Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

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                                     Estetiche del turbocapitalismo

 

L’ipercinetica dell’immagine

Forma e sostanza non sono mai state tanto lapalissiane come nell’epoca mediatica, nell’epoca dell’ipercinetica dell’immagine: l’estetica, l’immagine, il fenomeno – ad un’attenta lettura – svelano e rivelano il noumeno. Per estetica intendo il fenomeno che appare kantianamente nella sensibilità. Ora l’ipercinetica delle immagini, la ridondanza delle stesse, fa assomigliare il mondo sempre più alle vetrine parigine descritte da Benjamin: panciuti luoghi dell’abbondanza che svelano – nella carne dell’apparire – il contenuto olistico del turbocapitalismo. Hegel affermava che la quantità si cambia in qualità, ovvero l’esponenziale presenza di un dato ne altera la verità qualitativa. Il turbocapitalismo – sostenuto dall’incontenibile disseminazione del culto dell’immagine – rende palese la sua essenza, attraverso la circolazione delle immagini e mediante la qualità stessa delle immagini con la loro densità omologata ed omologante.

La paideia negativa e nichilistica dell’immagine

È in atto una vera paideia negativa e nichilistica dell’immagine, una sorta di perversione di ogni contenuto formativo, mediante la dismisura della produzione dell’immagine. Non si assiste al materializzarsi del bello kantiano – per Kant il bello ha un contenuto etico, in quanto espressione e proiezione dell’aspirazione all’armonia interiore, dell’equilibrio tra intenzione e volontà: si sta invece materializzando il regno del terrore nel sublime dinamico. Per Kant, il sublime è giudizio riflettente la cui effettualità comporta, certo, prima lo spavento dinanzi ai fenomeni naturali che ci sovrastano; ma poi l’essere umano recupera la propria dignità, poiché pensa il sublime che gli porge un senso di infinito. Oggi invece il “sublime” dell’ipercinetica delle immagini, è solo terrore. La quantità immensa delle immagini reca con sé il culto dell’immagine nel micro, nel quotidiano, casa per casa, attimo per attimo, mercato per mercato. Nel pulviscolo della competizione dell’immagine, si afferma e si solidifica la frustrazione collettiva. Non si è mai abbastanza perfetti in qualsiasi qualità somatica, poiché il senso della circolazione dell’immagine non solo sollecita il narcisismo personale ed il disimpegno verso ogni forma di socialità, ma costruisce specialmente la sostanza del capitalismo attuale: l’impotenza generalizzata. Le immagini ci assediano, ci inseguono, siamo stimolati a produrle fino al punto da scambiare l’idola, l’immagine per la sostanza, per l’identità.

Sublime senza riscatto, terrore senza possibilità escatologica

La reificazione è dunque totale, è la legge del sistema, che non teme neanche di nasconderla, di celarla, tale è la forza ostentata, in assenza di ogni opposizione. In questa rincorsa senza limiti e confini, in cui la competizione – ecco l’altra parola di sostanza del turbocapitalismo – si afferma in un mondo di sconfitti, a turno ciascuno è superato dall’immagine ostentata dell’altro, ogni immagine ha un contenuto di violenza, in quanto ha il fine di portare il silenzio nel chiasso pornografico del nuovo assoluto. Non è dunque iscritta in tale logica il recupero della propria dignità di persona pensante: si deve essere solo individui, atomi, e non persone, il cui valore passa attraverso uno scatto velocissimo presto superato dall’infinito della circolazione delle immagini. Sublime senza riscatto, terrore senza possibilità escatologica, condannati – alla maniera di Sisifo – ad essere oggetto di operazioni ripetute prive di senso. La cultura-culto dell’immagine ci relega nella caverna platonica. Il mito del VII libro della Repubblica ci insegna che la tragedia degli schiavi è la loro incapacità di rappresentarsi la caverna come afferma Blumenberg in Uscite dalla caverna. Lo schiavo è tale perché non ha i mezzi per intenzionare la caverna, pertanto aggredisce il liberatore, Socrate: non può credergli in quanto l’abitudine a subire il mondo delle immagini, e ad assumere la postura esistenziale in funzione del loro culto ha annichilito ogni capacità teoretica. Per lo schiavo prono al culto del falso – ritenuto l’unico mondo possibile – il mondo non esiste, in quanto il mondo è rappresentazione, relazione di pensiero, trascendenza. Dinanzi ad una umanità la cui caverna è la mente adattata al buio dell’immagine, ogni dialogo pare impossibile, ogni comprensione di un’alterità appare come violenza. Si rovesciano i ruoli, gli schiavi si sentono aggrediti dalla verità, minacciati dall’incomprensibile, credono fideisticamente ed ossessivamente nell’immagine. Condizione molto simile al culto dell’immagine della contemporaneità che associata alla competizione, all’incultura di un linguaggio sempre più depotenziato delle sue capacità teoretiche, produce in modo evidente un’umanità immiserita dalla storia effettiva del turbocapitale.

La cultura dell’immagine nel turbocapitalismo

L’armigero con cui il capitale domina ed utilizza ogni individuo trasformandolo in mezzo di diffusione del narcisismo consumistico è la cultura dell’immagine. Perversione capitalistica della comunicazione, l’immagine dall’essere veicolo di significato, metafora del concetto, analogia tra concetto ed immagine come è descritta in la Poetica di Aristotele, o polisemica attività del pensiero secondo Ricoeur, diventa soltanto veicolo della competizione, della cultura imprenditoriale: la prima merce da vendere non è il prodotto, ma se stessi. Lo sbattere delle spade, si rende funzione operativa con l’immagine, che sostituisce le identità delle persone non più formate ad essere persone, ma merce dal valore di scambio variabile come le turbolenze ricattatrici dello spread. La vittoria del capitale è nell’arretramento della lingua: meno lingua più immagini, con il conseguente tramonto del pensiero critico. Il mondo, in quanto rappresentazione dell’assenza del dato percepito mediante la parola, è sostituito dall’abbondanza paurosa del cattivo infinito delle immagini. La loro quantità è tale che val bene, in questo caso, quanto affermato da Hegel nella critica a Schelling, ovvero viviamo in un infinito in cui tutte le vacche nere si confondono nella notte delle immagini. Nello splendore del supplizio delle immagini, la loro quantità oscura tutto, o meglio l’una oscura l’altra in una crudele rincorsa tra abbaglio ed ombra. La notte è scura per l’indifferenziazione delle immagini, a ciò contribuisce non solo la quantità ma anche la rincorsa verso modelli dell’apparire sempre più eguali. Vedasi le meteorine della politica e dello spettacolo, ciascuna rincorre – tra palestre, diete, chirurghi – modelli dell’eguale, lottano all’ultimo sangue, e non è una battura o iperbole lessicale, per sembrare sempre più … ma tutti allo stesso modo, fino al ridicolo – venato d’orrore – nell’assistere a volti paralizzati nell’espressione, all’anestesia facciale, a labbra voraci di tutto … tranne che di pensiero. Lo spettacolo dell’orrore estetico-apparire rende concreta la verità del turbocapitalismo. Plotino – racconta un suo discepolo – non voleva che si disegnasse la sua immagine per timore che si scambiasse il corpo per la sua essenza.

Contrapporre alla notte delle immagini
la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine

Oggi più che mai, pur col rischio dell’isolamento, è necessario contrapporre alla notte delle immagini – in cui tutte le vacche sono nere, e le persone sono trattate come se valessero meno dei bovini – la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine. Dal mito della caverna possiamo imparare, ponendoci un quesito: ovvero che forse l’attività liberatrice di Socrate ha sbagliato nei tempi. Prima di poter intavolare il dialogo con i cavernicoli del capitale, forse bisogna impegnarsi in una lenta diffusione della cultura della parola, contro il culto liturgico dei rituali mediatici. I tempi potrebbero essere lunghissimi, ma la sovraesposizione mediatica rischia di portare l’opposizione teoretica all’interno della sublime violenza mediatica. Ripartire dal logos, dalla parola, per poter argomentare e mostrare, con l’esempio vissuto, che un’altra vita possibile. Parlare, dialogare, comunicare per diffondere, per porre le condizioni della parola teoretica. Davide contro Golia, così appare la sfida. Eppure, dinanzi all’evidenza della sostanza del turbocapitalismo, la sfida dev’essere sperimentata, ognuno in ragione delle proprie possibilità. La caverna è la condizione prima della nascita, il buio prima dell’apertura alla nascita. Identità non nate, ma esposte al circolo mediatico: questa è la realtà dei nostri giorni, dinanzi alla quale non possiamo fatalmente affermare come Heidegger “Solo un dio ci può salvare”. La Filosofia ha insegnato che la salvezza è possibile, la prassi è logos, trasformazione e nascita delle vite, siamo chiamati a sottrarci al gioco dell’apparire per vivere la pratica dell’agorà.

 

Salvatore Antonio Bravo


 



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Salvatore Antonio Bravo – Commento alla parola «inter-esse», di Karel Kosík. Resistere è possibile: l’essere umano può non piegare la schiena dinanzi alla vita offesa.

Karel Kosík

Cop_183Linda Cesana. Costanzo Preve,
Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík

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La Filosofia ha i suoi “eroi”, uomini “cosmici”.
I quali, con la loro resistenza, con la coerenza con cui sanno saldare  vita che conducono e gli ideali che professano, dimostrano che un altro modo di vivere è possibile, che la vita è al plurale. L’inautentico non è un destino, è solo la reificazione che si manifesta nella storia, specie in alcuni periodi.
Vorrebbero – in questi decenni difficili – convincerci che al nichilismo reificante non vi è alternativa, che l’essere umano è un ente tra gli enti, infinitamente addomesticabile e manipolabile. Un essere umano senza natura, senza materia, senza forma. Le contro-riforme a cui assistiamo – spesso collettivamente impotenti – non sono il fatale andamento della storia, ma periodi di caduta oltre i quali vi è l’infinito trascendere degli eventi. L’ipostatizzazione degli attuali decenni ha un effetto depressivo sui popoli, su ciascuno: la vita, offesa, ci appare esperienza intrascendibile nella storia di ciascuno. La speranza concreta, distante, quasi impensabile.
La trappola a cui sottrarci è l’impossibilità nel pensare anche semplicemente che la resistenza sia possibile. La solitudine e l’ostracismo sociale funzionano nel chiasso mediatico da censura, da violenza marginalizzante verso la parola ed il logos che vuole ancora porre domande profonde. I parametri con cui leggere questi anni potrebbero esprimersi nelle parole: possibile/impossibile. Sembra impossibile proporre un’alternativa altra all’incultura dell’immediatezza, delle pubbliche opinioni, all’uso del cattivo infinito delle tecnologie. Tutto pare debba accadere in modo inevitabile purché il mercato, divinità sregolata, possa vivere. La parola possibile, in quanto dialettica, tensione della parola – la quale, nel suo disporsi teoretico, si sporge verso un oltre concreto – è invece esorcizzata come un male assoluto.
Il nichilismo del capitalismo globalizzato ha dunque i suoi assoluti posticci ed acritici. Regna l’assoluto della riduzione della quantificazione: quest’ultima non ha parole, ma solo algoritmi di controllo e sollecitazione a produrre prestazioni empiriche, le quali debbono produrre, a loro volta, quantità rilevanti. È l’eterno ritorno, il mito di Sisifo realizzato compiutamente.
L’inumano è l’imperio della finanza quantificatrice.
Il soggetto della storia è la neolingua della quantificazione, macchina dell’autoproduzione di se stessa. Essa pertanto si spinge a quantificare porzioni di tempo sempre più inaudite per il mondo della vita, che è così diviso, spazializzato nel cattivo infinito che vorrebbe il suo annichilimento.
La quantificazione cerca il suo trionfo nell’eliminazione della vita, terribile variabile, poiché sfugge ad ogni controllo, porta con sé il vuoto metafisico, l’ontologia del non ancora ovvero l’essere della prassi.
Assistiamo dunque al concreto disporsi nel quotidiano di processi di negazione della vita. La sollecitazione a produrre per la finanza consumi infiniti è l’obiettivo della lingua della quantità: sottrarre la qualità, la dialettica della domanda per restituire un mondo reificato e quantitativamente controllato. Lo smart è il mezzo, ovunque e inconsapevolmente spiati, i dati raccolti vorrebbero orientare scelte, sollecitare consumi, essere predittivi per formare personalità da rinchiudere in una caverna onirica.
Il consumo divenuto l’ideale, la rappresentazione del mondo appare come un’immensa successione di baccanali.
Naturalmente la caverna insegna la cultura dell’attimo, del segmento, per cui impedisce la visione pensata, attiva della struttura, della totalità. La domanda profonda dev’essere neutralizzata dall’eccesso, stile Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Lo schiavo inconsapevole dev’essere ridotto a pura vita biologica dai bisogni indotti.
La condizione umana affermava Karel Kosík, autore di Dialettica del concreto, è esprimibile nella parola inter-esse, ovvero l’essere umano è tra la finitudine e l’infinito. Karel Kosík è testimonianza che la resistenza è possibile, ha attraversato le violenze del secolo breve, ha vissuto l’esperienza dei campi di concentramento nazista di Terezìn, come il tradimento del comunismo realizzato, fino alla svolta del capitalismo assoluto. Da spada piantata nella roccia è rimasto fedele alla domanda profonda. Filosofo di difficile determinazie, è oggetto di silenziosa censura per la testimonianza vivente che resistere è possibile, che l’essere umano può non piegare la schiena dinanzi alla vita offesa.
La parola inter-esse, è l’immagine della sua vita e della sua Filosofia, della sua opposizione mediata dal simbolico.
Attraverso tale parola immagine, Karel Kosík invita a pensare alle violenze della storia, alla negazione dell’essere umano. Ogni sistema che nega la prassi, ovvero l’essere, per Karel Kosìk nega l’umanità che nella storia pone invece l’essere, è essa stessa portatrice dell’essere che manifesta nel quotidiano, nei suoi difficili percorsi di consapevolezza, nel confrontarsi con la sua finitudine, con le sue resistenze al cambiamento. La prassi storica è sottratta al relativismo storicistico, in quanto attraverso la dialettica si può discernere la contingenza dalle verità. La storia non è il teatro della realizzazione nichilistica delle opinioni che semplicemente si succedono, in cui le opinioni divengono le assassine delle precedenti, nel caos dell’assenza della verità.
La storia è il luogo dell’infinito, dove l’umanità fa esperienza di sé, ovvero acquisisce consapevolezza di verità metastoriche. Karel Kosìk credeva razionalmente nel fondamento veritativo della Filosofia. La Filosofia mediatica non può certo tollerare nei suoi salotti la Filosofia che indica il percorso per uscire dalla caverna, che si sottrae al fatale abbraccio con la scienza. Vorrebbe una filosofia (con la effe minuscola) da bacio perugina. Si comprende la motivazione dell’assenza del Filosofo cecoslovacco dal dibattito culturale. L’epoca in cui tutto dev’essere ridotto a poietica produzione non può tollerare Filosofia della prassi. La poietica, la sola produzione materiale, qualifica l’essere umano come semplice ente senza storia, Homo oeconomicus, senza verità, nichilismo realizzato, essere consumante che trascorre i suoi giorni nella solo consumo reificante. La poietica nega l’essere umano come inter-esse, per coartarlo nel finito, per confinarlo nella quantificazione senza prospettive, senza storia. Redige colonne d’Ercole. L’esperienza storica naturalizzata diviene, così, essa stessa, priva di senso, senza parole. Si nega all’essere umano la facoltà di leggere la sua esperienza storica per consegnarlo al mercato, al nulla delle mercificazioni e delle reificazioni. La parola inter-esse nella lettura di Karel Kosík ci mostra la negazione a cui siamo posti, i pericoli a cui è esposta l’umanità umiliata. In essa vi è anche l’argomentativa verità della storia, ovvero quest’ultima dimostra che malgrado le cadute nella reificazione, l’umanità è portatrice dell’essere, possibilità che la rende umana, che le appartiene ontologicamente. Il fondamento ontologico della prassi dialetticamente dimostrato, e non solo intuito, rende palese che la storia non è terminata, ma riposa in noi, nella nostra misteriosa motivazione a trascendere i processi di entificazione a cui siamo sottoposti. Non siamo chiamati ad essere eroici come Karel Kosík, ma ciascuno nella concretezza del quotidiano può contribuire al regno della prassi, rendendo palese che la poietica del pensiero unidimensionale è solo l’apparire nella storia della caduta, e dunque potenzialmente potrebbe segnare un ulteriore movimento verso la verità. L’umanità è apertura all’essere, ovvero marxianamente la sostanza dell’essere umano è generica, per cui ogni riduzionismo è già reificazione. In la Dialettica del concreto, Karel Kosík diviene lettore Marx, del nucleo autentico del pensiero di Marx, il quale ha come tema centrale la reificazione nella storia e l’apertura al futuro contro ogni chiusura ideologica, ogni Filosofia del solo presente che vorrebbe rinchiudere l’umanità nella gabbia del solo presente senza alternativa. L’aperura all’essere, l’atto stesso del porgersi verso la lettura della storia, è già emancipazione, libertà e consapevolezza.

Salvatore Antonio Bravo


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.


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Linda Cesana
Karel Kosík- Praxis e verità. «L’uomo si realizza, cioè si umanizza nella storia»

 


192-isbn

Il saggio di Linda Cesana  è già stato pubblicato in Koiné [Per un Pensiero forte]– Periodico culturale – Anno XIX  –  NN° 1-4 – Gennaio-Dicembre 2012, pp. 107-117 – Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

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Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Karl Marx 68

Il capitalismo si afferma grondante di sangue.

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S. EISENSTEIN.

Marx, per argomentare tale tesi, ricostruisce la genesi del capitale, l’accumulazione originaria del capitale. Tra le condizioni che hanno permesso lo sviluppo del capitalismo Marx enumera una serie di cause tra cui il commercio triangolare. Quest’ultimo denuncia la vera natura del capitalismo, ne smaschera la sostanza in modo inequivocabile. Il commercio triangolare tra Inghilterra, Africa (Guinea), e continente americano nel sedicesimo e diciasettesimo secolo, ha consentito una enorme eccedenza in denaro e la produzione del cotone a costo zero. Entrambe le variabili sono tra le precondizioni più importanti per l’affermarsi della prima Rivoluzione industriale. Se per mare il cattivo infinito del denaro – rompendo ogni legge della misura, della razionalità e dell’etica – imperversava e si concretizzava nelle navi negriere, in terra il capitale ungulato mostrava il suo volto con le recinzioni.

I campi recintati in Inghilterra (enclosures), raffigurati in questo dipinto del Settecento

Campi recintati in Inghilterra (enclosures),  dipinto del Settecento

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Sia nel caso delle navi negriere che nelle recinzioni in Inghilterra, si assisteva alla deportazione coatta e violenta di popoli e culture da un contesto in un altro al fine della produzione. Le recinzioni necessarie a trasformare il latifondo in azienda agricola, impedivano l’uso comune delle terre. Il latifondo conservava una parte comune delle terre nelle quali i contadini potevano procurarsi cibo, legna, coltivare orti o piccoli appezzamenti di terra per la famiglia o per la comunità. Con le recinzioni si assiste alla scomparsa di un popolo costretto a servire il capitale in città fumose e anonime. Con le recinzioni scompare l’abitudine a condividere, si afferma l’individualismo borghese sancito da Hobbes come da Locke. La volontà dei deportati non ha mai contato, la sopravvivenza li ha costretti a vivere l’esperienza distruttiva della fabbrica.
Se in terra il movimento coatto è dalla campagna alla città, o meglio alla fabbrica, in mare è da continente a continente. Le navi negriere sono l’espressione concreta e metaforica della “cultura” della fabbrica e del potere disciplinare. Nelle navi come nelle fabbriche, gli spazi erano organizzati secondo un calcolo razionale: legati l’un l’altro con catene, per poter accumulare più schiavi possibili, si calcolava per ciascun nero lo spazio e la quantità di cibo e d’acqua necessarie. Nel caso non sopravvivessero per le cattive condizioni igieniche, per le malattie e per il terrore, la merce umana era gettata in acqua. Le navi negriere erano munite di assicurazione qualora accadessero incidenti in mare e dunque il carico fosse perso. Marx, nel primo libro del Capitale, svela l’essenza mondana del capitale attraverso la ricostruzione storica e genealogica del fenomeno capitalismo:

 

 

Marx-IL-CAPITALE-volume-2-Newton-Compton   «I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno, in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica.
Un uomo famoso per il suo senso critiano, W. Howitt, così parla del sistema coloniale cristiano: “Gli atti di barbarie e le infami atrocità delle razze cosiddette cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a soggiogare, non trovano parallelo in nessun’altra epoca della storia della terra, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e incolta, spietata e spudorata”. La storia dell’amministrazione coloniale olandese e l’Olanda è stata la nazione capitalistica modello del secolo XVII — “mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassini e infamie”. Più caratteristico di tutto è il suo sistema del furto di uomini a Celebes per ottenere schiavi per Giava. I ladri di uomini venivano addestrati a questo scopo. Il ladro, l’interprete e il venditore erano gli agenti principali di questo traffico, e prìncipi indigeni erano i venditori principali. La gioventù rubata veniva nascosta nelle prigioni segrete di Celebes finché era matura ad essere spedita sulle navi negriere. Una relazione ufficiale dice: “Questa sola città di Makassar per esempio è piena di prigioni segrete, una più orrenda dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tirannide, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie”. Per impadronirsi di Malacca gli olandesi corruppero il governatore portoghese, che nel 1641 li lasciò entrare nella Città; ed essi corsero subito da lui e l’assassinarono per “astenersi” dal pagamento della somma di 21.875 sterline, prezzo del tradimento. Dove gli olandesi mettevano piede, seguivano la devastazione e lo spopolamento. Banjuwangi, provincia di Giava, contava nel 1750 più di ottantamila abitanti, nel 1811 ne aveva ormai soltanto ottomila. Ecco il doux commerce!
La Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva ottenuto, come si sa, oltre al dominio politico nelle Indie Orientali, il monopolio esclusivo del commercio del tè, del commercio con la Cina in genere e del trasporto delle merci dall’Europa e per l’Europa. Ma la navigazione costiera dell’India e fra le isole, come pure il commercio all’interno dell’India, erano divenuti monopolio degli alti funzionari della Compagnia. I monopoli del sale, dell’oppio, del betel e di altre merci erano miniere inesauribili di ricchezza. I funzionari stessi fissavano i prezzi e scorticavano a piacere l’infelice indù. Il governatore generale prendeva parte a questo commercio privato. I suoi favoriti ottenevano contratti a condizioni per le quali, più bravi degli alchimisti, essi potevano fare l’oro dal nulla» (K. Marx, Il Capitale, Libro primo, Genesi del capitalista industriale).

 

Come detto il capitalismo nasce già grondante di sangue; le condizioni di emergenza spiegano il fine e la sua evoluzione: lo sfruttamento, le merci che feticisticamente governano i soggetti, poiché padroni e servi sono due prospettive della stessa sostanza. Le due dimensioni da terra e dal mare sono spiegabili con la stessa teleologia: il plus valore ed il plus lavoro. I soggetti che divengono religiosi servitori della produzione fine a se stessa, in cui il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio, vera struttura portante della forma mentis del capitale.

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Lo storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau (Les Traites négrières. Essai d’histoire globale, 2004) ha documentato e quantificato il numero delle vittime. Ha distinto per aree geografiche e rotte le tre tratte principali. La tratta orientale ha causato 17 milioni di persone scomparse. La tratta intra africana ha causato 14 milioni di vittime, mentre la tratta atlantica, tra il 1519 ed il 1867, 12 milioni. Durante l’attraversata circa un sesto degli schiavi moriva, per cui l’Atlantico era di fatto un cimitero liquido. Un vero genocidio non riconosciuto. Si consideri che gli effetti della tratta sono stati devastanti per le popolazioni africane: la forza lavoro impiegata coattamente che il capitale ha utilizzato, naturalmente, ha vampirizzato le energie migliori dell’Africa, ha privato il continente di generazioni che avrebbero potuto contribuire allo sviluppo dell’Africa.

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Milioni di uomini, donne e bambini sono stati trasformati in energia per la produzione e lo sviluppo degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Solo nel 1807 la schiavitù in Inghilterra è stata abolita, mentre in Mauritania solo nel 1980. Capire la genesi del Capitalismo è fondamentale per ricostruire il senso dei nostri giorni. La storia ama i corsi ed i ricorsi storici, come affermava Vico, i quali si ripetono in modo mai uguale ma simile. Oggi assistiamo all’affermarsi e al riaffermarsi di un’esperienza già vissuta.

La storia, affermava Gramsci, è maestra di vita ma non ha scolari: forse è il nostro caso. Dall’Africa e dall’Asia giungono schiavi per il turbocapitalismo: degli sradicati, che fuggono dalle miserie, come dalle guerre, di cui l’Occidente è un comprimario in quanto a responsabilità. I nuovi schiavi che vengono per così dire “accolti”, in nome di “diritti universali”, servono come manovalanza a costo minimo per la valorizzazione del capitale; l’aspetto più inquietante che non viene messo in evidenza è che tale massiccia esportazione di lavoro neo-schiavile annichilisce il futuro delle nazioni africane, in quanto uomini e donne spesso con competenze altissime sono utilizzati dal nostra sistema a decremento dei luoghi di origine, i quali in tal modo divengono dei non luoghi molto affollati, dove manca tutto, specialmente la prassi che orienta verso il futuro. La massiccia e costrittiva “accoglienza” condanna interi continenti al sottosviluppo perenne. Il Mediterraneo diventa spesso il loro cimitero. Naturalmente una volta approdati il loro futuro è segnato dallo sfruttamento e dalla cancellazione dell’identità culturale (in nome della così detta “integrazione” da realizzarsi come prezzo dovuto). La situazione congiunturale favorisce, legalmente lo sfruttamento e la condizione neo-servile mascherata dalla legalità “buonista”. La controriforma del lavoro del sign. Renzi ha introdotto – con l’articolo quattro –, la possibilità del controllo digitale del lavoratore, favorendo la forma mentis et agendi finalizzata alla totale riduzione dei lavoratori ad oggetti da controllare sullo stesso piano delle merci. L’articolo così recita, e il termine articolo mai è stato tanto appropriato: «Esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale».

 

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Mandatory Credit: Photo by Newscast/REX/Shutterstock (5840707pt) the website of Amazon VARIOUS

Naturalmente il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro. Si vuole con la fermezza del controllo introiettato, col ricatto e con l’abitudine ad essere strumento e mai soggetto, impedire ogni riorganizzazione dei popoli come dei lavoratori, ma in quanto uomini. Si devia da tale condizione con espressioni retoriche per evitare che si guardi il volto meduseo della trappola in cui stiamo cadendo. Ripensare con Marx il presente ci può dare dei validi strumenti, delle categorie di comprensione che possono far cadere il velo di Maya della falsa rappresentazione della realtà. La prassi necessita della teoria, i due piani se scissi producono o semplice azione poietica o asfittica teoria. La prassi di cui urge la presenza, dunque, necessita che si ritorni a pensare per capire come orientarsi tra le ipostasi del nuovo ordine/disordine globale.

 

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Marx e la divisione del lavoro
  • MarxEngels tondo  «E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro cominci a ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».

 L’idelogia tedesca, 1846.

 

 

L’epoca ideologica per antonomasia è proprio l’epoca attuale, nella quale il dicitur mediatico – a tambur battente – ci annuncia che le ideologie sono morte. Da tale postulato si deduce che viviamo nell’epoca dell’oggettivo, la verità è stata svelata e dunque è inutile sporgersi oltre l’orizzonte attuale.
Marx ci aiuta, con i suoi fendenti dialettici e con il suo apparato concettuale, a non cadere nella trappola ideologica: ogni produzione culturale è condizionata dalla struttura e, in ragione di tale necessitato condizionamento, è finalizzata ad occultarne la storicità. La produzione culturale è interna ai rapporti (Verkehr) di produzione. L’odierno successo del pensiero di Hannah Arendt dovrebbe muovere al sospetto che tale successo, malgrado la pensatrice, sia tutto interno ad una postura ideologica del turbocapitalismo: è una delle formule dell’adaequatio ad rem. L’opera della Arendt assimila, in un’unica categoria interpretativa, il Totalitarismo, sia l’esperienza sovietica che nazista. La semplificazione, o meglio, il riduzionismo interpretativo messo in atto, favorisce l’uso ideologico del pensiero della Arendt. Nei suoi scritti inoltre, al riduzionismo esemplificante della categoria di Totalitarismo, si aggiunge la sua discutibile interpretazione del pensiero di Marx. Nell’opera Le origini del Totalitarismo non è messo in opportuna evidenza la relazione tra i totalitarismi e l’economia liberista, ovvero l’arretramento dello Stato dinanzi alla crisi economica del 1929. L’atomismo su cui avrebbero agito i totalitarismi sono l’effetto delle politiche internazionali volte al saccheggio finanziario ed umano dei popoli. I totalitarismi sono l’effetto di una malattia, il suo epifenomeno. La malattia è il liberismo capitalista  con le sue sperequazioni e contraddizioni che si acuiscono nei periodi di crisi economica. Le crisi economiche mostrano la sostanza del liberismo, è il regno animale dello Spirito (G.W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito), nel quale si perseguono unicamente gli interessi particolari a discapito della comunità: è il regno dell’atomismo sociale. Ciò che appare come “male minore”, il liberismo, se si effettua un’operazione di cambio di prospettiva mediante la quale i fenomeni storici sono letti in modo olistico, può svelarsi come la causa del problema, piuttosto che la soluzione. Come non legare l’ascesa del nazionalsocialismo all’austerità del governo Bruning e lo stalinismo come la corrente fredda favorita dall’aggressione internazionale verso il comunismo sovietico. La genetica della storia dimostra scientificamente l’azione annichilente del liberismo, novello e perverso Prometeo scatenato, che lasciando i popoli alla mercé violenta dell’economia, induce a reazioni di difesa estrema. È il sistema della paura, delle solitudini dinanzi al precariato ed alla flessibilità.

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Il Pifferaio Magico.

La contemporaneità è segnata dai neologismi ideologici del regno animale dello Spirito, allo scopo di occultare il vero, mediante una sovrastruttura di false rappresentazioni. Il cittadino globale è dato in olocausto al liberismo: si pensi all’emigrazione forzata, allo sradicamento di intere generazioni dai luoghi di origine, così come dal proprio futuro. Le vite dei cittadini globali sono paradigmatiche, caratterizzate come sono dall’eterno presente del precariato. La vita materiale di ciascuno diviene il luogo dove si annidano paure ed aggressività pronte a seguire il pifferaio magico di turno che intona motivi di ideologica ir-razionalità: si fa appello ad un modello di pseudo razionalità presentato nello splendore della sua oggettività, ma che in realtà è solo ideologia. Si induce a seguire un percorso predeterminato negli interessi di pochi, ma rappresentato come universale: e ciò nell’applicazione di una razionalità (irrazionale) sempre strumentale e mai veramente oggettiva. Terrorizzare, diffondere un senso di insicurezza, è una manovra per impedire percorsi alternativi e congelare la dialettica democratica:

«Intervistato recentemente dalla televisione britannica, un alto funzionario dei servizi di sicurezza sudafricani ha messo le carte in tavola: l’A.N.C. costituisce un pericolo reale, a suo parere, non per i propri atti di sabotaggio – per quanto spettacolari o dannosi – ma perché potrebbe indurre la popolazione nera, o gran parte di essa, a trasgredire “la legge e l’ordine”; se ciò avvenisse, anche i migliori servizi di informazione e le più potenti forze di sicurezza sarebbero impotenti (una previsione confermata di recente dall’esperienza dell’Intifada). Il terrore resta efficace finché la bolla d’aria della razionalità non viene squarciata. Il più sinistro, crudele, sanguinario dei tiranni deve restare un devoto predicatore e difensore della razionalità, o perire. Nel rivolgersi ai propri sudditi egli deve “parlare alla ragione”. Deve proteggere la ragione, lodare le virtù del calcolo dei costi e degli effetti, difendere la logica dalle passioni e dai valori che, irragionevolmente, non tengono conto dei costi e si rifiutano di obbedire alla logica. Tutti i governanti possono contare, in buona misura, sul fatto che la razionalità è dalla loro parte. I nazisti, inoltre, manipolarono la posta in palio in modo che la razionalità della sopravvivenza rendesse irrazionali tutte le altre motivazioni dell’azione umana. All’interno del mondo creato dai nazisti la ragione era nemica della morale. La difesa razionale della propria sopravvivenza richiedeva la non resistenza alla distruzione dell’altro. Questa razionalità spingeva i perseguitati gli uni contro gli altri e cancellava la loro comune umanità. Inoltre, li trasformava in una minaccia e in un nemico per tutti coloro che non erano ancora stati condannati a morte e ai quali veniva garantito, momentaneamente, il ruolo di spettatori. Il nobile credo della razionalità assolveva benevolmente sia le vittime sia gli spettatori dall’accusa di immoralità e dal senso di colpa. Avendo ridotto la vita umana al calcolo dell’autoconservazione, la razionalità la derubava della sua umanità»[1]

Bauman coglie appieno il falso dispositivo di razionalità, utilissimo a cementare sistemi con la paura ed il terrore dell’alternativa. Il pensiero della Arendt è interno al dispositivo di potere, è divenuto uno dei mezzi con i quali si chiude la discussione sull’alternativa a tale sistema. Serve ad omaggiare il liberal-liberismo come unica possibilità pensabile; il resto, è stato solo Terrore, pertanto non vi è alternativa al presente. Lo stivale sul volto dei popoli è anche l’industria della cultura, gli autori utilizzati come mezzo per necrotizzare il pensiero divergente. Si orientano le scelte facendole apparire come fatali, ritagliando lo spazio d’intervento dell’attività della mente. Si omette quanto il secolo precedente sia stato una possibilità non realizzata, perché in esso hanno convissuto una pluralità di potenziali modelli economici che oggi appaiono stigmatizzati tutti sotto la voce “utopici” o “male assoluto”.
La Arendt fa dunque parte dell’industria ideologica del capitalismo, “cultura di regime”. Si presta a tale logica l’analisi che la Arendt fa del pensiero di Marx. Sostiene infatti – e mi soffermo solo su questo punto – che Marx ha posto le condizioni per l’abbrutimento dell’uomo, poiché ha posto l’essenza dell’uomo nel lavoro, nella trasformazione della natura, in tal modo ha fatto dell’uomo una parte della natura, lo ha sottoposto ai cicli naturali, necrotizzando l’agere, la libertà, la creazione ex novo. Il materialismo dialettico nasce con un peccato originale, nega la libertà del genere umano, e dunque si presta ad essere lo sgabello ideologico di ogni dittatura. Una tale erratissima visione, spiega la motivazione del successo della Arendt, la quale educa ad associare al comunismo il Totalitarismo. Così si esprime la Arendt:

«Marx e le conseguenze. Poiché la scoperta centrale di Marx consiste nella descrizione dell’uomo come essere che lavora – da cui la posizione centrale della classe dei lavoratori e del cosiddetto materialismo (metabolismo con la natura), egli concepisce l’uomo come essenzialmente isolato. Colui che lavora, concepito e descritto secondo l’antico modello greco del fabbricante, in effetti è in linea di principio solo con ciò che produce; gli altri appaiono unicamente come aiutanti (mastro e assistente). Le categorie di mezzo-fine, che sono pienamente adeguate all’uomo alla fabbricazione, nel processo lavorativo si estendono all’uomo; da nessuna parte è tanto evidente e in un certo senso legittimo trattare gli uomini come mezzi quanto nl processo lavorativo»[2].

Si comprende quanto sia stata ribaltata la realtà. Per Marx l’essenza dell’uomo è generica: qui invece diventa strettamente legata alla produzione, in modo atemporale e meccanico. Marx, nel Frammento sulle macchine, ipotizza l’uso delle tecnologie per liberare gli uomini dal bisogno, per permettere l’espressione delle potenzialità infinite della mente di ciascuno. Ciò che secondo Marx è l’essenza dell’uomo, diviene nel discorso della Arendt unicamente e soltanto il lavoro legato alla necessità economica. Trasforma e rappresenta così il materialismo storico in un un materialismo adialettico ed acefalo. Marx, invece, concepisce la storia come dialettica evolutiva; pertanto, al di là di alcune derive naturalistiche e positivistiche, si struttura per una trasformazione progressiva quantitativa e qualitativa: la storia si evolve da uno stato di necessità ad uno di libertà mediante la mediazione dell’evoluzione storica, dalla legge della giungla produttivista e dello sfruttamento al regno dell’umano. Il genere umano pone nella storia le condizioni per la propria liberazione, per la scoperta consapevole di sé. La verità dunque si svela con una processualità che porta alla libertà, al superamento dell’estraniamento di sé. Il genere umano è parte della natura come della storia, ma non appartiene completamente ad esse, si rende libero con la processualità dialettica, la quale vuole il lavoro sociale come condizione imprescindibile per un processo evolutivo di liberazione del genere umano. Anzi, è in tale processo che si svela gradualmente quanto l’essere umano non abbia, come gli altri esseri viventi, una natura specifica, ma poliedrica, per cui il fine dell’evoluzione materialistica è la concretizzazione di tale disposizione tarpata dai processi di sfruttamento e di necessaria sopravvivenza. Marx è esplicito nell’affermare che la natura umana è generale e creativa:

karl marx  «regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico»[3].

La Arendt afferma che l’essere umano ridotto a fabbricante, a homo faber, diviene un essere isolato. Il fraintendimento è qui notevole poiché per Marx la natura sociale dell’essere umano è libertaria e sociale. Non è un caso che nel Capitale, l’autore più citato è Aristotele. La tesi di laurea dello stesso Marx, Differenze tra le filosofie delle nature di Democrito ed Epicuro, è una contrapposizione tra il determinismo e l’indeterminismo, a favore di quest’ultimo. In tale tesi ricorre frequentemente il termine “autocoscienza”: nel linguaggio idealistico utilizzato da Marx, tale termine è speculare non all’homo faber ma alla libertà ed alla prassi.

Costanzo Preve, autore non utilizzabile a livello ideologico, delinea nei suoi testi lo spessore libertario ed emancipativo della natura generica e sociale di Marx:

 

Costanzo   «La socialità dell’uomo, che viene appunto alienata da questo processo di espropriazione, viene così delegata alle merci ed allo scambio sul mercato. Il rapporto sociale tra le persone si presenta per così dire rovesciato, come rapporto sociale fra le cose e non più fra gli esseri umani (reificazione, Verdinglichung). La merce assume così il ruolo di feticcio (feticcio delle merci, Warenfetizismus), in quanto appare dotata di valore autonomo ed originario, rimanendo così occulti i rapporti sociali umani che tale valore hanno prodotto (cfr. Il Capitale, I, La merce, 4), il che comporta un programma pratico di rovesciamento “dialettico” di questa situazione storica»[4].

Costanzo Preve coglie il pensiero di Marx nella sua pienezza emancipativa (ed ecco allora perché si tende a “silenziare l’elaborazione teorica di C. Preve, in quanto disfunzionale rispetto all’industria culturale). L’esame critico delle fonti deve educarci a vagliare, ancor più in tale contesto, l’uso ideologico degli autori.

Malgrado la contemporaneità sia presentata come laica e razionale, viviamo in un’epoca non solo fortemente ideologica, ma specialmente superstiziosa, poiché l’educazione alla passività, alla sudditanza ideologica totemica, diseduca al pensiero come attività consapevole di verifica. L’industria culturale, o a voler usare il linguaggio di Preve, il clero orante ed ideologico, utilizza i suoi spazi per diseducare alla prassi come alla speranza.

Marx è un autore che inquieta, che ci pone dei problemi, ed ipotizza soluzioni al plurale. Nell’industria culturale odierna pertanto sono utilizzati solo autori che lo interpretino in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria. Alla Miseria dello Storicismo di Popper, altro autore utilizzato in senso ideologico, dovremmo contrapporre le miserie ideologiche dell’attuale sistema superstizioso e feticistico. In contrapposizione alla cultura conformista ed ideologica, dovremmo mettere in atto un’epochè culturale sostenuta dagli autori che svelano e rilevano la densità ideologica dei nostri giorni. In Ateismo nel cristianesimo, E. Bloch riporta l’aneddoto metaforico dei baffi di Hindenburg, il quale non avendo consistenza pilifera sul labbro superiore, cercava di coprire la pochezza pilifera con la messa in scena di baffi sempre più teatrali, rivolti verso l’alto[5]. Ora l’industria culturale asservita, alla stessa maniera, copre il vuoto con la vendita massiccia di taluni autori, che servono a coprire il volto truce e violento del nulla dei giorni del mero presente.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] Z. Bauman, Modernità ed Olocausto, Il Mulino, 1992, p. 198.

[2] H. Arendt, Nel deserto del pensiero, Beat, 2015, p. 70.

[3] K. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 24.

[4] C. Preve, Storia della dialettica, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 102-103

[5] E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, 1968: «I poveri che non possono parlare ad alta voce sono costretti a farlo in disparte; mentre invece quei ricchi, che pur non avendo nulla voglio tuttavia rappresentare qualcosa, agiscono sempre a voce spiegata […]. Estendendo, migliorando, talvolta anche falsificando tutto quanto hanno a disposizione e facendolo apparire tutt’altro, essi lo ricoprono delle penne di un pavone che nel migliore dei casi non c’entra per nulla. Un esempio, se si vuole un po’ sciocco ma pur sempre allegorico, lo abbiamo nei baffi di Hindenburg. Costui volendo essere baffuto ed essendo troppo scarsa la forza pilifera nel suo labbro superiore, convogliò in quella zona una parte dei peli delle guance, spazzolandoli verso l’esterno per meglio ingannare. Ecco nato così un surrogato, qualcosa che certo non fu succhiato col latte materno, un abbellimento esterno che ricorre ad elementi estranei. E per liberarci di Hindenburg, dissolvendo nel contempo la patria tradizione in una rossa realtà un tempo antitetica, dobbiamo ricordare che il surrogato è utile solo quando sia vuota del tutto l’antica culla che certo è artistica, ma manca pur sempre di sogni e di visioni. Abbiamo così il vantaggio di illuminare e comprendere sinceramente, lasciando apparire le cose come sono, il giusto che si è fatto sciocco».


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Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».


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Karl Marx poeta

Marx poeta nel suo anelito all’universale

 

Karl Marx è stato scrittore e filosofo poliedrico. Il genio filosofico non si caratterizza per la fissità della forma, ma è polimorfo: la vita che il genio sente profondamente, si esprime in una pluralità di stili. Karl Marx fu poliedrico, ma coerente nell’intento della sua opera: l’emancipazione degli uomini dal giogo dell’economicismo alienante, consapevole che ogni liberazione non può che avvenire nella collettività e con la comunità. Un uomo reso atomo non è più tale, ma è solo un ente tra gli enti pronto ad essere quantificato, misurato, ridotto a sola soma, a solo corpo. In Marx la vita è processo, lotta empatica dalla quale e per la quale le forze plastiche per la liberazione rinascono come l’araba fenice. C’è un Marx ritenuto minore, secondario rispetto alle opere filosofiche, ovvero il Marx della prima giovinezza. Marx poeta, nel quale l’uomo già si mostra, mediante il poetare in rima baciata ed alternata. Le poesie giovanili come la tesi su Democrito ed Epicuro, ci offrono elementi riflessione per capire la profondità prismatica del Filosofo. La lettura delle poesie dimostra quanto la motivazione e l’indignazione verso le ingiustizie sono la forza emotiva della trascendenza del pensiero marxiano. Nelle poesie è presente l’anelito alla bellezza, ad un mondo pacificato mediante la lotta. L’eros platonico è linfa vitale nelle poesie come nei manoscritti, senza di esso non vi sarebbe opera filosofica o scientifica. Il desiderio di un mondo in cui gli uomini possano essere “umani” e non sfruttatori o padroni, si configura nel movimento dialettico dell’eros platonico, del suo anelare all’universale mediante un’elevazione che sani le scissioni:

«Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l’Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». È lui a liberarci dall’odio, lui a donarci l’amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. È pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. È il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. È l’onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini[1]

Il nucleo delle poesie come delle opere giovanili fanno della speranza il nucleo vivente che dialettizza il pensiero perché lo motiva. Non vi è Rivoluzione senza l’entusiasmo, senza lo scandalo dinanzi all’ingiustizia. In assenza del pathos della speranza concreta, c’è solo la passione triste, che rafforza le contraddizioni e naturalizza il presente. Dinanzi alle ingiustizie, alle riforme del lavoro, agli olocausti del capitalismo privato, come di stato, se l’indifferenza regna, la causa è da ricercare nell’aggressione alla categoria del possibile, alla speranza, all’incondizionato desiderare dell’umanità. Se un essere umano lo si priva della speranza, ogni disposizione al pensiero come alla lotta è necrotizzata. Nelle poesie di Marx la speranza scorre tra le parole, per diventare dotta speranza, docta spes, come affermava E. Bloch, ovvero la speranza marxiana sarà sempre prassi mediata dalle circostanze storiche. Si pensi alla lettera ad Arnold Ruge del 1843 in cui Marx prefigura “il sogno di una cosa”. La speranza è dunque la cifra, una delle cifre con cui possiamo unificare il pensiero di Marx. Tra il 1835 ed il 1836 Karl Marx studente all’università di Bonn, mostrò la sua vena letteraria anche con la scrittura di poesie e romanzi, già rivelatasi al liceo ginnasio di Trier. Il liceo era diretto dal prof. Wittenbach il quale invitava gli alunni ad esprimersi, a non temere ad essere se stessi. Non si può non pensare alla nostra nichilistica scuola, la quale in nome del paradigma dell’azienda forma all’omologazione, alla negazione di se stessi. Il mercato è il leitmotiv a cui le nuove generazioni debbono sacrificare i loro talenti. La formazione dovrebbe favorire la pluralità delle espressioni, oggi si assiste invece, al trionfo programmato dell’homo laborans laborans. Si insegna l’atomismo di Stato, mediante la pratica della competizione. Le poesie di Marx ci invitano a pensare alla lotta, ad avere dubbi e specialmente attraverso il suo amore dell’umanità, ad essere consapevoli che non è finita: la storia è in divenire, la vita non la si può rinchiudere in recinti ideologici e renderla ipostasi. Il grande timore del lobbismo finanziario è la vita in sé. Lottano contro la vita, hanno necessità di rinchiuderla in una spazio angusto per potersene difendere. Lo spettro di Marx si aggira e cercano di neutralizzarlo con l’aziendalizzazione delle istituzioni e del pensiero. Nella poesia Sentimenti, un Marx giovanissimo con la sua forza plastica invita alla lotta, a non accettare l’ingiustizia e la negazione dell’uomo nella sua umanità come un evento normale, quotidiano:

                       Sentimenti

 

 

Non posso occuparmi tranquillamente
Di ciò che agita il mio animo.
Non posso restare calmo
Quando tutto mi chiama alla lotta
Vorrei conquistare tutto,
Tutti i favori divini,
Assimilare tutte le scienze,
Abbracciare tutte le arti.
Andiamo arditamente avanti
Senza tregua né riposo.
Non rimaniamo immobili
Senza volere né fare niente.
Non subiamo passivamente
Il giogo ignominioso,
Il desiderio, la passione, l’azione
Sono parte di noi.[2]

La teoria e la prassi compaiono in questa con una chiarezza lapalissiana. La cultura, le scienze non sono nulla se non servono a trasformare il mondo, ad essere dono per gli uomini. Il fine della produzione culturale è capire per trasformare il mondo. Il mondo è emendabile solo attraverso la lotta. Prometeo era il mito prediletto di Marx. Ed ancora:

       Orgoglio d’uomo

 

 

Nessuna frontiera ci arresta,
Nessun paese ci trattiene,
E noi vaghiamo sui flutti
Lontano in terra straniera.
Nessuna può fermarci,
Chiudere la nostra speranza,
Le forme svaniscono
E restano solo gioia e sofferenza.
Questi mostri lontani
Ritti solo per paura,
Non sentono il fuoco d’amore
Che li tolse al nulla.
Non c’è colonna che si sollevi
Da sola arditamente.
Costruita pietra su pietra,
Come il lento incedere della lumaca.
Ma l’anima è onnipotente,
Vero fuoco gigante,
Anche se cade
Trascina astri nella caduta.
Da sola, vittoriosamente,
S’innalza verso il cielo,
Gettando gli dei nell’abisso
Col bagliore del lampo negli occhi.
Non le fanno paura le vette
Dove si muove il pensiero divino,
Che l’anima stringe al petto,
La sua grandezza è la preghiera.
Dovrebbe consumarsi da sola,
Sprofondare nella propria grandezza,
Il tuono rimbomba dove gorgogliano i vulcani
E i demoni la circondano piangendo.
Morendo lancia la sua sfida,
Innalza un trono per colmo d’ironia,
Perfino la sconfitta è vittoria
Il fiero disprezzo ricompensa di eroi.
Ma quando il fuoco unisce due esseri,
Quando due anime si saldano strettamente,
Quando l’una annuncia all’altra
Che non è più sola nell’universo.
Allora attraverso lo spazio si sente
Come un suono d’arpa eolia,
Bruciano nel fulgore dell’eterna bellezza
Il desiderio e la passione.
Jenny, posso dirlo chiaramente:
Le anime che ci siamo scambiate
Bruciano dello steso fuoco,
Le loro onde scorrono nello stesso flutto.
Allora getto il guanto
In faccia al mondo,
Crolli pure il nano gigante,
I suoi frantumi non spegneranno l’ardore che mi anima
Come gli dei andrò avanti,
Vittorioso fra le rovine,
Ogni parola fiamma e azione
Sarò pari al Creatore.[3]

La poesia dedicata a Jenny, la futura moglie, sembra parlare all’umanità intera, ancora una volta l’anima si erge contro le forze che vogliono addomesticarla, renderla insignificante presenza. Il senso di una vita è magnificare la propria anima nella lotta. Marx si spinge ad affermare che la sconfitta è vittoria, perché l’azione contro le ipostasi, le divinità posticce è già vincere. Lottare è vincere la propria paura e le proprie pigrizie, per cui ogni azione di liberazione, a prescindere dai risultati, è un’uscita dalla caverna nelle quali forze oscure vogliono che l’anima sia umiliata e tacitata. Lottare è creare, ogni lotta vuole una rigenerazione che si irradia. La chiusura atomistica nella caverna non è vittoria, non è sconfitta, è un’esistenza al limite del nulla in solitudine. La sconfitta presuppone la lotta ed il superamento di ogni fatalismo. Le poesie di Marx, non ci parlano solo dell’uomo Marx, ma specialmente dei nostri giorni consumati in un’anomia senza speranza. Rileggere le poesie di Marx può essere un esercizio per capire l’autore e rimotivarci a pensare. Non dobbiamo restare in poltrona ad almanaccare di quello che potrebbe essere, ma partecipare alla storia che altrimenti fugge dalle nostre vite:

Nella sua poltrona

 

 

Comodamente stupido nella sua poltrona,
Il pubblico tedesco siede in silenzio.
Su e giù scroscia la tempesta,
Più scuro e più cupo si annuvola il cielo,
Fra i lampi saettanti,
Questo non lo smuove nel pensiero.
Eppure quando sorge il sole,
L’aria sussurra, la tempesta si placa,
Allora si leva ed emette un grido,
E scrive un libro: “il rumore è passato”.
Su ciò incomincia a fantasticare,
Vuole andare alla radice delle cose,
Crede che non sia il modo giusto,
Anche il cielo se ne fa gioco,
Perché tutto sia regolato più sistematicamente,
Prima grattando la testa, poi i piedi,
Si comporta dunque come un bimbo,
Cerca cose che sono marcite
Avrebbe dovuto invece comprendere il presente,
E lasciare andare la terra e il cielo,
Tutto va comunque per la sua strada
E l’onda scorre tranquilla lungo la rocce[4]

Leggere o rileggere le poesie di Marx è un arricchimento culturale ed emotivo, ma specialmente dimostrano l’attualità della Filosofia di Marx, ed anche l’inesauribile densità dell’approccio olistico della Filosofia la quale sa guardare l’autore nella sua totalità per individuarne la linfa vitale che scorre, animando il suo pensiero.

Salvatore Antonio Bravo

 

[1] Platone, Simposio, Il Giardino dei Pensieri, pag. 38

[2] Rivista di Storia delle Idee 3:2 (2014) pp. 133-139 – ISSN.2281-1532 http://www.intrasformazione.com DOI 10.4474/DPS/03/02/MTR142/07 Patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.


 

 

Jenny e Karl Marx

Jenny e Karl Marx

KARL MARX A JENNY MARX, TREVIRI

Manchester, 21 giugno 1856
34, Butler street, Greenbeys

Mio caro tesoro,

ti scrivo di nuovo, perché sono solo e perché mi secca tenere continui dialoghi mentali con te, senza che tu ne sappia nulla o tu mi possa rispondere[…]

Io ti ho viva davanti a me e ti porto in palmo di mano, e ti bacio dalla testa ai piedi, e cado in ginocchio davanti a te, e sospiro: «Madame, io vi amo ». E davvero io ti amo, più di quanto abbia amato il Moro di Venezia. Il mondo falso e corrotto coglie tutti i caratteri in modo falso e corrotto. Chi dei miei numerosi calunniatori e nemici dalla lingua biforcuta mi ha mai rimproverato di essere chiamato a recitare la parte di primo amoroso in un teatro di seconda classe? Eppure è così. Se quei furfanti avessero avuto dello spirito, avrebbero dipinto da una parte «i rapporti di produzione e di commercio» e dall’altra me ai tuoi piedi. “Look to this picture and to that” [“Guardate questo ritratto e quello”] — vi avrebbero scritto sotto. Ma furfanti stupidi sono costoro e rimarranno stupidi in saecula saeculorum.

Una assenza momentanea fa bene, perché quando si è presenti le cose sembrano troppo eguali per distinguerle. Persino le torri da vicino hanno proporzioni nanesche, mentre le cose piccole e quotidiane, considerate da vicino, crescono troppo. Così è per le passioni. Piccole abitudini le quali con la vicinanza che esse impongono assumono forma appassionata, scompaiono non appena il loro oggetto immediato è sottratto alla vista. Grandi passioni che per la vicinanza del loro oggetto assumono la forma di piccole abitudini, crescono e raggiungono di nuovo la loro proporzione naturale per l’effetto magico della lontananza. Così è con il mio amore. Basta che tu mi sia allontanata solo dal sogno e io so immediatamente che il tempo è servito al mio amore per ciò a cui servono il sole e la pioggia alle piante, per la crescita. Il mio amore, appena sei lontana, appare per quello che è, un gigante in cui si concentra tutta l’energia del mio spirito e tutto il carattere del mio cuore.

Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irrisoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo.

Mia cara, tu sorriderai e ti chiederai come mai tutto a un tratto divento così retorico ? Ma se potessi stringere il tuo cuore al mio cuore, tacerei e non direi parola. Poiché non posso baciare con le labbra, sono costretto a farlo con il linguaggio e le parole…

In realtà molte donne sono a questo mondo, e alcune di esse sono belle. Ma dove ritrovo un volto nel quale ogni tratto, anzi ogni piega risveglia i ricordi più grandi e più dolci della mia vita? Nel tuo viso soave io leggo persino le mie sofferenze infinite, le mie perdite irreparabili, e quando bacio il tuo dolce viso riesco ad allontanare con i baci la sofferenza. « Sepolto nelle sue braccia, risvegliato dai suoi baci » — cioè nelle tue braccia e dai tuoi baci e io regalo ai bramini e a Pitagora la loro teoria della rinascita e al cristianesimo la sua teoria della risurrezione […]

Addio tesoro mio. Ti bacio migliaia di volte insieme alle bambine.

Tuo Karl

 


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

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Karl Marx 300

Stele funeraria di Proclo

Stele funeraria di Proclo

Πρόκλος ἐγὼ γενόμην Λύκιος γένος, ὃν Συριανὸς
ἐνθάδ’ ἀμοιβὸν ἑῆς θρέψε διδασκαλίης.
ξυνὸς δ᾽ ἀμφοτέρων ὅδε σώματα δέξατο τύμβος·
αἴθε δὲ καὶ ψυχὰς χῶρος ἕεις λελάχοι

Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò qui per succedergli nell’insegnamento. Questa tomba comune accolse il corpo d’entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!


 

Salvatore Antonio Bravo

Il mercato e l’asservimento della Scuola:
il mito dell’orientamento consapevole


Versione per la stampa

Salvatore Antonio Bravo
Il mercato e l’asservimento della Scuola- il mito dell’orientamento consapevole


Miseria della contemporaneità, miseria del capitale che si erge ad unica legge della vita di ciascuno, fino ad assumere la forma di una insostanza perversa, parcellizzante – mentre la vera sostanza rimanda all’universale, alla Koinè, e rende immensi i pensatori del passato.
Si rifletta sulla modalità con cui si effettua l’orientamento universitario nelle scuole superiori. Platone nella Repubblica (libro IV), ci consegna un criterio per la scelta, sicuramente valido anche nella contemporaneità: seguire la propria indole affinché possa esserci armonia nella vita della persona e della comunità:

013«Allora», ripresi, «ascolta se le mie parole hanno un senso. A mio parere la giustizia è ciò che abbiamo posto come dovere assoluto sin dall’inizio, quando abbiamo fondato la città, o comunque una forma di questo dovere; se ti ricordi, abbiamo stabilito e ripetuto più volte che nella città ciascuno deve svolgere una sola attività, quella a cui la sua natura è più consona».

In poche razionali battute, Platone evidenzia l’assurda irrazionalità, la violenza con cui i giovani sono indotti a scegliere la facoltà universitaria: la negazione di sé in nome di una vita anonima, in cui la qualità del vivere è associata solo alle merci, ma mai alle persone. Il capitalismo assoluto negli ultimi decenni ha sferrato il suo attacco all’istituzione, che nella prassi democratica, dovrebbe consolidare la partecipazione alla vita democratica e formare alla metariflessione: la scuola.

Le controriforme espresse come riforme irrinunciabili per il progresso della nazione sono espressione di ciò che Marx definiva ideologia, ovvero una falsa rappresentazione del reale, in cui si spaccia per universale e necessario ciò che corrisponde agli interessi particolari. L’alternanza scuola lavoro in realtà rende manifesta un’operazione ormai decennale di colonizzazione delle menti. In primis i documenti scolastici riportano, con sempre più esplicita incisività, l’educazione all’imprenditorialità di cui l’alternanza dovrebbe essere la sua concretizzazione. Tale educazione ha l’obiettivo di formare alla competizione, all’atomismo sociale, proponendo nell’insegnamento in classe quella estrema frammentarietà del sapere che non porterà mai alla formazione di una cultura. Si vorrebbe che i docenti e l’istituzione scolastica, ora azienda, fossero complici di una mutazione antropologica.

La merce è la vera protagonista e il suo sostrato è il mercato con i suoi imperativi naturalisticamente resi indiscutibili. La formazione, l’educare, il trarre in luce le potenzialità inespresse di un alunno, tutto questo è eroso dalla spinta alla competizione, alla massimizzazione dei risultati.

Naturalmente manca il coraggio di rendere esplicito, e in modo trasparente, ciò che è veramente in opera. Anzi, l’operazione è parzialmente occultata dietro la facciata del dettato costituzionale. La scuola – per la Costituzione – dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino solidale, e limitare gli effetti, non certo positivi, delle disuguaglianze sociali: scuola anche come argine al mercato. Malgrado tali principi non siano stati cancellati in modo esplicito, in questi decenni li si è svuotati di senso, rendendoli un guscio vuoto dove impiantare i germi nefasti dei peggiori principi neoliberisti. Si è cominciato col trasformare la scuola in una azienda per decreto (non discusso con i suoi operatori). Naturalmente i legislatori ben sanno che la scuola non potrà mai essere un’azienda (essa vive della relazione umana solidale), ma ciò malgrado si può depotenziare la comunità scolastica, la quale risulta trasgressiva rispetto ai processi economici e politici in corso d’opera, in modo da spezzare – letteralmente – ogni “luogo” dove sia possibile la resistenza ed il pensiero critico. Per rendere la comunità scolastica cellula del capitale si è introdotto un osceno linguaggio che per le nuove generazioni è davvero profondamente diseducativo: nei luoghi dove, al centro, dovrebbe essere la persona, nella sua irrinunciabile identità, gli alunni si esprimono con: credito, debito, offerta formativa, educazione all’imprenditorialità, flessibilità, ecc.
Le parole costruiscono mondi e relazioni umane, per cui il diffondersi della violenza nella scuola e fuori di essa è letta in astratto, ovvero come un evento accaduto a causa dell’irrefrenabile violenza naturale di taluni.
In verità un sistema competitivo è già violenza; nella competizione c’è chi perde; e chi vince, spesso, non è il migliore a vincere, ma chi ha avuto, in un mondo di diseguaglianze crescenti, maggiori opportunità rispetto ad altri. La violenza è ormai capillare: dalla violenza linguistica a quella materiale nelle nostre scuole e comunità la violenza è divenuta endemica perché il sistema è divenuto violento.
Si continua con ipocrisia a sorprendersi dinanzi ad episodi sempre più diffusi e trasversali, ma è palese che ovunque regna la legge del più forte: le aziende hanno ormai a capo i padroni che ricattano i dipendenti, in TV la parolaccia e l’insulto è d’obbligo per attrarre spettatori e quote di pubblicità, i telegiornali danno ampio spazio al lusso in un momento in cui la povertà è sempre più diffusa, il mercato entra con violenza nella vita di tutti, i consumatori sono perseguitati dalle merci. Ovunque ed in ogni contesto le persone subiscono l’offesa di essere considerati solo ed unicamente consumatori.[1] Si pensi all’orientamento scolastico con la presenza di università pubbliche e private a caccia di clienti. Le prime ricevendo pochi finanziamenti dallo Stato e sono costrette a competere con le private le cui rette sono proibitive. Entrambe utilizzano lo stesso linguaggio, inducono ad iscriversi facendo appello a numeri e statistiche. Pare che il successo formativo e lavorativo passi unicamente per taluni corsi universitari. L’università è ormai un’agenzia del lavoro, che invita ad iscriversi con la promessa di mirabilanti pseudoprospettive. La formazione ed i suoi luoghi esprimono pienamente le tragedie di un mondo di piazzisti. Le facoltà umanistiche hanno inoltre uno spazio minimale come le facoltà scientifiche che producono poco reddito e che non sono funzionali ai bisogni immediati del mercati. Si tagliano le informazioni, si determina la scelta e nel contempo i trombettieri della nuova pedagogia alzano inni alla scuola che, si dice, informa e che sarebbe di ausilio alla scelta dello studente (cliente-consumatore).
L’effetto è un clima di insopportabile manipolazione che la scuola subisce. Anche questa è violenza: negare ad una istituzione la sua identità, costringerla su binari che non le appartengono. Le nuove generazioni sono oggetto delle attenzioni sempre più precoci del mercato anche negli spazi dove dovrebbero crescere e maturare, pensando il mondo, e non subendolo. In questi anni l’orientamento avviene in tempi sempre più accelerati; anche alunni del quarto e del terzo anno della scuola secondaria superiore sono oggetto di tali particolari informazioni. Il mercato deve precocemente controllare il suo cliente, accompagnarlo «ad una scelta consapevole».

Siamo alla manipolazione più impensabile del linguaggio, belle parole che nascondono il nichilismo. Ad un semplice esame più attento, tale incultura empirista si mostra fragilissima, poiché se il mercato è globale, dinamico, veloce, le previsioni occupazionali che spesso documentano le università, per la libera scelta degli alunni, possono essere smentite dalla flessibilità e precarietà dello stesso sistema. Inoltre la linearità tra facoltà e lavoro è ormai saltata, per cui spessissimo anche laureati in facoltà scientifiche si ritrovano a vivere “una vita da precari”. La vera differenza è data dal privilegio sociale più che dal merito. I destini personali sono sempre più determinati dalla classe di appartenenza più che dal merito o dalla facoltà scelta. Vige l’eterogenesi dei fini. La scuola – per Costituzione – ha il compito di limitare tali derive. Si potrebbe allora definire incostituzionale l’attuale assetto pedagogico della scuola. Ora, un clima del genere spinge alla violenza, poiché si diffonde un senso di frustrazione nella comunità scolastica: i più fragili esprimono il loro male di vivere attraverso la violenza; dietro la cortina delle belle parole si cela una dura verità che in molti conoscono, e non pochi hanno deciso di ignorare. L’identità negata spinge ad una violenza incompresa. L’alternanza scuola lavoro è da inserire come termine finale di un lungo processo di svuotamento del fine costituzionale della formazione. È bene ricordare la Costituzione ed i suoi articoli fondamentali sulla scuola:

 

056Art. 33. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

 

 

Art. 34. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

L’alternanza scuola lavoro – vero ossimoro, perché la scuola è luogo di formazione e non di lavoro – è il cavallo di Troia da cui i guerrieri del mercato escono per l’assalto del nemico già indebolito dalle riforme. Educa al lavoro coatto senza retribuzione, ma specialmente ha il fine di erodere il tempo della formazione e di educare al “fare” e mai al “pensare”. È la scuola del “fare”, in cui i clienti tra alternanza, certificazioni in lingua inglese, progetti, pause didattiche sono formati alla stimolazione, al movimento decerebrato, poiché il mercato necessita di lavoratori disponibili allo sradicamento non solo geografico, ma specialmente da se stessi. Lo sradicamento geografico, la vita consumata come una monade alla ricerca delle opportunità del mercato, non è il soggetto ma l’oggetto di una conseguenza: l’io sempre più vuoto, più colonizzato dallo stimolo continuo, ormai disabitato di affetti, di appartenenze e da se stesso, insegue ogni qualsivoglia accattivante stimolazione, e si rende disponibile al mercato. Contribuisce a ciò il ridimensionamento della lingua italiana, sempre più minacciata dall’inglese commerciale. Le circolari ministeriali spesso riportano titoli in lingua inglese. Pare che il vocabolario della nostra lingua sia davvero minimale se dobbiamo utilizzare lingue altre per esprimere concetti che nella nostra lingua potrebbero essere perfettamente espressi e chiari negli intenti.
La società dove tutto dev’essere mostrato, fino alla pornografica mostra di sé, non ama la chiarezza concettuale, e sembra vergognarsi delle sue finalità al punto che deve occultare dietro la fumisteria della lingua inglese, a scuola come nella politica, le intenzioni esiziali e controriformistiche. Togliere ad una comunità l’uso della sua lingua significa togliere “la patria”, la comune d’origine. La distruzione della lingua nazionale serve allo sradicamento, a tagliare ogni senso di appartenenza, per creare l’uomo astratto, appartenente al mercato globale.

È l’epoca dei cosmopoliti delle mercificazioni. Dev’essere uomo astratto senza comunità, uomo astratto senza famiglia. L’istituzione scolastica è attaccata anche dalla “mostruosizzazione” dei docenti “molestatori”: singoli casi sono amplificati e, iperpresenti sui media, occupano spazi pruriginosi. Dovremmo domandarci se tutto ciò contribuisce a chiarire, a capire o se vi sono altre finalità: vendere un nuovo prodotto e delegittimare un’istituzione che malgrado le sue debolezze e contraddizioni in grandissima parte resiste e non condivide la strumentalizzazione della scuola, la sua riduzione a serva del mercato.

La scuola è rimasta sola, e comunque la percezione che hanno i docenti è di essere soli: i genitori hanno abbracciato in modo frettoloso e dogmatico il modernismo. Progresso coincide con l’innovazione tecnologica e con la destrutturazione del gruppo classe: fin quando tali dogmi saranno religione suffragata da liturgie lessicali, non si riuscirà a porre il tema della scuola a cui è legata la comunità tutta in modo profondo e serio. Dobbiamo uscire dal linguaggio economicistico aziendale per ritrovarci. Vorrei concludere citando Karl Marx (Capitale, libro primo, cap. VIII):

«Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo».

La formazione e soprattutto l’educazione sono dunque divenute «fronzoli», mentre il capitale si sta prendendo tutto: sonno, pensiero, vita.

Siamo chiamati a porci il problema.

 

Salvatore Antonio Bravo

[1] «Persone oltre le cose», recita lo slogan Conad. quando i clienti Conad vanno al supermercato, trovano ad attenderli un cartello con su scritto: «Siamo persone autentiche e disponibili, persone capaci di dare un senso a ciò che si vende e a ciò che non ha prezzo».

 

 


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».


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Norman G. Finkelstein

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"L'Olocausto si è dimostrato un'indispensabile arma ideologica." "L'anomalia dell'Olocausto nazista non deriva dall'evento in sé ma dallo sfruttamento industriale che è cresciuto attorno a esso." "La campagna in corso dell'industria dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome delle 'vittime bisognose dell'Olocausto' ha ridotto la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo." Sono solo alcune delle tesi provocatorie sostenute in questo libro da Finkelstein, ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, che in questo libro mette in discussione due dogmi: l'Olocausto è un evento storico unico ed è il punto culminante di un'odio irrazionale ed eterno dei gentili contro gli ebrei.

 

 

L’Olocausto non sfugge alla sacra legge del capitale: la mercificazione. La legge della valorizzazione è categoria politica del capitale. Pur contradicendo la natura stessa della politica, dal gr. πόλις «città», la quale è relazione sociale condivisa, ha significati di ordine metaforico: la merce è il mezzo dello scambio, la valorizzazione illimitata. È anche la tattica della politica imperiale, che deve ridurre tutto all’irrilevanza, porre su un piano orizzontale ogni evento e in tal modo liberata dai vincoli etici e comunitari: tutto può essere usato, come mezzo per la dimenticanza, per fondare il popolo dei lotofagi –Λωτοϕάγοι, Lotophăgi, immagine usata da Omero nell’Odissea come da Platone nella Repubblica per rappresentare i mangiatori di loto (oggi: oppio mediatico), pianta della dimenticanza. L’Olocausto, prodotto dell’industria, è il mezzo con il quale si traccia una linea fittizia tra il bene ed il male da usare in modo ideologico, in totale spregio delle vittime degli olocausti. L’Olocausto degli ebrei è oggi un collante per aggregare le folle atomizzate del liberismo, in nome del bene – il liberismo assoluto –, ricordano il male assoluto: il nazifascismo. Il male è proiettato all’esterno, dimentichi delle tragedie dei micro e macro olocausti che si consumano nei nostri giorni. Naturalmente l’industria vivissima ed esiziale ottiene una pluralità di vantaggi dalla vendita del prodotto merce, alla trasformazione del mondo neoliberista il migliore dei mondi possibili in ipostasi, in un destino intrasformabile. La prassi si ritrae per osannare il sistema vigente. Come il terzo Reich anche il sistema liberista festeggia nella memoria della sua cattiva coscienza il suo millenario trionfo. La vendita al dettaglio dalle memorie a films sempre più mediocri e ripetitivi è il primo livello della mercificazione dei morti. Un secondo livello è la costruzione degli stereotipi che impediscono nella loro esemplificazione di capire quanto le politiche liberiste, si pensi al governo Bruning, abbiano favorito l’avvento del nazismo. Si sa, le folle defraudate della loro coscienza critica, accolgono la giornata del ricordo con un sospiro di sollievo ”vivono nel mondo migliore ed oltre non si può chiedere”, per cui devono accontentarsi delle metafisiche imperfezioni del turbocapitalismo. Naturalmente l’Olocausto serve ad occultare gli olocausti che nella storia ha perpetrato il liberismo e specialmente a dimenticare, che intorno a noi, vi è un’umanità ridotta ad oggetto, a strumento della e per la produzione, i processi di scissione con alienazione religiosa sono proiettati in un mondo storico altro. Si pensi al rione Tamburi a Taranto, all’olocausto quotidiano di un quartiere e di una città incenerita e non metaforicamente dall’acciaio, per non dimenticare che il Mediterraneo pullula di cadaveri di gente che fugge dall’inferno voluto dall’occidente. Il giorno della memoria ha trovato la sua analisi scandalizzata in un ebreo Finkelstein, storico statunitense di origine ebraica, a cui Israele ha negato l’ingresso nel 2008. Lo storico ha descritto e documentato la genesi “dell’interesse internazionale” verso l’Olocausto e specialmente ha posto il problema del rispetto dei morti, i quali da vivi sono stati usati come mezzi di produzione schiavile a costo nullo, oggi sono usati, da morti, per le dinamiche perverse delle politiche imperiali. L’industria dell’olocausto trova la sua genealogia all’interno della guerra fredda, fino alla guerra dei sette giorni, l’olocausto era pressoché sconosciuto o occultato. Dopo la guerra dei «sette giorni», gli Stati Uniti, verificata la potenza di fuoco dello stato d’Israele, decidono di appoggiare Israele per limitare le politiche antiamericane dei paesi arabi sostenuti dall’Unione Sovietica. Per giustificare l’esistenza dello stato d’Israele, si rinfocola la memoria della passata tragedia per giustificare l’esistenza d’Israele e nel contempo rafforzandone la posizione, organizzando una astuta propaganda in cui Israele è rappresentata come lo stato che potrebbe subire il secondo olocausto. Naturalmente, gli Stati Uniti, sempre dalla parte dei più deboli… arma fino ai denti Israele, favorendone l’egemonia ed usando lo stesso stato d’Israele come longa manus per il controllo del medioriente:

«Una spiegazione più coerente, anche se meno generosa, è che le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto nazista prima del giugno 1967 solamente quando fu politicamente conveniente. Israele, loro nuovo protettore, aveva fatto buon uso dell’Olocausto nazista durante il processo a Eichmann. (50) Accertatane l’efficacia, la comunità ebraica americana sfruttò l’Olocausto nazista dopo la guerra dei Sei Giorni. Una volta rimodellato ideologicamente, l’Olocausto (nel senso di industria) divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele, come ora dimostrerò. Ciò che merita di essere sottolineato, in ogni caso, è il fatto che per le élite ebraiche americane l’Olocausto svolse la [44] stessa funzione che per Israele: un’altra fiche dal valore incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte. Il dichiarato interesse per la memoria dell’Olocausto fu qualcosa di studiato a tavolino, così come quello per il destino d’Israele. (51) Di conseguenza, la comunità ebraica americana perdonò e dimenticò velocemente la folle dichiarazione di Reagan al cimitero di Bitburg, nel 1985: secondo l’allora presidente, i soldati tedeschi lì sepolti (compresi gli appartenenti alle SS) erano “vittime dei nazisti proprio come le vittime dei campi di concentramento”. Nel 1988, Reagan venne insignito del premio Humanitarian of the Year dal Centro Simon Wiesenthal, una delle istituzioni di maggior spicco tra quelle che si occupano dell’Olocausto, per il suo “leale sostegno a Israele” e, nel 1994, del premio Torch of Liberty dalla filoisraeliana ADL».[1]

L’industria dell’Olocausto è dunque un prodotto la cui è genealogia trova il suo punto archimedico nella guerra fredda e nella presenza dei banchieri di origine ebraica che vivono negli Stati Uniti. Si comincia così ad associare il mondo arabo, per pura propaganda ideologica, al nazionalsocialismo. L’effetto politico è devastante, poiché si pongono i fondamenti per l’incomunicabilità politica, per la reciproca diffidenza che favorisce un numero impressionante di stragi ed attentati da entrambe le parti. Sul campo l’effettualità di questo uso ideologico dell’Olocausto ha come risultato la moltiplicazione delle violenze. Milioni di persone scomparse per la violenza sono ora usate per una politica che se ne infischia dei diritti dei popoli e dei singoli.

«Proprio come l’ebraismo americano si mise a ricordare l’Olocausto quando la forza d’Israele raggiunse il suo culmine, così Israele fece lo stesso quando si affermò il potere degli ebrei americani. Il pretesto fu comunque che, in Israele come negli Stati Uniti, l’ebraismo rischiava un imminente “secondo Olocausto”. Le élite ebraiche americane poterono così assumere pose eroiche nello stesso momento in cui indulgevano in comportamenti vigliaccamente prepotenti. Per esempio, Norman Podhoretz sottolinea che, dopo la guerra dei Sei Giorni, gli ebrei erano ormai decisi a “resistere a chiunque in ogni modo, a qualunque livello e per qualunque ragione cerchi di recarci un qualsiasi danno [53]. D’ora in poi resisteremo”. (66) E così, come gli israeliani, armati fino ai denti degli Stati Uniti, misero coraggiosamente al loro posto i ribelli palestinesi, altrettanto coraggiosamente gli ebrei americani misero al loro posto i ribelli neri. Tiranneggiare chi è meno in grado di difendersi: questa è la realtà del tanto sbandierato coraggio delle organizzazioni ebraiche americane».[2]

A questo punto il colpo finale è la gerarchia tra gli olocausti, l’Olocausto è presentato come unico, come esperienza storica che non ha eguali. Naturalmente a spregio delle decine di milioni di morti degli olocausti perpetuatisi nella storia dagli Indios agli Armeni agli Ucraini. Si forma una competitiva graduatoria tra i morti. L’unica possibilità di riscatto della violenza è così negata. Si pensi all’Angelus novus di Klee commentato da Benjamin: il senso della ferocia della storia può essere riscattato solo fuggendo, cambiando direzione rispetto a ciò che è stato. In questo caso siamo interni al linguaggio della violenza, si usano i morti per giustificare altre violenze:

«Etichettata da Novick come “sacralizzazione dell’Olocausto”, questa mistificazione ha il suo campione più esperto in Elie Wiesel, per il quale, osserva giustamente Novick, l’Olocausto è una vera e propria religione “misterica”. Perciò Wiesel salmodia che l’Olocausto “conduce nelle tenebre”, “nega tutte le risposte”, “sta al di fuori, anzi al di là, della storia”, “resiste tanto alla comprensione quanto alla descrizione”, “non può essere né spiegato né visualizzato”, è incomprensibile e intramandabile”, segna il punto di “distruzione della storia” e di una “mutazione su scala cosmica”. Solamente il sopravvissuto-sacerdote (vale a dire solamente Wiesel) è qualificato per divinarne il mistero. Eppure il mistero dell’Olocausto – Wiesel lo dichiara apertamente – è “incomunicabile”: “Non possiamo nemmeno parlarne”. Così, per il suo normale onorario di venticinquemila dollari (più limousine con autista), Wiesel ci tiene conferenze sul fatto che il “segreto” della “verità” di Auschwitz “giace nel silenzio”. Secondo questa prospettiva, comprendere razionalmente l’Olocausto equivale a negarlo, perché la ragione nega l’unicità e il mistero dell’Olocausto; metterlo poi a confronto con le sofferenze di altri costituisce, secondo Wiesel, “un completo tradimento della storia ebraica”. Qualche anno fa, nella parodia di un tabloïd newyorkese apparve il titolo “Michael Jackson e altri sessanta milioni di persone muoiono in un olocausto nucleare”, che suscitò un’irata protesta di Wiesel sulla pagina delle lettere al direttore: “Come osano riferirsi a ciò che è accaduto ieri come a un Olocausto? C’è stato un solo Olocausto […]”. Nel suo nuovo libro di memorie, a riprova del fatto che la vita può anche imitare la parodia, Wiesel bacchetta Shimon Peres per aver parlato «senza esitazione dei “due olocausti del ventesimo secolo: Auschwitz e Hiroshima. Non avrebbe dovuto”. Uno dei pistolotti finali favoriti di Wiesel è che «l’universalità dell’Olocausto sta nella sua unicità”. Ma se è incomparabilmente e incomprensibilmente unico, come è possibile che l’Olocausto abbia una dimensione universale?».[3]

Ricordare è dunque prassi se al di là dell’appartenenza prevale la volontà motivata e condivisa di ricordare l’Olocausto per capirne le strutture politiche che lo causarono, le responsabilità dei molti, e specialmente per far emergere le violenze che hanno attraversato la storia e l’attraversano. Il rischio è dunque di perpetuare le violenze nella sacralizzazione strumentale di alcuni e nella dimenticanza degli altri. La spirale della violenza è santificata ogniqualvolta si celano le ragioni complesse degli eventi storici per favorire esemplificazioni strumentali. Ben diceva Gramsci quando affermava che se la storia è maestra di vita mancano, però, gli scolari.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Norman G. Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Milano 2002 pag. 17.

[2] Ibidem, pag. 21.

[3] Ibidem, pag. 31.


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Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
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Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

 


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Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

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Il giovane Marx di György Lukács è un testo indispensabile per riconfigurare il pensiero di Marx, il filosofo ungherese ricostruisce la processualità genetica del pensiero di Marx, applica la categoria della totalità che gli consente di rappresentare la linea evolutiva-genetica del suo pensiero da cui emerge la personalità di Marx. Il filosofo di Treviri appare come un pensatore che non teme il rischio del nuovo, e specialmente non teme la solitudine e l’isolamento. Il confronto dialettico con la sua epoca svela, il filosofo con la sua personalità affilata, pronto alla critica, ad assumere posizioni filosofiche originali. La formazione giovanile, già nella sua tesi di laurea, nella quale pone a confronto il pensiero di Democrito ed Epicuro, rileva il fine sostanziale della sua opera: l’emancipazione sociale e politica. Hegel aveva interpretato Epicuro e la Stoa come momenti secondari della storia della filosofia. Marx interpreta Epicuro come un filosofo illuminista, il cui intento è la liberazione dell’uomo dalle paure che gli impediscono di vivere una vita degna d’essere vissuta: «Hegel, coerentemente con la sua teoria generale della storia della filosofia, aveva visto nella Stoa e nell’Epicureismo solo dei momenti di secondaria importanza dello svolgimento della filosofia ellenistico-romana che solo nello scetticismo sarebbe pervenuta alla vera sintesi. Marx invece considerò Epicuro come un illuminista, un ateo, un liberatore degli uomini dal timore divino e per questo lo collocò, nella sua valutazione della dissoluzione storica della filosofia antica, più in alto degli scettici».[1]

L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà. Non a caso era Prometeo il mito prediletto dal filosofo. Marx interpreta Democrito in termini negativi, perché nel filosofo dell’atomismo prevale il meccanicismo negatore della dignità umana. L’uomo è pensiero, potenzialità critica ed elaborativa, dunque è libero, può sottrarsi al fatalismo degli eventi, riscattandosi da ogni determinismo: «Marx dimostrò che Democrito conosceva solo una necessità strettamente meccanica e negava pertanto il caso, mentre invece la filosofia epicurea conteneva elementi iniziali di una concezione dialettica del caso che apriva l’uomo la via verso la libertà».[2]

La libertà e la dialettica sono sin dalla Dissertazione di laurea i capisaldi del pensiero marxiano. Marx rielabora in modo originale anche il poeta-filosofo Lucrezio, nella cui opera prevalgono gli eroi che agiscono, pur in un mondo senza dei, senza gratificazioni trascendenti. Lotta e critica sono per Marx i fondamenti del pensatore. La prassi non è contrattabile, da questo la sua distanza dai giovani hegeliani, i quali si fermavano alla semplice critica, tralasciando la prassi: «D’altro canto l’immaturità politica dei Giovani hegeliani si manifestava nel fatto che essi fermavano alla critica della religione, alla diffusione dell’ateismo e in tal modo trascuravano i compiti centrali della lotta contro l’assolutismo feudale».[3]

La filosofia deve diventare pratica, solo la pratica è anche teorica. La distanza da Feuerbach diventa abissale, poiché Feuerbach si limita ad una critica antropologica della religione, ma non analizza le condizioni materiali del suo affermarsi. Solo l’analisi materiale delle condizioni di insorgenza della religione può consentire alla teoria di diventare prassi, poiché la prassi per trasformare le condizioni materiali di dolore e sfruttamento permettono di risolvere il problema religioso. La genialità di Marx è nel suo superare creativamente i limiti del pensiero di Hegel e Feuerbach. Da Hegel acquisisce la consapevolezza che la contraddizione è il motore della storia, mentre di Feuerbach rielabora il materialismo, rendendolo dialettico, non astratto, storicizzandolo grazie alla lezione storica hegeliana: «Marx iniziò dunque da un lato a criticare, sovvertendola, la dialettica mistificata e idealisticamente distorta di Hegel, e dall’altro, andando oltre Feuerbach, ad applicare il materialismo anche anche ai problemi della politica e della storia. Solo in tal modo egli potè, in modo creativo, sviluppare ulteriormente e sollevare ad un grado qualitativamente superiore ciò che Hegel e Feuerbach è fruttuoso e va nel senso del progresso. Il primo passo in tale direzione è la critica, condotta da un punto di vista politico radicale e filosoficamente influenzata da Feuerbach, della filosofia del diritto e dello Stato di Hegel».[4]

Marx rimette la filosofia di Hegel in piedi, ma in questa operazione di demistificazione dell’idealismo hegeliano, utilizza la lezione dialettica hegeliana, e il senso storico in esso presente completandolo col materialismo. L’effetto è di una filosofia originale e non di una semplice sintesi. Il materialismo dialettico è un mezzo di lettura della realtà sociale e politica, al fine di emancipare una umanità reificata e silenziosa. La libertà è possibile perché il materialismo dialettico libera da ogni processo di ipostatizzazione, di naturalizzazione. L’ipostatizzazione la si ritrova nell’eidos platonico come in Kant con le categorie ritenute ‘concetti puri’ atemporali e dunque al di là dei processo storico-politici: «Lo si ritrova in altra forma anche in Platone, e cioè nell’ipostatizzazione dell’eidos in un luogo trascendente al di là della realtà, come pure, in forma ancora diversa, cioè in un’accezione soggettivistica, in Kant, per il quale le categorie del mondo reale (causalità, molteplicità ecc.) staccate dalla materia di cui sono le determinazioni più generali, compaiono come “puri concetti dell’intelletto”». [5]

Il metodo ontogenetico marxiano ha la funzione di un rasoio, elimina ogni ipostatizzazione presente nell’idealismo oggettivo e soggettivo, consentendo la liberazione dalle catene che impediscono all’umanità di diventare protagonista della propria storia. Anche la proprietà è resa ipostasi e con essa il sistema vigente dagli economisti classici, Marx dimostra i processi materiali e storici di formazione della proprietà, dimostrando che il sistema vigente non è atemporale ma storico, temporale e dunque dialetticamente superabile. Dunque ogni accomodamento delle contraddizioni deve essere superata, la dialettica hegeliana conserva le contraddizioni con L’Aufhebung, si fa artefice di un’operazione di ipostatizzazione, il metodo marxiano invece non accetta compromessi, ogni riforma sociale risulta inefficace se il sistema politico che ha prodotto le catene sociale non è abbattuto radicalmente: «Dalla parte opposta c’è il partito teorico (i giovani hegeliani) , che prende le mosse dalla filosofia, si atteggia criticamente verso i suoi avversari ma acriticamente verso se stesso. Il suo errore principale è di vedere nell’attuale lotta solo la lotta critica della filosofia con il mondo tedesco e di non considerare che la filosofia fino ad allora sviluppatasi, appartiene pure a quel mondo […]. Con ciò Marx trae la conseguenza dalla scoperta che dall’idealismo hegeliano discende il suo accomodamento con le reazionarie condizioni dominanti ed il suo tentativo di giustificarle».[6]

La prassi non vuole compromessi, per cui il cambiamento rivoluzionario, il superamento delle contraddizioni, delle scissioni (il borghese-il cittadino) non può avere come protagonista la borghesia, classe della coscienza infelice irrisolta, ma deve avvenire mediante il proletario che accoglie l’infelicità di tutti, e si fa promotrice della liberazione di tutti. La filosofia si allea al proletariato, ne diviene organica perché dà ad essa i mezzi concettuali da trasformare in prassi per la liberazione dell’umanità tutta: «In tal modo è indicata però anche la prospettiva reale per la soppressione e la realizzazione della filosofia: dove il proletariato è stato spinto necessariamente alla sua esistenza materiale, lì è giunta anche la filosofia; la dialettica materialisticamente capovolta e diventata scienza, e il reale umanesimo, portano oltre i suoi limiti antropologici, trovano nel proletariato la forza di cui avevano bisogno quale arma capace di trasformarsi in loro sostenitrice e reale realizzatrice».[7]

Solo attraverso la rivoluzione sarà possibile l’emancipazione dal «geloso dio d’Israele» ovvero il denaro e la proprietà che vampirizzano l’umanità, la rendono merce, alienata a se stessa. Lὒkacs fa emergere contro ogni riduzionismo economicista che l’analisi economica di Marx non è affatto finalizzata a dare il primato assoluto all’economia, piuttosto l’analisi economica fa emergere le contraddizioni del sistema che sono connesse a piani di ordine giuridico e culturale in generale, la categoria della totalità si oppone per statuto epistemico ad ogni riduzionismo economico: «Sebbene dunque economia e filosofia abbiano nei Manoscritti una trattazione separata, le due critiche si illuminano l’una con l’altra reciprocamente, soprattutto perché Marx rinvia senza incertezze alla condizione storicamente affine di questi due indirizzi classici, avendo egli riconosciuto in essi l’espressione borghese, ideologicamente più elevata, della società capitalistica con tutte le sue contraddizioni. Il criterio per giudicare della grandezza e dei limiti dell’economia e della filosofia classica della borghesia, consiste per Marx in questo: se ed in quale misura esse esprimano apertamente […] queste contraddizioni, o se invece tendano ad eluderle».[8]

L’analisi lucacciana ci offre un ulteriore motivo per capire le ragioni della rimozione collettiva del pensiero marxiano. L’integralismo liberista, teme, e si difende dallo spettro di Marx, trattandolo come «un cane morto», ne teme i metodi di indagini che svelano e smascherano le mistificazioni dei nostri giorni tristi, ma specialmente teme ogni teoria che coniuga l’elaborazione alla prassi.

 Salvatore Antonio Bravo

 

[1] György Lukács, Il giovane Marx ,Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 32.

[2] Ibidem, p. 34.

[3] Ibidem, p. 43.

[4] Ibidem. p. 58.

[5] Ibidem. p. 63.

[6] Ibidem. pp. 100-101.

[7] Ibidem. p. 104.

[8] Ibidem. p. 108.

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Evald Ilyenkov 01

 

 

La filosofia vive negli uomini e nelle donne che hanno saputo renderla testimonianza vivente. Evald Ilyenkov (1924-1979) è stato un filosofo sovietico, che ha pagato con la vita la sua coerenza: è morto suicida. Le persecuzioni, la depressione dovuta anche a quel sentimento di estraneità che spesso coglie gli uomini di pensiero, lo hanno indotto al gesto estremo. Non sapremo mai le ragioni profonde ed ultime che inducono a fuggire dalla vita, possiamo solo immaginare situazioni che ne favoriscono la genesi. Ilyenkov è rimasto sepolto sotto il crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione sovietica. Fedele al comunismo autentico, all’emancipazione degli uomini dalle idee socialmente imposte che lo vorrebbero servo e passivo nel pensiero, non ha avuto “padrini”: la sua scelta di libertà e per la libertà del pensiero è stata vissuta fino all’estremo. Le sue opere sono poco pubblicate e molte attendono la traduzione dal russo. Era un filosofo, ma non solo. Si interessò sia di estetica come di psicologia. Diede un valido contributo allo studio per l’apprendimento nei bambini sordo ciechi. Lo sguardo rivolto alla totalità degli esseri umani, alle concrete condizioni che ne limitano lo sviluppo, è tipico dei pensatori che sentono il mondo: in essi la razionalità si completa con il thumos.[1] La ragione senziente può ricercare orizzonti che gli uomini piegati alla sola ratio – intesa limitatamente come calcolo – non possono comprendere. Ilyenkov ha definito l’universale come forma sintetica di particolare ed universale; in tal modo ha contribuito a formulare una definizione di universale all’interno delle dinamiche sociali e storiche. L’universale posto dall’uomo e dalla sua comunità comprende in sé la specificità dei casi particolari letti all’interno di un fenomeno universale che ne consente la chiarificazione razionale senza eliminare i dati particolari che vivificano l’universale, stando tra di loro in una relazione processuale. L’universale così definito si sottrae ai conformismi della naturalizzazione che li rendono intoccabili, al di fuori dello spazio e del tempo e dunque della storia. Gli universali devono essere riportati nella concretezza della storia, perché in essa vivono, in essa sono oggetto di attività per essere mutati: «Il concetto centrale della logica di Hegel, pertanto, è il concretamente-universale, e la sua differenza dalla semplice universalità astratta della sfera della rappresentazione è illustrato splendidamente dallo stesso Hegel nel suo famoso opuscolo Chi pensa astrattamente? [1807]. Pensare in astratto significa essere servilmente sottomessi alla forza delle parole correnti e dei luoghi comuni, delle vuote definizioni unilaterali, significa vedere nelle cose reali, sensibilmente intuite, soltanto una parte insignificante del loro contenuto effettivo, soltanto quelle loro determinazioni che sono già “congelate” nella coscienza e vi funzionano come stereotipi già pronti. Da qui anche la “forza magica” delle parole e delle locuzioni correnti che celano all‘uomo pensante la realtà, anziché servire come forma della sua espressione. Solo in questo senso la logica diviene veramente logica della conoscenza dell’unità nella multiformità, e non uno schema di manipolazione mediante rappresentazioni già pronte, diviene logica del pensiero critico ed autocritico, e non un mezzo di classificazione critica e di schematizzazione pedante delle rappresentazioni presenti. Muovendo da premesse di questo genere, Hegel giunse alla conclusione che il pensiero effettivo in realtà procede in forme ed è guidato da leggi diverse da quelle che la logica corrente considera le sole determinazioni del pensiero. È evidente che bisogna studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione, nel corso della quale l‘individuo coi suoi schemi di pensiero cosciente adempie soltanto a funzioni particolari».[2]

Il pensiero è dunque attività collettiva e materiale, si esplica nella storia, ed è movimento dialettico. Non esiste pensiero se non nella comunità, nella rete relazionale che si dipana per piani diversi dai modi di produzione alla posizione che ciascuno occupa all’interno del sistema alla relazione tra i singoli ed i gruppi, al corpo vivente. Il pensiero è comunitario, questa è la grande lezione che il filosofo sovietico aveva imparato da Hegel, Marx, Lenin. Il pensiero per essere emancipativo non può che essere autocritico, altrimenti diventa una sterile schematizzazione e classificazione senza alcuna consapevolezza. L’astrazione è la condizione dello spirito robinsoniano, ovvero gli universali, i modi di vivere, le categorie di senso entro cui leggere i dinamismi sono ritenuti naturali, da sempre esistenti, per cui tracciano negli individui forme di passività. Il corpo da essere pensante – secondo la lettura di Spinoza di cui Ilyenkov è stato grande interprete – diventa semplice ed automatico riflesso del sistema. Spinoza aveva insegnato al filosofo che il pensiero è corpo pensante, esso è attività che dà forma spaziale e significato a ciò che si percepisce. Il corpo pensante è dunque attività, per cui il pensiero non si può identificare con la corteccia cerebrale; è attività che modifica il corpo pensante mentre pensa; l’uomo è attività per cui può essere libero, non totalmente perché sottoposto alle leggi di natura, ma può modificare se stesso nell’unità psico-corporea che lo compone: «Cos’è dunque il pensiero? Come trovare la giusta risposta a questa questione, vale a dire fornire una definizione scientifica a un dato concetto, e non semplicemente enumerare tutti gli atti che noi per solito riuniamo sotto questa denominazione, ragionamento, volontà, fantasia, e via dicendo, come faceva Descartes? Dalla posizione di Spinoza scaturisce un suggerimento assolutamente preciso: se il pensiero è un modo di agire del corpo pensante, allora per definire il pensiero noi dobbiamo anche analizzare accuratamente il modo di agire del corpo pensante a differenza dal modo di agire (dal modo di esistere e di muoversi) del corpo non pensante. E in nessun caso la struttura o la costruzione spaziale di questo corpo in stato d’inerzia. Perché il corpo pensante, quando è inerte, non è più un corpo pensante, ma semplicemente un “corpo”. L’analisi dei meccanismi materiali (spazialmente determinati) grazie ai quali si realizza il pensiero entro il corpo umano, vale a dire lo studio fisiologico-anatomico del cervello, è beninteso, una questione scientifica d‘estremo interesse; ma anche la risposta più completa ad essa non ha una relazione diretta con la risposta alla questione indicata: “Che cos‘è il pensiero?”. Perché qui si chiede tutt’altra cosa».[3]

Spinoza con i dialettici sono stati i grandi maestri di Ilyenkov, accomunati dalla passione per l’uomo. L’uomo è attività. Qualsiasi sistema voglia ridurre l’uomo ad esecutore passivo di piani economici e sociali ideati in un altrove indeterminato ed espressione di gruppi lobbistici, non si può che definirlo totalitario. La riduzione dell’uomo a passività, ad ente biologico, a soffio vitale, è stata esperienza del secolo trascorso. Ma i Musulmani, come li chiamava Levi, sono anche le generazioni di uomini votati al feticismo delle merci e dei consumi, il cui io è disabitato. Ogni totalitarismo ed integralismo esige che l’umanità sia al servizio del potere. Spinoza, pur vivendo nella tollerante Olanda, soffrì le conseguenze dell’esclusione sociale dovuta alle sue idee rivoluzionarie. L’integralismo religioso fa della speranza e dell’ansia il puntello del suo sistema. Spinoza volle mostrare che speranza ed ansia sono l’effetto di idee inadeguate e pertanto la religione trova linfa in esse, rendendo gli uomini oggetto del destino. Hegel e Marx, da prospettive diverse, ma non opposte, mostrarono che il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Ilyekov elabora il concetto di ideale, nel cui sfondo si sente la presenza degli autori citati. Il pensiero marxiano dimostra che ogni sistema produce i suoi ideali, rappresentazioni nelle quali si sono oggettivati i rapporti sociali: «Il vecchio materialismo muoveva da una concezione dell‘uomo come parte della natura, ma, non riconducendo il materialismo alla storia, non poteva intendere l’uomo con tutte le sue peculiarità come un prodotto del lavoro che trasforma sia il mondo esterno che l’uomo stesso. In forza di ciò, l’ideale non poteva essere inteso come il risultato e la funzione attiva dell’attività lavorativa, sensibilmente oggettiva, dell’uomo sociale, come l‘immagine del mondo esterno che sorge nel corpo pensante non come risultato dell‘intuizione passiva, ma come prodotto e forma della trasformazione attiva della natura ad opera del lavoro delle generazioni che si sono succedute l’una all’altra nel corso dello sviluppo storico. Perciò la principale trasformazione che Marx ed Engels apportarono alla concezione materialistica della natura dell’ideale riguardò anzitutto il lato attivo dell’atteggiamento dell’uomo pensante verso la natura, cioè dell’aspetto che era stato sviluppato prevalentemente, per dirla con Lenin, dall’idealismo “intelligente”, della linea di Platone-Fichte-Hegel, e che da essi era stato messo in rilievo in modo astratto e unilaterale, idealisticamente».[4]

L’ideale è nel corpo pensante, è parte della vita biologica del soggetto, lo trasforma nella fisicità. Ilyenkov, con la sua analisi, mostra il difficile percorso dell’attività emancipatrice, la quale – per essere tale – deve trasformare i piani profondi del pensiero e dunque del corpo pensante. Rileva quanto i totalitarismi (mia è l’espressione) si rafforzano nell’incapacità indotta da parte dei soggetti di porre una distanza critica tra loro e le rappresentazioni ideali. Capire il radicamento del potere nel corpo pensante significa allora individuare strategie comunitarie per liberare e sublimare l’attività del pensiero verso la liberazione ed emancipazione. Il corpo pensante è attività per cui è sempre pensiero del possibile all’interno della storia. Nella società-comunità il soggetto e la comunità saranno consapevoli che la cultura, l’ideale, è produzione della società. La società comunista sembra delinearsi non come fine della storia, ma come movimento partecipato e comunitario: «E viceversa, la concezione materialista risulta naturale per l’uomo della società comunista, dove la cultura non si contrappone all’individuo come qualcosa di indipendente ed estraneo, impostogli dall’esterno, ma è la forma della sua propria azione attiva. Nella società comunista, come indicava Marx, diviene immediatamente evidente un fatto che nelle condizioni della società borghese si palesa solo per mezzo di un’analisi teoretica che dissolva le illusioni a questo punto inevitabili: il fatto che tutte le forme della cultura sono soltanto forme dell’attività dell’uomo stesso».[5]

[1] Thumos (anche ‘thymos’, in greco: θυμός) è una parola greca antica che esprime il concetto di “anima emozionale”. La parola indica un’associazione fisica con il respiro o col sangue.

[2] E. Ilyenkov, La Logica dialettica. Saggi di storia e teoria, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 271-272.

[3] Ibidem, pp. 63-64.

[4] Ibidem, pp. 370-371.

[5] Ibidem, p. 413.

 


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Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Eric Hobsbawm01
Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la Revoluciòn di E. Hobsbawm è un resoconto delle potenzialità critiche e rivoluzionarie dell’America Latina. Lo storico de Il secolo breve analizza le condizioni storiche che hanno fatto dei paesi dell’America latina un laboratorio politico nel quale esperimenti sociali si coniugano con potenzialità rivoluzionarie e riformiste inespresse. L’attenta e documentata rassegna dei diversi movimenti sono esaminati cogliendo le contraddizioni ed i limiti che hanno imbrigliato le possibilità politiche e rivoluzionarie. Leggendo il testo non si possono non cogliere analogie con l’attuale condizione italiana ed europea. Lo sguardo cognitivo rivolto verso l’America latina ci offre strumenti per capire la condizione dell’Occidente. Nell’anomia dell’informazione e della politica abbiamo necessità di capire, il diritto a capire e ad agire politicamente è stato sostituito dal flusso delle informazioni senza concetti, in tal modo non resta che il “panta rei”, per cui tutto scorre, ma nulla resta di concettualizzato ed elaborato per l’azione: si assiste al divenire senza l’essere metafora della politica.

Hobsbawm evidenzia quanto lo stesso sviluppo economico dell’America latina produca un sistema neofeudale. I nuovi schiavi sono tali perché le classi subalterne sono completamente asservite agli interessi dei nuovi proprietari feudali. L’economia, divenuta complice della politica, l’ha resa sua serva, in assenza di limiti politici e mossa dalla necessità di produrre ad infinitum. Lo sviluppo economico neofeudale ha quale effetto, contadini e classi medie passivizzate e sempre più funzionali al nuovo sistema economico. Politica ed economia si confondono nel neofeudalesimo descritto da Hobsbawm. Lo sviluppo economico dev’essere demitizzato per essere compreso. Il dogma dello sviluppo economico, del Pil quale parametro unico di valutazione cela tra le sue pieghe contraddizioni vissute ma non consapevoli. Il neofeudalesimo dell’America latina è speculare al neofeudalesimo finanziario dei nostri giorni. Il sistema di sviluppo agricolo di La Convenciòn ha tutti i tratti del neofeudalesimo tra corvè e sfruttamento: «La Convenciòn impartisce un’ultima lezione allo studente di sviluppo economico, sebbene forse gli sia piuttosto familiare: dimostra una volta di più che la crescita stessa del mercato mondiale capitalista sulla frontiera dello sviluppo, in determinate fasi, produce, o riproduce, forme arcaiche di dominazione di classe. Le società schiaviste dell’America del XVIII e XIX secolo erano il prodotto dello sviluppo capitalista, e così – benché su scala più modesta e localizzata – è stato anche il neofeudalesimo che prevalse a La Convenciòn fino al suo crollo, speriamo definitivo, grazie alla rivolta dei contadini».[1]

Tali osservazioni furono scritte nel 1969: è implicita la critica al modo di studiare economia accademico, alla falsa oggettività con cui gli studenti di economia si confrontano e trasformano l’economia in una religione del progresso che ha nella quantificazione il paradigma unico della lettura dei fenomeni economici. L’economia, sembra dirci Hobsbawm, quella reale, è differente dall’economia naturalizzata delle accademie universitarie. Dinanzi al delinearsi di forme di neofeudalesimo nell’America Latina, ed a potenziali condizioni per la Rivoluzione spesso si assiste o a forme di spontaneismo rivoluzionario o a rassegnazione e fatalismo: «È ovvio che la Colombia, come tutti gli altri Paesi latino-americani – a eccezione, forse, di Argentina e Uraguay – contenga la materia prima per una rivoluzione sociale sia dei contadini sia dei poveri delle aree urbane. Come in altre nazioni del continente, infatti, il problema non è trovare “materiale infiammabile”, ma capire perché non abbia già preso fuoco». [2]

Hobsbawm sembra parlarci, quando afferma che le condizioni per una rivoluzione, o per una politica riformista, non son solo attraverso le diffuse ingiustizie sociali; o meglio, per poterle definire tali, vi dev’essere la consapevolezza di sé, della classe sociale a cui si appartiene mediata dalla coscienza che la miseria non è un fatto naturale ma il prodotto di una sperequazione sociale voluta ed intenzionale: non si nasce poveri, non si nasce schiavi, si pensi alla dinamica servo-padrone di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma lo si diventa quando si rinuncia a lottare ed a pensare: «Innanzitutto, il gruppo attualmente privo di terra, il proletariato rurale, è di norma uno dei gruppi agrari meno dinamici e facili da organizzare sul piano politico (tranne forse dove c’è un’economia di piantagione avanzata) attraverso i metodi quasi urbani del sindacalismo. È il contadino – e non necessariamente quello che ha una quantità di terra insufficiente – a costruire l’elemento esplosivo più immediato. In secondo luogo, il minifondismo o la povertà non sono in se stessi sufficienti a produrre agitazioni agrarie: di norma è la giustapposizione del contadino all’hacienda (soprattutto l’hacienda la cui struttura e le cui funzioni stanno cambiando, per esempio con il passaggio dall’uso estensivo a quello intensivo delle terre, o dalla piantagione diretta allo sfruttamento attraverso contratti d’affitto o di mezzadria) a produrre miscela politicamente infiammabile».[3]

Hobsbawm ribadisce più volte che il passaggio dalla potenza all’atto non è meccanico. In assenza di un partito comunista che talvolta è diffuso, ma i cui aderenti vi partecipano in vista di un generico e non chiaro desiderio di riforma, a cui si accompagnano forti divisioni interne nell’area di sinistra, il neofeudalesimo può avanzare, malgrado gli improvvisi scoppi di rabbia e le politiche di riforma parzialmente ottenute: «Purtroppo anche la sinistra marxista, che non fu mai una forza politica rilevante se non in un numero ristretto di Stati, oggi nella maggioranza delle repubbliche è forse troppo debole e divisa per fornire un efficace contesto nazionale d’azione o una forza politicamente decisiva dal punto di vista della leadership. Anzi, l’effetto concreto degli anni Sessanta è stato, per una varietà di motivi, quello di indebolirla e frammentarla più che mai, rendendo la sua unificazione e la sua normale azione molto problematici. Ciò non esclude le grandi trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie, ma fa in modo che, probabilmente, a mettervisi a capo, almeno da principio, siano altre forze».[4]

La sinistra divisa, ridotta in fazioni in lotta per briciole di potere, è ciò a cui assistiamo oggi. Ciò permette alle forze autoritarie in economia e travestite da libertarie in campo etico e dei diritti civili di naturalizzare il liberismo. Si diffonde l’idea della impossibilità dell’alternativa mortificando gli animi degli sfruttati per rafforzare potentati economici sempre più feudali. Nel vuoto di spazio politico autentico si generano movimenti anche violenti, ma privi di progettualità.

In assenza di forze aggreganti mosse da un radicamento nel territorio in America Latina il banditismo è divenuto il facile e sanguinoso surrogato dell’assenza di un progetto autenticamente emancipativo e dunque condiviso e partecipato: «Tuttavia, riformista o rivoluzionario che sia, il banditismo in sé non costituisce un movimento sociale. Può essere un suo surrogato, come quando i contadini ammirano i Robin Hood come propri campioni per sopperire alla mancanza di una propria attività positiva diretta». [5]

Hobsbawm sembra guidarci verso la comprensione del presente post ’89 mediante l’analisi dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina. La nostra condizione è ancora più difficile, poiché le cosiddette “sinistre” non sono solo divise, ma ciò che più temono è proprio di essere percepite come vicine comunismo e socialismo. Di qui il moltiplicacarsi del fatalismo attuale, che diventa elemento germinatore dello stesso neofeudalesimo. La chiarezza filosofica – che si saldi con la prassi – è invece aggregante poiché svela la possibilità di un oltre, e può sottrae le coscienze degli oppressi dal gorgo nichilistico in cui vengono quotidianamente precipitate.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] E. Hobsbawm, Viva la Revoluciòn. Il secolo delle utopie in America Latina, Rizzoli, Milano 2016, pag. 119.

[2] Ibidem, pag. 59.

[3] Ibidem, pag. 219.

[4] Ibidem, pag. 237.

[5] Ibidem, pag. 124.

 


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