violenza della parte che confligge con le altre parti, perché non ne riconosce il comune fondamento:

«è necessario che il tutto e la parte prendano parte dell’uno. Il tutto sarà un uno di cui parti sono le parti; mentre ciascuna parte del tutto, quale che sia, sarà una parte del tutto». «è così ». «Ciò che partecipa dell’uno non vi prenderà parte essendo diverso dall’uno?» «Come no?» «Molte saranno le cose diverse dall’uno: se infatti le cose diverse dall’uno non fossero né uno, né più di uno, nulla sarebbero». «No, certo». «Dal momento che sono più di uno quelle cose che partecipano dell’uno come parte e dell’uno come tutto, non è necessario siano molteplici e infinite queste cose che prendono parte dell’uno?» «Come?» «Osserva. Esse, allorquando partecipano dell’uno, vi prendono parte non essendo uno e non partecipandovi?» «è chiaro». «Non è dunque molteplicità in cui l’uno non è?» «Sì , lo è». «E allora? Se volessimo con il pensiero sottrarre da tale molteplicità la parte più piccola che riusciamo a sottrarre, non sarebbe necessario che anche la parte che abbiamo separato, se è vero che non prende parte dell’uno, sia molteplicità e non uno?» «Per forza». «Dunque analizzando sempre in questo modo quella natura, presa di per sé, diversa dalla specie dell’uno, quale che sia la parte di essa che noi sempre osserviamo, non sarà infinita e molteplice?» «Assolutamente». «Non appena ciascuna parte diviene parte, esse saranno già fornite di un limite le une verso le altre e verso il tutto, e il tutto verso esse».[3]

 L’uscita dalle barbarie trova nella filosofia una delle vie privilegiate, perché la filosofia è metafisica. Solo riportando il bene nella centralità della discussione culturale ed umana si avrà la possibilità, non la certezza, di uscire dalla caverna al cui buio ci si è abituati.

La normalità della caverna è la barbarie dell’Occidente, ma non è un destino.

 

Salvatore A. Bravo

 

*
***
*

[1] Herbert Spencer, I princìpi primi, Williams and Norgate, Londra 1867, traduzione di Angelo Magliocco, pag. 87.

[2] Platone, Gorgia, ww.ousia.it, pag. 17.

[3] Platone, Parmenide, ww.ousia.it, pag. 20.

 

 

 

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Salvatore A. Bravo – Tempo astratto e tempo emancipato. C’è un tempo rivoluzionario in cui si diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria.

Tempo astratta e tempo emancipato

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Man Ray su vetro di Duchamp, «Dust Breeding», 1920 (la polvere come sedimento del tempo che passa)

Salvatore A. Bravo

Tempo astratto e tempo emancipato in cui si diventa persona.

Tempo rivoluzionario perché tempo umanizzato

 

Il tempo del capitalismo assoluto è il tempo astratto. La percezione del tempo si fa concreta nella consapevolezza dell’aprirsi al mondo, nel tempo della partecipazione al mondo ed a se stessi: è il tempo vissuto, in cui il fluire si organizza non nella dispersione di sé, ma nel raccoglimento, nel processo di soggettivizzazione attiva. Il tempo diviene, così, dimensione della qualità dialogica e dialettica che accoglie il mondo, le rappresentazioni, i suoi stereotipi per rielaborarli nella creatività.
C’è un tempo rivoluzionario in cui il soggetto, non più individuo, atomo nel mondo al traino delle forze dei modi di produzione, diventa persona per vivere la soggettività autentica e condividerla. L’individualismo, espressione sostanziale del turbo capitalismo, si caratterizza per la temporalità generica ed astratta: il soggetto non vive il proprio tempo, ma il tempo del modo di produzione, vive al ritmo del dicitur, non osa essere libero. Gli è sconosciuta la dimensione interiore, del conflitto tra la rappresentazione del mondo e l’elaborazione personale e condivisa di un’altra modalità di vivere e rapportarsi al mondo. Il tempo fluido, martellante, fa del soggetto una parte organica del sistema, è il tempo del vuoto silenzio muto, non vi sono parole, ma solo muti silenzi vuoti di senso.
La caverna di Platone non è solo buio ed immagini, è il muto silenzio del tempo che scorre senza la dimensione del simbolico. Il tempo dei dormienti è l’invisibile forma che assume il nichilismo, avvolge, rassicura con un fluire che mentre chiede tutto, svuota il soggetto della sua capacità simbolica. Opporsi a tale modalità di potere – che entra nel corpo vissuto per svuotarlo della sua potenzialità simbolica –, non è facile perché si è portati in una dimensione che vuole ci si sottragga al conflitto, al fine di rendere la vita priva di vita. Si avvelenano le fonti della vita, prosciugandole con la distopia: le merci ed il denaro divengono le divinità tiranniche che promettono «ogni felicità», allontanano così il soggetto da se stesso, destabilizzandolo, ipostatizzando forme di dipendenza mascherate da libertà senza limiti e confini.
Il tempo è così ritagliato all’interno di categorie produttive che adescano con i loro miti. Nell’immediato, il soggetto – rassicurato dall’apparente concretezza del tempo astratto –, è teso con le sue energie verso l’immanente metafisica della merce. Il tempo nella ripetizione sempre uguale, malgrado il ritmo frenetico della produzione e del consumo, rallenta in quanto attimo segnato dalla violenza della coazione a ripetere. La comprensione dello stato presente può accadere in una pluralità di modi: talvolta la verità può delinearsi improvvisa nella lettura di un mito greco.

Il tempo dei dormienti
Aristotele con il mito dei dormienti descrive un piano della condizione umana possibile in ogni epoca:

«Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta, a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda [secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois erosin]: essi infatti uniscono l’”ora” precedente con quello successivo, facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così come, dunque, se l’”ora” non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre invece, quando percepiamo l’”ora” e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è possibile senza il movimento».[1]

Nel profondo il modo di produzione del capitalismo assoluto ha lo scopo di mutare il tempo/coscienza, in modo da impedire al soggetto la percezione di essere stato determinato. La vita nel capitalismo assoluto, è un unico istante, senza differenze qualitative, vige solo il tempo della scissione individualistica, si presenta nella sua compattezza liquida, deve sottrarre al soggetto il tempo qualitativo, rivoluzionario, per renderlo simile ad un ente che opera per automatismi algoritmici.

Marx ed il comunismo: il tempo emancipato
Il tempo è la posta in gioco nel tempo attuale: la servitù, la condizione di alienazione si deve associare alla dispersione del tempo. Il capitalismo assoluto vorrebbe essere il signore del tempo, e dunque mettere in atto nella storia una nuova creazione, nella quale il tempo è negato, in questa maniera ipostatizza se stesso e pone nella condizione di famuli eterni i suoi servi fedeli e socialmente trasversali.
In Marx tale problema è sicuramente uno dei tratti del suo pensiero rivoluzionario: la scommessa futura per Marx è la possibilità data ad ogni essere umano con il comunismo di vivere il proprio tempo nel simbolico. Tempo rivoluzionario, il tempo del comunismo, perché tempo umanizzato dall’espressione simbolica comunitaria. Le potenzialità simboliche portano nel loro grembo la verità eterna di ogni essere umano, ovvero la comunicazione nel segno della reciprocità simbolica. Non a caso Marx, pur non avendo descritto la società comunista, ne ha teorizzato l’elemento essenziale: il tempo liberato dalla sussunzione formale e reale, dalla sottomissione al macchinismo, per essere tempo dell’emancipazione. La praxis rivoluzionaria apre la prospettiva di un orizzonte nel quale si ipotizza l’abolizione di ogni attività esclusiva, e cioè di un’organizzazione della società che

«regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».[2]

Se il tempo del capitalismo è il tempo dei dormienti, dei viventi stranieri a se stessi come alla comunità, il tempo del comunismo è il tempo che libera dalle scissioni, per rendere concreta la natura umana, le sue potenzialità espressive che non possono essere confinate in angusti limiti.

Il tempo che verrà
Il tempo è il luogo della vita, dell’unità, è il grande tema rimosso dalle “sinistre” del sistema. Naturalmente il silenzio sul tempo svela e rileva la realtà nichilistica delle “sinistre” omologate sul tempo dell’azienda. Il futuro si gioca sul senso e sugli usi del tempo: la “sinistra” senza metafisica, non può che schierarsi con il capitale, proprio perché è in assenza di una metafisica, di una visione olistica nella lettura del tempo presente e della storia.

Occorre riaprire il dibattito filosofico e politico sul problema del tempo e della vita: non è altrimenti pensabile riconfigurare il presente in una prospettiva nuova. La sfida a cui occorre rispondere la si può sintetizzare nell’aforisma di Nietzsche che giudica le macchine il mezzo più efficace per eliminare dalla storia la soggettività e formalizzare in modo sostanziale il trionfo dell’uomo mediocre ed adattato:

«La macchina come maestra. – La macchina insegna, attraverso se stessa, l’interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa fornisce il modello dell’organizzazione partitica e della condotta bellica. Non insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare il vantaggio della centralizzazione». [3]

 

La macchina può liberare il tempo dell’essere umano, come prospettato da Marx nel frammento su macchinismo, o renderlo schiavo. Tutto è ancora possibile, malgrado che il silenzio perduri su tale tema.

Salvatore A. Bravo

[1] Aristotele, Fisica, IV, 11, 218 b, II. 23-33 e 219 a, II. 1-2; traduzione di Luigi Ruggiu.

[2] K. Marx, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 24.

[3] F. Nietzsche, Umano troppo Umano, volume II, aforisma 218.

 

 

 


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Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

David Foster Wallace 05

Ci sono due giovani pesci che nuotano
e a un certo punto incontrano un pesce anziano
che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice:
– Salve ragazzi. Com’è l’acqua? –
I due pesci giovani nuotano un altro po’,
poi uno guarda l’altro e fa:
– Che cavolo è l’acqua?
David Foster Wallace, Questa è l’acqua

[clicca qui per leggere la pagina di Wallace]

Salvarore A. Bravo

L’epoca della normalità del male

 

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Sommario

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I pesci di David Foster Wallace

Dialettica spazio-tempo

L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

L’antiumanesimo del sistema Capitale

Un mondo senza virtù

Genealogia del Capitale e dello stato presente

La prima domanda da porre

Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Senza modelli progettuali,
non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

 

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I pesci di David Foster Wallace

Ci sono totalitarismi impliciti – e dunque non riconosciuti – che agiscono capillarmente con modalità pervasive, difficilmente identificabili. Il problema è il percorso per riconoscere il totalitarismo implicito e l’integralismo in cui siamo immersi, come pesci in acqua. In genere, non si è capaci di discernere la qualità ambientale ed ideologica che si respira e ci trasforma, in una parte di un tutto, poiché la normalità, l’abitudine all’indifferenza come al parossismo del valore di scambio congela ogni attività critica domandante. L’animale è parte integrante dell’ambiente, è specializzato e funzionale al suo contesto di sopravvivenza, non lo cambia, non può trasformarlo, perché in assenza del linguaggio e della rappresentazione non può agire su di esso per riconfigurarlo, e quindi ne è passivamente parte, come il pesce nell’acqua che non può rappresentarsi l’acqua e di conseguenza non può immaginare un altro modo di vivere. La tecnocrazia, nella stessa maniera, sempre più persuade che lo stato attuale è l’unico mondo possibile, dunque siamo come pesci in acqua, senza linguaggio per ripensare l’ambiente socioeconomico in cui siamo gettati.

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Dialettica spazio-tempo

Non è necessario organizzare squadre di pompieri pronte a bruciare libri ed a proibire la lettura come in Fahrenheit 451. Il potere economico ha assimilato il potere politico: oggi utilizza mezzi meno palesi, fa appello all’esemplificazione, ai processi di alienazione, alle miserie dell’abbondanza per lobomotizzare l’essere umano, per sottrarre all’ente generico (Gattungswesen) le sue potenzialità, il suo essere un animale simbolico. Aldo Capitini definiva il totalitarismo consumista una forma di “americanismo-pompeiano”: l’eccesso, la dismisura è la legge dell’integralismo economico. La spazializzazione contro la temporalità vissuta ed in quanto tale storica e dotata di senso, è la dialettica che sostanzia il totalitarismo economico. Per Kant è il tempo l’intuizione che dà senso allo spazio, per il totalitarismo economico, lo spazio deve assimilare lo spirito (Geist).

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L’ipostasi merce e la natura consumante dell’uomo nichilista

La spazializzazione agisce in modo da occupare gli spazi per sottrarre con la stimolazione delle immagini, degli idola-merce, ogni possibilità di prassi del soggetto che sottoposto al “bombardamento etico” del libero mercato, abdica ad ogni valutazione critica sul senso e sulla congruità del contesto in cui è disperso. Lo spazio pervade i tempi della mente sottoponendola ad un’accelerazione osmotica di desideri, riducendola ad un porto nel quale le merci sono scaricate e caricate. La spazializzazione della vita è dinanzi ai nostri sguardi, ma come il pesce nell’acqua, non ci rappresentiamo il mondo merce, non lo nominiamo: eppure esso c’è , è l’ipostasi e noi siamo l’accidente. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, a questo punto, non necessita di squadre di pompieri pronte ad incenerire, con i libri, i pensieri autonomi e disfunzionali al sistema capitale, ma agisce riempendo gli spazi di merce sottraendo al libro, alla sospensione della valorizzazione, ogni possibilità di diventare reale.
Le grandi librerie si riempiono di oggetti di ogni genere, di conseguenza gli imprenditori delle multinazionali del libro, non sono antitetici al sistema capitale, ma complementari, al punto che il potenziale lettore trova in una libreria, non solo libri, ma anche carabattole, stoviglie, mezzi multimediali: la distrazione dal libro, dal pensiero critico, è così organizzato all’interno degli spazi nei quali invece, si dovrebbe organizzare e riorganizzare l’apparato simbolico: il fine è solo vendere, per cui il libro è reso eguale a qualsiasi merce.
Non è necessario che vi siano i pompieri ad inibire la lettura, si agisce per la dimenticanza del libro, della coscienza oppositiva e critica, ostruendo i canali nutritivi della temporalità, inaridendo la natura umana generica per definirla nei termini di natura consumante, ed osservante agli obblighi della legge del libero scambio.

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Cura maniacale del corpo e pornografia di se stessi

Il passo ulteriore dell’asfissia-merce è l’adattarsi dell’essere umano alle leggi del mercato, al punto di percepire se stesso come “capitale umano”: una merce un po’ speciale, da immettere nel mercato delle competenze e della competizione previa ostentazione della merce in oggetto. La pornografia di se stessi. La spazializzazione è la messa in vendita sul mercato della “cura di sé” che – a dispetto dell’ultimo Foucault – non è affatto la messa in atto di liberi processi di soggettivizzazione, ma è unicamente cura maniacale del corpo, tentativo di ridurlo a corpo morto, a pura spazializzazione ben tornita, cartina di tornasole per rendere più vendibili le proprie competenze comprate nel circuito della “offerta formativa”.

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L’antiumanesimo del sistema Capitale

Il modo di produzione capitalistico nega la natura degli esseri umani, pone la persona sullo stesso livello degli animali non umani: questi ultimi si caratterizzano per essere specializzati in una particolare funzione; il capitalismo specializza l’essere umano rendendolo funzione in una particolare attività produttiva. È negata la polisemia simbolica dell’essere umano: nel capitalismo assoluto l’essere umano è sempre più consumatore senza limiti, piuttosto che produttore. È opportuno rammentare la lezione di Marx, che a soli ventisei anni, aveva compreso gli effetti antiumanistici del sistema capitale:

«La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente difronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». [1]

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Un mondo senza virtù

Marx descrive un mondo senza virtù, senza aretè (ἀρετή), parola greca in italiano poco traducibile, perché la virtù per i Greci era la realizzazione di sé. Essa è bellezza, perché generativa (Platone, Simposio), è l’umano nella forma finalistica: ciascuno ha un’indole, un dono/virtù (cristianamente: i “talenti”), che deve affinare e formare, affinché la sua vita sia degna di essere vissuta; divenendo se stesso, l’essere umano si stacca dallo stato ferino, dall’immediatezza dei bisogni riordinandoli in una dimensione universale. Pertanto Aristotele può affermare[2] che lo sviluppo virtuoso dell’intelletto india, rende simili alla divinità. Giustizia e felicità coincidono nella visione greca: la Politeia (Πολιτεία) di Platone presuppone non solo la giustizia, ma anche la felicità, poiché ogni cittadino occupa un ruolo che corrisponde alla propria natura e pertanto è felice. Senza la dimensione temporale non vi è telos (τέλος), ma solo il bieco meccanicismo che riduce l’essere umano ad un ente gettato in uno spazio senza tempo e dunque sottratto alla storia. La lotta personale e collettiva è tenere in vita il proprio senso, la fedeltà al proprio destino contro l’integralismo economico meccanicistico. Naturalmente non è sufficiente. Perché la prassi sia parte del quotidiano, si deve elaborare un progetto collettivo a più voci. Ma senza questa prima forma di resistenza non vi alcun inizio, alcun agere, ma solo l’ipostasi mercato, che curva le parole, le espressioni dialogiche nella forma merce, e dunque il dispositivo (Gestell) si installa per parlare per noi, i posseduti dall’economia di mercato.

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Genealogia del Capitale e dello stato presente

L’emancipazione dal capitalismo assoluto non può prescindere dalla conoscenza critica. Massimo Bontempelli, filosofo e storico, nel suo scritto L’ Agonia della scuola italiana chiarisce che sapere critico è quel sapere capace di mettere in discussione i fini, mentre la tecnocrazia didattica si sofferma sulle abilità tecniche per giungere a fini già prestabiliti ed indiscutibili. L’emancipazione necessita di una messa in discussione dei fini, mediante i processi archeologici-genealogici della Filosofia. Il metodo processuale tipico della Filosofia – e strutturatosi in particolare con Rousseau, Marx e Foucault – rimette in discussione l’ipostasi mercato rimappando dati e necessità che invece, attraverso di esso, appaiono nella loro umanità, non più un destino senza destinazione, ma potenzialità interne alla storia umana. Un nuovo asse culturale è dunque imprescindibile al fine della prassi, altrimenti si sarà condannati a vivere nell’eterna ripetizione del presente, esposti alla precarietà come al male di vivere come fosse una necessità ontologica.

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La prima domanda da porre

Bisogna, dunque, reimparare a domandare, ed in ciò la Filosofia è un ausilio non sostituibile:

«Le domande da porre non sarebbero: Quali tipi di sapere volete squalificare dal momento che chiedete: è una scienza? Quali soggetti parlanti, discorrenti, quali soggetti d’esperienza e di sapere volete dunque “minorizzare” quando dite: “Io che faccio questo discorso, faccio un discorso scientifico, e sono uno scienziato”? Quale avanguardia teorico-politica volete intronizzare per staccarla da tutte le forme circolari e discontinue del sapere?».[3]

La prima domanda da porre è “Chi parla?”. Abbiamo smesso di chiedercelo. I libri, come la Storia, muovono a questa domanda che desostanzializza i feticci per porre la verità della Storia: lo Spirito umano. Senza la domanda fondamentale “Chi parla?”, il mercato continuerà a parlare, a decidere, ad imperare sui sudditi e sugli esecutori. Si narra che l’imperatore che decise la costruzione della grande muraglia fece bruciare tutti i libri, tranne i libri di medicina. A chi gli chiedeva perché avesse bruciato anche i libri di Storia, l’imperatore rispose che sono sempre un pericolo per il governo in corso.

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Lottare contro la “normalità” e non contro la “banalità” del male

Anche oggi libri e Storia sono minacciati dal potere economico che – per eternizzarsi – deve rimuovere dallo spazio i libri e ridurre la Storia a semplice successione temporale, a semplice presenza nel curriculum scolastico. Il potere si sottrae, così, al giudizio, poiché per la Storia insegna a riconoscere il male e dunque non lo rende “normale”, al punto da non riconoscerlo. Lo Spirito del mondo (Weltgeist), la prassi che porta verso l’emancipazione e la libertà si ritira dall’umanità: al suo posto non resta che il tempo privato dalla sua teleologia. La normalità del male, per George Mosse, è la condizione per l’affermarsi dei totalitarismi, e non la banalità del male della Arendt:

«Non mi pare dunque adeguato parlare della banalità del male, come fa Hannah Arendt. Trovare un’altra espressione è difficile, ma io parlerei della normalità di un male che minaccia in forme estreme il nostro secolo […] Che cosa c’era nella mente? Innanzitutto questo pensiero chiaramente espresso in un famoso discorso di Himmler: abbiamo visto tutti questi cadaveri, e tuttavia restiamo forti. Ritengo che Hannah Arendt non sia nel giusto parlando di banalità del male».[4]

***

La perenne tensione dell’ostilità predatoria

La normalità del male è la precarizzazione della vite oggetto dei capricci del mercato e della legge del profitto. Il paradigma del nuovo ordine mondiale è l’utile che si concretizza nell’individuo astratto, avulso dalla comunità che usa tutto e tutti al fine di ottenere il massimo risultato possibile. La condizione della normalità del male è simile allo stato di natura descritto da Hobbes nel Leviatano. Ogni individuo nello stato di natura vive perennemente la tensione dell’ostilità predatoria, è come se il cielo minacciasse continuamente tempesta, per cui lo stato di precarietà è presente anche nei periodi brevi di calma:

«Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico».[5]

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L’economicismo è la negazione del libro (dell’umanesimo)

Libri e prassi sono filologicamente legati, sono il luogo dove lo Spirito dell’umanità prende forma per simbolizzare dialetticamente il tempo. La glorificazione dell’economicismo ha il suo puntello adamantino nella negazione del libro e della lettura. Ogni resistenza deve iniziare dall’attività pratico-teoretica della lettura. Contro il nichilismo economico e dello spettacolo il libro può essere una fenditura nel sistema, un diniego silenzioso dello stato presente. Senza la cultura del libro e della mediazione razionale consustanziale ad essa, non resta che l’incultura dell’immediato, la quale, mentre promette e lusinga con le sue aspettative, forgia le catene del nichilismo, il cui tempo è contenuto nella guerra di tutti contro tutti, nella condizione di spettatore dinanzi agli effetti della globalizzazione.

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Senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete

Per ricostruire un’azione politica, è necessario lo studio in cui trovare modelli mediati razionalmente nella presente storia: senza modelli progettuali, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che ripete se stesso. I modelli progettuali, in modo comparativo, dispongono al pensiero. La pedagogia del nichilismo, la distruzione dei contenuti – a favore della tecnodidattica che pone i libri in uno stato di minorità – è il germe che veicola la tirannia dell’economia sulla politica, è la negazione della cittadinanza. Contro tutto questo, sono possibili soluzioni plurali, ma rimane la centralità del pensiero teoretico/pratico.

 

[1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, paragrafo XXIV.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b30-31.

[3] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi Torino 1977, p. 170.

[4] G. Mosse, Intervista sul nazismo, Laterza, Bari 1997, pp. 72-73.

[5] T. Hobbes, Leviatano, Utet Torino, pp. 158-159.

 

 


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