Salvatore Bravo – Il ponte di Genova: simbolo dell’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo. Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

Ponte Morandi di Genova

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«Fare soldi è un arte, […].

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Salvatore Bravo

Il ponte di Genova:
l’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo

Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

 

Il crollo del ponte di Genova è simbolo e sostanza del capitalismo assoluto. È simbolo di una prassi dell’abbandono di ogni spazio pubblico. I governi di ogni colore negli ultimi anni si sono succeduti per confermare la consegna ai privati del pubblico. Il privato come mantra della soluzione di ogni problema finanziario mostra le sue nefandezze ed i suoi crimini. L’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo, palesa la stupidità dell’integralismo economico. In assenza di ogni misura, etica e progetto comunitario, l’integralismo economico fa dell’immediato, del guadagno senza prospettive e responsabilità, la sua legge suprema. Si spinge per l’angustia di prospettive ad uccidere la mucca che quotidianamente munge.

Il disastro di Genova è stato annunciato da decenni, se lo stesso Morandi nel 1979 dichiarò, in un articolo sul quotidiano La Verità, che il ponte andava incontro a problemi di ruggine causa usura tempo e salsedine. Ricorda, tale tragedia, il Vajont per la collusione pubblico-privato, e per gli studi che annunciano il disastro. L’appalto per il rifacimento degli stralli era stato espletato, ma si è deciso di rimandare i lavori a settembre. Sorge il dubbio che tale posticipo sia dovuto al desiderio improrogabile a non rinunciare ai guadagni dei pedaggi che nella stagione estiva sono notevoli. Il simbolo diviene sostanza del turbocapitalismo, il fine di ogni prassi nel capitalismo assoluto è il denaro, la riduzione di ogni persona, di ogni comunità a plusvalore. Tale logica è confermata dall’amministratore delegato Castellucci che, seppelliti i morti, propone 500 mln di euro per i sopravvissuti, e la ricostruzione del ponte in acciaio in otto mesi. Ancora una volta il denaro diviene padrone del mondo, dovrebbe lenire la tragedia. I servitori del turbocapitalismo vorrebbero acquietare gli animi con una manciata di quattrini, non certo rendendo pubblici gli accordi finanziari secretati. L’ipertecnologico capitalismo globale ruota su se stesso per affermare il nuovo Medioevo del denaro: i pochi possono tutto, usare finanche i beni pubblici come feudo personale, i tanti restano in uno stato semischiavile, esposti al pericolo di perdere la vita e la dignità.

 

Il Plusvalore legge dell’economia e delle sue tragedie

La cancrena del plusvalore è così parte del modo di agire ed esserci, il dispositivo è parte in un modo così meccanico che ad un errore causato dal plusvalore si vuol riparare con un errore più grande, confermando la logica profonda sottesa a tale tragedia. Marx descrive il denaro come la logica del capitalismo che tutto trasforma, capovolge il mondo come i sentimenti, ne dimostra la pericolosità. Fin quando ci si inginocchia alle logiche del plusvalore siamo tutti in pericolo:

 

«Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua proprietà costituisce l’onnipotenza del suo essere, esso è considerato, quindi come ente onnipotente. […] Il denaro è il mediatore fra il bisogno e l’oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita mi media anche l’esistenza degli altri uomini. Per me è questo l’altro uomo. […] Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò ch’io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono: il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, considerato onesto; io sono stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre questo può comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più intelligente dell’uomo intelligente? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario? […] Poichè il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso costituisce la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane. […] Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore del mondo. L’uomo ha cessato di essere schiavo dell’uomo ed è diventato schiavo della cosa; il capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell’era feudale […]».[1]

 

L’asservimento a tali logiche spinge verso il baratro, ma può essere occasione di coscienza, di consapevolezza. La scissione dimostrata ai funerali di Stato tra quanti hanno accettato i funerali di Stato e quanti lo hanno rifiutato, è la spia evidente di una contraddizione in seno alla comunità, di un diffuso sentimento di abbandono di parti enormi della popolazione italiana ed europea. La tragedia nella tragedia è stato l‘atteggiamento delle “ex-sinistre” di governo, la loro malcelata difesa dei Benetton.

Nichilismo dell’integralismo economico

A “sinistra” non vi sono idee, ma interessi, e ciò è parte del declino italiano ed europeo. È necessario rammentare i valori ed i vissuti che fra tante contraddizioni nel secondo dopoguerra hanno posto un limite agli interessi privati per affermare la centralità dei diritti sociali. La pietà deve trasformarsi in pensiero, in progetto politico altrimenti il rischio è un’irrimediabile deriva nichilistica. L’atomistica delle solitudini lasciata a se stessa diviene bacino elettorale di forze che non hanno nel loro progetto la comunità solidale e l’individuo liberato. Senza una chiara progettualità comunitaria, senza una “buona utopia”, senza una nuova consapevolezza collettiva mediata dal pensiero è problematico solo ipotizzare una nuova coscienza civile capace di porre le condizioni per superare la palude in cui siamo caduti.

 

Il bivio tra crematistica ed economia

 Per inoltrare lo sguardo verso il futuro è necessario radicarsi criticamente verso il passato. Il bivio è tra crematistica ed economia. Se si abbraccia la crematistica, inevitabilmente, l’eccesso come regola al di là dei bisogni autentici, spingerà verso la tragedia i singoli come l’umanità. L’economia, dal greco οἴκος (oikos), “casa” e νόμος (nomos), è il regolamentare i bisogni veri della casa. Tale bivio nella condizione attuale può apparire distante, astorica, in quanto ormai non si pensa che secondo la logica crematistica (dal greco “χρήματα” ricchezza illimitata). In verità «Il noto è sconosciuto», come affermava Hegel: dinanzi ad un pianeta che non regge per il consumo illimitato delle risorse (pianeta limitato, ma assoggettato a desideri illimitati), si può comprendere come la scelta del percorso da intraprendere sarà determinante per il futuro prossimo a venire.

Concludo con la distinzione svolta da Aristotele tra crematistica ed economia, distinzione dispersa e dimenticata nel linguaggio attuale, al punto che si chiama economia ciò che è crematistica.

L’indistinzione nella pratica favorisce le tragedie:

«È chiarito quindi anche il dubbio mosso all’inizio, se cioè la crematistica appartiene all’amministratore della casa e all’uomo di stato o no, ma si devono invece presupporre i beni (perché come la scienza dello stato non produce gli uomini, ma, ricevutili da natura, se ne serve, così pure la natura deve dare, quali mezzi di sostentamento, la terra, il mare e qualche altra cosa) e, dopo ciò, è compito dell’amministratore disporre il tutto in maniera conveniente. In effetti, l’arte del tessitore non deve produrre la lana, ma usarne e discernere qual è buona e utilizzabile, quale cattiva e non utilizzabile: che certo si potrebbe pure dubitare per quale motivo la crematistica è parte dell’amministrazione domestica e la medicina no; eppure i membri della casa devono stare in salute, proprio come devono vivere e avere ogni altra cosa necessaria. Il fatto è che, per un certo rispetto, appartiene all’amministratore e al governante vegliare pure sulla salute, ma per un certo rispetto no, bensì al medico: allo stesso modo, riguardo ai beni, per un certo rispetto appartiene all’amministratore interessarsene, per un certo rispetto no, bensì a un’arte subordinata. Ma è soprattutto la natura che, come s’è già detto, deve provvedere all’esistenza di tali beni: infatti è compito della natura fornire il nutrimento all’essere che nasce e, in realtà, ciascun essere trae il nutrimento dal residuo di materia da cui è nato. Perciò è secondo natura per tutti la crematistica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l’attività commerciale e l’economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l’altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (e di qui ha pure tratto il nome: in realtà gli esseri generati sono simili ai genitori e l’interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura».[2]

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

[1] K. Marx, Manoscritti economico filosofici, 1844.

[2] Aristotele, Politica, § 10.



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Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Tecnica e cultura classica
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Algoritmi

 

Salvatore Bravo

Tecnica e cultura classica

 

Il Prometeo scatenato

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Il capitalismo assoluto ha reso tale scissione prassi quotidiana. La tecnica divenuta strumento dell’integralismo economico, per potersi affermare senza che vi siano “ostacoli epistemologici,” ha reso la coscienza umana ed il simbolico presenze superflue della storia. Il mito della tecnica con i suoi dogmi vive e si espande a livello globale mediante la mitizzazione della stessa. Ogniqualvolta sono presenti difficoltà di ordine politico relative alla comunità, l’orientamento generale è il volgersi a professionisti della tecnica, i quali rispondono con l’ausilio delle macchine. Le previsioni economiche sono demandate ad economisti, i quali leggono ed interpretano proiezioni stabilite da algoritmi. L’onnipotenza si radica nell’astratto, nella scissione. L’assenza della mediazione politica comporta il delinearsi di “comunità” che piegano le ginocchia ed il capo dinanzi al nuovo “ipse dixit”: ciò fa del capitalismo assoluto – con le sue straordinarie potenzialità tecniche – un nuovo medioevo. I nuovi clerici che parlano in nome della nuova divinità non sono che l’espressione del trionfo della tecnica. I detentori del potere sono egualmente dominati, quanto lo è la comunità passivizzata ed alienata. La tecnica – senza la mediazione simbolica – trasforma l’intera comunità rinserrandola nella «gabbia d’acciaio» in cui l’oscurità – presenza impalpabile, ma onnipresente della tecnica – diviene l’essere, il fondamento pernicioso a cui gli schiavi non vogliono rinunciare. Non tutti gli schiavi sono in una eguale condizione. I possessori dei mezzi di controllo vivono una comoda condizione alienata, il loro privilegio li allontana dagli effetti della divinità di cui sono i tragici servitori. Gran parte dell’umanità invece, vive la tragedia della verità come un dato naturale ed intrasformabile. Le ragioni possono essere plurime. La vittima solitamente ha vergogna della condizione in cui versa, preferisce rimuovere il crimine che si perpetra a suo nocumento, piuttosto che guardare lo stato verso cui è stata spinta. Le vittime spesso non credono più in se stesse, la loro vita interiore è spezzata, resa muta dallo scorrere del tempo che, come Crono, divora attimo dopo attimo i suoi figli e le loro energie. L’onnipotenza della tecnica, vero Prometeo scatenato, umilia l’umanità, nessuna competizione è possibile tra l’essere umano e la macchina. Si assiste ad una nuova Rivoluzione copernicana alla centralità della macchina contro l’umanità. La macchina è posta al centro della storia, di essa si esaltano le formidabili capacità operative, la memoria, come l’instancabile operosità. Viene occultata la presenza umana. La “verità” della macchina vorrebbe imporsi in quanto tale, in dispregio del dato lapalissiano che senza il genio umano l’onnipotenza della macchina sarebbe inesistente. L’antidealismo del regno della macchina è così celato. L’operazione ideologica sulla soglia della fine della storia è l’esaltazione della macchina e la mortificazione dell’essere umano. La democrazia del capitalismo assoluto introduce in ogni ambito la macchina, anche dove non sarebbe necessario, si deve insegnare l’asservimento coatto alla macchina, in modo da limitare gli spazi di autonomia. La Storia senza l’essere umano è l’ambizione del capitalismo assoluto, dell’integralismo economico macchinale. In tale condizione che non può che essere affermata e confermata dal semplice sguardo che si posa, pensando, le semplici operazioni del nostro quotidiano. La formazione classica è resistenza al dispositivo, Gestell, all’impianto artificiale che sostituisce la vita.

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L’attualità del mito di Theuth

La cultura classica riapre il campo al logos, alla sua presenza simbolica. Il rapporto tra virtù (dal greco ἀρετή aretè) e tecnica (dal greco τέχνη téchne), ed i pericoli presenti nella loro scissione sono presenti nel mito di Theut. L’invenzione della scrittura quale nuova tecnica per conservare la memoria è potente, ma non virtuosa, poiché la scrittura riduce l’autonomia dell’essere umano, in quanto si delega al testo scritto la memoria. La presenza del testo scritto riduce lo spazio di attività dell’essere umano, il quale è fiducioso che il mezzo esterno possa conservare ciò che non può e non vuole con debita fatica ricordare nella mente. Il supporto della memoria è oggi un mezzo dalle potenzialità incontemplabili: i mezzi informatici. Essi hanno la funzione di ricordare per noi: arretra l’umano per lasciar spazio ad esseri chini, non metaforicamente, sui mezzi informatici, i quali rammentano, organizzano e dispongono della vita delle persone. L’atto del delegare è di ausilio alla fine della Storia. Esseri umani abituati alla delega, ad abdicare ogni energia non possono immaginare un’altra storia, di essere protagonisti della stessa, la possibilità che la Storia possa rompere gli ormeggi per un nuovo inizio. Il mito di Theut tratta di un altro problema in cui siamo implicati: la tecnica cambia il modo di imparare. Il supporto ridisegna le modalità con cui ci si relaziona al sapere. La scrittura come il supporto informatico consentono di accedere alle informazioni senza la mediazione, la discussione, la fatica di concettualizzare e ricostruire olisticamente i contesti dell’informazione. Il supporto diviene così veicolo della cultura o meglio dell’incultura dell’astratto. Solo la mediazione discorsiva, il mettere in gioco la parola tra dialoganti trasforma l’informazione in concetto, permette di elaborare la dialettica nello scontro come nella condivisione senza la quale ogni informazione rischia di passare come acqua su marmo, per essere esercizio mnestico momentaneo.

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Algoritmi Google

 

Le nuove scritture della memoria

Il cambiamento del supporto della conoscenza ha l’effetto di cambiare la posizione antropologica nella storia dell’umanità. Come nel mito di Platone l’assenza del vaglio delle possibilità e delle conseguenze nell’introduzione della tecniche comporta la decadenza dell’essere umano nella Storia. Tale riflessione non è svolta, anzi il sistema è organizzato per neutralizzare ogni discussione pubblica e valutazione sui proclamati benefici della tecnica. La motivazione è l’integralismo economico che trasforma ogni invenzione tecnica in occasione di investimento. L’ostilità verso la cultura classica cela il timore che questa possa riaprire spazi in cui l’essere umano si riappropri della propria presenza nella storia. Così Platone codifica tale problematica:

 

”[274 c] […] Socrate – Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, [d] del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a] inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b] una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti».[1]

 

La scrittura in quanto oggettivazione della parola mette in pratica una forma di riduzionismo, poiché la fonetica con la sua espressione viva, con il corpo vissuto nel contesto di formazione della parola è oggettivata nella scrittura. Tale riduzionismo, l’oggettivazione della vita, si ripresenta nell’uso delle macchine che asservono l’essere umano per sfruttarlo.

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Marx e il capitale fisso

Marx nel primo libro del Capitale ha descritto ed argomentato l’uso della tecnica per sfruttare, per astrarre dall’essere umano il plusvsalore. La tecnica è così il mezzo per ridurre l’altro a semplice strumento, a mezzo con la voce come ha affermato Aristotele nella Politica. La pericolosità si fa più stringente, plumbea presenza nichilistica, per la potenza esponenziale della tecnica. Già Marx descrive la condizione degli operai, delle operaie e dei bambini nelle fabbriche. Servitori delle macchine, muoiono di sfinimento per servire il Capitale che si concretizza nelle macchine produttri di PIL:

 

“Abbiamo già accennato in precedenza al deterioramento fisico dei fanciulli e degli adolescenti, come pure delle operaie, che le macchine assoggettano allo sfruttamento del capitale, prima direttamente nelle fabbriche, che sulla base delle macchine spuntano rapidamente, e poi indirettamente in tutte le altre branche dell’industria. Qui ci fermeremo quindi su un punto solo: la enorme mortalità tra i figli degli operai nei loro primi anni di vita. In Inghilterra si hanno sedici distretti di stato civile pei quali, come media annua, su centomila bambini viventi al di sotto di un anno si verificano solo novemila ottantacinque decessi (in un distretto solo settemila e quarantasette), in ventiquattro distretti, più di diecimila, ma meno di undicimila; in trentanove distretti, più di undicimila, ma meno di dodicimila, in quarantotto distretti più di dodicimila e meno di tredicimila, in ventidue distretti più di ventimila, in venticinque più di ventunmila, in diciassette più di ventiduemila, in undici più di ventitremila, a Hoo, Wolverhampton, Ashton-under-Lyne e Preston più di ventiquattromila, a Nottingham, Stockport e Bradford più di venticinquemila, a Wisbeach ventiseimila, e a Manchester ventiseimila e centoventicinque. Come ha dimostrato un’inchiesta medica ufficiale nel 1861, gli alti indici di mortalità si devono, prescindendo dalle condizioni locali, prevalentemente all’occupazione extra domestica delle madri, donde deriva che i bambini sono trascurati, maltrattati, fra l’altro sono nutriti in modo inadatto, mancano di nutrizione, vengono riempiti di oppiacei, ecc.; al che si aggiunge l’innaturale estraneamento delle madri nei riguardi dei loro figli, con la conseguenza dell’affamamento e dell’avvelenamento intenzionale. “Invece” in quei distretti agricoli “dove l’occupazione delle donne è minima, l’indice della mortalità è minimo”. Però la commissione d’inchiesta del 1861 dette l’inatteso risultato che in alcuni distretti puramente agricoli sulle coste del Mare del Nord, l’indice della mortalità per bambini al di sotto di un anno raggiungeva quasi i più famigerati distretti industriali».[2]

 

 

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Economia tecnocratica come Assoluto

Marx descrive l’estraniamento da se stessi e dagli altri, fino all’estraniamento della madre dal figlio. La tecnica si è evoluta, non ha le asperità della prima e della seconda Rivoluzione industriale, ciò malgrado opera per separare, per ridurre i tempi del logos e per asservire. La pervasività attuale in ogni campo, mentre promette prodigi, minaccia di ridurre l’essere umano a pura presenza complementare nella Storia, ad individuum, ad atomo. La tecnica non è al servizio dell’essere umano, ma del Capitale che può ben fregiarsi del titolo di Assoluto – absolutus – sciolto da ogni legame. Tecnica e Capitale in condizione di pace apparente, sono divenute il deterrente che imbavaglia la Storia, mentre ogni disobbedienza è pagata a prezzo di bombardamenti, la cui distruttività non ha memoria nella storia. Il nichilismo è il regno dell’angoscia, la minaccia ed il controllo sono onnipresenti.

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Il Frammento sulle macchine

Apriamo i Grundisse, nel Frammento sulle macchine: Marx elabora un abbozzo di uscita dalla gabbia d’acciaio e dal disincantamento. La macchina e la tecnica non più come strumenti per astrarre il lavoro vivo, ma come mezzo per l’umanità liberata. La tecnica resa concreta, liberata dall’alone metafisico, può divenire strumento per l’inizio della storia. La macchina per l’essere umano e non l’essere umano per la macchina. Il Prometeo scatenato del Capitale, può ritrovare la sua misura, il suo senso, se si realizza un percorso di consapevolezza e collaborazione collettiva che pongano le condizioni materiali e storiche per l’uso delle tecnologie in nome dell’essere umano. Le fabbriche come cellule di autogoverno, luogo di azione dal basso per il funzionamento della produzione per i bisogni della collettività e non per la sua alienazione legalizzata. La libertà nel Capitale è misura, soddisfazione di bisogni autentici e non indotti. La Storia irrompe nel meccanicismo riduzionistico dell’efficientismo della produzione per riportare l’umanità ad essere la protagonista della sua storia, l’artefice del suo destino.

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Cultura classica come formazione alla libertà consapevole

Vi è nel pensiero di Marx una presenza carsica che riappare: la sua formazione classica, dalla quale il filosofo di Treviri ha imparato la dignità dell’uomo con l’umanesimo greco. Nella sua tesi di laurea, La Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, del 15 Aprile 1841, Marx compara il sistema filosofico-fisico di Epicuro e Democrito. Predilige il sistema di Epicuro poiché pone al centro la libertà dell’essere umano, la sua possibilità di scegliere e dunque di essere responsabile della sua prassi. Il sistema della tecnica dev’essergli apparso non come destino, meccanicismo democriteo, ma come l’effetto di una umanità senza coscienza, che non crede nella possibilità di poter cambiare la Storia. L’umanesimo dei Greci vive nella storia intellettuale di Marx, per cui dinanzi alla violenza della tecnica, non la interpreta come necessità, ma come possibilità storicamente condizionata che attende di essere liberata delle sue potenzialità. La tecnica è posta dall’uomo, spetta all’umanità stabilirne le teleologie nella Storia. L’idealismo marxiano si rende evidente. La speranza nel futuro, in un presente di senso, non può che passare per la rilettura di Marx e per il potenziamento della cultura classica, senza i quali non può che esservi il naufragio di ogni comunità. I complici dell’integralismo economico e tecnocratico sono in primis le sinistre ufficiali che hanno smesso di credere nell’essere umano per abbracciare la finanza e la fine della Storia.

Salvatore Bravo

 

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[1] Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 790–791.

[2] K. Marx, Il Capitale, primo libro, capitolo XIII, III paragrafo.



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Richard Rorty (1931-2007) – Salvatore Bravo critica «il pensiero debole» alla Vattimo e il nichilismo pragmatista e liberista alla Rorty. Essi nascondono che il tempo del capitale assoluto è mera temporalità cronologica, che si traduce solo nei simboli della produttività coatta, deprivando dello slancio vitale.

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«Mi sembra che l’immagine greca della filosofia come riflessione sui problemi eterni che si ripresentano costantemente alla mente umana sia sbagliata. Non ci sono problemi filosofici fondamentali» (R. Rorty, Intervista, rilasciata a Massarenti A. per Il Sole 24 Ore, 23 luglio 1995).

 

 

«Il filosofo che ammiro di più, e che di cui di più vorrei pensarmi come discepolo, è John Dewey» (R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999).

 

 

«Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria. Il fine del filosofo postmetafisico è proprio quello di eliminare le opinioni che divergono dalle proprie e di allontanare fisicamente quanti non accettano, in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista. In quanto filosofo relativista, le idee di cui si fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle del relativismo antico: inesistenza di una natura umana, inconcepibilità di valori oggettivi, assenza della verità. […] Una società tanto più apparentemente laica e liberale quanto più concretamente dittatoriale. Infatti chi non si accoda al pensiero debole dei postmetafisici non solo è bollato come pazzo, ma non ha neanche il diritto di chiamarsi cittadino di una democrazia liberale. […] La società rortiana non può che trasformarsi in una eterna guerra di tutti contro tutti, [… uno] scontro libero e aperto» […] . Una società «liberale» solidale con il pensiero dominante […] . Sorge il fondato sospetto che l’analisi rortiana poggi sulla concezione di un uomo inesistente, astorico (Irene Giurovich, La follia del nichilismo «liberale» in Richard Rorty, in Dialegesthai, url: <https://mondodomani.org/dialegesthai/ig01.htm>).

 

La filosofia e lo specchio della natura

La filosofia e lo specchio della natura

Salvatore Bravo

La filosofia senza specchio

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Il prospettivismo senza centro del pensiero debole
La palude del presente, l’impossibilità di immaginare un futuro con l’angoscia che ne consegue, a tale condizione in odore di colpa sociale e politica non è esente la Filosofia. Negli ultimi decenni la Filosofia è diventata organica al potere economico. Il pensiero debole codificato da Vattimo con il prospettivismo senza centro è divenuto postulato filosofico, comporta sicuramente la complicità con la deriva economicistica. Se tutte le prospettive sono poste sulla linea dell’irrilevanza, la critica ha il valore di semplice espressione fonetica senza fondamento. L’economicismo in tal modo si rafforza, tentacolare pervade ogni campo della vita civile fino ad essere parte integrante del modo di pensare e di agire delle persone-individui senza comunità e senza gruppi medi di discussione. La mediazione si esplica in presenza del pensiero forte, di una prospettiva che dialetticamente si confronta con le altre prospettive evidenziando una capacità fondativa forte.

Il pensiero debole

Il pensiero debole

Il pensiero debole rende la critica puro esercizio retorico, non motiva alla prassi, alla trasformazione, anzi è un pensiero che svuota ed indebolisce l’opposizione. Ogni prospettiva forte è subitaneamente tacciata di essere “totalitaria,” in quanto male assoluto, da eliminare dalla scena politica. Al suo posto vige una Filosofia da salotto, accademica, da bacio perugina: curiosità per i ceti semicolti che sfoggiano fraseologia ad effetto per rubare la scena della conversazione ad altri. Filosofia ha dunque abdicato al suo statuto epistemologico, ovvero alla ricerca della verità, per essere prospettiva tra le prospettive. La critica filosofica ha solo un effetto anodino. Il potere non può che irridere ad una disciplina che si esibisce senza nulla proporre. La società dello spettacolo nelle sue vetrine mette in scena la Filosofia. Nell’irrilevanza nichilistica generale vi sono testi ed autori che consacrano la morte della Filosofia. Le accademie filosofiche dunque, sono corresponsabili del ruolo terzo della Filosofia e del tramonto di ogni futuro possibile. Non resta che sguazzare nell’eterno presente disperso in una miriade di prospettive senza verità.

La Filosofia come ermeneutica
La Filosofia annuncia il suo tramonto, al suo posto non vi è che la sua mimesi, un’imitazione mediocre di ciò che è stato. L’industria del falso trionfa e con essa l’economicismo dello spettacolo. Richard Rorty (1931-2007) con la sua opera La Filosofia e lo specchio della natura (1979), è parte di un clima culturale in cui il progresso si sposa con il continuo trascendere di ogni tradizione, fino ad inaugurare una nuova epoca, nella quale la Filosofia – rinunciando ad ogni pretesa veritativa – diviene disciplina tra le discipline, pura ermeneutica, mediatrice nella contingenza del sovrapporsi di prospettive senza verità destinate ad arenarsi, ad impigliarsi nella storicità che tutto supera e consegna al vuoto. In tale condizione la Filosofia è semplicemente disciplina della consapevolezza che ogni verità è polvere, e dunque agisce affinché “la verità non vi sia”, e regni in tal modo la tolleranza, la fratellanza nella rinuncia ad ogni fondamento. R. Rorty si spinge oltre, sentenzia che la Filosofia deve rinunciare al suo linguaggio. La verità, la sostanza, i fondamenti devono essere tacitati in nome di una Filosofia ridotta a funzione ermeneutica, pertanto essa diviene mediatrice culturale, soccorre ogni prospettiva che osi porsi come verità schiacciandola nella contingenza liberata da ogni fondamento. Paladina senza linguaggio della tolleranza, il cui fine è rafforzare il sistema liberal-liberista, in quanto essa è conversazione, maieutica che forma alla consapevolezza che ogni posizione prospettica è debole:

«Se consideriamo la conoscenza non come il possesso di un’essenza, che debba essere descritta dagli scienziati e dai filosofi, ma piuttosto come un diritto, secondo modelli correnti, di credere, allora ci troviamo sulla strada giusta a vedere la conversazione come il contesto ultimo all’interno del quale la conoscenza dev’essere compresa. Il fuoco della nostra considerazione si sposta allora dalla relazione tra gli esseri umani e gli oggetti della loro ricerca, alla relazione tra modelli alternativi di giustificazione e di qui ai mutamenti reali in quei modelli che costituiscono la storia intellettuale».[1]

 

 

Il linguaggio filosofico
La Filosofia come conversazione per avvicinare posizioni apparentemente distanti, ma in realtà con un comune fondamento: la contingenza, il nichilismo. L’attività filosofica per poter procedere nella prassi dell’ermeneutica deve operare su se stessa ad una autentica mutilazione: il linguaggio. La Filosofia con il suo lessico specialistico è accusata di essere “totalitaria,” di aspirare ad un ruolo privilegiato all’interno del sapere, cioè di stabilire le condizioni autentiche del pensiero, e la corrispondenza tra rappresentazione e fenomeno. Il linguaggio filosofico intessuto dal “fondamentalismo epistemologico” inibisce la conversazione, poiché sclerotizza la conversazione con la sua pretesa veritativa. Si chiede alla Filosofia di rinunciare alla sua tradizione, al suo linguaggio per essere mediatrice ermeneutica:

«La discutibile sicurezza di sé di cui stiamo parlando è semplicemente la tendenza del discorso normale a bloccare il flusso della conversazione, presentandosi, come quello che è in grado di offrire il vocabolario canonico per la discussione di un dato argomento e, più in particolare, la tendenza della filosofia normale fondata epistemologicamente a sbarrare la strada imponendosi come il vocabolario definitivo di commisurazione per ogni possibile discorso razionale».[2]

Sistematici ed edificanti
Non vi è disciplina a cui si chieda di rinunciare al suo linguaggio specifico, di rompere con la sua tradizione. Con la Filosofia “normale” da Platone, a Cartesio, da Kant a Husserl, si intende la Filosofia veritativa. R. Rorty ai sistematici ed al loro linguaggio predilige i filosofi edificanti, i quali hanno rinunciato alla verità, da Nietzsche a Sartre passando per Heidegger, filosofi della contingenza, distruttori della tradizione, della verità. Nel caso di Heidegger, Rorty apprezza lo smantellamento della metafisica tradizionale in nome di una concezione dell’essere non definibile e sfuggente. La Filosofia dunque come conversazione sull’opinione, appiattita tra le discipline senza un suo statuto linguistico e dunque “figlia di un dio minore”. Una disciplina senza il suo lessico specifico, che ha rinunciato alla sua tradizione, si dubita possa divenire mediatrice ermeneutica. Non solo, la consapevolezza di appartenere ad una storia di fallimento deprime la motivazione a filosofare, ma specialmente ci si dovrebbero chiedere le motivazioni per cui nel simposio delle discipline si dovrebbe accettare la presenza di una disciplina esperta nelle contingenze del mondo, perché essa stessa ha sempre fallito. L’autorevolezza di cui non si ammanta la pone in un ruolo secondario. L’ermeneutica si riduce dunque a vuota sociologia, alla sua imitazione.

 

Il fraintendimento marxiano
Tra gli autori “edificanti,” Rorty individua Marx:

«Quando filosofi edificanti come Marx, Freud e Sartre offrono nuove spiegazioni dei nostri consueti modelli di giustificazione delle nostre azioni e delle nostre asserzioni, e quando queste spiegazioni sono assunte e integrate nelle nostre vite, noi diventiamo esempi evidenti del fenomeno di cambiamento del vocabolario e del comportamento aperto dalla riflessione».[3]

Naturalmente in questo caso, come negli altri, si fa una operazione fortemente ideologica: si privilegia una parte per inficiare il tutto. Il Marx di Rorty è il filosofo che dimostra che le verità e la coscienza non sono che prodotti ideologici. In realtà Marx non dispera affatto di dimostrare la verità della storia: la lotta di classe. Marx come Hegel evidenzia che verità e storicità non sono antitetiche, anzi la verità si svela e rileva nella storia con gradualità. La Filosofia edificante, invece, con il suo storicismo senza verità, con la Filosofia ridotta a rango di dossologia, palesa il legame silenzioso del filosofo statunitense con la Filosofia di Foucault e di Deleuze. Non esiste natura umana, pertanto ogni prospettiva è legittimata, anche e specialmente il liberismo capitalistico con la sua violenza mercificante, poiché immette tutto sul mercato indifferenziato delle merci: le opinioni sono merci, come tali sono tutte legittimate ad essere vendute. Nessuno può sottrarsi allo spazio della visibilità. Il logos, il metodo, la dialettica non sono che residui esiziali della tradizione da trascendere in nome della libera conversazione. La Filosofia diviene dunque complice del suo superamento, non si difende, non ricerca altre possibilità, semplicemente si annichilisce. R. Rorty ed i seguaci del pensiero debole fanno della Filosofia un’esperienza marginale a livello politico e teoretico. In verità, se è vero che la metafisica tradizionale non può essere riproposta, questo non significa che sia impossibile una nuova metafisica umanistica.

Sistemi aperti e chiusi
Ai sistemi chiusi si possono opporre sistemi aperti capaci di cogliere la verità, il fondamento nella storia, sicuramente perfettibile e disponibile all’autocorrezione. Nessuno potrebbe smentire che l’essere umano è relazione. Ogni atto umano presuppone la relazione, per cui ogni sistema che fa del privato, dell’atomizzazione la sua indiscutibile teleologia non è nella verità. La relazione vive le sollecitazioni della storia, del cambiamento senza essere trascesa. R. Rorty è espressione di una Filosofia accademica che diviene ideologica, ovvero con ragioni apparentemente forti è finalizzata a difendere il presente, ad eternizzarlo in nome dell’assenza della verità. E dunque il presente è tutto, intrasformabile, poiché si può dimostrare l’inconsistenza di ogni verità presunta, mentre l’unico fondamento è la conversazione che rende irrilevante ogni prospettiva. La decadenza dell’Occidente culturale trova nella Filosofia una complice evidente. Lo scenario culturale è fortemente depauperizzato dal clima di relativismo in cui il dinamismo è solo transazione finanziaria, spostamento di folle per il parco-giochi mondiale, o per migrazioni dei popoli resi schiavi dagli smisurati bisogni consumistici dell’Occidente. Il dinamismo cela sia la verità, sia la mercificazione di tutto, l’irrilevanza che consente ogni mercificazione. La Filosofia, se utilizza i propri linguaggi, i suoi metodi, è capace di rendere pubblica la verità e di effettuare la catabasi. La Filosofia come conversazione ermeneutica non può bastare, non è la risposta alle inquietudini del mondo piuttosto serve ad eternizzare “La notte del mondo”.

Pensiero debole e fine della Storia
La Rivoluzione per il capitale, parafrasando un articolo di Gramsci, si manifesta anche mediante il tramonto di una tradizione filosofica, l’abbandono della verità, della prassi per il contenimento della trasformazione e della ricerca in nome di un relativismo che vorrebbe chiudere il ciclo della storia. Il caso Rorty è strutturale alla fine della storia, ad una civiltà che ha sostituito la prassi con il poietico, con la produzione materiale delle merci, in cui la rinuncia alla fatica della verità è espressione di un ripiegamento sul presente scisso dalla tradizione, dal passato, e dal futuro. Il presente diviene l’attimo, il consumo senza slancio vitale. La verità necessita di slancio vitale, mentre la mera mediazione tra le opinioni è tipica della civiltà dell’indifferenza.

Il presente senza adesso
Eugène Minkowski ha distinto l’adesso dal presente in Il tempo vissuto:[4] l’adesso è il momento apicale in cui lo slancio vitale, l’inconscio, vive in modo diretto, senza mediazioni, è il momento della vita intensa, in cui la logica cronologica e distesa è messa tra parentesi. Il presente è l’adesso disteso, in cui il presente si coniuga con passato e l’avvenire. Senza l’adesso, il sentire fortemente se stessi ed il mondo, non vi può essere il futuro. L’adesso svela a se stesso il ruolo che la vita nella forma sostanziale e dinamica ha segnato a ciascuno. Sentire l’adesso è l’attimo in cui la collettività scopre l’orizzonte dell’agire. Senza l’ascolto dell’adesso non vi è che meccanicismo e solitudine: il tempo è ridotto a pura consequenzialità logica, a separazione da sé e dall’alterità. Salubre è società nella quale lo slancio vitale e la relazione non sono impedite e distorte, ma accolte nella loro irruenza creativa. Il tempo del capitale assoluto è temporalità cronologica, distesa lungo l’asse della relazione-successione per guardarla e tradurla solo nei simboli della produttività coatta. Si opera per recidere alla fonte la vita, l’adesso, nel quale l’individuale si sposa con il collettivo. La Filosofia è libera nell’adesso, nel non trovare unicamente ragioni produttive al suo dispiegarsi. La resistenza civile della Filosofia è nel rendere testimonianza che l’adesso è sempre possibile in ogni epoca ed in ogni condizione. La testimonianza filosofica è consustanziale all’umanità, è il distacco vivo dal meccanicismo per rendere voce alla libertà del pensiero. Trae la motivazione nel ripiegarsi sull’adesso per poi uscire fuori da sé. Il presente è successivo, è l’atto della traduzione dell’adesso nel tempo del presente che ridispone sul piano della successione. La società è vitale, se l’adesso è parte integrante di essa. Nell’adesso vi è il segreto del futuro, della trasformazione che conosce i ritmi della vita e del tempo. Le perle raccolte nell’adesso per diventare storia collettiva necessitano dopo l’atto creativo di una pluralità di ritmi temporali che si allungano, rallentano per essere coscienza collettiva. L’adesso è l’erotica di Platone, lo spirito dionisiaco nietzscheano, la durata di Bergson, senza i quali non vi è Filosofia, non vi è dialettica dell’avvenire, ma solo malinconica ripetizione. L’adesso è il tempo profondo della Filosofia e dell’umanità. L’attacco all’adesso, è il progetto razionalistico e tecnologico di disumanizzare e rendere eterno il presente: la fine della storia. Resistenza è continuare a vivere per l’adesso, la Filosofia è ovunque vi siano persone nell’adesso. L’adesso è una delle parole che spiega la nascita della Filosofia in ogni epoca. Contro l’adesso vi sono le continue mitragliate della produttività a tutti i costi, dell’integralismo economico, il cui fine è la società dello scollamento, della divisione, della separazione. Perché ci sia l’adesso è necessario che la Filosofia riconquisti il suo linguaggio, il suo statuto epistemologico.

Salvatore Bravo

***

[1] Richard Rorty, La Filosofia e lo specchio della natura, Bompiani 2004, pp. 780-781.

[2] Ibidem, pp. 774-775.

[3] Ibidem, p. 773.

[4] Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.



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Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Marx e l'umanesimo del lavoro
Salvatore Bravo

L’umanesimo del lavoro in Marx

 

 

Il lavoro dell’uomo macchina
La competizione
La flessibilità
Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi
Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro
Il lavoro coatto brucia la creatività
Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà
Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

***

 

Il lavoro dell’uomo macchina

Il lavoro è divenuto esperienza della costrizione, della coazione a ripetere. La globalizzazione, la competizione senza limiti intensificano a dismisura la dequalificazione del lavoro, il quale è pura attività produttiva finalizzata alla sopravvivenza biologica e del mercato. Il lavoro del capitalismo assoluto è molto di più che un fenomeno di abbrutimento dell’umano, è il tentativo scientemente organizzato di introdurre nella carne viva dell’essere umano il meccanicismo dell’uomo macchina. Si assiste dunque ad una nuova rivoluzione copernicana: questa volta al centro non vi l’uomo, ma il plusvalore che detta le leggi della produzione e delle macchine da riprodurre, e tra queste macchine l’essere umano. Il lavoro come pura meccanica è introdotta nella carne viva attraverso le parole. I linguaggi creano mondi e concetti e con essi disposizioni ad agire ed a essere. Le parole che risuonano come imperativi categorici sono: competizione-flessibilità.

 

La competizione

La competizione spinge il lavoratore a regredire ad una condizione emotivamente primitiva. Si vive la realtà dell’ambiente del lavoro come fosse stato di natura, per cui si diffida di tutti: per principio l’animale braccato, perennemente in tensione ansiosa, si rappresenta l’altro come nemico potenziale. Si disgrega in tal modo la naturale tendenza umana all’intenzionalità relazionale. La natura umana non la si può cancellare con un tratto di penna. Può sopravvivere, ma in modo perverso: il soggetto giudica la naturale disposizione ad aprirsi all’altro come debolezza, come patologia, e dunque utilizza le proprie energie per deviare l’intenzionalità dal suo obiettivo.

 

La flessibilità

La flessibilità è molto più che la perenne migrazione-sradicamento: è l’impossibilità di conoscersi. Si è sradicati, estranei, alienati specialmente da se stessi. Il cambiamento continuo, come l’aggiornamento continuo, spinge a vivere in superficie, a indossare maschere senza forma ed identità: dietro di esse non resta che il vuoto cosmico. La flessibilità è dunque la condizione che rende l’identità fragile e vulnerabile, abbatte la resilienza. L’insopportabile è tollerato perché il sistema – in modo silenziosamente coercitivo – produce musulmani, ovvero utilizzando il linguaggio di Agamben, esseri al limite tra l’umano e l’inumano. Si pensi alla condizione a cui è sottoposto un lavoratore in attività ripetitiva come nel call center, la fabbrica con la catena di montaggio, i campi dove si raccolgono i prodotti in modo semischiavile, in un clima di terrore e minaccia. Si può essere licenziati con estrema facilità con la conseguente impossibilità di sopravvivere. Il lavoro in tal modo diviene esperienza simile, ma non uguale, all’attività degli animali non umani: meccanica ripetizione di comportamenti, scollati da se stessi, dalla realtà materiale, e si realizza un riduzionismo regressivo.

 

Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi

Il lavoro come espressione di sé, della relazione comunitaria, progetto creativo in cui conoscersi è scomparso dalla discussione politica e culturale. La “sinistra ufficiale” ha sposato una visione liberista e primitiva del lavoro, irride chiunque ponga il lavoro come problema, come condizione imprescindibile della qualità della vita da intendersi non in senso del potere d’acquisto, elemento non secondario, ma come occasione vitale per sentirsi parte attiva della comunità, come percorso per conoscere le potenzialità profonde che ciascun soggetto reca con sé e che quasi sempre scopre solo nella relazione. Rileggere Marx è un buon esercizio contrastivo per comprendere il lavoro nella sua prismatica ricchezza sempre minacciata dai modi di produzione regressivi:

«Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza».[1]

Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro

L’essere umano in questo testo risplende per la sua umanità, porta con sé l’universo e la bellezza della natura e del cosmo, che le condizioni materiali e storiche non consentono si attuino. Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro. La produzione per l’essere umano non è un semplice atto ripetitivo, ma in esso si rende visibile tutta la natura. La bellezza del mondo, della natura con le sue infinite e multiformi forme, si realizza nell’attività pratica. L’antiumaniesimo è nel sistema industriale coatto il quale, allora come oggi, nega la natura umana ”Gattungswesen”, la natura umana generica, per ridurla, mortificarla, depauperizzarla. L’umanesimo del lavoro di Marx si oppone alla nientificazione dell’attuale sistema, il quale alla violenza della recisione delle potenzialità aggiunge sistemi di controllo tali da misurare, quantificare i tempi non dell’azione completa, ma dei singoli gesti che sono divisi per essere parcellizzati, misurati in modo da cogliere il gesto eccedente l’obiettivo e normalizzarlo. Si pensi ai lavoratori delle grandi multinazionali ed al silenzio della politica sulle loro condizioni lavorative. Lavoro eterodiretto dunque.

 

Il lavoro coatto brucia la creatività

Marx evidenzia invece che l’essere umano produce, sapendo liberamente misurare il gesto al fine, non necessita di comandi e gerarchie. La persona è attività pensante che concretizza la dignità dell’essere umano nella produzione autonoma e come tale disalienata. La libertà è creatività, ricchezza materiale ed culturale. Il lavoro coatto brucia la creatività per lasciare al suo posto solo una mente ingombra di comandi e merci, in cui non c’è più spazio per il pensiero autonomo. L’umanesimo di Marx è dunque il fondamento del suo pensiero filosofico. L’essere umano con la sua dignità eleva il mondo, mentre quando l’essere umano è abbassato a livello della pura biologia o di animale non umano è l’intero mondo che precipita.

 

La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale si apre al mondo

L’umanesimo di Marx è lapalissiano nella speranza materiale di un regno in cui la necessità sia sostituita dalla libertà. Quest’ultima è parola abusata, utilizzata per descrivere la libertà dell’eccesso, della mercificazione del lavoro come di ogni essere umano. In Marx la libertà ritrova la sua gravità significante. La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale trova spazio, si fa storia, si apre al mondo e dunque a se stessa:

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mani che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».[2]

 

Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà

Il regno della libertà, e il lavoro liberato dai fini economicistici ridiventa senso della persona, gratificazione mediata. Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà. Il lavoro diviene l’innalzarsi dell’albero verso la luce, secondo la metafora nietzscheana, poiché l’attività pratica lavorativa è discesa nell’interiorità, dove si toccano emozioni e profondità sconosciute, e nello stesso tempo ci si innalza dalla necessità per sentirsi semplicemente esseri umani. Il regno della libertà è il regno dei lavoratori associati, ovvero dove tutti partecipano all’attività produttiva, dove non vi sono sudditi, o leader davanti ai quali inginocchiarsi, ma esseri umani in posizione attiva verso la storia, i quali come si afferma nell’Ideologia tedesca, non sono più costretti in un ruolo. L’idealismo di Marx qui si coniuga con l’umanesimo, poiché in entrambi i casi l’essere umano è considerato attività che pone la storia come il prodotto Gegenstand e non obiectum. L’uomo è libero quando pone il lavoro, il suo lavoro, se stesso.

 

Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

Solo nel regno della libertà l’essere umano può costruire e produrre secondo le leggi della bellezza. Il nostro Totalitarismo non riconosciuto è nel regno della necessità, nella sopravvivenza aumentata senza qualità. L’assenza del tema del lavoro in senso qualitativo è la prova evidente della regressione sociale e culturale a cui stiamo assistendo. Il silenzio delle così dette “sinistre” su tale tema è inquietante, proprio perché la qualità del lavoro è la sostanza dimenticata. Se la lettura di Marx continuerà ad essere occultata e rimossa, il deserto dell’alienazione continuerà ad avanzare inarrestabile. Il lavoro è il fondamento della nostra Costituzione (articoli, 1, 3, 36). Il lavoro – contro ogni riduzionismo – vi è contemplato non come semplice attività, ma come la dignità della persona, e non certo legata alla pura sopravvivenza. I costituenti per elaborare la costituzione avevano riferimenti culturali forti. Oggi il nichilismo dei contenuti è anche ignoranza dei grandi pensatori senza i quali non vi è che una progettualità da continua campagna elettorale senza contenuti.

Salvatore Bravo

***

[1] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 2004, p. 75.

[2]  Karl Marx, Il Capitale, vol. III, sez. VII, cap. 48, p. 933.



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Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.

Sergio Marchionne

 

Il World Class Manufacturing

Il World Class Manufacturing

La globalizzazione ha i suoi imperativi, e la competizione – per essere all’altezza del mercato mondiale – deve trasformare gli uomini in soldati dell’efficienza.

 

Il modello Marchionne inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione.

 

Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda, la sua essenza, come affermava Marx, è un’essenza generale, per cui l’essere umano è un mondo di possibilità che il lavoro non deve mortificare o comprimere, ma piuttosto valorizzare, lasciando ai lavoratori gli spazi fisici e temporali per la vita di relazione.

Obama-Marchionne

Trump-Marchionne

Il lavoro all’epoca di Marchionne

 

La morte di Marchionne svela e rileva l’assenza non solo di senso critico da parte del clero orante dei giornalisti uniti in un volgare ed ossessivo “Osanna” del manager, ma specialmente il vuoto dell’opposizione. Il rispetto verso chi non è più tra noi esige un’operazione di verità e delicatezza. Nel caso di un personaggio ad impatto pubblico è necessaria una valutazione che tenga presente tutti i dati e non solo una parte di essi in funzione osannante. L’informazione parziale che occulta e rimuove il prezzo del successo globale, non solo non informa, ma palesa quanto il servizio pubblico sia in realtà privato, schierato ideologicamente, mentre si afferma che le ideologie sono non solo morte, ma sono un impaccio alla produttività: ecco l’unica ideologia innominabile di cui bisogna essere servi, ma senza saperlo. La condizione reificata è una pratica, si concretizza anche nell’essere servi senza saperlo, nel dividere il mondo fatalmente in servi e padroni, come se la linea che separa i due mondi sia determinata fatalmente da forze celesti. La Fenomenologia dello Spirito con la figura “Servo- Padrone” ha descritto la condizione del servo che si sottrae alla lotta, e dunque fatalmente vive nell’alienazione fino alla presa di coscienza di sé. La nostra è un’epoca servile sul lavoro come nell’uso della lingua: l’angloitaliano.

World Class Manufacturing, una disciplina che vi mette in ordine

World Class Manufacturing.

Il World Class Manifacturing, «una disciplina che vi mette in ordine»

Il nome di Marchionne, ed i suoi indubitabili successi globali, è legato ad una modello di produzione: il World Class Manifacturing, modello produttivo di origine giapponese. Tale modello – che ha nel fare il punto cardine (si noti l’ing finale, che evidenzia la prassi empirica) – esige il massimo della produttività con i costi minori, e in particolare un’apparente democrazia aziendale che prescrive l’abolizione del “lei”, l’accorciamento della filiera gerarchica e burocratica, la valorizzazione del merito non certo per nascita, ma spostato sull’asse competenza-impegno. La sostanza di tali “comandamenti” è la competizione.

Marchionne sistem

Nei bilanci aziendali la vita non è sul conto

La globalizzazione ha i suoi imperativi, e la competizione – per essere all’altezza del mercato mondiale – deve trasformare gli uomini in soldati dell’efficienza. La retorica della famiglia-azienda serve per motivare all’impegno, operazione di sottrazione degli spazi di libertà sempre maggiori che sono riempiti dal lavoro senza soste (e non è un’iperbole).
L’era Marchionne ha dato agli operai nuovi ritmi di lavoro per produrre e battere il mercato mondiale. Ben ottocento milioni di euro sono stati investiti per spostare la produzione dalla Polonia a Pomigliano d’Arco. Tale operazione ha sicuramente richiesto sacrifici agli operai tutti, ciò ha salvato il posto di lavoro agli operai di Pomigliano, ma dobbiamo valutare anche i costi sulla carne viva dei lavoratori. Nei bilanci aziendali la vita non è sul conto. I provvedimenti per aumentare la produttività in queste ore vengono taciuti abilmente e miseramente: alla catena di montaggio la riduzione da quaranta a trenta minuti della pausa, lo spostamento della pausa mensa a fine turno, lo scatto salariale legato ai risultati ottenuti dallo stabilimento. Certo, i lavoratori di Pomigliano hanno accettato le nuove condizioni lavorative con un referendum che ha accolto, con il 63 per cento, le nuove realtà lavorative.

 

La competizione orizzontale indotta tra i lavoratori

Marx ci ha insegnato che la libertà formale ha un valore ideologico, operai e padroni in teoria sono egualmente liberi, ma in realtà la condizione operaia spinge ad accettare l’inaccettabile per sopravvivere. Piuttosto che lasciarsi stordire dal rito dei numeri, dal balletto delle celebrazioni, si pensi al clima relazionale che si vive nelle “manifatture della produzione”, tutti contro tutti. Dove ancora c’era un minimo di solidarietà di classe ora si spinge per la competizione orizzontale che, di fatto, sotto il ricatto della chiusura degli stabilimenti, rende la condizione lavorativa disumana, fonte di malessere. Il ricatto con cui gli operai hanno dovuto sottostare ai nuovi ritmi di lavoro e le nuove relazioni sindacali rilevano il volto celato del successo. Si ricordi che la FIOM è stata prima illecitamente esclusa e poi reintegrata: si pesi al caso del licenziamento degli operai Fiom di Melfi reintegrati con sentenza del tribunale di Potenza. Il culto del successo spesso nasconde la polvere degli aiuti di Stato sotto il tappeto, ma è un occultamento difficile, data l’entità dei numeri. La FIAT ha usufruito – secondo uno studio della CGIA di Mestre del 2012 – di ben 7,6 miliardi di euro e ne ha investiti 6,2. La Fiat divenuta Fca ha sede fiscale ad Amsterdam ed il domicilio fiscale a Londra, per cui sarebbe interessante sapere dove versa le tasse…
Certo, è un’operazione diffusa tra le eccellenze mondiali dell’industria, su cui non bisogna sospendere il giudizio etico e politico, malgrado la giurisprudenza consenta questo nel silenzio complice di troppi governi.
Insomma il ribaltamento generale a cui assistiamo è il rappresentare l’astratto: i risultati senza il concreto, le condizioni materiali dei lavoratori. Tale rovesciamento rammenta le critiche di Marx ad Hegel, il quale aveva posto l’idea come essere fondativo della storia e non le condizioni storico materiali. Il silenzio delle opposizioni, e non si tratta solo dei partiti e dei movimenti politici, non permette di teorizzare possibilità operative e produttive alternative alla “manifattura della produzione”.
Il modo in cui ci si stringe ad esaltare il modello Marchionne inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione (articoli 1, 28, 35, 36, 37, 38).

 

L’essere umano è un mondo di possibilità
che il lavoro non deve mortificare o comprimere, ma piuttosto valorizzare

Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda, la sua essenza, come affermava Marx, è un’essenza generale, per cui l’essere umano è un mondo di possibilità che il lavoro non deve mortificare o comprimere, ma piuttosto valorizzare, lasciando ai lavoratori gli spazi fisici e temporali per la vita di relazione.
Il contesto di questi mutamenti sono da leggere anche all’interno di una cornice nazionale in cui si è eliminato l’articolo 18, e si è introdotto la precarietà e lo sfruttamento disciplinati dai nuovi contratti. Se si opera con una visione d’insieme, l’epoca Marchionne ci parla di noi, delle terribili condizioni globali verso le quali si è assunto lo stesso atteggiamento che si ha verso i fenomeni naturali: le leggi di natura si accettano senza discutere. È il caso invece di ricominciare a dialettizzare i dati, ad essere persone che fanno dell’economia l’oggetto della comunità, e non il soggetto draculesco che vuole sempre più pluslavoro per molti e plusvalore per pochi. Le contraddizioni necessitano di pensiero e parole, che in questo momento sembrano tragicamente silenti. Riportare il concreto nel regno ideologico dell’astratto è il primo passo per uscire dal buio della caverna.

Non ci resta che riflettere sulle tre possibilità enumerate da Costanzo Preve:

«Di fronte a questa situazione, io vedo tre soluzioni possibili, che mi permetto qui di segnalare brevemente. In primo luogo, si può continuare a sostenere la globalizzazione neoliberale, affermando che essa non è stata ancora radicalizzata abbastanza. È la tesi ad esempio di Niall Ferguson (cfr. “La Stampa”, 30-11-09). Secondo Ferguson (cito): “ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto agli anni della signora Thatcher e di Reagan”. Questo approccio deve portare (e Ferguson lo dice apertamente) alla integrale fine del Welfare State. Questo programma, che lascia alla sua destra solo Attila e Gengis Khan (scherzo, perché questi due signori erano a mio avviso complessivamente migliori di tutti i Ferguson del mondo), viene giustificato con la constatazione degli altissimi ritmi cinesi di sviluppo. In poche parole: o torniamo al capitalismo selvaggio totale, o la concorrenza asiatica ci distruggerà. Ed il paradosso sta nel fatto che il cannibale Ferguson ha perfettamente ragione, ma ce l’ha solo dando per scontato che la globalizzazione neoliberale sia una divinità da non mettere in discussione, l’unità di Dio e del Diavolo, di Prometeo e di Lucifero.
In secondo luogo, si può continuare a belare contro la globalizzazione evitando di proposito il diabolico richiamo al protezionismo (non importa se forte o leggero, eccetera). Si tratta del ridicolo ed impotente Movimento detto No Global (in acronimo MNG), che personalmente proporrei seriamente di ribattezzare Presa in Giro Planetaria (in acronimo PGP). Questi buffoni, vera e propria pittoresca opposizione mediatica di Sua Maestà (sua maestà è ovviamente la globalizzazione neoliberale), si mobilitano ogniqualvolta i Potenti si incontrano per mettere in scena una commedia dell’arte post-moderna (cassonetti rovesciati, vetrine infrante, pagliacci in trampoli, mangiatori di fuoco, prefiche belanti, eccetera). Qui l’etica e l’estetica di infima qualità si incontrano. L’estetica del cattivo gusto kitsch si unisce trionfalmente con l’etica della ostensione lamentosa ed impotente. Si avanzano con petizioni, e ricevono idranti. I nostri lontani discendenti li ricorderanno così. La sola cosa che questi giullari non chiedono mai è il solo rimedio contro la globalizzazione neoliberale, e cioè il sacrosanto protezionismo. Ci vedono in esso con la saggia proposta di Fichte e poi di List dello stato commerciale chiuso, ma tutti i fantasmi di “destra” che li assillano: lo stato nazionale, il bottegaio leghista, l’intervento comunitario nazionale sulla sovranità assoluta dell’individuo, eccetera. È la rivolta dell’individuo sovrano (senza denaro) contro il suo gemello individuo sovrano (con denaro). Su questo avrei voluto fare lunghe considerazioni filosofiche, ma per ora le risparmio al lettore, perché ho pietà di lui.
In terzo luogo, finalmente, c’è chi ha avuto finalmente il coraggio di prendere il toro per le corna e la padella per il manico, affermando la legittimità del protezionismo, almeno per aree geografiche (un “piccolo protezionismo” a livello di singolo stato nazionale è infatti del tutto impraticabile, anche ove fosse astrattamente auspicabile). La sola risposta alla globalizzazione neoliberale è infatti geopolitica (parola del tutto ignota alla PGP, presa in giro planetaria), e non può che comportare la formazione nel mondo di alcune grandi aree protezionistiche (con quali modalità concrete non tocca a me giudicare, in quanto non economista), in cui il libero commercio (che resta un valore, ma un valore secondario) è subordinato alla sovranità comunitaria nazionale e locale, al ripristino il più possibile del Posto Fisso, al mantenimento ed anzi all’allargamento del Welfare, all’indipendenza dall’Impero USA neoliberale, eccetera. Noto con piacere e soddisfazione che questa è anche l’esplicita proposta di Alain de Benoist e dei suoi collaboratori (cfr. la rivista in lingua francese Elements, numero 133, ottobre-dicembre 2009). Qui per la prima volta si suggerisce un’ipotesi a prima vista incredibile e paradossale (non però per me, che ho sempre saputo che la dialettica si basa sulla unità degli opposti e sulla loro dinamica di trasformazione reciproca), per cui pur di potersi perpetuare il capitalismo potrebbe anche reinventarsi il comunismo. A chi rimanesse a bocca aperta di fronte a questa (apparente) assurdità consiglio di riflettere sul successo universitario mondiale della trilogia di Tony Negri e di Michael Hardt, in cui si lega l’ipotesi comunista con la globalizzazione incontrollata, il libero scambio, la fine dello stato nazionale e l’esaurimento infinito dei desideri dell’individuo sovrano.

Come diceva un tempo il comico pugliese Arbore:
meditate, gente, meditate!».[1]

Salvatore Bravo

[1] Costanzo Preve, in un’intervista di Luigi Tedeschi il 13/1/2010.


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Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Bravo Salvatore 026

Il disorientamento gestaltico e le parole valigia

 

 

Il capitalismo assoluto non ha solo il monopolio della violenza, ma consolida la «gabbia d’acciaio» attraverso il controllo delle parole.
Noi siamo il nostro linguaggio, il linguaggio ci precede, attraverso di esso diamo significati al mondo, ordiniamo gerarchie, stabiliamo priorità: il mondo è un ordito di parole.
Il monopolio delle parole è dunque il mezzo di controllo delle menti come delle conseguenti scelte. Il linguaggio come essere del mondo, del vivere l’esperienza dell’esserci. Le parole sono la struttura della «gabbia d’acciaio»: l’ordine capitalistico delle parole investe il soggetto per farne un in-dividuo, un atomo, che vive contemporaneamente nella separazione-astrazione. Nel mentre si restringono gli spazi d’azione del pensiero e della prassi, si allargano gli spazi della «gabbia d’acciaio». La libertà – come movimento su larga scala – è inversamente proporzionale agli spazi liberi del pensare. La grande illusione è la libertà fondata sul movimento, sullo spostamento all’interno di spazi sempre più vasti, ma i cui paesaggi sono implacabilmente uguali: ovunque albergano le parole del turbocapitalismo. Si può permettere il libero spostamento, poiché tanto si torna a casa con le stesse parole, con gli stessi concetti, con gli stessi bisogni. La globalizzazione rafforza a livello ideologico il capitalismo assoluto con la patente della libertà che non spaventa, della libertà che non conosce il dubbio, della libertà in cui non vi è inquietudine. Un fine generale-universalistico non esiste, vi è solo il rafforzamento dell’eguale.
Il viaggio rappresentava un’importante esperienza formativa, il divertimento era divertere (ovvero, secondo l’etimologia, cambiare strada): si assaporavano altre parole, altri sguardi, ci si fermava per condividere altre possibilità comunitarie. Il ritorno segnava il momento in cui l’esperienza vissuta diventava parte della comunità in cui si era radicati.
La “libertà” al tempo della globalizzazione è invece regno dell’eguale, la partenza ed il rientro non comportano spostamenti gestaltici, non vi sono nuove parole significanti, nuove prospettive e rappresentazioni, ma solo un’ innumerevole quantità di immagini da propinare e fagogitare bulimicamente per soddisfare la propria vanità e ammaliare i conoscenti di turno con la narrazione dei viaggi organizzati.
Lo spettacolo, così, si autoriproduce senza nulla imporre: la società dello spettacolo è un enorme accumulo di immagini e spettacoli dal forte plusvalore. Il capitalismo digitale ha fatto dell’immagine la sua verità e la sua merce.
Naturalmente in un’epoca di contrazione delle parole, sempre più stereotipate (riproducenti slogan, e imperativi categorici del consumo e del fare per il fare), non sorge la domanda se l’immagine è la verità, se il suo retroscena celi innominabili interessi ed ingiustizie. Il ritorno è così uguale alla partenza, si è solo rafforzato il velo di Maya dell’immagine che separa, divide, atomizza soggetti come le parole usate. Il sole non tramonta mai sulla passività.
Dunque le parole in questo caso ordinano l’esperienza ma non l’esperienza vissuta. Walter Benjamin distingueva l’esperienza dall’esperienza vissuta, la prima è puramente passiva, la seconda è mediata dal simbolico. Le parole del capitalismo assoluto educano alla passività, mediante l’esemplificazione dei concetti, contenuti minimi, didattica breve, conoscenze specialistiche, problem solving. Le parole devono essere lo strumento con cui si accede al mondo per saccheggiarlo legalmente. Il tramonto dell’occidente è il tramonto delle parole, al loro posto solo immagini mute e mutile:

«Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata».[1]

Le immagini sono percepite ma non vissute. Per essere vissute devono essere ricostruite nella loro genesi olistica, invece si configurano come fotogrammi dell’astrazione, il cui significato resta a livello descrittivo denotativo. La passività è dunque un mondo di esperienze descritte con le stesse parole. Un immenso accumulo di stimoli visivi non guardati, ma percepiti e mostrati come l’ultimo trofeo per “amici” e “conoscenti”.
Il disorientamento gestaltico trova un alleato imprescindibile nelle parole valigia. Le parole – nel pulviscolo motorio – hanno perso ogni aderenza alla realtà, il loro significato è mosso da una sterile polisemia che disorienta ed annichilisce il significato reale. Parlare, argomentare, diventa inutile poiché ciò che è detto significa sempre altro. L’inautentico separa, avvilisce le energie creative. Società schizoide che spinge verso patologie mentali con i suoi terribili e perenni messaggi contradditori. Lewis Carroll in Attraverso lo specchio descrive le parole doppie, contratte, per cui significano parzialmente e vagamente qualcosa da un corno e altro dall’altro corno. È un mondo doppio in cui il vero ed il falso si confrontano senza la possibilità di accertare con sicurezza la verità. Platonismo del falso. Le parole hanno perso il mondo e con esso la verità. Significano quello che vogliono:

«Quest’ultimo verso è troppo lungo per una poesia; – ella aggiunse, quasi ad alta voce, dimenticando che Unto Dunto [Humpty Dumpty] la sentiva. – Non chiacchierare così sola, – le disse Unto Dunto, guardandola per la prima volta, – ma dimmi come ti chiami e che fai. – Mi chiamo Alice, ma… – Hai un nome molto sciocco! – la interruppe con impazienza Unto Dunto. – Che cosa significa? – Forse che un nome deve significare qualche cosa? – domandò Alice dubbiosa. – Altro che! – disse Unto Dunto con una breve risata: Il mio nome significa la forma che ho io … fra parentesi una forma graziosa e bella. Con un nome come il tuo si può avere qualunque forma o quasi». [2]

Si vive in un mondo in cui anche il vero è falso. Lo specchio è lo sdoppiamento, la divisione come fondamento del reale. Tutto può essere interpretato in mille modi, tutto è lecito e legittimato nel regno dell’irrilevanza. Il pensiero e l’essere si sono scissi, per cui la faglia irrompe nelle relazioni tra i soggetti, rendendo la comunicazione impossibile, delirio collettivo che, ritornando alla «gabbia d’acciaio», la vuole intrascendibile. Non vi è uscita senza i significanti che corrispondono al significato. La libertà ha come sostanza le parole ritrovate nel loro senso. Se le parole dicono altro rispetto al loro significato, ogni fiducia e razionalità decade. Le sbarre divengono mura, ma non si ha la rappresentazione delle mura, della prigione. Ogni comportamento teoretico è scoraggiato nella «gabbia d’acciaio», lo spettacolo – per andare perennemente in scena – deve restringere il campo della rappresentazione a puro rispecchiamento-adeguamento, senza speranza. Nella caverna di Platone (VII libro della Repubblica) la possibilità dell’uscita dalla caverna è garantita dalla struttura razionale del cosmo e dell’essere, la lingua conserva il senso profondo del fenomeno, mentre nella «gabbia d’acciaio» il politeismo etico, la cultura delle parole valigia rendono il soggetto debole, lo destrutturano in assenza di significati certi e razionali. Ci si lascia trascinare dal nichilismo passivo, si perde il senso di sé. Il proprio io come affermava Hume è un palcoscenico in cui avviene tutto ed il contrario di tutto. In tali condizioni la prassi è neutralizzata. Parola valigia è chiamare riforma del lavoro la controriforma, inclusione per omologazione, sviluppo per saccheggio del pianeta, lavoro flessibile per sfruttamento, alleanze per trasformismo… L’elenco è lungo e minaccioso, poiché come detto, destabilizza, indebolisce, deprime. La «gabbia d’acciaio» si cementifica con le parole valigia. L’esperienza storica attuale si trasforma così in ipostasi, in destino fatale e letale.
Dobbiamo dunque ridare significato alle parole per ridare dignità alle persone, per ritrovarci persone e non semplici replicanti di parole incomprensibili. Dobbiamo contrapporre alla confusione ideologica la chiarezza dei significati senza i quali ogni via di uscita ci è preclusa. Senza le parole non possiamo conoscere noi stessi. La maieutica è logos, pratica delle parole contro ogni sofistica.
Se le parole tacciono, se il loro significato è manipolato, con esse si perde il soggetto umano. Pensare è rappresentare ciò che non è percettivamente presente. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

L’esodo, l’uscita dalla «gabbia d’acciaio»» necessita della profondità di senso delle parole.

Salvatore Bravo

[1] G. Debord, La società dello spettacolo, Millelire, Stampa Aternativa, 1995, p. 6.

[2] Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, capitolo VI. http://sabian.org/looking_glass6.php Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò o semplicemente Attraverso lo specchio (titolo originale Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, ) è un romanzo fantastico del 1871 scritto dal matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll, come seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il personaggio di Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è protagonista di uno dei dialoghi più celebri dell’intero romanzo. Inoltre, Humpty Dumpty rivela ad Alice il suo approccio all’uso delle parole: “quando io uso una parola […] essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi. […] Con impenetrabilità intendevo dire che di quel soggetto ne abbiamo avuto abbastanza e tanto varrebbe che tu mi dicessi cosa vuoi fare dopo”. All’osservazione di Alice che le parole possono avere tanti significati, Humpty Dumpty replica “quando faccio fare a una parola un simile lavoro […] la pago sempre di più”. Humpty Dumpty vuole “comandare” le parole per dar loro il significato che preferisce.

‘That last line is much too long for the poetry,’ she added, almost out loud, forgetting that Humpty Dumpty would hear her.
‘Don’t stand chattering to yourself like that,’ Humpty Dumpty said, looking at her for the first time, ‘but tell me your name and your business.’
‘My name is Alice, but —’
‘It’s a stupid name enough!’ Humpty Dumpty interrupted impatiently. ‘What does it mean?’
Must a name mean something?’ Alice asked doubtfully.
‘Of course it must,’ Humpty Dumpty said with a short laugh: ‘my name means the shape I am — and a good handsome shape it is, too. With a name like yours, you might be any shape, almost.’
‘Why do you sit out here all alone?’ said Alice, not wishing to begin an argument.
‘Why, because there’s nobody with me!’ cried Humpty Dumpty. ‘Did you think I didn’t know the answer to that? Ask another.’
‘Don’t you think you’d be safer down on the ground?’ Alice went on, not with any idea of making another riddle, but simply in her good-natured anxiety for the queer creature. ‘That wall is so very narrow!’
‘What tremendously easy riddles you ask!’ Humpty Dumpty growled out. ‘Of course I don’t think so! Why, if ever I did fall off – which there’s no chance of – but if I did – ‘ Here he pursed up his lips, and looked so solemn and grand that Alice could hardly help laughing. ‘If I did fall,’ he went on, ‘the King has promised me – ah, you may turn pale, if you like! You didn’t think I was going to say that, did you? The King has promised me with his very own mouth – to – to – ‘
‘To send all his horses and all his men,’ Alice interrupted, rather unwisely.

 

 

 

 



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Vladimiro Giacchè – Recensione di Salvatore Bravo. L’Anschluss della Germania dell’Est. Un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.

Vladimiro Giacchè 01

Vladimiro Giacché svela come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città.

 

Un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta

Anschluss L’Annessione

Anschluss L’Annessione

 

Salvatore Bravo

Recensione al librio di

Vladimiro Giacchè, Anschluss L’Annessione, Imprimatur, 2018

 

***

L’Anschluss della Germania dell’Est

 

Anschluss-L’Annessione è un libro di Vladimiro Giacchè: e ci sono libri che svelano la verità in cui siamo gettati. Vladimiro Giacchè documenta la fine ingloriosa della Germania dell’Est, fine programmata e voluta dal monopolio della finanza. Archetipo del capitalismo in azione, attraverso l’esperienza della RDT si rende palese la logica intestinale-divoratrice del capitalismo assoluto. La tecnocrazia finanziaria ha la sua verità logica ed ontologica nella regressione biologica ad attività di assorbimento e nullificazione di ogni realtà con cui si rapporta. Dietro il paravento dell’algoritmo, dei linguaggi astratti, si cela un primitivismo intestinale: si divora per trasformare in energia per la propria insaziabile voracità. L’energia, qui, è il denaro. Ciò malgrado, la verità non può essere divorata, marginalizzata, vituperata, diffamata: resiste. L’azione del capitalismo assoluto è talmente iperbolica da rendere, in realtà, più semplice di quanto non sembri scoprire la verità. Il «Non c’è alternativa» della Merkel denuncia un certo disagio dinanzi al vero. La forza del capitale assoluto è la debolezza dell’opposizione, di un’alternativa credibile e voluta. Cominciamo con la prima verità: la RDT ha subìto un’annessione veloce e degna di un’invasione manu militari. Quando cadde il muro di Berlino nessun tedesco dell’Est voleva la fusione con l’Ovest. Nessuno striscione – il 4 Novembre 1989 a Berlino – proclamava il desiderio dell’unione delle due Germanie. Il giornale Der Spiegel con un sondaggio, in quei giorni, rese pubblico che il 71% dei Tedeschi dell’Est voleva che la RDT sopravvivesse alla caduta del muro; esigevano riforme democratiche, ma non la cancellazione dell’esperienza socialista:

«Il 17 dicembre sono pubblicati i risultati di un sondaggio sui cittadini tedeschi orientali commissionato dal settimanale tedesco Der Spiegel: il 71 per cento si pronuncia per il mantenimento della sovranità della RDT, il 27 per cento per uno Stato unico RFT». [1]

 

In un tempo brevissimo si è consumato un crimine, l’ennesimo, contro l’umanità. Il mezzo più adatto per intimorire i tedeschi dell’Est e congelare i tentativi di una riorganizzazione della RDT è stata la minaccia del fallimento. I conti erano in rosso, ma non in modo drammatico; le riserve dello Stato erano in buona salute, ma i conti e le riserve non erano pubblica informazione nello stato comunista. Tale elemento alimentò la paura. I movimenti peristaltici erano in funzione: fu sufficiente introdurre il marco tedesco per avere un apprezzamento dei debiti ed i conseguenti fallimenti. Si stimava che l’indebitamento avrebbe raggiunto a fine 1989 una cifra pari a 26 miliardi di dollari. La cifra era errata, ma fu usata come testa d’ariete per fagocitare la Germania dell’Est con l’assenso dell’Unione Sovietica:

«La cifra era sbagliata e molto superiore al vero, perché non teneva conto delle riserve in valuta pregiata detenute dal dipartimento Coordinamento commerciale, diretto da Alexander Schalck-Golodkowsky. Le attività di questo dipartimento, responsabile dell’approvigionamento di valuta pregiata, erano uno dei segreti meglio custoditi della RDT: ne erano di fatto al corrente, oltre ovviamente a Schalck-Golodkowsky, soltanto Honecker e il responsabile dell’economia Mittag, mentre ne era all’oscuro lo stesso capo della pianificazione Schurer».[2]

 

La debolezza dell’economia della Germania dell’Est dipendeva da scelte errate svolte negli anni ‘70: le previsioni sulla produzione di beni di consumo era stata fallace considerando le ingenti risorse investite nell’edilizia. Nulla era irrimediabile. Si decide per spingere verso il fallimento e dunque condurre la popolazione verso l’Ovest, di introdurre il marco dell’Ovest senza un periodo di transizione, ad un cambio proibitivo, l’apprezzamento dei debiti, l’impennata dei prezzi, la produzione di prodotti non competitivi che condurranno al fallimento ed all’impossibile riorganizzazione dello Stato:

«Benché il marco dell’Est non fosse una valuta convertibile, negli scambi commerciali della Germania dell’Est con la Germania si usava un coefficiente di correzione per misurare il valore relativo delle due valute; altri coefficienti di correzione venivano adoperati nei confronti del dollaro e di altre valute occidentali. Nel 1989 questo coefficiente era di 1 a 4,44 marchi dell’Est, e precisamente secondo questo parametro veniva regolato il commercio intertedesco. L’unione monetaria significò quindi un aumento dei prezzi delle merci prodotte nella RDT di poco meno del 350 per cento! (Most 2009: 13, 161)». [3]

L’unità monetaria difatti implica la cessione dell’indipendenza. L’annessione passa per l’unità monetaria attraverso cui si destabilizza non solo l’economia, ma un intero assetto sociale. Il potere d’acquisto dei cittadini della RDT crolla, i loro prodotti non sono più competitivi, i debiti dell’apparato industriale in marchi dell’Ovest paralizza il sistema, non è possibile pagare i debiti perché insostenibili, è impossibili rivitalizzare le industrie con investimenti sui macchinari o altro. La moneta diviene un cappio al collo per tutti i cittadini dell’Est. L’annessione insegna ai Tedeschi ciò sarà fatto alla Grecia, è la verità dell’Europa unita. Verità sommersa eppure palese. Al fallimento segue l’annessione. La campagna elettorale, la prima “libera” nell’Est è una farsa della democrazia. I protagonisti sono esponenti della Germania dell’Ovest, ogni regola, ogni trasparenza, la pluralità sono negate. Si promise di trasformare la Germania dell’Est «in breve tempo in una terra fiorente».[4]
Il successo della CDU è inevitabile e molto abilmente il parlamento della Germania dell’Est lavora per la sua liquidazione, si lavora per un trattato: «Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale». Il trattato naturalmente è stato predisposto da Bonn. Furono negate anche modeste contromisure per salvare le imprese salvabili.
La liquidazione non di un’economia, ma di un intero mondo, passa per l’istituzione della Treuhandanstalt, organo delle privatizzazioni che in modo sregolato – dal 1990 al 1994 – ha cannibalizzato la Germania dell’Est:

«Per ogni impresa fu stilata una sorta di pagella, per decidere quali aziende fossero immediatamente privatizzabili, quali risanabili per essere privatizzate, quali dovessero invece essere liquidate. Ma in base a quali criteri si decideva se un’impresa fosse risanabile o dovesse essere chiusa? Li spiegò davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla Treuhandanstalt uno dei suoi più importanti funzionari, Horst Plaschna: “la risanabilità di un’impresa dipende dal fatto che abbia già un prodotto vendibile nell’Ovest. La cosa può espressa anche in questi termini: se non ce l’ha, è a priori non risanabile. Infatti non siamo autorizzati a sviluppare nuovi prodotti con i soldi dei contribuenti tedeschi”».[5]

 

La commissione chiuderà l’inchiesta il 28 agosto 1994, ma nei fatti ha l’ostilità del governo e nel contempo le si proibisce, per legge, l’accesso a un’enorme quantità di atti, circa l’80 per cento; spesso i fascicoli consegnati sono in disordine e con fogli mancanti. La SPD farà ricorso alla Corte Costituzionale che abilmente non respinge il ricorso, ma afferma che la risposta ci sarà dopo la fine della legislatura. Cade il mito della correttezza tedesca, del capitalismo ligio alle regole. Ciò malgrado la Commissione denuncia, pur in assenza di dati e documenti completi, irregolarità diffuse. In molti casi l’acquirente non ha contratti vincolanti circa il dovere di effettuare investimenti e conservare posti di lavoro. Si smantella la struttura, la si fagocita per mettere in atto un processo di clonazione, raddoppiamento della Germania dell’Ovest. Ogni metessi è copia e come tale negazione effettivo dell’originale e dell’originario. Perché abbia fine il processo famelico, il crimine, si deve smantellare la sovrastruttura. Si procede ad un’autentica epurazione degli accademici, ad un’estensione veloce e senza appello del sistema scolastico della Germania occidentale. Della RDT nulla deve sopravvivere. Il sistema scolastico della RDT che aveva messo in atto soluzioni pedagogiche dall’alto valore qualitativo e “democratico” non solo perché gratuite, ma soprattutto per il sistema unitario che evitava le divisioni tra classi sociali che si riproducono nei sistemi scolastici molto differenziati:

«La cosa ebbe tra l’altro un risvolto decisamente umoristico, allorché nel 2000, furono resi noti i primi risultati del test “Pisa” di valutazione dell’efficienza dei sistemi scolastici. La Germania conseguì risultati tutt’altro che brillanti, mentre la Finlandia ebbe il punteggio più elevato. Plotoni di zelanti ministri, pedagoghi e giornalisti tedeschi si recarono quindi in Finlandia per carpire al paese nordico il segreto del successo del suo sistema educativo. E si sentirono rispondere che il sistema finlandese si era rifatto agli insegnamenti dei pedagogisti tedeschi dell’Ottocento Wilhelm von Humboldt e Friedrich Fröbel, ma anche ai testi degli esperti della RDT».[6]

 

L’eliminazione del ceto intellettuale e della scuola fu sostenuta dalla negazione della validità dei titoli della Germania dell’Est. In tal modo la Germania dell’Est era rasa al suolo. Senza classe dirigente ed intellettuale, il 90 per cento dei professori universitari fu rimosso e sostituito da accademici occidentali: la Germania dell’Est non aveva più voce e memoria. In ultimo la disoccupazione di massa ha comportato denatalità ed emigrazione. La colonizzazione non poteva essere più completa. La propaganda aveva affermato con i suo trombettieri che l’introduzione del marco avrebbe impedito l’emigrazione:

«E oggi il banchiere Edgar Most ha facile gioco nell’affermare: “l’argomento secondo cui senza il marco occidentale troppe persone sarebbero scappate all’Est non posso condividerlo. Anche dopo l’unione monetaria almeno due milioni di tedeschi dell’Est sono andati all’Ovest. L’introduzione del marco occidentale all’Est non ha impedito questo esodo, lo ha anzi accelerato, perché ha portato al fallimento innumerevoli imprese dell’Est”» (Most 2011:164). [7]

 

Il punto finale dell’eliminazione di un’esperienza storica fu l’introduzione del Principio di restituzione, ovvero le proprietà dovevano essere restituite ai legittimi proprietari. Il caos giuridico fu inevitabile, molti degli ex proprietari erano nella Germania dell’Ovest, e vi erano specialmente i contenziosi tra eredi. La cultura della proprietà doveva essere reintrodotta in modo maldestro e massiccio. Tutto doveva perire. Le innumerevoli contese scoraggiarono gli investitori:

«Del resto, è ovvio che in assenza di garanzie circa i diritti di proprietà non può darsi alcuna formazione di capitale: quando eventualmente posto in vendita (è il caso dei beni pubblici offerti dalla Treuhand) perde quindi appetibilità per gli investitori e si svalorizza (sul punto cfr. Luft 1992: 107-109) ». [8]

 

L’annessione fu, dunque, il primo esempio di ciò che sarebbe accaduto in Europa col vincolo della moneta unica. Gramsci affermava che la storia è maestra di vita, ma ha pochi alunni. La fine della Germania dell’Est è una doppia occasione mancata di consapevolezza e prassi. La Germania dell’Est, se avesse avuto tempo, avrebbe potuto declinare l’economia di mercato secondo forme di pianificazione statale e l’Europa delle patrie avrebbe potuto imparare dalla terribile esperienza della RDT a difendersi dall’unione monetaria. Ma, in assenza di classi dirigenti degne di questo nome, tutto è avvenuto fatalmente.
Sottrarci al fato attraverso la conoscenza storica può essere un passo, tra gli innumerevoli, passi che ci dovrebbero portare verso l’uscita dalla gabbia d’acciaio.

Salvatore Bravo

 

***

[1] Vladimiro Giacchè, Anschluss L’Annessione, Imprimatur, 2018, p. 12.

[2] Ibidem, p. 19.

[3] Ibidem, p. 42.

[4] Ibidem, p. 36.

[5] Ibidem, pp. 62-63.

[6] Ibidem, pp. 120-121.

[7] Ibidem, p. 137.

[8] Ibidem, pp. 99-100.


Quarta di copertina

Ancora oggi, a quasi 25 anni dal crollo del Muro, la distanza economica e sociale tra le due parti della Germania continua ad accentuarsi, nonostante massicci trasferimenti di denaro pubblico dalle casse del governo federale tedesco e da quelle dell’Unione Europea. Sulla base di una ricerca scrupolosa, condotta attraverso i dati ufficiali e le testimonianze dei protagonisti, l’economista Vladimiro Giacché svela come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città. La storia di questa “unione che divide” è una storia che parla direttamente al nostro presente. Essa comincia infatti con la decisione di attuare subito l’unione monetaria tra le due Germanie, prima di aver attuato la necessaria convergenza tra le economie dell’Ovest e dell’Est. L’unione monetaria ha accelerato i tempi dell’unione politica, ma al prezzo del collasso economico dell’ex Germania Est. Allo stesso modo la moneta unica europea, introdotta in assenza di una sufficiente convergenza tra le economie e di una politica economica comune, è tutt’altro che estranea alla crisi che sta investendo i paesi cosiddetti “periferici” dell’Unione Europea. Il libro di Giacché si conclude quindi con un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.

 

 



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Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Platone_Mito della caverna

caverna

Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto


Sommario

Corpo, feticcio idolatrato

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto

Si immilla la frustrazione

Il capitalismo oggi esige lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione

La violenza è diventata spettacolo

La violenza è legalizzata

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone

Körper o Leib


Illustrazione del mito platonico della caverna in un'incisione del 1604 di Jan

Illustrazione del mito in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam.
I prigionieri immobilizzati davanti al muro, incapacitati nel guardare indietro,
fissano la parete e vedendo delle ombre,
in realtà modellini proiettati dalla luce di una torcia,
credono che esse siano vere figure umane.


 

 

Corpo,  feticcio idolatrato
Il tramonto del pensiero è il tramonto dell’Occidente. La genealogia del tramonto è la decadenza del corpo. Negli ultimi decenni assistiamo all’esaltazione del corpo, divenuto feticcio idolatrato. Il corpo vissuto è gradualmente anestetizzato dalla violenza delle immagini e degli stimoli: da quelli acustici ai gustativi. È un tripudio di stimolazioni. Non vi è però nulla di dionisiaco nella bacchiche foglie dell’Occidente, ma solo la disintegrazione del corpo vissuto.

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione
Gli stimoli, per poter divenire pensiero, come pure processo di buone pratiche politiche, necessitano della mediazione simbolica, del tempo della sedimentazione, tempo in cui il corpo vissuto si ascolta vivere, dà voce umana alle mere stimolazioni nervose, nomina le immagini per concettualizzarle. Sono passaggi lenti e genealogici, che portano alla riconfigurazione del corpo vissuto. Se si parte dall’assunto spinoziano-nietzscheano che il pensiero è il corpo vissuto, per cui ogni appello a ipostasi come l’anima, la coscienza, il corpo, ed annessi dualismi non sono che esemplificazioni rassicuranti, comprendiamo la decadenza teoretica dell’Occidente.

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto
Il corpo dell’Occidente – nell’epoca del capitalismo assoluto – è un corpo tormentatissimo, sottoposto ad una violenza perenne. Il peso di questa continua violenza molto spesso non è avvertito poiché l’azione perenne del potere economico sul corpo non è mai sospesa: si vive inseguiti, agguantati dal mercato, il quale promette l’Eden e restituisce un corpo esausto, spossato per il continuo saccheggio sensoriale.

Si immilla la frustrazione
Corpo efficiente, competitivo, i cui pori sono la porta d’ingresso della violenza capitalistica. Corpo che non deve invecchiare, deve vivere nel sogno dell’eterna giovinezza che si materializza con l’attività cosmetica e chirurgica. Corpo da incubo perché angoscia e toglie il respiro: il paradiso non è mai raggiunto, ma è sempre un nuovo desiderio indotto, spostato in avanti. Corpo che guarda il sogno realizzato degli altri corpi. Lo sguardo diventa bilioso e rancoroso. Le parole che corrono lungo la stimolazione perenne “Godimento infinito” “Senza limiti” sono il sedimento di pensieri anticomunitari e crematistici. Corpo in attività perenne in cui istinti e passioni si frammentano in una temporalità caotica e cronologica. È il tempo della successione-ripetizione. Il corpo – proiettato nell’orizzonte degli istinti e della loro soddisfazione fuori di sé, nel tempo che verrà – vive l’esperienza del godimento frustrato una, dieci, cento, mille volte … Si immilla la frustrazione.

Il capitalismo oggi esige  lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé
Se il pensiero è esperienza del corpo, in questo contesto, che non necessita dei grafici di sociologi o di altri professionisti dell’analisi del Capitale, i pensieri conseguenti non sono che rabbia, rancore, pensieri non liquidi ma vettori dell’atomismo sociale.
Il ritorno ad una condizione hobbesiana realizzata: tutti contro tutti. Ma, dovremmo aggiungere: ognuno contro se stesso.
La grande novità del capitalismo assoluto, della violenza che si espande, e che pervade capillarmente ogni spazio, è la lotta contro se stessi, il rancore che si rivolge contro se stessi. Non si è mai all’altezza delle richieste del mercato, dell’ideale di perfezione corporale dell’esigente mercato che – mentre promette di venderti il paradiso – in realtà ti fa comprare l’inferno. Non una volta, ma ogni giorno, ogni ora, il tempo diviene il luogo degli inferni quotidiani.

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione
Dietro la volgarità, l’aggressività dei cattivi pensieri che abitano la cronaca, non vi è che la violenza del capitale che ha fatto del corpo vissuto un veicolo del corpo violenza, i cui pensieri non sono che il riflesso della caverna del Capitale assoluto in cui vive il corpo, della gabbia d’acciaio che stringe le sue maglie. Gli artigli del capitale stringono ed il corpo – che voleva godere – soffre, diviene esso stesso violenza, non ha che pensieri violenti. L’affermazione secondo cui il corpo non è che la tomba dell’anima, è pienamente realizzata. Il corpo è divenuto caverna, e nel buio della caverna i pensieri non possono che essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione, che si materializzano in atti linguistici, nell’incapacità di accettare la sconfitta, l’errore, il limite, e che tendono a realizzarsi nella soppressione dell’altro.
Corpo vorace eppure fragile, che trasmette al mondo la violenza che ha subito. Le cronache ci presentano lo stupore della violenza diffusa, crimini sempre più sadici: la violenza è distruzione del corpo di coloro che hanno negato la soddisfazione del sogno.

La violenza è diventata spettacolo
Non vi sono analisi teoretiche, non si utilizzano categorie del pensiero filosofico per capire: si invoca sempre più controllo, senza capire.
Anzi, la violenza è diventata spettacolo, attrae telespettatori che vogliono vivere il brivido del sensazionale; si vendono merci per acquietare i corpi squassati dall’eterna insicurezza, dal timore di essere aggrediti. Si guarda il mondo attraverso una feritoia, perché l’alterità è divenuta il potenziale aggressore. Tutto avviene in modo fatale ed esiziale: non vi sono spiegazioni, solo il destino muove la violenza che passa, plasma, organizza i corpi di sudditi senza speranza.

La violenza è legalizzata
La violenza è legalizzata. L’iperattività con cui la formazione è presentata nella offerta formativa delle scuole, non è che violenza organizzata. La formazione della cosiddetta “buona scuola” è l’esperienza del corpo scisso da sé. Le continue attività, lo spostamento da un luogo a un altro per competere, il mostrarsi in selfie pedagogico, sono il file rouge dell’attività formativa pubblica e privata.

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale
Lo studente non deve mai sospendere l’esecuzione della produzione, la sua formazione all’annichilimento del pensiero teoretico, perché il corpo dev’essere educato ad avere pensieri performativi. L’assenza di contenuti è questione ritenuta assai relativa, necessario è il corpo che non può che viversi come corpo teso alla lotta, dunque corpo come tempio imprenditoriale, in cui scrivere ed inscrivere la violenza del Capitale. Il resto è complementare. Il corpo è il supporto del pensiero, e per supporto si devono intendere le pratiche sociali: i linguaggi, le posizioni spaziali a cui il corpo è costretto, la tensione emotiva che lo attraversa perché dev’essere sempre teso all’attacco ed alla difesa.

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento
Se si analizzano le pratiche del Capitale assoluto, si possono capire le ragioni della violenza diffusa del corpo divenuto veicolo di morte, luogo dove si mette in atto la logica del Capitale. Le miserie dell’abbondanza passano per le guerre che scuotono il corpo.

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone
Il corpo è dunque legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone, costretto a sognare il falso. Un corpo che vive nell’oscurità, nel sogno dopato dell’immagine, non può che divenire violento: non a caso nel mito della caverna lo schiavo liberato è ucciso dagli schiavi. Essi non hanno pensiero teoretico, perché il loro supporto, il corpo, è al centro delle pratiche delle violenze che lo hanno formato e deformato e pertanto i loro pensieri sono puntuti, sciabole rancorose pronte a puntare ed uccidere chiunque smentisca o sia pronto a far vedere loro, improvvisamente, l’avvilimento, l’umiliazione a cui sono stati sempre sottoposti:

«Non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? […] E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora l’oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» (Platone, La Repubblica, Libro VII, 517; Mito della caverna).

Körper o Leib
Le parole di Platone ci riportano al compito della filosofia: rifondare il pensiero teoretico nel regno del pensiero che ha come supporto il corpo mercificato. I tempi non possono che essere lunghi, il passaggio non può avvenire in modo improvviso, e non può che essere l’effetto di un lungo percorso. Siamo dinanzi ad un bivio: Körper o Leib. Merleau Ponty definiva il corpo vissuto come carne del mondo senza la quale ogni comunità è disintegrata, persa nell’abbaglio dell’atomismo sociale. Il futuro ed il presente implicano la responsabilità di tutti tra corpo morto o corpo vissuto nella relazione con l’altro e con se stessi. I pensieri ed i modelli sociali con le loro pratiche non saranno che una conseguenza delle scelte a cui tutti siamo chiamati.

Salvatore Bravo

Koerper01



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Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Giovanni Gentile 01

 

 

 

La riforma della dialettica hegeliana

La riforma della dialettica hegeliana

L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. La contemporaneità è il luogo dell’astratto, dell’immediato scisso da ogni legame con se stessi e con la comunità. Il naturale fondamento dell’umanità – ovvero, la relazione – perisce sotto i colpi della scure dell’indifferenziazione delle scelte. Il silenzio del futuro è dunque sradicamento dal presente. L’umanità globalizzata vive la condizione del ritiro dal mondo, misticismo edonistico che favorisce la globalizzazione della reificazione. In assenza di radicamento, di empatia, di reciprocità con e nella comunità, il futuro diviene pura espressione verbale: il futuro – per esserci – esige il presente nella sua vitalità emotiva e razionale. La reificazione, e il gioco alla riduzione ad un presente onnivora-mente consumato, ha divorato il futuro. La condizione umana diviene pura presenza, pubblico passivizzato di uno spettacolo non scelto, ma semplicemente subìto nel chiasso della esemplificazione. Coloro che hanno cercato un asse verso il futuro scompaiono dal teatrino mediatico della pseudo-discussione “culturale”, dal circo mediatico che rende omaggio soltanto al nichilismo linguistico delle vuote parole, della volgarità di massa, delle evanescenti meteore della cultura-spettacolo. Tutto pur di cancellare dall’orizzonte la necessità di una prassi comunitaria e l’esigenza stessa di futuro altro possibile. Il modo più efficace per ottenere tale risultato è rendere ogni persona individuo-atomo. Si lotta con gli altri e per gli altri, la vita è prassi nella comunione delle idee, ma ancor più profondamente nella comunione della carne vissuta. Il fondamento è annichilito con le armi dello stordimento di massa: competizione, crematistica, culto del corpo spettacolo: la prospettiva del futuro non può che collassare. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone.
Scomparsi dall’orizzonte mediatico, vi sono autori che continuano a offrirci concetti per capire il presente ed aprire alla prospettiva della trasformazione.
Giovanni Gentile non è assente dal circo mediatico per la sua adesione al fascismo. In realtà, una lettura di questo autore meno stereotipata ed omologata, ci porta al ragionevole sospetto che su di lui pesi la fatwa liberista. Filosofo della prassi e della comunità intendeva l’essere umano come soggetto creativo, responsabile della prassi, in cui la dimensione del presente è concretamente colta nel suo darsi verso il futuro:

«Lo svolgimento spirituale, in cui consiste, è questa progressiva autodeterminazione dell’Io: nella quale ogni momento è un’affermazione in nuova forma dell’Io stesso, e però una negazione, un reale annullamento dell’Io nella forma in cui era prima determinato: un passare dal non essere all’essere di un Io determinato: e, poiché un io non determinato non è nulla, si può anche dire che sia un passare dal non essere all’essere dell’Io. La nostra vita è un continuo morire del vecchio io, un nascere continuo del nuovo, in cui il vecchio bensì permane, ma rinnovato e trasfigurato». [i]

L’attualismo gentiliano, dunque, è prassi, trasformazione, il presente ed il passato nella concretezza non sono distinguibili, ma sono il libero fuoco del pensiero che rende ubertoso il futuro. La libertà è pensiero nel quale sono integrati i piani della persona. Nel concreto i piani non sono geometricamente distinguibili. L’essere umano gentiliano ha sul fondo la lezione di Vico: l’umanità esprime al massimo il suo potenziale creativo nell’unità dello spirito. La storia è lo scenario in cui l’essere umano realizza pienamente la sua umanità:

«Ora non posso tracciare tutta la storia del progresso del soggettivismo. Ma non posso non accennare che G. B. Vico ha, per questo rispetto, il merito di avere benché oscuramente, affermato, di contro all’analisi cartesiana, la necessità tutta moderna di quella sintesi che egli scolpiva nella celebre frase: verum et factum convertuntur; di avere primo, con entusiasmo che ha del religioso, additato nello sviluppo eterno del mondo delle nazioni, che lo sviluppo dello spirito, la stessa realizzazione di quella che egli diceva Provvidenza divina: unificando il divino e l’umano, e risolvendo, per conseguenza, l’immobilità e l’eternità pura di quello nel processo storico, ed eterno in quanto storico, di questo; di aver insomma inaugurato la nuova metafisica, che è filosofia dello spirito, anticipando di un secolo il movimento del pensiero, quale si svolse poi gradatamente in Germania». [ii]

Il regno dell’astratto è il trionfo del cartesianesimo: analisi senza sintesi. La divisione è il mezzo con il quale si effettua il dominio dell’incomprensibile. Il presente risulta adialettico, nella divisione lo sguardo olistico si eclissa per lasciare spazio all’integralismo della violenza di una parte sulle altre. L’assoggettamento economico del mondo e delle persone, vive e prolifera nella separazione. La dinamicità della coscienza è così occultata, resa presenza, oggetto dei processi. Il soggetto necessita della coscienza di sé per potersi porre come soggetto della storia, deve poter ricostruire il processo complesso del quotidiano per vivere la propria presenza come attore di un possibile cambiamento. Affinché ciò si possa materializzare è necessario che il soggetto sia autocoscienza, Gegenstand, consapevole di aver posto il mondo e dunque responsabile di un eventuale processo di riforma. «La Filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri», affermava Hegel in Lineamenti di Filosofia del diritto. Se invece si vive l’esperienza della separazione, se il mondo semplicemente è sempre esistito e con esso le forme sociali, la coscienza è ente tra gli enti, oggetto di manipolazione senza speranza, senza futuro, senza presente, senza storia.

L’aumento delle merci è proporzionale alla negazione dell’essere umano. Il radicamento nell’attimo, nel cogliere l’occasione per il risultato, fa del soggetto ente che si piega alle circostanze, ne è trascinato via, sviluppando in tal modo una estrema adattabilità agli eventi fino alla dimenticanza di sé. La divisione è abitudine alla morte. La vita, per Giovanni Gentile, è unità. Anche la morte, per il filosofo dell’attualismo, è un atto di vita in quanto si muore a qualcuno.

La filosofia forma alla vita, essa stessa è un corpo vivo, le cui parti ritrovano il loro senso nella loro relazione imprescindibile come la vita:

«La filosofia appunto perciò è una; e si trasformi, s’atteggi variamente, e si particolarizzi quanto si voglia, resta sempre la filosofia come appunto quello sforzo di fissare l’essere nella sua organica natura, in ogni momento della coscienza, nella sua vittoria sul non essere. Quel ritmo vitale dell’essere, che la filosofia si sforza di conoscere, se è il ritmo dell’essere vivo della coscienza nostra, deve essere il ritmo della natura che si rispecchia nell’animo nostro, il ritmo dello spirito, alla cui formazione assistiamo interiormente, spettacolo insieme e spettatori, il ritmo del conoscere e dell’operare: di tutto ciò che è di tutto l’essere. Perciò ogni filosofo, ogni sistema ha un principio e un complesso di dottrine speciali, in cui quel principio viene esplicato, e ciascuna delle quali perderebbe tutto il suo significato e la sua stessa consistenza se volesse considerarsi indipendentemente dal principio». [iii]

La filosofia di G. Gentile è attualismo perché concretezza della vita contro ogni positivismo scientista. Filosofia della vita contro ogni rigor mortis delle parti. L’ostilità nei suoi confronti, ad un approfondito esame, non può essere ridotta alla sua adesione al fascismo, piuttosto problematica, ma rientra nell’attuale ostracismo contro gli autori che hanno posto la coscienza e la prassi quale sostanza del loro pensiero. La concretezza con il suo operare è osteggiata per favorire l’ipostatizzazione dell’immediato, perché si viva nella tragica e bugiarda negazione non solo del futuro, ma specialmente dell’analisi complessiva dei fenomeni sociali. Il Regno animale dello Spirito di Hegel può presentarsi, così, come l’unico modello possibile, eternizzato dalla mortificazione generale e dall’espulsione di ogni atteggiamento teoretico. La caverna diviene gabbia d’acciaio. Contro di essa l’attualismo di G. Gentile ha ben reso paleso quanto il pensato rivissuto è pensiero concreto in quanto ridivenuto attuale e come tale combustibile per il pensiero pensante, agere, nuovo inizio e come tale già prassi, e quindi apertura verso il futuro:

«Un pensiero nostro, ma già pensato, non si ripensa se non in quanto si rivive nel pensiero attuale; è cioè solo e in quanto esso non è il pensiero di una volta, distinto dal pensiero presente ma lo stesso pensiero attuale, almeno provvisoriamente. Sicché pensare un pensiero (o porre il pensiero oggettivamente) è realizzarlo; ossia negarlo nella sua astratta oggettività per affermarlo in un’oggettività concreta, che non è di là dal soggetto, poiché è in virtù dell’atto di questo». [iv]

L’attualismo, filosofia della prassi, ha nell’atto la sua legge teoretica. L’atto è l’unità della coscienza viva pensante che si sottrae al fatalismo per essere nel mondo, per vivere la responsabilità dell’agire politico. Nell’anomia generalizzata delle passioni tristi, G. Gentile rompe con la decadenza della fine delle grandi narrazioni per sfidarci ad un altro modo di esserci nella storia.

Solo con la forza plastica di grandi autori possiamo cominciare a ritrovare la via che ci conduce fuori dalla “gabbia d’acciaio”. Perché questo accada dobbiamo superare l’ostacolo epistemologico indotto da una società in cui si può trasgredire in ogni ambito, ma non si può pensare con coscienza di sé, perché tale coscienza è sostituita con il semplice “sentire.”

Salvatore Bravo

[i] Giovanni Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954, pag. 261

[ii] Ibidem, pag. 115.

[iii] Ibidem, pag.110.

[iv] Ibidem, pag. 184.

 



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Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.

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Angelus novus

Angelus novus

 

Walter Benjamin, in Angelus novus, pone tra le figure in primo piano il flâneur, il passeggiatore annoiato e sfaccendato tra le strade della città, una figura già descritta dal poeta simbolista francese Charles Baudelaire che ne fa il trascendentale dell’epoca delle masse omologate ed annoiate nel regno dell’imperante capitalismo.

Paul Gavarni, Le Flâneur, 1842

Paul Gavarni, Le Flâneur, 1842.

 

Benjamin evidenzia nel suo saggio che il flâneur è l’uomo massa, presenza imprescindibile di ogni descrizione delle strade delle città contemporanee, di ogni paesaggio metropolitano. Uomo senza meta, che bighellona per le vie senza un percorso.

Uomo senza qualità, interno alla società dell’abbondanza, presenza complementare e passiva del paesaggio urbano: vive nella distanza dallo sguardo altrui.

Vagabondare senza meta: immagine profetica del presente.

I turisti che si spostano nella noia per le città, con lo sguardo volto ad arpionare immagini da predare. Il turista che vaga per percorsi preordinati non conosce che strade anonime, eguali ad altre città: ripete l’eterno copione della desiderata fuga dalla gabbia d’acciaio. Fuga illusoria. Si dipana in uno spazio globale, la prigione non è angusta, ha spalancato le sbarre, per portarle oltre, dove l’ignaro vagabondo non le vede. Gli consente il perenne spostamento, lo coccola tra inviti al consumo e sogni di fuga dalla noia.

In verità il passeggiatore globale non fa esperienza vissuta di nulla: piuttosto ripete meccanicamente copioni decisi dalla pervasiva pubblicità mediatica. Mete prestabilite, percorsi sicuri per il consumo, emozioni preconfezionate, piaceri prestabiliti. Il turista globale, sviluppo esponenziale del flâneur è espressione malinconica della fine della storia.

Walter Benjamin, contro ogni fatalismo storicistico, credeva nel materialismo affrancato dai limiti dello storicismo. Se per quest’ultimo la storia è il tempo omogeneo da cui non si può sfuggire, per il materialismo, nella lettura di W. Benjamin, invece, la storia è il tempo della discontinuità, della contraddizione, dove tutto può accadere. Il materialismo forma persone libere, in quanto fa della storia il campo dove la coscienza dell’umanità rompe con i rapporti di causa-effetto, per deviare dal cammino ineluttabile di coloro che strombazzano parole in nome dell’addomesticamento della prassi:

«Lo storicismo culmina in linea di diritto nella “storia universale”, da cui la storiografia materialistica si differenzia – dal punto di vista metodico – forse più nettamente che da ogni altra. La prima non ha un’armatura teoretica. Il suo procedimento è quello dell’addizione; essa fornisce una massa di fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto. Alla base della storiografia materialistica è invece un principio costruttivo. Al pensiero non appartiene solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto. Quando il pensiero si arresta di colpo in una costellazione carica di tensioni, le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in una monade. Il materialista storico affronta un oggetto storico unicamente e solo dove esso gli si presenta come monade. In questa struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere o, detto altrimenti, di una “chance” rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso. Egli la coglie per far saltare un’epoca determinata dal corso omogeneo della storia; come per far saltare una determinata vita dall’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva. Il risultato del suo procedere è che nell’opera è conservata e soppressa l’opera complessiva, nell’opera complessiva l’epoca e nell’epoca l’intero decorso della storia. Il frutto nutriente dello storicamente compreso ha dentro di sé il tempo, come il seme prezioso ma privo di sapore». [1]

Il flâneur contemporaneo è l’espressione dello storicismo incolto del capitalismo assoluto.

Il viaggio non è un’esperienza vissuta, il desiderio non si configura nella profondità della coscienza intenzionale. Esso, diventa esperienza automatica, meccanico bisogno indotto sulla soglia della fine della storia.

Viaggio per fuggire dalla noia del tempo sempre uguale, perché lo storicismo del turbocapitalismo, con il suo mantra, insegna che il presente è il trionfo dell’ipostasi dell’economia: oltre l’economia – si dice – non vi è che il nulla. La prigione dello spazio diviene allora gabbia del tempo.

Lo sradicamento dalla storia è passività compensata dall’attività dell’unico ruolo intramontabile sull’impero del regno dell’eterno vociare degli strilloni osannanti il presente: il consumante consumatore. La storia per il materialismo è rottura della continuità: perché questo avvenga gli sfruttati, gli infelici, i cercatori di giustizia, vivono la storia come esperienza densa di pensiero, mentre lo storicismo insegna la rassegnazione e dunque l’esperienza non è mediata dall’attività della coscienza:

«Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive storia. Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il “continuum” della storia». [2]

La forza della gabbia d’acciaio consiste nel formare un’umanità globale nella passività storicistica. Nel retroscena del nichilismo del presente si cela lo storicismo che non ha altro fine che il consumo. L’intera teleologia della storia è letta nei termini fatali del trionfo dell’homo oeconomicus. Il capitalismo assoluto ha il suo storicismo ed il regno dei fini realizzati. L’intera storia è letta e decodificata secondo le categorie economiche. Nella storia non si scorgono che le linee graduali dell’emergere di un nuovo tipo antropologico che ha trovato la massima espressione prima nell’homo oeconomicus dell’empirismo inglese, oggi con l’uomo imprenditore e consumatore. Il vagabondo, il turista che passa per luoghi e paesaggi sempre con meno storia e più merci, con più spazio e meno tempo archeologico, ne è l’espressione emblematica. Porta e trasporta con sé il trionfo dello storicismo senza speranza. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi. Al suo ritorno l’eguale prende il sopravvento in attesa di un altro viaggio, di un’altra odissea senza resistenza, trascorsa in ascolto delle sirene. È la mente ad essere legata, il tempo che riscrive la storia è raggelato, mentre il corpo può vivere ogni esperienza, e diviene l’eterno olocausto alla religione dell’edonismo annoiato.

Il viandante tediato assomiglia all’operaio non specializzato, ripete gesti meccanici, in modo perenne e ripetitivo. Il gesto non gli appartiene, non è vissuto, è subìto. Tale comportamento rammenta il bighellonare del turista globale sempre al servizio degli strumenti mediatici; sono divenuti parte di lui, non lo abbandonano mai, Gestellen, reca con sé il lavoro quotidiano, lo stare al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti da operaio non specializzato, il lavoro non lo lascia mai:

 

«Accanto all’ordinamento gerarchico subentra la semplice distinzione degli operai in specializzati e non specializzati. L’operaio non specializzato è quello più profondamente degradato dal tirocinio della macchina. Il suo lavoro è impermeabile all’esperienza. L’esercizio non vi ha più alcun diritto. Ciò che il “luna park” realizza nelle sue gabbie volanti e in altri divertimenti del genere non è che un saggio del tirocinio a cui l’operaio non specializzato è sottoposto nella fabbrica (un saggio che, a volte, dovette sostituire per lui l’intero programma; poiché l’arte dell’eccentrico, in cui l’uomo qualunque poteva esercitarsi nei “luna park”, prosperava nei periodi di disoccupazione). Il testo di Poe rende evidente il rapporto tra sfrenatezza e disciplina. I suoi passanti si comportano come se, adattati ad automi, non potessero più esprimersi che in modo automatico. Il loro comportamento è una reazione a “chocs”. “Quando erano urtati, salutavano profondamente quelli da cui avevano ricevuto il colpo”». [3]

 

Allo storicismo economico del capitalismo assoluto è necessario contrapporre il materialismo, la discontinuità alla continuità della gabbia d’acciaio. Non vi sono continuità che non siano cadute o modificate, l’esperienza storica del passato è il nutrimento del presente contro ogni chiusura al futuro. Il tempo messianico del futuro giunge, afferma Walter Benjamin, anche dalla breve porta improvvisa che si spalanca in un secondo:

«Ciò li liberava dal fascino del futuro, a cui soggiacciono quelli che cercano informazioni presso gli indovini. Ma non per questo il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia».[4]

Tutti partecipiamo alla possibilità di esseri dei piccoli Messia che spalancano il tempo presente al futuro. La speranza è una dea universale si nutre dell’attività teoretica e pratica di ciascuno, anche minima, poiché ogni gesto è politico, contribuisce al ristagno o alla trasformazione del tempo storico.

 

Salvatore Bravo

[1] Walter Benjamin, Angelus novus, Einaudi, Torino, 2006, pag. 64.

[2] Ibidem pag. 63.

[3] Ibidem pp. 76-77.

[4] Ibidem, pag. 65.

 



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