Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Giorgio Agamben 02
Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Quel che resta di Auschwitz

Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo.[1] Che nel “fondo” dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere – questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi – questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz; lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma, come l’Angelus novus di Benjamin, solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui, sottratto il logos, non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezionale in quotidiano. La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite[2]. Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere “tutto in tutto”. In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae, con i diritti sociali, il logos, per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia: i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Bravo

[1] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 30.

[2] Ibidem, p. 28

 

 


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Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Christopher Lasch

  L’io minimo all’epoca della società della sola sopravvivenza

L'io minimo

L’io minimo

L’io minimo – dopo l’identità fluida di Bauman – è un’immagine sostanziale e non solo metaforica della condizione dell’uomo all’epoca del cretinismo economico. Il testo di Christopher Lasch L’io minimo descrive lo sfaldarsi della comunità mondiale, e non solo occidentale, sotto la pressione del capitalismo totale. La tecnica ed i suoi apparati, gestell, operano per una riduzione dell’identità dell’io: senza di esso non vi è comunità, né possibilità di fondare con il logos percorsi dialettici per cercare verità e costruire progetti politici. La naturalizzazione dell’esistente ha trovato un alleato nel processo di vittimizzazione di un’intera società. Lasch descrive il senso di dipendenza diffuso nella società del benessere, del totalitarismo dell’azienda. La democrazia è diventata scelta solo all’interno di un orizzonte di cose. In realtà la libertà è solo apparente, dietro la patina epidermica dell’oggetto si nasconde il nulla dell’uguale. Per cui la trasgressione ha solo il fine di indurre alla scelta desimbolizzzata in nome dell’economia. Il malessere è gestito da figure specializzate ed adattive, per cui l’evoluzione autonoma dell’io è aggredita nella sua genesi. Si delega, si abdica, ci si rifugia nelle figure dell’iperspecializzzazione acquisendo un senso di impotenza, di vittimizzazione la quale diviene incapacità di sentirsi parte attiva e partecipata di una comunità. La comunità politica è attaccata nel suo fondamento, la dialettica che sviluppa l’io è in tal modo annichilita. Resta un senso di vittimizzazione, di impotenza generale che si stratifica in una vita che è un mero sopravvivere. Un clima darwiniano in cui si è chiamati alla rinuncia, in nome delle cose, dei morti che dominano i vivi, delle merci che divengono autonomi soggetti della storia. Il clima darwiniano, la sopravvivenza, vorrebbe ribaltare la natura umana, ridurla ad una mero calcolo per sopravvivere:«La mentalità della sopravvivenza porta a una svalutazione dell’eroismo. Le situazioni limite, scrive Goffman, danno rilievo “ai piccoli atti della vita”, non alle “grandi forme di lealtà e di inganno”. Le istituzioni totali organizzano un massiccio “attacco all’io”, ma nello stesso tempo impediscono una resistenza efficace, costringendo gli internati a ricorrere, invece che alla “recalcitranza”, al distacco ironico, alla chiusura in sé, e a quella combinazione di conciliazione e di non cooperazione che Goffman ha definito “making out”. Le istituzioni totali hanno affascinato Goffman perché, tra le altre ragioni, costringono chi vi è dentro a vivere giorno per giorno, dato che concentrarsi sull’immediato è la migliore speranza di sopravvivere a lungo. Il lavoro di Goffman sulle istituzioni totali parte dalle stesse premesse da cui partono i suoi studi sulla “presentazione del sé nella vita quotidiana”: anche nelle situazioni più laceranti, gli individui si rivelano più pienamente negli eventi non eroici dello scambio quotidiano che non in atti straordinari di abilità e coraggio» (C. Lasch L’io minimo, Feltrinelli, Milano 2010, p. 35).

L’abitudine alla sopravvivenza, alla cattiva vita diviene abitudine a subire, a giustificare ogni azione in funzione del calcolo della sopravivenza, per cui l’alienazione diventa aberrante. La nuova alienazione induce a consumare il proprio tempo attimo dopo attimo al fine di sopravvivere, si esclude la vita come dialettica, come qualità di vita. Il fine della trasformazione della società in una immensa azienda dell’esclusione, della competizione, porta a vivere nel disimpegno poiché l’unico futuro possibile è la sopravvivenza.

La descrizione di Lasch ci deve indurre a riflettere sulla capacità trasformativa della filosofia. Guardare e vivere il mondo in modo olistico per riattivare la forza razionale della speranza. La filosofia ha la sua vocazione a ricategorizzare il mondo, a renderlo dinamico, ma non fluido, ricostruisce percorsi dialettici senza i quali la comunità è inesistente. Lasch ci invita a riflettere sul costo umano della sopravvivenza: una società senza orizzonti ideali e comunitari, incapace di guardare oltre la mole della merce è segnata da un’infelicità perenne. L’indifferenza è l’effetto della vittimizzazione sostenuta da tanta “incultura” della sopravvivenza: «I sopravvissuti devono imparare dei trucchi per osservare gli eventi della propria vita come se succedessero ad altri. Una delle ragioni per cui la gente non si sente più soggetto di narrativa è che non si sente più soggetto, ma piuttosto vittima delle circostanze; e questa sensazione di essere agiti da forze esterne incontrollabili spinge a un’altra forma di equipaggiamento morale, all’abbandono dell’io assediato, per rifugiarsi nei panni di un osservatore distaccato, stupefatto, ironico. Sentire che quello che sta succedendo non succede a me mi aiuta a proteggermi dal dolore e a controllare le espressioni di risentimento e di ribellione che servirebbero solo a procurarmi altre torture da parte di chi mi tiene prigioniero. Ancora una volta ricompare nei manuali del successo una tecnica di sopravvivenza imparata nei campi di concentramento, dove era raccomandata come metodo affidabile per trattare con i “tiranni”. Chester Burger, autore di Dirigenti sotto il fuoco e Sopravvivenza nella giungla dirigenziale, dà per scontato che la resistenza nei confronti dei superiori arroganti sia fuori questione; ma consiglia anche i suoi lettori di non “adulare i tiranni”. Devono piuttosto cercare di prendere le distanze» (ibidem, p. 46).

Solo l’azione teoretica filosofica può indicare che oltre la «sopravvivenza» c’è la buona vita: essa inizia con la partecipazione, col pensiero condiviso che defatalizza l’esistente per risimbolizzarlo.

Salvatore Bravo

 



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Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

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Il potere di tutti

La censura agisce con l’espulsione dall’orizzonte dialogico di autori disfunzionali rispetto alle logiche di potere sempre più escludenti. Non sono solo le persone ad essere espulse, rese invisibili, ridotte a merce e come tali vendute in quanto forza lavoro a basso prezzo nell’occidente, ma anche gli autori che fungono da rottura critica per il sistema vigente.
Aldo Capitini è tra gli autori scomparsi, resi invisibili dal ‘panorama culturale’ mediatico e chiassoso. L’occidente dei leaders, del potere consegnato agli uomini ed alle donne forti al comando, che chiamano con la solita fascinazione delle parole, responsabilità politica, trasparenza, efficienza della decisione. La realtà immanente ci parla invece di infeudamento del potere: leaders, longa manus dei poteri finanziari e il popolo divenuto materiale inerte nelle mani di improbabili demiurghi che in nome di interessi lobbistici sono divenuti gli esattori dei diritti sociali. Il decremento dei diritti sociali obnubilato dalla concessione dei diritti individuali. Questi ultimi divengono operativi per coloro che ne possono usufruire materialmente, per i restanti il diritto individuale è solo potenziale senza atto.
Aldo Capitini, scomparso nel 1968, contrapponeva al sistema del potere di pochi, del partito, dei molti contro le minoranze un’altra visione, un’altra prospettiva del potere. Per Capitini il potere che si struttura secondo forme escludenti, o che si autolegittima mediante l’uso della forza è ancora natura nella natura, ‘il pesce grande mangia il pesce piccolo’; affinché l’essere umano possa divenire umano deve spezzare tale meccanicismo per sostituire ad esso l’apertura. Essa è umanizzazione dei rapporti, infinita inclusione nell’amore. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione perché possa fiorire nelle sue potenzialità. Aristotele affermava che l’uomo dev’essere come un albero, deve fiorire, vi dev’essere il passaggio dalla potenza all’atto. Per Capitini solo l’apertura riporta gli uomini all’incontro con il ‘tu’, nell’empatia, nello scambio, la meraviglia che stimola la crescita nell’incontro. La compresenza dell’altro, è uno dei capisaldi del pensiero di Capitini: compresenza significa sguardo che incontra l’alterità e non lo distoglie, significa parola che si fa dialogo e non termina, perché l’apertura è infinita e sospende ogni forma di naturalizzazione del sistema. Il potere si naturalizza non solo nella sua intrasformabilità ideologica, ma specialmente – fa notare Capitini – nella sua pratica violenta ed escludente, nel suo omologarsi alle forze della natura. Bisogna rompere il meccanicismo dell’azione con l’apertura e la compresenza dell’altro perché la vita diventi il centro del fare politica. La Resurrezione, secondo Capitini, era il simbolo della vittoria sulla morte ovvero la chiusura della natura quale modello di adesione acritico del potere. Oggi nel sistema del selfie e delle mercificazioni, assistiamo all’operazione di trasformare l’apertura mediatica, tutto è fluido e pubblico per essere fonte di guadagno, l’altro è sempre un mezzo, ci si intristisce in una chiusura senza feritoie, se tutto passa e pare permesso, resta celata la persona, che è invisibile mentre tutto sembra controllato dallo sguardo del nuovo potere disciplinare, del nuovo Panopticon. La persona non dev’esserci, perché dove c’è l’umano c’è il tu che nel logos dell’incontro è una variabile che può scomporre i poteri. Il tu è censurato, alienato dalle logiche permissiviste che, in cambio del tutto lecito, vogliono l’abbandono della speranza, dell’uscire fuori da sé per entrare in una nuova vita. Alla chiusura attuale, di questi anni, una cortina di cemento sembra il nostro futuro, si contrappone l’apertura, la compresenza che divengono omnicrazia .. [Leggi tutto nel PDF]

Salvatore Bravo


Aldo Capitini e la omnicrazia

 


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Nell’agosto 1968, due mesi prima dell’operazione chirurgica che ne provocherà la morte il 19 ottobre, Capitini affida allo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo la sintetica ricostruzione del suo percorso esistenziale, intellettuale e politico. Tra la primavera e l’estate dello stesso anno ha tentato una sintesi del suo pensiero politico nello scritto Omnicrazia: il potere di tutti, riproponendosi di lavorarci ulteriormente dopo l’operazione; non potrà farlo, ma lascerà un testo tutt’altro che incompiuto che è il risultato di un’esperienza quasi quarantennale di elaborazione teorica e di organizzazione politica, dall’antifascismo «liberalsocialista» degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica, alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.

I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.


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Pubblicati nel 1937 presso l’editore Laterza per interessamento di Benedetto Croce, gli Elementi di un’esperienza religiosa di Capitini sfuggirono alla censura fascista per un fatto assai significativo: essendo per il regime la religione naturalmente conservatrice – e certo tale era la religione cattolica -, nulla v’era da temere da un libro che parlasse di religione. Il libro di Capitini esprimeva, invece, una visione del mondo radicalmente antifascista. Partendo da una persuasione liberamente religiosa, né cattolica né cristiana, Capitini affermava i valori della nonviolenza, della nonmenzogna, della responsabilità, del “farsi centro” in un momento storico che vedeva il trionfo della violenza e dell’assenza di scrupoli.

Gli Elementi, prima opera filosofica di Capitini, sono il punto di partenza ideale per studiare la complessa filosofia di uno dei teorici più rigorosi e profondi della nonviolenza.

 

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Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

 

Michel Foucault

 

 

Introduzione

Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.

L’ Enunciato

L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.

Gli interdetti

Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).

In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)

La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).

La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.

Un’etica possibile

Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).

Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.

La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.

Chi ha paura della totalità?

Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.

Pëtr Alekseevič Kropotkin – «Libertà e bene in P.A. Kropotkin, di S. Bravo: «Ogni volta che vedrai una ingiustizia o l’avrai commessa – una iniquità nella vita, una menzogna nella scienza, o una sofferenza imposta dall’altro – rivoltati contro l’iniquità, la menzogna e l’ingiustizia. Lotta! Più sarà intensa la lotta e più sarà intensa la vita».


Salvatore Bravo

Libertà e bene in Pëtr Kropotkin

Pëtr Kropotkin nei suoi scritti ricerca il fondamento del comunismo anarchico e libertario. La politica di qualità e progettuale necessita di fondamenti, senza i quali la progettualità non può che liquefarsi in tatticismi condizionati da contingenze storiche e da “confronti armati” tra oligarchie. Il servaggio materiale e intellettuale è la “banalità del male” del tempo appiattito nella sola prospettiva finanziaria. Il profitto è la divinità malvagia e atea che tutto aliena e tutto annichilisce, ciò malgrado è oggi realtà noumenica, la si serve tacitamente senza pensarla. Il tempo del nichilismo compiuto con le sue violenze ordinarie e straordinarie è “il segno” del vuoto progettuale e della contrazione di ogni dibattito sulla definizione di “bene”.

In tale contesto – che pare non lasciare spazio alla speranza politica –, la rilettura delle opere di quegli uomini che hanno impegnato la loro vita nella prassi della ricerca della verità è una delle modalità con cui uscire dall’asfissia della gabbia d’acciaio.

Pëtr Kropotkin ha mostrato, con le sue considerazioni critiche, che il fare capitalistico è la negazione assoluta della natura umana e della natura di tutti gli esseri viventi.

Gli esseri umani e le altre specie vivono diversamente la dimensione del “bene” (proprio e comune), ma per sopravvivere alle ostilità e ai cambiamenti ambientali tutti i viventi sono poratati a mettere in atto una pratica “solidale”. Non sono certo divinità a determinare una differenza umana rispetto agli altri viventi. È la natura umana che orienta verso la consapevolezza del bene. Quest’ultimo si estrinseca nella solidarietà che coniuga individui e gruppi sociali. L’intelligenza delle specie è nel bene comune. Il vincolo solidale prevale sull’individualismo, poiché il soggettivismo non può che porre in pericolo l’esistenza dell’intera specie, che può trovarsi a subire i cambiamenti ambientali fino al pericolo dell’estinzione. L’individualismo è negato in natura, poiché non consente la vita del e del gruppo e dell’individuo. La natura ha dotato ogni vivente del vincolo solidale all’interno delle specie per proteggere l’esistenza sia di gruppo sia individuale. Tale vincolo solidale può estendersi anche oltre le singole specie.

Il dominio ha distorto il carattere naturale del “bene” per utilizzarlo allo scopo di determinare gerarchie sociali fondate sul diritto e sulla religione. Giudici e uomini di Chiesa hanno trasformato il bene in giurispudenza e spiritualità codificata al servizio dei potentati economici e sociali. Il bene trasformato in senso di colpa e in terrore punitivo nella forma dell’Inferno e delle pene carcerarie non può che essere indebolito nella sua verità fino ad essere misconosciuto. Il bene non vuole autorità né Stato. Il filosofo russo fu avverso anche alla “dittatura del proletariato” del comunismo novecentesco; l’autoritarismo non porta al bene e prassi, ma alle oligarchie che inficiano il processo di libera espressione del bene. Alla fine del processo di negazione del bene naturale mediante gli strumenti istituzionali del dominio-vassallaggio non resta che il «bene svuotato di ogni funzione libertaria e spontanea». L’immaginazione solidale, vero strumento applicativo del bene, è così fortemente ridimensionata; il soggetto gradualmente scioglie i vincoli che lo legano alle alterità per rinchiudersi in una infelice solitudine. La paura e il terrore prevalgono sulla spontanea tendenza alla realizzazione dell’individualità nella solidarietà. L’infelicità è nel carcere interiore che isola, tormenta e tortura, in quanto la natura umana è negata:

 

«Lo spirito dei bambini è debole, è facile sottometterlo attraverso il terrore, ed è ciò che essi fanno. Lo rendono timoroso, parlandogli dei tormenti dell’inferno; fanno balenare davanti ai suoi occhi le sofferenza dell’anima dannata, la vendetta d’un dio implacabile. Un momento dopo, gli parleranno degli orrori della Rivoluzione, sfrutteranno qualche eccesso dei rivoluzionari per fare di lui “un amico dell’ordine”. Il religioso l’abituerà all’idea di legge per farlo meglio obbedire a ciò che chiamerà la legge divina, e l’avvocato gli parlerà della legge divina per farlo obbedire meglio alla legge del codice[1]».

 

Il terrore organizzato mediante l’uso strumentale dello “spirito“ e della “legge” si evolve nella storia e si laicizza: il Diavolo è sostituito dalla passione carnale, l’Angelo con la coscienza. Ogni obbligo non può che mortificare e reificare la naturale e spontanea disposizione al bene. Dove vi è obbligo, il bene si trasforma in mezzo per la colpevolizzazione che conduce alla sudditanza, pertanto del bene non resta che l’ombra perversa.

Il bene non vuole la rinuncia del soggetto a se stesso, non chiede l’automutilazione sacrificale e olocaustica. Il bene è spontaneità dell’interalità dell’essere umano, che in tale prassi vive il tripudio e la gioia della sua natura. Il dominio lavora per rendere la naturale predisposizione al bene solidale una vuota parola, la quale è solo l’eco dell’autentica natura umana traviata dai sistemi sociali. Per riportare l’essere umano e la natura dei viventi al loro fondamento è necessario smascherare i camuffamenti del “Diavolo e dell’Angelo”:

«La gente colta non crede più al diavolo; ma, poiché le loro idee non sono più razionali di quelle delle nostre bambinaie, camuffano l’angelo e il diavolo sotto una terminologia scolastica, onorata con il nome di filosofia. Al posto di “diavolo”, si dice oggi “la carne, le passioni”. “L’angelo” sarà rimpiazzato dalle parole “coscienza, anima”, “riflesso del pensiero di un Dio creatore”o del “grande architetto”, come dicono i massoni. Ma le azioni degli uomini sono sempre rappresentate come l’esito della lotta tra due elementi ostili[2]».

Pëtr Kropotkin non nega i principi morali, anzi prende le distanze dai nichilisti, i quali scambiano l’uso che ne è stato fatto con la verità degli stessi. La perversione effettuata dal potere non cancella la verità universale e oggettiva del bene. Il lavoro dello spirito deve disincrostare il bene dalle sovrastrutture che ne hano inquinato e contaminato il senso. Il dominio è guerra contro il bene, poiché i vincoli solidali inficiano e ribaltano le logiche di sussunzione:

«Ma negare il principio morale perché l’hanno sfruttato la Chiesa e la Legge sarebbe tanto ragionevole quanto affermare che non ci si laverà mai, che si mangerà carne di maiale infestata dalla trichina e che non si vorrà il possesso comunale del suolo, perché il Corano prescrive di lavarsi ogni giorno, perché l’igienista Mosè vietava agli ebrei di mangiare carne di maiale, o perché la sharia (il supplemento del Corano) dice che ogni terra rimasta incolta per tre anni deve tornare alla comunità[3]».

Idola e il bene in natura

L’ispirazione divina del bene a cui hanno fatto ricorso i religiosi per individuarne la genesi ha nel suo fondo anche una sostanziale ignoranza: non riuscendo a razionalizzare il fondamento autentico del “bene” le religioni si sono rivolte al trascendente. L’osservazione scientifica delle abitudini dei viventi dimostra, invece, che il vincolo solidale ha la sua causa immanente nel bene funzionale alla sopravvivenza delle specie viventi.

Pëtr Kropotkin fu zoologo, oltre che pensatore anarchico-comunista. La documentazione raccolta sulle abitudini degli animali lo convinse del fondamento biologico del bene. La scienza – con il suo metodo di studio e di osservazione –  libera dai pregiudizi che si sono sclerotizzati nel tempo. In natura non sopravvive il più scaltro o il più forte, ogni scelta individualista conduce alla rovina la specie. Solo i vincoli di solidarietà costruiscono la «social catena biologicamente sperimentata e vincente per i suoi risultati» che consente la pienezza dell’espressione del bene. Pëtr Kropotkin fu ostile alla cultura darwiniana in campo sociale e naturale e ne dimostrò le fragilità intrinseche. Prese le diastanze anche da Rousseau, il quale identificava la causa della solidarietà in un vago sentimento universale:

“Per distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, i teologi mosaici, buddhisti, cristiani e musulmani hanno fatto ricorso all’ispirazione divina. Secondo loro l’uomo, sia selvaggio o civile, illetterato o sapiente, perverso o buono ed onesto, sa sempre se agisce bene o male, e lo sa soprattutto quando agisce male; ma, non trovando una spiegazione per questo fatto generale, vi hanno visto una ispirazione divina. I filosofi metafisici ci hanno parlato a loro volta di coscienza, di imperativo mistico, ciò che del resto vuol dire solo cambiare le parole. Né gli uni né gli altri, tuttavia, hanno saputo constatare il fatto così semplice e così sorprendente che anche gli animali che vivono in società sanno distinguere il bene dal male, proprio come gli uomini e, soprattutto, che le loro concezioni del bene e del male sono assolutamente dello stesso genere di quelle degli uomini[4]”.

 

Pëtr Kropotkin riporta tra gli innumerevoli casi accertati direttamente il caso delle formiche, esse hanno un intestino individuale e sociale nel contempo, al fine di cedere una parte del cibo alle formiche che ne sono sprovviste; con tale “modalità d’azione” ogni formica partecipa alla sopravvivenza del formicaio. Individualità e altruismo non sono in antitesi, ma sono complementari: l’individualità può affermare e attuare la sua natura solo in un contesto di altruismo e di reciprocità:

 

«Forel, questo osservatore inimitabile delle formiche, ha dimostrato con una massa di informazioni e di fatti che quando una formica che ha riempito il gozzo di miele ne incontra altre formiche che hanno il ventre vuoto, queste ultime le chiedono subito da mangiare. Presso questi piccoli insetti è un dovere per la formica sazia rigurgitare il miele, affinché le amiche che hanno fame possano saziarsi a loro volta[5]».

Materialisti

Materialisti e utilitaristi hanno riportato il fondamento dell’etica nell’immanenza: il piacere è il fondamento dell’agire morale. Le azioni generose procurano un utile all’agente, in quanto l’altruismo gli procura piacere personale. Negli utilitaristi il centro dell’agire resta la soggettività. Il grande errore di materialisti e utilitaristi è l’incentrarsi esclusivamente sull’individuo, poiché il fondamento dell’agire morale non è solo il piacere individuale, ma ciò che è utile alla sopravvivenza della specie. La gioia individuale è il piacere nell’aver contribuito alla sopravvivenza e al miglioramento qualitativo e quantitativo della sopravvivenza dell’intero. La parte (individuo) e il tutto (specie) non sono separabili, ma in tensione produttiva:

 

“La formica, l’uccello, la marmotta e il tchouktcha non hanno letto Kant né i santi Padri, e nemmeno Mosè, e tuttavia hanno tutti la stessa idea del bene e del male. E se riflettete un momento su ciò che è al fondo di questa idea, vedrete sul campo che ciò che viene reputato buono presso le formiche, le marmotte ed i moralisti cristiani o atei è ciò che è utile per preservare la razza – e ciò che è considerato cattivo è ciò che è nocivo per essa. Non per l’individuo, come dissero Bentham e Mill, ma per la razza intera[6]”.

 

Adam Smith e Guyau

Pëtr Kropotkin sintetizza e riordina le osservazioni effettuate direttamente nei suoi numerosissimi viaggi correggendo il pensiero di Adam Smith. Il filosofo inglese focalizza l’attenzione sull’empatia quale fondamento della morale umana. L’errore di Adam Smith è di aver limitato l’empatia alla specie umana, mentre le osservazioni effettuate dal pensatore russo in Siberia e in Manciuria dimostrano ben altro. L’antropocentrismo di Adam Smith fa dell’essere umano “un impero nell’impero” come direbbe Spinoza, invece non è un’eccezione, ma è parte dell’impero del bene:

«Il solo errore di Adam Smith è quello di non aver capito che questo stesso sentimento di simpatia, passato allo stato di abitudine, esiste negli animali tanto quanto negli uomini. Per quanto possa dispiacere ai volgarizzatori di Darwin, che ignorano in lui tutto ciò che non ha preso in prestito da Malthus, il sentimento di solidarietà è il tratto predominante della vita di tutti gli animali che stanno in società. L’aquila divora il passero, il lupo divora le marmotte, ma l’aquila ed il lupo si aiutano tra loro nella caccia, e i passeri e le marmotte solidarizzano così bene contro gli animali da preda, che sono quelli più goffi si lasciano beccare. In tutte le società animali, la solidarietà è una legge (un fatto generale) della natura, infinitamente più importante di quella lotta per l’esistenza di cui i borghesi ci cantano le virtù con ogni ritornello, per meglio abbrutirci [7]».

Altro autore fondamentale è stato Guyau, il poeta e filosofo francese si sofferma sulla sovrabbondanza energetica insita in ciascun individuo che deve orientarsi necessariamente verso l’esterno e con tale attività si disegnano ponti solidali, i quali non implicano il depauperamento dell’individualità ma la sua positiva affermazione. La solidarietà potenzia le soggettività, è il segno dell’abbondanza energetica insita in ogni soggettività che consente di formare la rete sociale, in cui le individualità sono poste in positiva tensione:

«La loro origine, ha detto Guyau, è il sentimento della propria forza. È la vita che deborda, che cerca di diffondersi. “Sentire interiormente ciò che si è capaci di fare è al tempo stesso acquisire una prima coscienza di ciò che si ha il dovere di fare.” Il sentimento morale del dovere, che ogni uomo ha avvertito nella propria vita e che si è cercato di spiegare con ogni misticismo, “il dovere non è altro che una sovrabbondanza di vita che chiede di esercitarsi, di donarsi; è al tempo stesso il sentimento di una potenza».[8]

Essere anarchici e comunisti significa realizzare l’uguaglianza. Se il vincolo solidale è iscritto nella natura, la conseguenza è l’uguaglianza. La solidarietà è possibile, in quanto ciascun individuo riconosce l’altro come suo pari, pertanto l’anarchia ha l’obiettivo politico di ristabilire l’ordine naturale traviato dal capitalismo e dai suoi sgherri: preti e giudici. Solidarietà, uguaglianza e solidarietà sono valori iscritti nella biologia in relazione con l’ambiente, per cui l’anarchia sarà la piena attualizzazione di ciò che la natura ha stabilito con la mediazione della coscienza umana:

«Dichiarandoci anarchici, proclamiamo di rinunciare a trattare gli altri come non vorremmo essere trattati noi; che non tollereremo più l’ineguaglianza che ha permesso ad alcuni di noi di esercitare la loro forza o la loro astuzia o la loro abilità in un modo ripugnante. Ma l’uguaglianza in tutto – sinonimo di equità – è l’anarchia stessa. Al diavolo l’osso bianco che si arroga il diritto di ingannare la semplicità del prossimo! Noi non ne vogliamo, e all’occorrenza lo sopprimeremo. Non è solo a quella trinità astratta di Legge, Religione e Autorità che dichiariamo guerra[9]».

 

 

Verità e bene

La parità onto-naturale degli esseri umani non può che fondare un sistema sociale che ha nella verità uno dei suoi capisaldi. La menzogna nega l’uguaglianza naturale; vi è menzogna nei sistemi che si basano sulla strumentalizzazione dell’altro, in cui la cecità sulla natura umana ha distorto le relazioni umane e ha introdotto la violenza dell’intercosalità, ovvero delle relazioni caratterizzate dal valore di scambio. La crematistica non riconosce l’alterità come pari, per cui all’alterità si può mentire per estorcergli plusvalore, ma anche l’estortore è infelice, in quanto vive la desolazione della solitudine reificata. La brutalità si dispiega in mille forme, ma produce sempre lo stesso effetto: l’infelicità generalizzata:

 

«La menzogna, la brutalità e così via, abbiamo detto, sono ripugnanti non perché sono disapprovati dai codici morali – noi ignoriamo questi codici – ma perché la menzogna, la brutalità eccetera indignano il sentimento di uguaglianza di colui per il quale l’uguaglianza non è una parola vana; indignano soprattutto chi è anarchico nel suo modo di pensare e di agire[10]».

 

Nella storia umana, malgrado regressioni e violenze inaudite la speranza è sorgente sempre viva. I sistemi e le organizzazioni sociali con le loro innaturali perversioni non possono obliterare la natura umana, la quale è etica e volta al bene solidale. Da tale presupposto l’anarchico russo deduce l’inevitabile e non meccanica realizzazione nella storia dell’anarco-comunismo:

«Ecco perché questo sentimento, questa pratica della solidarietà, non cessano mai, nemmeno nelle epoche storiche peggiori. Anche quando delle circostanze contemporanee di dominio, di servitù, di sfruttamento fanno misconoscere questo principio, esso resta sempre nel pensiero del grande numero, al punto da portare ad una spinta contro le cattive istituzioni, a una rivoluzione[11]».

La storia non è mai conclusa, in quanto nell’essere umano vi è la spinta a trascendere gli egoismi e le ingiustizie, poiché il bene solidale è nella natura umana. Lo scandalo dinanzi alla menzogna e alla strumentalizzazione degli “eguali e non sono” è sempre possibile. I cantori della fine della storia e i numerosi discepoli di Hobbes che, in questo momento regnano e imperano, non possono che trovare in Pëtr Kropotkin uno strenuo e razionale oppositore. Il filosofo russo nel nostro tempo hobbesiano ci dona dati osservativi da cui dedurre l’innaturalità perversa del nostro tempo. Il capitalismo nella sua fase totalitaria e assoluta è sideralmente distante dal bene. Da ciò non può che derivare un giudizio radicale sul capitalismo e sui sistemi sociali fondati sull’egoismo e sulla competizione. Il darwinismo sociale dimostra che il potere seleziona e trasmette le ideologie e le teorie scientifiche che sono funzionali alla conservazione del potere. Le teorie che ribaltano visioni naturalizzate sono marginalizzate o rimosse dal pubblico dibattito. Pëtr Kropotkin è uno dei grandi assenti nel dibattito europeo, perché non giunge a conclusioni funzionali ai bisogni politici e ideologici delle oligarchie. La solidarietà – frutto di selezione di esperienze e, dunque, strumento vincente per la sopravvivenza delle specie –, dimostra la creatività della molteplicità degli individui che raffinano naturalmente le esperienze del bene, fino a determinare la sua necessità, perché la vita possa realizzare pienamente se stessa. La vita è gruppo-popolo che conserva vincoli solidali senza sopprimere le individualità e questo il dominio non può tollerarlo.

 

 

[1] Pëtr Kropotkin, La morale anarchica, edizioni dsmgtlfpqxz pekin, 2008, pag. 20.

[2] Ibidem, pag. 27.

[3] Ibidem, pag. 58.

[4] Ibidem, pag. 41.

[5] Ibidem, pag. 42.

[6] Ibidem, pag. 44.

[7] Ibidem, pag. 52.

[8] Ibidem, pag. 78.

[9] Ibidem, pag. 59.

[10] Ibidem, pp. 71 72.

[11] Ibidem, pag. 76.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvarore Bravo – Male quotidiano / Resistere di fronte agli esecutori / Silenzio e parole: “La pietra perifrastica”

Salvarore Bravo

Male quotidiano.
Resistere di fronte agli esecutori.
Silenzio e parole : La pietra perifrastica

Il male non è nei grandi eventi, ma nella normalità del quotidiano. Le grandi manifestazioni della violenza sono la punta dell’iceberg della normalità del male e del suo radicarsi nel quotidiano. Associare il male esclusivamente a malvagie intenzioni è una trappola in cui non bisogna cadere, l’intenzione malvagia è un’eccezione nella pratica del male, essa è piuttosto indifferenza e pensiero acritico. L’indifferenza non è casuale, è coltivata nel sistema mediante l’addestramento competitivo il cui scopo a trasformare ogni occasione in profitto, ciò si radica e si introietta fino a diventare la seconda natura dell’essere umano che tutto guida. Dall’orizzonte emotivo l’alterità è oscurata e con essa scompare il pensiero critico ed il giudizio qualitativo. L’indifferenza verso la comunità diviene giudizio acritico, si può vivere nel male, ma essere superficialmente convinti di essere nel bene. L’inganno dei totalitarismi è sempre eguale, si parte da un postulato da cui tutto dedurre logicamente deduttivamente senza che vi sia nella catena logica dubbio o riflessione sulle asserzioni logiche. Vi è lo scollamento tra verità e logica, quest’ultima è il protocollo i ogni agire indiscusso, e pertanto mai oggetto di giudizio critico. Il liberismo è totalitarismo capzioso, poiché parte dalla premessa della naturale predisposizione dell’essere umano al profitto, la libertà nell’assecondare il banale egoismo è la legge logica di ogni azione, parola e comportamento giornaliero. L’attenzione è solo sull’io e sull’interesse privato, non rientrano nel calcolo le conseguenze dell’azione e specialmente l’abitudine a perseverare nell’interesse privato congela ogni riflessione sul dato e sull’ipotetica possibilità dell’alternativa. L’oscuramento del giudizio critico è l’eclissi della ragione oggettiva, non resta che una soggettività spogliata della sua capacità di giudizio e resa conforme alla logica che tutto muove. La soggettività è, così, interna alla concatenazione logica e degli stimoli, non li governa, ma è l’esecutrice di logiche che non ha deciso, pertanto implicitamente il male è una nuova innocenza edenica senza gioia. La passività deresponsabilizza, si è sempre innocenti, non si è mai toccati dal male, esso è sempre degli altri, è in un fuori irraggiungibile. La logica che la Arendt ha applicato al nazismo e al comunismo staliniano è ora applicabile al liberismo, poiché l’integralismo dell’azienda con la adamantina logica del profitto ha occupato ogni spazio del quotidiano, al punto che ha sostituito la verità, è diventata pratica del male irriflessa che si materializza nella vita dei singoli come nelle relazioni internazionali. Il male avanza non solo sulla punta delle baionette, ma specialmente nel declino del giudizio critico sostituito banalmente dalla logica della potenza distruttrice:

La logica non si identifica col ragionamento ideologico, ma indica la trasformazione totalitaria delle diverse ideologie. Se caratteristica principale delle ideologie fu di trasformare un’ipotesi scientifica, quale poteva essere ad esempio la sopravvivenza del più forte in biologia o della classe più progressista nella storia, in un’«idea» che potesse applicarsi all’intero corso degli eventi, allora è proprio della trasformazione totalitaria cambiare l’idea nella premessa logica, cioè in qualche affermazione, autoevidente da cui tutto si possa dedurre con implacabile coerenza logica1”.

Totalitarismo liberista

Il totalitarismo liberista non contemplato dalla Arendt come il ministero della verità del testo di Orwell 1984 vorrebbe riscrivere la storia, vorrebbe rappresentare la storia come la lunga marcia che porta al liberismo, oltre non vi è nulla, vi è solo la conferma nell’allargamento pervasivo geografico e temporale del turbocapitalismo. Ogni totalitarismo vorrebbe neutralizzare la storia, per questo la deve riscrivere e mutilare delle sue possibilità. Controllare la storia significa riordinare il tempo delle coscienze secondo una rigida concatenazione causale con la quale gli esseri umani sono ridotti ad enti che obbediscono alle leggi scientifiche. Nulla di nuovo deve emergere dalle coscienze, ma tutto deve essere sterilmente preordinato. La società aperta liberista si svela nella sua verità, se si pongono in epochè le libertà formali e si pensa il quotidiano in cui siamo invischiati, nel quale ogni gesto è finalizzato al profitto, in tale logica avanza l’impotenza rabbiosa generale, poiché le potenzialità di ogni persona sono asservite al solo profitto, e dunque sono negate. L’individuo fondamento del liberismo è negato. Nulla è vissuto con spontaneità e creativa gratificazione, anzi queste ultime sono vissute come patologie da curare. Dalla coscienza del soggetto come dalla storia nulla di nuovo deve emergere, ma tutto dev’essere sussunto alla logica del profitto e della guerra:

Chiunque nelle scienze storiche creda sinceramente nella causalità, nega in realtà lo stesso oggetto della sua scienza. Tale credo può esser celato nell’applicazione di categorie generali, come sfida e risposta, all’intero corso degli avvenimenti, o nella ricerca di tendenze generali che si suppone siano gli strati più profondi da cui nascono gli eventi di cui essi sarebbero sintomi accessori. Tali generalizzazioni e categorizzazioni spengono la luce «naturale» che la stessa storia offre e, per ciò stesso, distruggono la vera storia, la sua unicità e il suo significato eterno che ogni periodo storico esprime. Nel quadro di tali categorie preconcette, la più cruda delle quali è la causalità, nessun evento, nel senso di qualcosa di irrevocabilmente nuovo, può apparire e la storia senza eventi di diventa la morta monotonia dell’unicità che si svolge nei tempi, l’eadem sunt omnia semper di Lucrezio2”.

Il nichilismo è la negazione del pensiero critico, l’unica logica a cui obbedisce è la libertà nella forma della soddisfazione dei propri interessi personali. La premessa è il profitto, il risultato è il suo conseguimento, le proposizioni intermedie sono solo tattica per la conclusione. La libertà consiste nell’abbattere gli ostacoli senza pensare-immaginare non solo le conseguenze, ma specialmente se tali azioni sono fonte di vero bene per il soggetto e per la comunità. L’utile divora l’idea di bene fino a renderla archeologica presenza lessicale. L’idea del bene deve scomparire dalla parole e dalle intenzioni, il sistema la rappresenta come divisoria e conflittuale, fonte e causa dei conflitti nel passato. L’assurdo logico è che la perenne lotta di tutti contro tutti, pur nella sua drammatica evidenza, è rappresentata come il paradigma che divide il mondo della libertà dal mondo dell’oppressione. Chiunque non voglia essere incluso nel liberismo è il male, ma ogni discussione sul bene è neutralizzata sul nascere, in tal modo il sistema si protegge dai crimini e tragedie commessi in nome del profitto. L’immaginazione, facoltà con cui ci si ritrae dagli stimoli, per ripensarli e creare il “mondo” è rigettata e vilipesa, si consolida l’uomo nuovo del liberismo con immense capacità tecniche, ma incapace di pensare, se rispondono al bene autentico delle comunità come dei singoli:

Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose sotto il loro vero aspetto, di porre a distanza ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza parzialità né pregiudizi, di colmare l’abisso che ci separa da ciò che è troppo lontano in modo da comprenderlo come se ci fosse famigliare3”.

Il totalitarismo liberista si svela, se l’azione è sospesa e si pensa la logica che esso persegue. La verità del liberismo globale è nella negazione del suo fondamento: l’individuo con i diritti, in realtà è niente, poiché sussunto alla logica del profitto, è mezzo, e non fine, per cui il soggetto è un protocollo codificato dal sistema e dalla logica del profitto. Uscire dal totalitarismo significa riconoscerlo nella sua metamorfica capacità di mascherarsi e di assumere forme nuove. Il grande compito storico degli uomini e delle donne di buona volontà e di pensiero è smascherare le nuove forme di totalitarismo implicito per favorire l’emancipazione politica collettiva.

 

***
***

Esecutori

La politica della globalizzazione non ha statisti o veri protagonisti, ma ha solo esecutori. Gli oligarchi governano, i politici eseguono, la politica agonizza e scompare, essa è solo uno spettro, non ha profondità, poiché è l’economia a tirare le fila. Gli esecutori, ciò malgrado, non sono tra di loro eguali, si può eseguire un ordine mediando il comando con le circostanze. L’intervento del Presidente del Consiglio Draghi con cui ha ringraziato Zelensky, è la dimostrazione di un tipo di esecutore incapace di mediare il comando con il contesto. Dopo il discorso del leader ucraino trasversalmente applaudito al Parlamento italiano, il Presidente del Consiglio ha tenuto il suo discorso in cui senza mediazione si è schierato, a nome degli italiani, con gli ucraini al punto da dichiarare la disponibilità della nazione ad inviare armi. Un non eletto decide in nome degli italiani, e ciò è già inquietante, ma dichiarare l’invio d’armi per aiutare la pace è come gettare benzina per spegnere un incendio. In questo caso l’esecutore degli ordini atlantista non ha mediato il comando con la Costituzione italiana. Nel discorso con i quotidiani e squallidi bizantinismi a cui siamo abituati, si poteva eseguire il comando rispettando minimamente la Costituzione, invece nulla. I dubbi su un’azione di guerra in sostegno ad una Ucraina in odore di nazionalismo fascista, che ha dichiarato illegale il partito comunista e limita l’uso della lingua russa, non sono pensati, ma occultati. In tali ambigue circostanze la mediazione era d’obbligo, invece il Presidente del Consiglio riporta gli ordini in Parlamento a sua volta sussunto all’esecutore. Resta un dubbio ulteriore, il mediocre esecutore non ha saputo mediare, o non ha voluto, in quanto ha voluto rassicurare gli oligarchi americani della fedeltà canina del Parlamento al disegno atlantista, al punto da palesare un sostanziale disprezzo verso la cultura della resistenza, la quale è il fondamento invisibile del Parlamento e della Costituzione. In entrambi i casi si è consumata una rottura tra Parlamento e popolo. Il Parlamento è sempre più simile ad una Versailles lontana dai sudditi. Non spirano venti rivoluzionari, ma la cesura tra i cittadini e il Parlamento spinge la nazione verso la disperazione: non vi è speranza nel futuro e nessuna fiducia verso le istituzioni. Il vuoto politico ed etico è potenza di possibilità imprevedibili. Il grande pericolo è tra di noi, siamo ad un passo dall’abisso, o forse già in caduta libera, per cui, forse, solo lo schianto potrà risvegliarci dal sonno ipnotico in cui stiamo precipitando. Gli esecutori sono in palese contraddizione logica, non rispettano i principi logici, si autonegano continuamente, ma ciò malgrado le loro menzogne non sono oggetto di critica. Il Presidente del Consiglio dichiara di essere per la pace, ma invia armi, afferma di volere l’Ucraina nell’unione europea, ovvero nella NATO, mentre si ricercano soluzioni diplomatiche. Si spinge alla guerra, si eseguono ordini senza nessun obiettivo reale, l’unico scopo è conservare il potere della plutocrazia, pertanto ci si adatta alle circostanze con una velocità sbalorditiva dimenticandosi quanto detto ieri, il risultato è la sfiducia dei cittadini nelle parole delle istituzioni. Gli esecutori come giocolieri usano le parole per mettere in atto ordini: non c’è pensiero, non c’è concetto, ma solo flatus vocis. Disabituare i cittadini all’ascolto e alla fiducia nelle parole è criminale, significa destabilizzare il fondamento della civiltà: il dialogo e la ricerca della verità. Non resta che ricostruire la resistenza del pensiero per contenere il nulla che avanza con i suoi venti di guerra. Resistere significa non lasciarsi prendere dal nulla dell’ateismo dei spregiatori della verità, ma restare in piedi tra le macerie ed unirsi per fermare il deserto che già abita tra di noi.

 


Silenzio e parola

Kiki Dimoulá poetessa greca scomparsa nel 2020 con la poesia La pietra perifrastica ci conduce nel silenzio della nostra epoca. La poesia non appartiene all’autore, ma parla attraverso l’autore materiale, è contatto con l’universale, per cui le parole del poeta sfuggono allo stesso per riposizionarsi nell’eccedenza creativa. La polisemia della poesia è fenomenologica, le parole non riescono a colmare la profondità del mondo, ma giocano con l’abisso per restituirci aspetti di verità. La pietra perifrastica reca con sé il silenzio del mondo, il ritiro del logos, eppure l’invocazione che ritmicamente evoca la risposta, implora la comunicazione è il segno di un’impossibile rinuncia. Senza parole la notte del mondo si sporge a noi, ma il bisogno di parole vere che recano l’impronta del tocco, ci rammenta che nessuna notte è totale. Il pensiero arretra, il nichilismo avanza con le sue ambigue promesse, ma vi è un’innocenza che sopravvive, sembra sul punto di farsi travolgere, ma sopravvive e ci indica con la sua cocciuta presenza che continueremo a porre domande, a cercare il modo esatto di porle in modo che il movimento delle parole ci tocchi per ricostruire processi di verità. La parola non è mai astratta, ma essa è interna ad una cornice di rimandi che la rendono concreta e trascendente, l’arco temporale delle parole sfugge il presente per aprirsi allo splendore del passato e del futuro che convivono nella soglia del presente. Ogni parola che riemerge dalla profondità della domanda è nuova pur con la sua storia che ci invita alla parassi, a ricreare l’ordine delle parole che ci stringono nella stretta mortale:

La pietra perifrastica (1971), di Kikì Dimulà

Parla
Dì qualcosa, una qualsiasi.
Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio
Scegli una parola almeno,
che possa legarti più forte con l’indefinito.
Dì “ingiustamente” “albero” “nudo”
Dì “vedremo”
«imponderabile»,
«peso».
Esistono così tante parole che sognammo una veloce, libera, vita con la tua voce
Parla
Abbiamo così tanto mare davanti a noi
Dove noi finiamo inizia il mare
Dì qualcosa
Dì «onda», che non sta arretra
Dì «barca», che affonda se troppo la riempi con periodi
Dì «attimo»,
che urla aiuto affogo,
non lo salvare,
Dì, «non ho sentito»
Parla
Le parole hanno inimicizie,
hanno antagonismi
se una ti imprigiona,
l’altra ti libera.
Tira a sorte una parola dalla notte.
La notte intera a sorte
Non dire «intera»,
Dì «minima»,
che ti permette di fuggire.
Minima
sensazione,
tristezza
intera
di mia proprietà
Intera notte
Parla
Dì «astro», che si spegne
Non diminuisce il silenzio con una parola…
Dì «pietra»,
che è parola irriducibile
Così, almeno
che io possa mettere un titolo
a questa passeggiata lungomare.

 

Conservare l’invocazione alle parole è la breccia che può far tremare il mondo. Il capitale con le sue pratiche vorrebbe cancellare i linguaggi, perché teme le domande, vuole orizzonti che si chiudono nel deserto di un mondo di cose dove la parola si infrange per restare muta. Dinanzi all’avanzare del deserto non possiamo che piantare parole come fossero alberi per l’inverno dello spirito che sembra avanzare ineluttabile, ma solo il movimento delle parole nella sua purezza che si eleva dalle ambiguità della storia può condurci fuori dalla spelonca dei silenzi “capitali”. Solo i linguaggi liberano, perché mostrano la complessità olistica del mondo. Contro i semplicismi del nuovo totalitarismo non riconosciuto la poesia ci spalanca mondi che il capitale vorrebbe seppellire sotto il silenzio delle merci.

Salvatore Bravo

1 Hannah Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè editore 1985, pag. 103

2 Ibidem pag. 106

3 Ibidem pag. 110


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvarore Bravo – «Intus legere». La Matrix europea e il gruppo Bilderberg.

Francesco Amodeo - La Matrix europea
Salvatore Bravo

«Intus legere»

La Matrix europea e il gruppo Bilderberg

 

 

La prassi è sempre sincrona alla teoria, alla comprensione, la quale è sempre un atto intellettuale, ovvero “intus legere”: capire significa leggere dentro, astrarre la verità dalla contingenza, apparentemente costituita da frammenti, da situazioni frammentate. In realtà esse hanno il loro senso nel substrato che dà significato all’empirico. Il periodo attuale, ormai trentennale, ha la sua verità nella tecnocrazia di sistema. La tecnocrazia è altro dalla scienza: essa ha il fine di trasformare ogni ente in fondo per il plusvalore. La crematistica risponde alla legge della tecnocrazia globale, entifica popoli e culture al fine di trasformare ogni esistente in plusvalore da consumare ed immettere sul mercato. Il nichilismo è diventato la legge dell’occidente globale. Gli esseri umani si differenziano dagli altri enti, solo poiché ricoprono una doppia natura storicamente indotta: produttori e consumatori. Il tempo ciclico della produzione esige che vi siano consumatori: senza la doppia natura innestata dal sistema tecnocratico l’economicismo non reggerebbe. La tecnocrazia non è un fenomeno naturale, la sua pervasività capillare è sicuramente favorita da condizioni storiche, ma curvare queste ultime per teleologie di questo genere è possibile solo in presenza di lobby organizzate per tali finalità. La democrazia boccheggia sotto i colpi di gruppi di privilegiati che costruiscono progetti per i popoli utilizzando il loro immenso potere economico per determinare le decisioni degli Stati. Il gruppo Bilderberg è la cupola finanziaria all’interno della quale non lavorano solo finanzieri, ma anche manager, giornalisti e carrieristi che in nome “del martello dell’economia” sono disponibili a mettere in pratica cinici propositi:

 

 

«Stando alle notizie raccolte, la conferenza del Bilderberg sarebbe organizzata da una commissione permanente, detta anche Comitato Direttivo (Steering Committee), della quale fanno parte alcuni membri di circa diciotto nazioni differenti. Alcuni di questi membri fanno parte di un secondo cerchio ancora più chiuso, e formano il Comitato Consultivo (Advisory Committee) del Gruppo. L’Advisory Committee è composto da pochissime personalità, tra le quali in passato spiccavano i nomi di Giovanni Agnelli e David Rockefellerche ne è il Presidente Onorario. Oltre al presidente della Commissione, è prevista la figura di Segretario Generale onorario. Non esiste la figura di membro del Gruppo Bilderberg, perché i membri vengono invitati di volta in volta, ma solo quella di membro della Commissione Permanente (member of the Steering Committee). Esiste anche un gruppo distinto di supervisori. Quando giunge l’invito, generalmente a ridosso della riunione, agli invitati è richiesto di non annunciare pubblicamente la loro partecipazione al meeting, pena l’esclusione dall’incontro. Chi osserva e conosce il Gruppo da parecchi anni afferma che anche la preparazione delle riunioni segue un rituale “curioso”, mirato a tutelare questo ambito di massima riservatezza. L’hotel selezionato viene occupato con qualche giorno di anticipo. Parte del normale personale viene sostituito con personale di fiducia». [1]

 

Matrix europea
La Matrix europea è testimoniata da una incontestabile cronologia. I partecipanti al gruppo Bilderberg sono premiati per la fedeltà al progetto tecnocratico mediante un rapido passaggio dalla partecipazione all’occupazione di ruoli strategici per condizionale politica ed economia dei popoli[2]: Angela Merkel, Blair, Clinton, Prodi, Monti, Lagarde, Bonino sono passati in tempi strettissimi dalle riunioni segrete della finanza a svolte nella loro carriere che hanno coinciso con provvedimenti letali per i popoli. Per il gruppo Bilderbeg il male da curare è la democrazia, in quanto lenta nei suoi passaggi. Naturalmente la lentezza implica la discussione e la partecipazione, e ciò è un ostacolo al governo mondiale della finanza. I popoli devono trasformarsi in plebi obbedienti alla plutocrazia, la quale deve mettere in atto un progetto di dominio globale finalizzato al profitto:

 

 

«Sin dall’inizio il loro intento era quello di creare un nuovo ordine economico internazionale, e per riuscirci elaborarono il concetto di “tecnocrazia” come mezzo per controllare la società, sostituendolo sempre più al concetto di politica come dovrebbe essere inteso nelle nostre democrazie. Sono convinti che non ci sia più bisogno dello Stato, così come lo si è inteso per centinaia di anni, e quindi agiscono per poter eliminare il concetto di sovranità nazionale e di autodeterminazione degli Stati. Già alla fine degli anni 70 l’analisi della crisi globale da parte della Commissione Trilaterale imputava le cause alla troppa democrazia ed ai troppi poteri del Parlamento. I membri della Commissione sono convinti che l’eccessiva partecipazione democratica sia un male, e che i popoli vadano tenuti all’oscuro: infatti, la Commissione stessa è nata dalla volontà dichiarata proprio da David Rockefeller di superare quelli che lui definisce “lenti e farraginosi processi di discussione parlamentare”, e per stabilire processi decisionali che scavalchino le decisioni delle assemblee istituzionali. Il fulcro di questo pensiero è stato riassunto in un rapporto del 1975 dal titolo: “La crisi della democrazia”, pubblicato in Italia con la prefazione di Gianni Agnelli firmato da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki ad hoc per la Trilaterale. Osservando le condizioni politiche di Stati Uniti, Europa e Giappone, il documento, divenuto successivamente un libro, dimostra come i problemi di governance derivino secondo gli autori “dall’eccesso della democrazia». [3]

 

Società di solo mercato
Il fine è fondare la civiltà della merce, affinché il feticismo della merce possa trionfare, il gruppo agisce secondo due modalità: utilizzando circostanze eccezionali per attaccare lo stato sociale e favorire la privatizzazione dei servizi, e nel tempo ordinario mettere in campo una perenne campagna dei media contro i diritti sociali rappresentati come “debito” verso la comunità. Il convincimento collettivo è orchestrato, in modo che la pluralità dei giornali, nominalmente di aree diverse, comunichino lo stesso messaggio, ovvero che i diritti individuali e la privatizzazione sono i pilastri del mondo libero, mentre i diritti sociali sono “il male” che ha corrotto le finanze dello Stato:

 

 

«Le riforme strutturali più’ urgenti, oltre a quelle politiche, sono secondo la banca quelle in termini di riduzione dei costi del lavoro, di aumento della flessibilità’ e della libertà di licenziare, di privatizzazione, di deregolamentazione, di liberalizzazione dei settori industriali “protetti” dallo stato. Il problema non è solo una questione di reticenza fiscale e di incremento della competitiva’ commerciale, stando alla loro spiegazione, bensì’ anche di “eccesso di democrazia” che va assolutamente ridimensionato. L’élite finanziaria internazionale lascia intendere che se i paesi del Sud d’Europa vogliono rimanere aggrappati alla moneta unica devono rassegnarsi a rinunciare alla Costituzione. Rockefeller ha spesso fatto dichiarazioni molto esplicite, come quando ha dichiarato che: “Siamo sull’orlo di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la ‘giusta’ crisi globale e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale”. Ed altre che non lasciano dubbi sui suoi intenti: “Alcuni credono che facciamo parte di una cabala segreta che manovra contro gli interessi degli Stati Uniti, definendo me e la mia famiglia come “internazionalisti”, e di cospirare con altri nel mondo per costruire una più integrata struttura politico-economica globale, un nuovo mondo, se volete. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole, e sono orgoglioso di esserlo». [4]

La finanza vuole assumere il ruolo di un perverso Demiurgo platonico: deve plasmare il mondo ad immagine e somiglianza della nuova razza padrona che in nome del “più mercato meno stato”, propone e attua l’annichilimento delle comunità, queste ultime senza diritti sociali non sono che veloci giustapposizioni di gruppi umani pronti a sciogliersi sotto il moto del capitale. I suoi membri sono all’interno di movimenti e sussulti economici che non governano, ma a cui devono adattarsi passivamente:

 

 

«La liberalizzazione dei mercati finanziari rappresenta il logico punto di arrivo di tutto questo e la mission di queste organizzazioni. Questi, infatti, sono i punti che gli oligarchi hanno portato avanti contemporaneamente attraverso Reagan, Thatcher, Mitterran e Kohl per plasmare il mondo e che silenziosamente vedrete portare avanti a tutti coloro che da queste organizzazioni sono riusciti ad arrivare ai vertici dei governi con la conseguenza che:

– i costi del debito pubblico saranno scaricati sui risparmiatori, sui lavoratori, sui pensionati, sui redditi e i capitali non delocalizzabili;

– i costi dei buchi delle banche saranno scaricati sui depositanti, sugli obbligazionisti, sugli azionisti (bailin) e sugli italiani in generale;

– i costi della competitività saranno scaricati sui salari e sulla previdenza; Le crisi economiche diventano, così lo shock indispensabile per realizzare la delegittimazione dei meccanismi istituzionali e di partecipazione democratica, le deregolamentazioni a discapito del lavoro salariato con la progressiva eliminazione dei diritti dei lavoratori e l’inesorabile scomparsa delle lotte sindacali». [5]

 

Complicità
Il gruppo Bilderber ed affiliati palesano la verità dell’attuale fase del capitalismo, esso è sempre più simile, fino a confondersi, alle mafie, ha una cupola ed i suoi esecutori. Le riunioni sono segrete, ed i partecipanti obbediscono alla legge del silenzio. La cupola ha le sue complicità trasversali, per cui pur nell’evidenza della sua strategia di decostruzione delle democrazie continua ad operare indisturbata. Essa è il semenzaio per una pluralità di oligarchie interconnesse ed antitetiche ai popoli:

 

 

«E soprattutto di adoperarsi per applicare la legge Anselmi che “considera associazioni segrete e come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione quelle che, anche all’ interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali, ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici, anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale” e prevede per i promotori di tali associazioni e per i semplici partecipanti la pena alla reclusione». [6]

 

Maastricht (1992) e il Trattato di Lisbona (2007) sono il compimento di un lungo percorso iniziato già con il piano Marshall (1947 -1951): il progetto era trasformare l’Europa occidentale nell’avamposto degli Stati Uniti, con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ogni limite al liberismo è caduto, e si è configurato il progetto del governo mondiale sotto l’egida della finanza. È, ora, la moneta a determinare politiche e scelte sociali degli stati ridotti ad esecutori di ordini superiori:

 

 

«Il Trattato di Maastricht, costituendo il SEBC, ovvero il sistema europeo delle banche centrali, viola palesemente alcuni principi sanciti dalla nostra Costituzione e può essere considerato un duplice attacco alla sovranità ed all’indipendenza nazionale. Da un lato il Trattato fornisce base giuridica al fine di consentire che sia l’Europa a dettare le politiche economiche delle nazioni, dall’altro priva le nazioni stesse di una Banca Centrale con cui finanziare in autonomia dette politiche. “L’Italia, con una moneta così concepita, perdeva, sia il controllo diretto dei tassi d’interesse che vengono oggi decisi dal mercato e che ovviamente può facilmente influenzarli con le speculazioni (come accaduto con la crisi dello Spread del 2011), sia la possibilità di svalutare la moneta stessa. Possibilità che si era resa necessaria in alcune circostanze a causa di shock esterni”: da Maastricht in poi non sarà più la moneta ad adeguarsi all’economia ma l’economia a doversi adeguare alla moneta (svalutando i salari!). Il denaro, quindi, da strumento alternativo al baratto per consentire lo scambio di beni e servizi di cui costituiva unicamente l’unità di misura, diventa esso stesso prodotto e strumento di predazione». [7]

 

La domanda legittima è se i popoli sono innocenti. Poiché, ancora una volta, è ingenuo e semplicistico pensare ed ipotizzare che la plutocrazia apolide svolga il suo progetto in autonomia. Vi è, infatti, la zona grigia degli esecutori, che possono non essere informati sulla cupola, sui meccanismi di trasmissione degli ordini e sul progetto finale, ma è possibile verificare nel quotidiano gli effetti della finanziarizzazione della vita. È necessario agire, informare, emancipare la zona grigia delle complicità, senza le quali tali gruppi di potere non potrebbero rendere esecutivo il loro progetto di conquista predatoria dei popoli. La tecnocrazia della finanza non solo aliena, ma specialmente punta a rendere gli esseri umani anonimi e sostituibili. Tale obiettivo deve essere denunciato, poiché in tale sistema nessuno è al sicuro. Su tale verità bisognerebbe agire, in modo che si possa essere consapevoli che gli effetti esiziali del capitalismo della finanza possono travolgere chiunque in qualsiasi momento e che non vi sono sacche di privilegio che possano ritenersi al riparo dalle tempeste della moneta. Non esistono solo le responsabilità di banchieri e politici, ma vi sono anche le responsabilità delle classi medie acculturate che capiscono le dinamiche in atto, ma non si scandalizzano della tragedia etica che si dipana dinanzi a loro.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Francesco Amodeo, La Matrix europea, Edizioni Matrix, 2019, p. 10.

[2] Ibidem, pp. 13-14.

[3] Ibidem, p. 24.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 57.

[6] Ibidem, p. 97.

[7] Ibidem, pp. 101-102.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Siamo capaci di costruire “comunità di senso” ? L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, e necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La “comunità di senso” si caratterizza per l’universale concreto. Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La società della “seduzione” recide i legami; predilige e organizza la solitudine. Solo tematizzando categorie che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza rendendole invisibili agli occhi della mente si può progettare un futuro diverso. Altrimenti il pensiero diventa “intrasformabile”. Questa “intrasformabilità” del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non deve restare chiusa nel forziere della mente, ma trasmutarsi in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere il “naturale senso di comunità”, con amicizia libera da finalità crematistiche.

Stone arch with red stone at top in the morning on a beach
«E quando ti chiederanno che cosa facciamo, tu gli risponderai : “Noi ricordiamo”», Fahrenheit 451, di François Truffaut.

Siamo capaci di costruire “comunità di senso” ? L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, e necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La “comunità di senso” si caratterizza per l’universale concreto. Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La società della “seduzione” recide i legami; predilige e organizza la solitudine. Solo tematizzando categorie che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza rendendole invisibili agli occhi della mente si può progettare un futuro diverso. Altrimenti il pensiero diventa “intrasformabile”. Questa “intrasformabilità” del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non deve restare chiusa nel forziere della mente, ma trasmutarsi in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere il “naturale senso di comunità”, con amicizia libera da finalità crematistiche.

 

 

 

L’inimicizia come dispositivo anticomunitario

Il nostro è il tempo dell’inimicizia competitiva. Il capitalismo assoluto colonizza e neutralizza l’immaginazione critica con l’inimicizia programmata e pianificata. Nel sistema mercato che ha cannibalizzato la comunità e la prassi della speranza, l’inimicizia è il mezzo più efficiente per tale risultato. I luoghi della comunità sono spazi ancora visibili, ma in essi è stata trasmessa l’inimicizia. In ogni spazio pubblico regna la divisione crematistica. Il linguaggio non è ponte tra le persone e non è l’esplicarsi del percorso per pensare la totalità in cui si è gettati per uscirne rigenerati. Il linguaggio-logos è stato abilmente neutralizzato nella sua forma veritativa. È divenuto solo calcolo che persegue interessi personali o di gruppo. Ma specialmente è divenuto “seduzione”. Per vendere e vendersi il sistema addestra ad usare artifici linguistici che possano obnubilare il cliente-consumatore e, in tal maniera, egli è vinto e irretito nella rete del “non senso”. La seduzione è il mezzo con cui l’ipertrofia consumistica oscura l’altro, per cui la parola diventa “sofistica” del PIL. L’inimicizia è l’asse portante del capitalismo: non a caso sin dall’infanzia si insegna la competizione divisiva. Si insegna che lo spazio-tempo è un’immensa vetrina, per cui i ruoli sono due: si compra o si vende. La guerra di tutti contro tutti è la normalità dello Stato-mercato. Ogni giorno sono innumerevoli le vittime della quotidiana battaglia per le merci, ma in quanto vittime cadono nella dimenticanza, in quanto è solo la merce che deve apparire e governare il mondo. La derealizzazione ha il volto patinato della società dello spettacolo.

Nella corsa all’accaparramento bisogna imparare a sbaragliare il nemico. L’inimicizia alligna in tale deformazione emotiva contrassegnata da una razionalità irrazionale, e penetra nelle profondità della psiche fino a riorientarla verso la logica dell’inimicizia. La disarmonia interiore è la condizione perché il “mercato” trionfi e la “comunità” sia sacrificata sull’altare del profitto. Il sistema capitale, con i suoi dispositivi di controllo, sollecita alla lotta crematistica ed esalta l’uomo imprenditore. Si tace sul dolore che ogni carriera e ogni “successo” lascia dietro di sé. Non vi è alcuna crematistica “buona”, l’ossessione proprietaria non può che condurre alla disintegrazione di ogni forma di solidarietà in cui si esplichi la natura umana razionale, etica e solidale. L’inimicizia è il dispositivo che deve circolare, deve produrre l’urto competitivo perenne finalizzato ad impedire la comunicazione veritativa. La solitudine è garanzia per il capitalismo; personalità tagliate nella solitudine subìta disimparano la speranza e non osano pensare un altro mondo possibile.

 

Società della paura

Il capitalismo non è semplice nichilismo, esso conosce la natura umana, in quanto è fenomeno storico posto dall’umanità. Le oligarchie, per eternizzare il sistema, devono pianificare la negazione della consapevolezza collettiva della natura umana. Stimolare gli appetiti più irrazionali e descrivere l’alterità come competitore che in ogni gesto e parola vuole solo saccheggiare e defraudare induce alla società della paura. Dove vi è inimicizia vi è paura. L’altro è colui che ordisce l’inganno, è il potenziale nemico, anche quando non vi sono le condizioni per la lotta. La paranoia dilaga e pone il pensiero nella mordacchia del timore che può trasformarsi in terrore. La distanza emotiva non solo è fonte dell’atomistica delle solitudini, ma rende il pensiero debole e fragile. Il concetto emerge dal confronto, è l’effetto dell’incontro-scontro con parole vere. Ma affinché ciò possa essere è necessaria la fiducia con la quale si tende all’ascolto e ad accogliere le parole per “tenerle preziose nei propri pensieri”. Sono germogli di verità dai quali fioriscono la verità e la prassi. La società della seduzione e della paura recide i legami come scinde le parole; essa predilige, vuole e organizza la solitudine. Non a caso le cronache ci restituiscono in modo pruriginoso interminabili discussioni mediatiche sui crimini sanguinosi che spingono a chiudersi nel proprio bozzolo privato. Ogni vita è così racchiusa nel proprio inferno privato, ci si consuma nel terrore panico della comunità desiderata e agognata. Ciò che dovrebbe essere fonte di vita, la comunità, diviene il tormento di ogni giorno.

Il capitalismo, per dominare, ha il suo cattivo alfabeto dei sentimenti. Il dispositivo di controllo, che circola oppressivo e silenzioso, insegna sin dalla più tenera età a guardare e vivere l’alterità come il nemico. Utilizzando tale strategia il capitalismo mostra con l’operazione di “rastrellamento della natura umana” di conoscere “la natura dell’essere umano”. Per renderlo singolarità seduttiva deve pianificare l’oblio della natura etica e razionale fin dalla più tenera età: gli spazi di condivisione dei giochi sono privatizzati e le stesse attività ludiche non più spontanee occasioni di incontri creativi sono parte degli automatismi crematistici. Il totalitarismo liberista, come ogni totalitarismo, deve controllare la formazione sempre più precocemente, perché l’innaturalità del sistema dev’essere schermata con il velo di Maya dell’attivismo deformante. Le patologie sempre più precoci e il tragico che ormai campeggia negli episodi di cronaca sono i segnali da decriptare.

 

Trascendere il capitalismo

Il capitalismo è innaturale, non risponde ai reali bisogni dell’essere umano. Trasforma gli esseri umani in “galli da combattimento”, ma la solitudine e il vuoto metafisico non sono cancellabili, continuano a sussistere e si manifestano in un dolore sordo e cieco che assume forme nuove e metamorfiche, apparentemente irrazionali. Se il dolore è riportato nella materialità della storia, esso non può che parlarci dell’intero. In ogni dolore psicologico e in ogni vita incompiuta si svela la verità del capitalismo. L’essere umano reificato e reso muto nella sua verità etica e razionale è la denuncia più vera del capitalismo crematistico.

L’umanità è vicinanza solidale e condivisione, necessita di “comunità di senso” per vivere la profondità del suo essere-esserci. La comunità di senso si caratterizza per l’universale concreto.

L’essere umano per poter rendere “reale e razionale” la sua natura necessita di essere riconosciuto nella sua umanità nello sguardo dell’altro che lo accarezza sulla soglia della parola.

L’universale concreto è il logos, è conoscenza che dispiega concettualmente la natura umana per porla nella prassi. Il capitalismo non è progettualità ma dispotismo economico, mentre la natura umana ricerca e progetta la comunità in cui la conoscenza di sè è processo comunitario.

Il concetto trae la sua energia creativa dal dono. La quantità e la qualità sono così in felice connubio mediante il concetto.

Il pensiero riflettente orienta la comunità verso la realizzazione della natura umana. La qualità rende la quantità razionale e funzionale ai reali bisogni dei singoli.

La progettualità verso la comunità di senso certamente si esplica in un lungo percorso nel quale conflitti e spinte regressive sono e saranno presenti. Il fulcro del processo è nella chiarezza del concetto e dei fini fondati a livello metafisico che possono consentire il superamento di tensioni e umane incomprensioni. Il compito che si prospetta per ognuno – anche nella comprensibile incertezza, nella latente indecisione, nella difficile accettazione dell’unità inscindibile di teoria e prassi –, è quello di partecipare con decisione alla progettualità (teorica e pratica) delle comunità di senso che si ritengano presenti tra di noi per contribuire a dare loro un futuro, generando anche nuove oasi di resistenza. Rompere l’assedio è possibile. Il capitalismo con i suoi mezzi e con le sue strategie è il prodotto di una classe sociale che ha divinizzato la “merce”, il plusvalore, il profitto. Ma, nonostante la potenza dei mezzi di cui dispone non è “assoluto”, benché si presenti come tale. La resistenza messa in atto anche se da piccole comunità di senso dà prova, proprio nel “piccolo”, che il capitalismo non è tutto, che non è forza invincibile, e che dunque anche in questo tempo d’assedio è possibile divergere e mostrare che il capitalismo può rivelarsi solo come tragica manifestazione storica che potrà essere trascesa dall’universalizzarsi delle umane comunità di senso.

 

Il lento incedere della trasformabilità del pensiero

e l’intrasformabilità dello stesso

La rivoluzione è prassi, è radicale in quanto tematizza categorie dell’economico che la quotidiana ipostatizzazione naturalizza al punto che esse possono rendersi invisibili agli occhi della mente. Il pensiero umano diventa allora intrasformabile, non urta contro il “non io” della categoria che fonda la sottomissione, il denaro, e non lo concettualizza nella sua storicità, ma lo sterilizza naturalizzandolo, lo “percepisce” come perenne e intrascendibile.

Questa intrasformabilità del pensiero sterilizza l’immaginazione concettuale: la categoria del denaro è resa non più visibile, come fosse connaturata all’uomo che agisce dunque al pari del «pesce che non vede l’acqua»; nello stesso modo il denaro è nelle relazioni, le configura, ma non è pensato. La prassi incontra il suo limite nel “non pensato/non desiderato” e quest’ultimo non si converte in azione.

Un modello altro di società dev’essere radicale, deve pensare l’ovvio dogmatizzato per scendere nell’abisso delle pratiche del dominio e pensare la radice prima del male: solo in tal modo il pensiero si trasforma in desiderio e in testimonianza di un altro modo di esserci che ha il suo inizio nel presente. La progettualità è orientata verso il futuro, ma si radica nel presente. La testimonianza viva di una compiuta rigenerazione concettuale non resta racchiusa nel forziere della mente, ma si trasmuta in azione che invita a pensare e a rendere ciò che sembrava impossibile “reale e razionale”, a vivere e a far vivere comunità di senso. La trasformabilità del pensiero diventa convertere, come il termine latino suggerisce è un volgere/cambiare che vive nella persona e nel corpo sociale in modo integrale. Siamo nella caverna del denaro, è la nostra oscurità, e come tale ci acceca al punto da normalizzare il “buio-violenza della quantità-crematistica”: condizione naturalizzata che irrigidisce le relazioni in rapporti inautentici. La trasformabilità del pensiero è relazione che rende effettiva la possibile trasformazione nel presente e diventa “il fuoco creativo” per nuove trasformazioni/conversioni.

Il pur lento incedere della trasformabilità del pensiero non può che essere in tensione e in lotta con l’intrasformabilità dello stesso, poiché conduce alla consapevolezza che in ogni essere umano vi sono categorie assimilate simili all’aria che respiriamo e dunque, vi sono automatismi del pensiero non concettualizzati. La nostra umanità si può anche smarrire e irrigidirsi in schematismi ipostatizzati rinunciando a priori alle potenzialità dell’immaginazione con cui esplorare possibilità di vita e di pensiero diverse da quelle immediatamente prescritte e/o vigenti. Tale passivizzante “intrasformabilità” congela il desiderio, diventa la corrente fredda che isterilisce l’immaginazione rivoluzionaria e tende a riprodurre i rapporti crematistici e di sussunzione formale e materiale anche nel progetto vivificante delle comunità di senso, il quale si genera già eroso da una profonda deficienza interna. Il denaro, come categoria sacrale indiscutibile, è lo strumento della riproduzione delle relazioni anti-comunitarie e, non altrimenti pensato e immaginato, continuerà ad operare.

L’amicizia disinteressata e libera da narcisismi e da finalità crematistiche è l’alfabeto emotivo e razionale con cui reimparare a vivere il “naturale senso della comunità”, rifondando la prassi e la speranza.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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e saranno immediatamente rimossi.

Il buon vivere racchiude in sé una prospettiva di armonia quale scopo primario della società. Una società in cui è la totalità armonica ad essere il fine dell’umanità. L’armonia sociale è il senso profondo di una Costituzione, dove vi è misura nell’uso delle risorse, e i diritti sociali come quelli individuali non sono mere espressioni linguistiche ma prassi culturale di ogni individuo e di un intero popolo.

Buen vivir

di Salvatore Bravo

Il buon vivere racchiude in sé una prospettiva di armonia quale scopo primario della società. Una società in cui è la totalità armonica ad essere il fine dell’umanità. L’armonia sociale è il senso profondo della nuova Costituzione, dove vi è misura nell’uso delle risorse, i diritti sociali e i diritti individuali non sono semplici espressioni linguistiche ma prassi culturale di un intero popolo

 

Il 20 ottobre 2008 è entrata in vigore in Ecuador la nuova Costituzione. L’Occidente è rinchiuso in un fortilizio bellicoso, il mondo intorno ad esso è già mutato, come testimonia la Costituzione dell’Ecuador, ma continua a vivere in una tragica illusione di onnipotenza.

L’Ecuador ha metabolizzato secoli di ingiustizie e ingerenze ed ha trovato la forza etica e politica di deviare dal percorso storico determinato dagli Stati Uniti che da sempre hanno considerato l’America del Sud come il ”cortile di casa”. Il paese andino è, ora, alla ricerca di un percorso politico e culturale autonomo. La Costituzione del 2008 è il punto di arrivo di un processo di presa di coscienza collettiva, e nel contempo inaugura un lungo cammino: è l’incipit per ritrovarsi dopo lo smarrimento coloniale. I tempi di materializzazione del progetto costituzionale non sono prevedibili, ma esso dona la speranza al popolo andino dopo la disperazione del colonialismo.

L’autonomia e la sovranità nazionale sono i fondamenti della nuova Costituzione, senza di esse non si possono difendere gli interessi, la lingua e la cultura del popolo di Ecuador dalle oligarchie transnazionali. Un popolo è tale se si riconosce non in astratto nel suo territorio, ma lo vive in una relazione olistica. L’Ecuador è il paese al mondo con il più alto numero di biodiversità per metro quadro. Non a caso la Costituzione dell’Ecuador difende la Pachamama, ovvero la madre terra, la quale non è materia da saccheggiare, ma è vita da conservare senza la quale l’Ecuador sarebbe solo un’espressione geografica. Giustizia sociale ed ambientale formano il connubio che porta al buon vivere comunitario (buen vivir in spagnolo, sumak kawsay in lingua indigena) con la realtà concreta costituita dalle persone e dall’ambiente. Nella lingua indigena del paese andino non vi sono parole che indicano lo sviluppo in senso proprietario e crematistico. Il buon vivere racchiude in sé una prospettiva di armonia quale scopo primario della società. Una società in cui è la totalità armonica ad essere il fine etico dell’umanità. L’armonia sociale è il senso profondo della nuova Costituzione, dove vi è misura nell’uso delle risorse, i diritti sociali e i diritti individuali non sono semplici espressioni linguistiche ma prassi culturale di un intero popolo che si ritrova nella sua storia dopo secoli di sfruttamento:

 

«Art. 1. – L’Ecuador è uno Stato Costituzionale di diritto e giustizia, sociale, democratico, sovrano, indipendente, unitario, interculturale, plurinazionale e laico. Si dà come forma organizzativa la Repubblica e si governa in modo decentralizzato. La sovranità ha le sue radici nel popolo, la cui volontà è il fondamento dell’autorità, e si esercita attraverso gli organi del potere pubblico e le forme di partecipazione diretta previste dalla Costituzione. Le risorse naturali non rinnovabili del territorio dello Stato appartengono al suo patrimonio inalienabile, irrinunciabile e inviolabile».

 

L’uguaglianza sociale per essere concreta deve riconoscere le differenze senza omologarle in categorie che nei fatti la negano. Le differenze sono riconosciute nella comune umanità all’interno della specificità di ogni persona. Non esiste la persona astratta, ma l’essere umano è concreto nella sua unicità armoniosa con se stesso, con la comunità e con l’ambiente:

 

«Art. 11. 2. – Tutte le persone sono uguali e godranno degli stessi diritti, doveri ed opportunità. Nessuno potrà essere discriminato per ragioni di etnia, luogo di nascita, età, sesso, identità di genere, identità culturale, stato civile, lingua, religione, ideologia, appartenenza politica, trascorsi legali, condizione socioeconomica, condizione migratoria, orientamento sessuale, stato di salute, sieropositività, invalidità, differenza fisica, né per nessun’altra distinzione di carattere individuale o collettivo, temporaneo o permanente, che abbia come obiettivo o come risultato la riduzione o l’annullamento del riconoscimento, del godimento o dell’esercizio dei diritti. La legge sanzionerà ogni forma di discriminazione».

 

Acqua ed educazione

La qualità di vita etica e sociale di un popolo si deduce dal suo rapporti con i beni essenziali. L’acqua non è un bene da vendere sul mercato, da essa dipende la vita di tutti gli esseri viventi, pertanto la Costituzione del 2008 l’ha sottratta dagli appetiti delle plutocrazie. L’alimentazione non è business ma esperienza vitale di un popolo, anch’essa dev’essere difesa dall’omologazione delle multinazionali che vorrebbero trasformarla in un mercato ad uso e consumo dei potentati. Un popolo che non controlla la propria acqua e la propria alimentazione non è tale, ma è solo un gregge al comando dei cattivi pastori della colonizzazione. La Costituzione del 2008 difende la vita del popolo favorendo «la buona alimentazione e il controllo dell’acqua»:

 

«Art. 12. – Il diritto umano all’acqua è fondamentale e irrinunciabile. L’acqua costituisce un patrimonio nazionale strategico di uso pubblico, inalienabile, imprescrittibile, irrinunciabile ed essenziale per la vita.

Art. 13. – Le persone e le collettività hanno diritto all’accesso sicuro e permanente a alimenti sani, sufficienti e nutrienti; preferibilmente prodotti localmente e conformemente alle loro diverse identità e tradizioni culturali».

 

Nell’Occidente a trazione oligarchica ogni aspetto dell’esistenza è merce. L’integralismo fanatico e compulsivo del mercato ha trasformato le scuole in costole del mercato. Si proclama la difesa dei diritti individuali, ma nella prassi le persone sono offese nella loro dignità, in quanto come consumatori o come lavoratori sono al servizio del mercato, sono pietre di scarto da usare fino all’usura. L’alienazione è la patologica normalità dell’Occidente.

Nella Costituzione del 2008 l’educazione è difesa dagli interessi particolari. La libertà educativa ha quale fine lo sviluppo integrale della persona; la famiglia ha il compito di educare in libertà e responsabilità. Stato e famiglie collaborano per garantire nella pluralità delle scelte lo sviluppo della persona. Negli articoli della Costituzione si difende e si favorisce la difese delle lingue della nazione, in quanto esse conservano la cultura e la sovranità culturale del popolo:

 

«Art. 28. – L’educazione risponderà all’interesse pubblico e non servirà interessi privati o corporativi. Sarà garantito l’accesso universale, la permanenza, la mobilità e il ritorno senza discriminazione alcuna e l’obbligatorietà della scolarità elementare e superiore o di livello equivalente. È diritto di ogni persona e di ogni comunità l’interazione tra culture e la partecipazione in una società che apprende. Lo Stato promuoverà il dialogo interculturale nelle sue molteplici dimensioni. L’apprendimento si svilupperà in forma secolarizzata e non secolarizzata. L’istruzione pubblica sarà universale e laica ad ogni livello, e gratuita fino al terzo livello di istruzione superiore incluso.

Art. Art. 28. – Lo Stato garantirà la libertà di insegnamento, la libertà di docenza nell’istruzione superiore, e il diritto delle persone ad apprendere nella propria lingua e nel proprio ambito culturale. Le madri e i padri o i loro rappresentanti avranno la libertà di scegliere per le loro figlie e i loro figli un’educazione conforme ai propri principi, credenze e opinioni pedagogiche».

 

 Comunità e mobilità

 La mobilità migratoria è garantita. Lo Stato dell’Ecuador nel progetto costituzionale non recide le proprie responsabilità verso i cittadini che emigrano, ma conserva con essi un legame comunitario di assistenza e riconoscimento della comune cultura di provenienza. Chi è distante a livello spaziale continua ad essere parte della comunità:

 

«Mobilità umana, Art. 40. – È riconosciuto alle persone il diritto di migrare. Nessun essere umano sarà identificato né considerato come illegale per la sua condizione migratoria. Lo Stato, attraverso le entità preposte, svilupperà tra le altre le seguenti azioni per l’esercizio dei diritti delle persone di nazionalità ecuadoriana all’estero, quale che sia la loro condizione di migranti: 1.Offrirà assistenza a loro e alle loro famiglie, che risiedano all’estero o nel paese. 2. Offrirà assistenza, servizi di consulenza e tutela integrale perché possano esercitare liberamente i propri diritti. 3.Tutelerà i loro diritti qualora, per qualsivoglia ragione, siano private della propria libertà all’estero. 4. Promuoverà i loro legami con l’Ecuador, faciliterà la riunificazione familiare e stimolerà il ritorno volontario».

 

Vi è il diritto ad emigrare, se in patria non vi sono le condizioni per una vita dignitosa. Lo Stato non può restare indifferente dinanzi alla sofferenza di coloro che emigrano per una condizione disagiata, pertanto deve favorire lo sviluppo armonioso della comunità, in modo che coloro che lo desiderano possano tornare in patria e ricongiungersi alla propria comunità. L’emigrazione è il sintomo di un malessere, uno Stato giusto deve intervenire per limitare la mobilità migratoria economica.

 

 

Modello economico

Il modello economico ecuadoriano ha quale fine l’essere umano. Vi sono nella Costituzione specifiche sezioni dedicate a giovani e anziani, i quali devono essere assistiti e curati nei momenti di fragilità (Capitolo terzo. Prima e Seconda sezione). Nessun essere umano dev’essere lasciato solo, la cura e il bene sono il fine della comunità.

Si fonda una economia umanistica, in quanto il mercato deve essere per l’essere umano: per cui non deve cannibalizzarlo. Attività pubbliche e private in armonia con l’ambiente hanno lo stesso fine, ovvero il buon vivere. Nulla di più distante dall’integralismo acefalo dell’aziendalizzazione della vita dell’Occidente. L’Ecuador ha vissuto i guasti e le lunghe tragedie dell’economia di mercato, pertanto ha pensato e rielaborato i modelli economici del Novecento all’interno della cultura andina di origine:

 

«Art. 283. – Il sistema economico è sociale e solidale; riconosce l’essere umano come soggetto e fine; tende a una relazione dinamica ed equilibrata tra società, Stato e mercato, in armonia con la natura; e ha l’obiettivo di garantire la produzione e riproduzione delle condizioni materiali ed immateriali che consentano il buon vivere. Il sistema economico sarà costituito dalle forme di organizzazione economica pubblica, privata, mista, popolare e solidale, e le restanti stabilite dalla Costituzione. L’economia popolare e solidale sarà regolata in accordo con la legge e includerà i settori cooperativi, associativi e comunitari».

 

Identità e sovranità non significano nazionalismo, ma indipendenza e autonomia. Tale fine è realizzabile solo nel reciproco riconoscimento delle altrui sovranità nazionali. L’Ecuador inaugura l’internazionale della collaborazione e, dunque, della pace. Ogni forma di xenofobia è rigettata:

 

«Art. 416. – Le relazioni dell’Ecuador con la comunità internazionale risponderanno agli interessi del popolo ecuadoriano, al quale renderanno conto i loro responsabili ed esecutori, e di conseguenza lo Stato ecuadoriano: 1. Proclama l’indipendenza e l’uguaglianza giuridica degli Stati, la convivenza pacifica e l’autodeterminazione dei popoli, così come la cooperazione, l’integrazione e la solidarietà. 2. Sostiene la risoluzione pacifica delle controversie e dei conflitti internazionali, e rifiuta la minaccia e l’uso della forza per risolverli. 3. Condanna l’ingerenza degli Stati negli affari interni di altri Stati, e qualsiasi forma di intervento, sia incursione armata, aggressione, occupazione o embargo economico o militare. 4. Promuove la pace, il disarmo universale; condanna lo sviluppo e l’uso di armi di distruzione di massa e l’imposizione di basi o installazioni con finalità militari di alcuni Stati sul territorio di altri. 5. Riconosce i diritti dei distinti popoli che coesistono all’interno degli Stati, specialmente il diritto di promuovere meccanismi che esprimano, preservino e tutelino il diverso carattere delle loro società, e rifiuta il razzismo, la xenofobia e ogni forma di discriminazione. 6. Sostiene il principio di cittadinanza universale, la libera circolazione di tutti gli abitanti del pianeta e il progressivo abbandono della condizione di straniero come elemento di trasformazione delle relazioni diseguali tra i paesi, specialmente Nord-Sud. 7. Esige il rispetto dei diritti umani, in particolare dei diritti dei migranti, e favorisce il loro pieno esercizio mediante l’osservanza degli obblighi assunti con la ratifica delle convenzioni internazionali sui diritti umani. 8. Condanna ogni forma di imperialismo, colonialismo, neocolonialismo, e riconosce il diritto dei popoli alla resistenza e alla liberazione da ogni forma di oppressione. 9. Riconosce il diritto internazionale come codice di condotta, ed esige la democratizzazione degli organismi internazionali e l’equa partecipazione degli Stati all’interno degli stessi. 10. Promuove la creazione di un ordine globale multipolare con la partecipazione attiva dei blocchi economici e politici regionali, e il rafforzamento delle relazioni orizzontali per la costruzione di un mondo giusto, democratico, solidale, diverso e interculturale».

 

Intorno al piccolo Occidente il mondo è in trasformazione, si stanno effettuando progettualità alternative all’integralismo crematistico bellicoso e aggressivo della società della sola economia di mercato. L’esperienza dell’Ecuador non è unica, ma è una delle più apprezzabili e sconosciute. L’informazione attuale occidentale è simile ad un bunker, deve impedire alla popolazione la riflessione collettiva sulle potenziali alternative, le quali sono già in atto in un mondo nei fatti multipolare e a cui si reagisce con la logica del bunker e della guerra.

Il preambolo della Costituzione è un appello a tutti i popoli a trasformare il loro modo di vivere e a fare “tesoro” delle differenze e dell’esperienza storica:

 

«PREAMBOLO NOI TUTTE E NOI TUTTI, il popolo sovrano dell’Ecuador RICONOSCENDO le nostre radici millenarie, forgiate da donne e uomini appartenenti a popoli diversi, CELEBRANDO la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza, INVOCANDO il nome di Dio e riconoscendo le nostre diverse forme di religiosità e spiritualità, APPELLANOCI alla saggezza di tutte le culture che ci arricchiscono come società, COME EREDI delle lotte sociali di liberazione da ogni forma di dominazione e colonialismo, e con un impegno profondo verso il presente ed il futuro, Decidiamo di costruire Una forma nuova di convivenza civile, nella diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere, il “sumak kawsay”; Una società che rispetta, in ogni dimensione, la dignità delle persone e delle collettività; Un paese democratico, impegnato nell’integrazione latinoamericana – sogno di Bolívar e Alfaro –, la pace e la solidarietà con tutti i popoli della terra; e Nell’esercizio della nostra sovranità, a Ciudad Alfaro, Montecristi, nella Provincia di Manabí, approviamo quanto segue».

 

Anche noi “occidentali” dovremmo elaborare nuovi preamboli per uscire dalla trappola bellicosa in cui siamo caduti. Siamo ad un bivio: si può intraprendere la via della conservazione, e quindi, trasformare il nostro futuro in uno stato di guerra per difendere un modello sociale ed economico antiumanistico o si può tentare di percorrere la via più difficile, elaborando una nuova progettualità umanistica del vivere da tradurre in prassi. Per calcare la via dell’esodo da un sistema tossico per l’essere umano e inquinante per l’ambiente, l’Occidente deve fondare una nuova metafisica umanistica. Il futuro è potenzialità da pensare nel presente. La guerra e la mercificazione della vita sono i segni degli sforzi dei potentati per mantenere la loro supremazia. A questa loro lunga agonia occore dare una risposta. L’Ecuador ha redatto la sua risposta per non precipitare nell’abisso del consumo totale. Il confronto con i processi di emancipazione in atto negli “Stati altri” non può che favorire la speranza e la prassi nell’Occidente a cui la mercificazione oscena di ogni vita ed esperienza ha tolto la dimensione della speranza.

 

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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“Produrre e lobotomizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano. La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Tale produzione è anche una visione del mondo, è “antiumanesimo militante”.

Salvatore Bravo

Produrre e lobomotizzare

 

Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.

Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono” eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla sua naturalizzazione mediante l’addestramento all’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo. Il capitalismo è divenuto “il sistema”, l’unico pensabile, ha lobomotizzato gli aggiogati alla macchina-sistema. “Produrre e lobomotizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano.

La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Da tale processo le oligarchie traggono le eccedenze finanziarie per la competizione globale e per investire i proventi in scalate finanziarie e in nuovi prodotti da vendere sul mercato. Tutto è morte. La natura è l’immagine più vera e immediata della verità del ciclo di valorizzazione, essa è solo res extensa da riconvertire in denaro. Un intero pianeta è minacciato dalla monetarizzazione di ogni vita e di ogni elemento naturale.

Marx descrive l’incapsulamento della forza lavoro nel ciclo produttivo. Il lavoro, espressione della creatività umana e della produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari, è reso esperienza di annullamento e di cosalizzazione del lavoratore. Il lavoratore è incastrato in automatismi che determinano la morte dell’uomo e la nascita di un ibrido: l’uomo-macchina. Il trasumanesimo non è che il punto finale di tale processo di disumanizazione, il salariato è valutato in rapporto alle macchine, è una macchina tra le macchine, in disperata competizione con esse:

«Dalla parte dell’operaio: la messa in opera produttiva della sua forza lavorativa non è possibile se non quando, dopo essere stata venduta, essa viene posta in rapporto con i mezzi di produzione. Essa esiste prima d’essere venduta distinta dai mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive della sua messa in opera. Così isolata non può essere utilizzata direttamente nella produzione di valori d’uso per il suo proprietario, né nella produzione di merci, che gli darebbero di che campare con la loro vendita. Ma allorchè tramite la sua vendita essa è posta in rapporto con i mezzi di produzione, diviene, al pari dei mezzi di produzione, una parte costitutiva del capitale produttivo del suo acquirente».[1]

 

Il fuco del capitale

Il capitalista è anch’egli una funzione del sistema, che con le sue leggi e con il suo gigantismo globale diviene “assoluto”, ovvero si autonomizza con la smisurata espansione. In tale sistema, in cui tutto dev’essere convertito in produzione, il capitalista è improduttivo, è il fuco del sistema, egli prospera senza produrre, si è installato all’interno dell’alveare-industria. Egli è l’addetto-funzione alla compra-vendita delle anime vive per farne anime morte. Il capitalista è il Cerbero-fuco del modo di produzione capitalista, traghetta le vite dei lavoratori verso “la loro mortale usura”. Il capitalista è sterile, non produce e non crea concetti, è la tragica e pericolosa funzione che muove masse umane verso l’inferno della negazione di sé; gli aggiogati sono solo forza muscolare-intellettuale da vendere-comprare o da licenziare-distruggere:

«Per il capitalista il quale faccia lavorare altri al suo posto, la compra-vendita diviene una funzione fondamentale. Dato che egli si appropria il prodotto di molti in una misura sociale più grande, deve anche venderlo in tale misura e convertirlo poi di nuovo da denaro in elementi di produzione. In ogni caso il tempo di compra-vendita non dà luogo a valore alcuno. […] Tuttavia, senza approfondire, oltre, sin dall’inizio è evidente: qualora per mezzo della divisione del lavoro una funzione che è in se stessa improduttiva, ma è un momento necessario della riproduzione, viene trasformata da compito secondario di molti in compito esclusivo di pochi, viene trasformata nel loro affare particolare, non muta tuttavia il carattere della funzione stessa».[2]

 

I fuchi-padroni del capitale gestiscono il sistema produttivo e la politica. Gli improduttivi sono idrovore di plusvalore che come re Mida convertono ciò che toccano in oro, ma l’immensa ricchezza prodotta uccide la vita e affama corpi e spirito, perché il capitale nega la relazione comunitaria dell’economia, l’unica in grado di umanizzare, la vuota di ogni componente dell’umanità. I fuchi-padroni sono i vampiri dell’umanità. Per essi gli esseri umani sono solo numeri; si estraggono da essi numeri da vendere alle aziende per organizzare il consumo. Si è ad un un passo dalla riproduzione delle medesime logiche di funzionamento già sperimentate nei campi concentrazionari nel Novecento. Per i fuchi-padroni tutto è numero, niente è vivo.

 

Svelare il “feticcio capitale”

Il lavoratore è così cosalizzato, è solo quantità muscolare attraverso cui il processo di valorizazione si decuplica. Similmente al processo di trasustanzazione, dalla sostanza uomo – attraverso un processo apparentemente oscuro e velato da parole e pubbliche liturgie – si ottiene per “merito miracoloso” il prodigio (il profitto). Il processo va riportato alla sua verità storica e reale. Il capitalismo è un “feticcio”, non è la verità ultima, esso è esperienza storica posta dalle oligarchie, che i subalterni – caduti nella rete della propaganda e della violenza organizzata – hanno divinizzato. Marx, invece, dimostra che il dio capitale è umano troppo umano, e dunque, il divelamento dei meccanismi non può che liberare le vite intrappolate nell’ingannevole ordito. Il capitalismo con il salario schiavile paga al lavoratore il sufficiente per riprodurre la forza lavoro, ciò che non è pagato è il bottino del capitalista, è il “merito del Cerbero/fuco” che ha condotto le anime dei lavoratori nell’inferno del capitalismo. Il lavoratore è disumanizzato, è soltanto energia da usare secondo le leggi del mercato. L’essere umano è solo corpo, a cui si concede di usare le facoltà intellettuali che consentono al sistema di funzionare fatalmente. La morte è in questa negazione della natura sociale, creativa ed etica di ogni essere umano:

«Come abbiamo già osservato, il denaro che il capitalista paga all’operaio per l’uso della forza lavorativa non è in realtà che la forma generale di equivalente per i mezzi di sostentamento indispensabili all’operaio». [3]

 

Obbedienza

Il processo di valorizzazione non è controllato dai capitalisti, essi sono gli obbedienti esecutori delle leggi che hanno innescato e che si sono rese autonome. Il capitalismo – con suo accrescersi smisurato – imprigiona nelle sue maglie e nella sua gabbia d’acciaio gli stessi capitalisti. La rete del capitalismo per sopravvivere produce la guerra globale. Per il capitalismo e i capitalisti la guerra è un prodotto utile ad attrarre investimenti e a liberare energie monetarie accumulate. il capitale non può che volere nuove guerre di conquista dei popoli da sacrificare ai processi di accumulo. La globalizzazione del profitto è il fine aspansivo del capitalismo. Come il dio spinoziano il capitalismo non può non obbedire alle sue leggi. La libertà è solo un orpello giuridico per consentire al sistema di proliferare senza impedimenti.

Nulla deve sopravvivere, ogni sistema di produzione dev’essere annichilito, solo il capitalismo deve sopravvivere. A tale logica il capitalista deve attenersi: ecco che il Cerbero/fuco diventa il manager della vita e della morte, deve vendere il “progresso” che il capitalismo apporta con la menzogna, deve illudere per conquistare fette di mercato da cannibalizzare. Il processo non ha katechon, perché non ha fondamento metafisico e assiologico, deve mettere in atto solo la hybris:

«Quanto più acute e continue si fanno le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore resosi autonomo, automatico, agente con l’irruenza d’un processo elememtare della natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più l’andamento della produzione normale viene sottomesso alla speculazione anormale, tanto più grande si fa il rischio per i singoli capitali. Queste rivoluzioni di valore periodiche danno la riprova proprio di quello che, come si vorrebbe, dovrebbero confutare: il rendersi autonomo del valore in quanto capitale, condizione che esso conserva e rafferma attraverso il suo movimento». [4]

 

Qual è dunque l’essenza del capitale?

Marx è chiaro e inequivocabile nella risposta: il capitalismo è nel segno della morte. La mercificazione e la quantificazione sono gli unici processi pensabili e possibili, esse sono la morte in Terra.

Con il vivo lavoro scambiato con la morte il processo risorge, esso procede per salti quantitativi ed estensivi. Ad ogni salto l’esperienza della morte diviene sempre più incombente fino al punto, lo viviamo nel nostro tempo, da minacciare la vita nella sua interezza. La morte è parte del paradigma ideologico del capitalismo, per cui “l’uccidere” non reca scandalo, è la normalità della vita negata al tempo del capitale. L’automatismo non arretra neanche dinanzi al pericolo dell’autodistruzione del sistema-capitale. Il collasso di un pianeta non turba il capitalismo con i suoi fedeli sicari, anzi il pericolo diviene un affare potenziale da manovrare attentamente per estrarne plusvalore. Il tempo del capitalismo è inchiodato alla sola produzione di profitto:

«La materia reale del capitale investito in forza lavorativa è proprio il lavoro, la forza produttiva che si pone in movimento, che crea valore, il vivo lavoro che il capitalista ha scambiato con il lavoro morto, oggettivato, incorporandolo al proprio capitale, al quale soltanto è dovuta la trasformazione in valore autovalorizzantesi del valore che si trova nelle sue mani».[5]

La perversione del “senso” è il sostrato che dà il movimento al capitalismo. L’economia, come la sua etimologia indica (οἶκος “casa” e νόμος “legge”), è attività che consente la vita, è prassi che deve soddisfare i bisogni della comunità, in primis la famiglia. Il capitalismo muta la qualità dell’economia in crematistica (quantità senza misura) della morte. Sull’altare del profitto si sacrificano uomini e popoli. I subalterni sono sfruttati sul lavoro e nel tempo libero. La catena del capitale è invisibile, non molla mai le sue vittime, non dà loro mai pace, deve incutere inquietudine per dominare. I lavoratori sono chiamati al sacrificio perenne. A prescindere dalla classe sociale di origine tutti devono restituire al mercato ciò che “hanno guadagnato” nella forma del consumo per sopravvvire o per soddisfare desideri e voglie che il mercato ha indotto. Tutto ritorna al capitale; il saccheggio non conosce pause. I lavoratori nel tempo libero sono erosi dai desideri infiniti e dall’infelicità indotta. Essi sono macchine desideranti che con la loro abissale insoddisfazione nutrono la crematistica. Ancora una volta per poter riprendere le fila della storia è necessario smascherare il capitale nelle sue metamorfosi. La prassi non può che “passare” per la definizione del senso dell’economia e, quindi, del bene.

La politica di opposizione senza la chiarezza del fine dell’economia, non può inaugurare una “nuova stagione di lotta”. Senza il giudizio etico e la chiarezza del “senso” nulla può iniziare, si è condannati a subire il giogo del capitale.

L’economia capitalistica uccide “rubando” la gioia di vivere e il tempo di ogni singola vita, le divora mai sazio.

Nel tempo di Marx uomini, donne e bambini erano negati con lo sfruttamento lavorativo. Oggi prevalgono l’adattamento coercitivo ai desideri del mercato e l’addestramento al narcisismo che preparano ad un’esistenza di solitudine e di impotenza politica compensate dal consumo vorace. Il capitalismo somministra il consumismo alle sue vittime per “curare” il dolore, le avvelena con il male (consumismo) per destrutturarle e renderle obbedienti schiavi. La strumentalizzazione dell’essere umano assume nuove forme, ma in modo sempre eguale si scambia la vita con la morte:

«Le macchine, dando la possibilità di fare a meno della forza dei muscoli, divengono il mezzo per impiegare operai senza forza muscolare o dal fisico non ancora sviluppato, ma di membra maggiormente flessibili. Lavoro di donne e bambini, questo è stato il primo grido del capitale quando iniziò ad usare le macchine!».[6]

Il grido del capitale ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi. Quel grido attende una risposta che possa donare giustizia ai vivi e ai morti. Al linguaggio dell’impero grondante di fango, sudore e sangue, bisogna opporre un nuovo linguaggio, che possa aprire scenari e prospettive che riportino “l’anticapitalismo e la lotta agli sfruttamenti” nella progettualità politica. Solo in tal modo le grida di coloro che invocano giustizia saranno ascoltate. L’antiumanesimo dev’essere ribaltato in un nuovo Umanesimo, nel quale l’essere umano deve riportare la cura dove vige la violenza organizzata dell’incuria pianificata dal mercato.

[1] K. Marx, Il Capitale, Libro II, Newtin Compton Editori, Roma 2015, p. 583.

[2] Ibidem, pp. 647 648.

[3] Ibidem, p.671.

[4] Ibidem, p. 631.

[5] Ibidem, p. 709.

[6] Ibidem, Libro I, p. 293.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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