Marguerite Yourcenar – Femminismo e conformismo nel pensiero di Marguerite Yourcenar

Salvatore Bravo

 

Femminismo e conformismo nel pensiero di Marguerite Yourcenar 

 

Il conformismo dilagante silenzia coloro che hanno avuto la forza etica di osservare le derive della contemporaneità e di pensarle emancipandosi da schemi preconcetti o dal desiderio di “piacere alle moltitudini per ricevere un veloce applauso”.

Marguerite Yourcenar scrittrice e pensatrice nota per il suo splendido Memorie di Adriano è stata una donna libera. La libertà non è nel seguire la corrente, ma nel vivere il venerdì speculativo, come affermava Hegel. La libertà non è schierarsi con l’opinione generale, ma dare forma critica alla ricerca veritativa mediante il logos. Uscire dal coro non è semplice, in quanto si va incontro a fraintendimenti e al rischio di isolamento, ciò malgrado non vi è progresso politico e sociale senza il rischio dell’isolamento.

Marguerite Yourcenar ha vissuto in pieno l’esperienza del femminismo, ma non si è schierata con i dogmi e con le liturgie del femminismo: ha ricercato la verità, ha posto le domande che attendono risposte.

Ella ha riflettuto criticamente sulle degenerazioni del femminismo, in quanto non si è mai pensata primariamente come “donna”, ma come essere umano. Pensarsi come essere umano – incarnato in un genere e in un periodo storico – consente di emanciparsi dalle logiche annientatrici dell’appartenenza per poter esercitare il pensiero in difesa dell’umanità tutta. Il femminismo che si contrappone sic et simpliciter contro gli uomini non ha come fine la liberazione, ma ha l’ambizione di sovvertire un presunto ordine oppressivo per inaugurare nuove forme di marginalizzazione, malgrado le migliori intenzioni dichiarate. Vi è una ambiguità in talune forme di femminismo che la scrittrice solleva allo scopo di difendere l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

In un’intervista presente su Youtube[1] in lingua francese con sottotitoli in italiano e tradotta da Bianca Moretti[2] in un agile documento, la scrittrice palesa che vi sono due livelli non sufficientemente valutati nella storia della discriminazione delle donne: le leggi scritte e il quotidiano. La storia descritta come un lungo e piatto inferno in cui le donne sono state perennemente vittime del maschio privilegiato per legge, ci mostra una realtà più complessa e di cui bisogna tener conto per argomentare in modo più obiettivo la condizione femminile. Spesso l’inferiorità legale delle donne non corrispondeva alla realtà di fatto: le donne comandavano e sceglievano, benché la legge in teoria dichiarasse altro. Gli uomini, rappresentati nella narrazione attuale come oppressori, nell’effettualità della storia erano spesso detentori di un potere solo legale, poiché era naturalmente gestito dalle mogli e dalle amanti.

Vi erano equilibri che sfuggono alle logiche contemporanee e che dovrebbero essere oggetto di conoscenza e riflessione. I pregiudizi contemporanei sono proiettati nel passato oscurando la verità.

Nell’intervista la scrittrice afferma che, a ben guardare, anche nel suo tempo si osserva normalmente che i mariti sono trattati come garzoni dalle mogli nella gestione di piccole attività commerciali:

 

«E ci dimentichiamo spesso per esempio che parliamo di quella che era la condizione femminile in passato: si dice che le donne fossero svantaggiate dalle leggi, ed era così in effetti […] non poter redigere da sole il proprio testamento, non poter gestire il proprio denaro, etc.

Mi pare però che di solito tutto questo è vero sulla carta. Prendiamo per esempio le donne della piccola borghesia che dirigono un negozio: spesso il loro marito ha l’aria del ragazzo delle consegne, ed è la signora seduta alla cassa che prende tutte le decisioni».

 

 “Nei tempi bui della condizione femminile”, le donne non potevano essere elette ufficialmente ministro o capo di Stato, ma innumerevoli sono gli esempi di donne che “facevano e disfacevano” i governi. Ancora una volta la Yourcenar sottolinea l’ambiguità che tanti non vogliono considerare nelle proprie valutazioni: le donne nei secoli XVII e XVI secolo nei fatti detenevano il potere che formalmente era dei soli uomini. Se si valuta tale ambiguità la ricostruzione della storia nei termini di dominio incontrastato degli uomini e sudditanza generalizzata dimostra le sue “fragilità”. La realtà è sempre più complessa delle ricostruzioni ideologiche e di parte. Gli uomini appaiono privilegiati da un punto di vista legale, ma nella verità storica spesso sono i dominati:

 

«Ci dimentichiamo sempre che, se è vero che le donne del XVII e del XVI secolo non erano ministri né presidenti, avevano comunque un ruolo fondamentale nella politica, e che facevano e disfacevano i ministri e i membri dell’Accademia. Io stessa, quando sono entrata all’Académie Française, in quanto prima donna ad accedere all’Académie (doveva pur essercene una prima), ho avuto il compito di consolare questi signori sostenendo che non erano loro a essere particolarmente retrogradi, ma che semplicemente si adeguavano ai costumi del tempo, e che una volta le donne venivano poste sul piedistallo molto più di oggi, e che le si metteva talmente in alto che l’idea di offrire loro una poltrona non veniva neppure minimamente considerata. E io credo che sia vero da un certo punto di vista. Ciò non toglie che questa gente disprezzava le donne molto più di quanto accade oggi».

 

 

Femminismo e nuovi ghetti

La scrittrice non rinnega l’uguaglianza dei diritti ma l’uso ideologico del femminismo, il quale ha abdicato alla liberazione di tutti gli individui per diventare una ricostruzione dubbia e semplicistica della storia del genere femminile.

Il potere delle donne sembra riaffermarsi nel tempo contemporaneo mediante il femminismo e l’uso parziale della storia. L’uguaglianza e le rivendicazioni sociali del femminismo si venano di nuove e pericolose forme di ghettizzazione. Vi è un femminismo che lavora per separare il genere umano e innalza barriere. I nuovi ghetti sono i ristoranti, le librerie o le discoteche al femminile, vere forme di esclusione degli uomini che inaugurano nuovi ghetti, mentre si afferma l’uguaglianza e si accusano gli uomini di aver ghettizzato le donne:

 

«E ciò che spaventa del femminismo dei nostri giorni (con il quale io mi trovo assolutamente d’accordo finché si tratta di uguaglianza dei salari, di meriti uguali, della libertà della donna nelle sue peculiarità femminili, come ad esempio la limitazione delle nascite, in tutte le sue forme, etc. naturalmente), un elemento piuttosto fastidioso, è la rivendicazione contro l’uomo; è questo che non mi sembra naturale, che non mi sembra necessario, e che contribuisce a creare dei ghetti.

Di ghetti ce ne sono già abbastanza, ne abbiamo troppi. E allora quando vedo le donne aprire delle case editrici per sole donne, o dei locali per sole donne, etc., pur non essendo contraria, mi dico che sono dei nuovi ghetti, e che mi sarei molto arrabbiata 30 anni fa se mi avessero detto “lei ha il diritto di entrare solo in un ristorante per donne”, come quando le ferrovie avevano scompartimenti esclusivamente femminili; e pensare che stiano ricostruendo questo mi pare un vero peccato. E soprattutto che non si stia facendo niente invece per facilitare una maggiore comprensione, collaborazione e simpatia fra uomini e donne”.

 

 

Uguaglianza astratta

Il rifiuto della specificità del ruolo delle donne nella storia finisce con l’abbracciare una astratta uguaglianza, perché costruita sui “paradigmi degli uomini”. Anche la storia degli uomini diviene astratta, essi sono vissuti e percepiti mediante una storia spoglia della struttura economica.

 Le donne per cultura o natura si sono occupate dei più deboli e della vita nei momenti di massima fragilità. Le donne non devono essere obbligate a vivere l’esperienza del dono, ma il rifiuto preconcetto, l’ostilità verso gli uomini e i nuovi ghetti non innalzano l’albero della libertà, ma producono dolorose negazioni e lacerazioni, le quali sono la premessa inconsapevole di nuove forme di razzismo non riconosciute:

 

«Fermo restando che la donna era considerata inferiore all’uomo, che era in una condizione svantaggiata, rappresentava comunque la creatura che metteva al mondo i bambini. Era la creatura che lavava, cresceva, nutriva e vestiva i bambini, dando loro la prima lezione d’umanità, in un certo senso. Era la persona che spesso si prendeva cura dei malati, che preparava i morti, etc., ed era molto più vicina alla realtà di base di quanto lo fossero molti uomini. La donna potrebbe portare questo senso profondo di realtà, fisica, carnale e fisiologica che manca tantissimo nella nostra società. Ed ecco come dovrebbe entrare in gioco la figura femminile: mostrando l’importanza e la sacralità di tutto ciò. E se la donna facesse questo, immediatamente giocherebbe un grande ruolo dal punto di vista del pacifismo, della libertà, del diritto civico, etc., perché comprenderemmo maggiormente i meccanismi della vita e della morte, a cui la donna è per forza di cose, poverina, estremamente vicina da secoli».

 

Assistere gli esseri umani nei momenti di passaggio cruciali per l’esistenza: la vita e la morte, o semplicemente cucinare per gli altri, sono attività nobilissime, in quanto rendono visibile in quei gesti la sacralità materiale della vita. A tali comportamenti le donne non devono essere obbligate, ma giudicare negativamente le donne che vogliono dedicarsi a tali gesti è sbagliato e fuorviante:

 

«Quanto a occuparsi della cucina, come dicono spesso gli psicologi, si tratta di una forma d’amore. Nutrire gli altri è la maniera di provare loro che li amiamo: noi dimentichiamo la parte sacra di questa cosa. Ai giorni nostri questo aspetto sussiste forse più spesso negli uomini, che a un certo punto iniziano a lavare i piatti, a cucinare, mentre la donna se ne va in ufficio.

E sono loro che ereditano questo grande sentimento umano, mentre a me piacerebbe che restasse non dico privilegio delle donne, ma almeno che non si sentissero sminuite nel ricoprire il proprio ruolo femminile, per il quale sono perfettamente adatte.

Idem per l’argomento figli: adesso gli psicologi ci vengono a dire, forse un po’ in ritardo visto che hanno detto il contrario per 30 anni, che un figlio può tranquillamente vivere molto bene senza un padre, come senza una madre, e che non è una questione di sesso, ma è una questione di cura, di tenerezza, etc., e non è il caso che questo sentimento di cura e di tenerezza si sacrifichi per la carriera».

 

Marguerite Yourcenar si è spenta il 17 dicembre 1987, le sue parole ci parlano del nostro presente in cui in nome dell’uguaglianza astratta si annichiliscono le differenze e si innalzano nuovi muri in cui rinchiudere le differenze. L’individualismo carrieristico modellato sul modello maschile anglosassone e capitalistico non porta all’uguaglianza ma a nuove forme di sudditanza non riconosciute.

 Alla menzogna e all’uguaglianza astratta che mortifica e umilia le differenze bisogna opporre il coraggio della verità senza la quale non vi è dignità per nessuno ma solo una innaturale e irrazionale uguaglianza.

 

Salvatore Bravo

 

 

[1] https://www.youtube.com/watch?v=3ZWD7c7gggo&t=270s&pp=ygUUbWFyZ3Vlcml0ZSB5b3VyY2VuYXI%3D

[2] https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/la-condizione-femminile-intervista-marguerite-yourcenar/


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Massimo Bontempelli – «Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro». Per ricordare Massimo Bontempelli e la sua passione durevole per la filosofia.




Luca Grecchi, Ricordo filosofico di Massimo BontempelliScarica


Libri di Massimo Bontempelli


Storia:

  • Il senso della storia antica. Itinerari e ipotesi di studio. (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1978.
  • Antiche strutture sociali mediterranee. (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1979.
  • Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
  • Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
  • Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
  • Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
  • Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
  • Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]

Filosofia:

  • Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
  • Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]

Saggi e monografie:

  • Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
  • Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
  • Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
  • Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
  • La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
  • La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
  • Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
  • Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000. [ristampato nel 2020 dalla casa editrice Petite Plaisance]
  • L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
  • Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
  • Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
  • Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
  • Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
  • Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
  • L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
  • Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
  • Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
  • Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
  • Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
  • La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
  • La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
  • Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
  • Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
  • Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
  • Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
  • Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
  • Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
  • La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
  • Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017.

Saggi in opere collettanee:

  • Il respiro del Novecento, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 1999
  • Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n. 4, Pistoia, CRT, 2000
  • (Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n. 5, Pistoia, CRT, 2000
  • Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n. 8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
  • I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
  • Diciamoci la verità, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 2000.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Pierre Bourdieu individua nel simbolismo tratto dai corpi nella loro anatomia per generi il linguaggio e la prassi con cui il potere stratifica, divide e vorrebbe eternizzarsi. È necessario mettere in circolo “nuove parole per nuovi pensieri”.


Salvatore Bravo

Pierre Bourdieu individua nel simbolismo tratto dai corpi nella loro anatomia per generi il linguaggio e la prassi con cui il potere stratifica, divide e vorrebbe eternizzarsi.

È necessario mettere in circolo “nuove parole per nuovi pensieri”.

L’ordine del discorso

Il dominio e lo sfruttamento non sono il destino dell’Occidente ma scelte ideologiche e di classe. La tragedia del tempo presente è l’ipostatizzazione dello sfruttamento a cui è consustanziale il processo di alienazione. Il dominio, per giustificare la “naturalità” di se stesso, deve programmare il linguaggio, deve diffondere il “suo” ordine del discorso tra i vinti e gli sfruttati, in tal maniera rafforza e consolida non solo il dominio, ma anche il controllo. Le tecnologie sempre più pervasive non solo controllano dall’esterno, ma hanno lo scopo di far introiettare parole ed azioni, in modo che il dominato sia spontaneamente al servizio della classe dominante e diffonda il suo “verbo”. Gli studi di Michel Foucault hanno dimostrato la circolarità del potere: il dominio è ovunque, l’ideologia capitalistica è disseminata senza mediazione dagli stessi dominati.

Il momento attuale è caratterizzato dalla circolarità dell’ordine del discorso del potere, il quale ha l’obiettivo di cannibalizzare le parole che rimandano ad altre visioni del mondo. La distopia è circolare, ritorna su se stessa rafforzata dal suo viaggio nel quale destrutturano coscienze e logos. Lo sfruttato non solo parla e pensa come il dominatore, ma spesso ha i suoi stessi obiettivi: individualismo e crematistica.

Le ingiustizie sono tollerate, le contraddizioni non causano dolorose e feconde lacerazioni, in quanto il dominato è stato lobomotizzato. Le lacerazioni sociali ed individuali sono accettate come naturali, in quanto la rabbia non ha parole per trasformare il dato in concetto. Le parole del potere sono sostenute da una campagna di disinformazione e aggressione verso le contro parole. La speranza e la prassi non sono impossibili, in quanto – pur se l’ingannevole ordine del discorso derealizza – le condizioni materiali smentiscono i miti con cui il dominio vorrebbe sterilizzare la popolazione. Si tratta di un potere molto simile a quella violenta prassi medicale che interviene sulle menti come sui corpi per poterli neutralizzare della loro componente divergente e feconda. L’Occidente è nel deserto che avanza. La desertificazione dell’ambiente è speculare alle coscienze necrotizzate dallo sfruttamento e dal consumismo: quest’ultimo non è che un diverso modo per sfruttare e impoverire i lavoratori.

 

Pierre Bourdieu e il simbolico

Pierre Bourdieu[1] individua nel simbolismo tratto dai corpi nella loro anatomia per generi il linguaggio e la prassi con cui il potere stratifica, divide e vorrebbe eternizzarsi. Il simbolismo che fa riferimento al maschile e la femminile corrisponde all’attività e alla passività resi naturali, in quanto giustificati sul fondamento «movimenti-azioni del corpo sostenuti dall’anatomia e dalla biologia». Si tratta di un falso fondamento, in quanto è l’utile mezzo con cui rendere oggettivo il dominio:

 

«Questo passaggio attraverso una tradizione esotica è indispensabile per spezzare il nesso di familiarità ingannevole che ci unisce alla nostra stessa tradizione Le apparenze biologiche e gli effetti assolutamente reali che ha prodotto, nei corpi e nei cervelli, un lungo lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale si coniugano per rovesciare il rapporto tra le cause e gli effetti, e per far apparire una costruzione sociale naturalizzata (i “generi” in quanto habitus sessuati) come il fondamento in natura della divisione arbitraria situata alla radice sia della realtà sia della rappresentazione di essa».[2]

 

Il biologico è socializzato, la sua simbologia determina e rende tossiche le relazioni umane. La sociodicea, versione laica del male, infetta l’intero corpo sociale con i suoi simboli e diviene la verità intorno alla quale si catalizza l’intero corpo sociale attraversato da relazioni di dominio naturalizzate:

 

«Non sono le necessità della riproduzione biologica a determinare l’organizzazione simbolica della divisione sociale del lavoro e, successivamente, di tutto l’ordine naturale e sociale; è piuttosto una costruzione arbitraria del biologico, e in particolare del corpo, maschile e femminile, dei suoi usi e delle sue funzioni, soprattutto nella riproduzione biologica, a offrire un fondamento in apparenza naturale alla visione androcentrica della divisione del lavoro sessuale e della divisione sessuale del lavoro, quindi di tutto il cosmo. La forza particolare della sociodicea maschile è data dal fatto che essa accumula e condensa due operazioni: legittima un rapporto di dominio inscrivendolo in una natura biologica che altro non è per parte sua se non una costruzione sociale naturalizzata».[3]

 

Il pericolo nel discorso di Pierre Bourdieu è l’individuare nel polo simbolico maschile la fonte del male sociale. Non esistono “uomini” in generale e “donne” in generale, il polo maschile-femminile, dominanti-dominatori vale solo se visto dalla prospettiva dei capitalisti. Vi sono uomini, la maggior parte, che nel modo di produzione sono passivizzati e vivono la discrasia del linguaggio simbolico tra la loro posizione sociale e le parole. Vi sono donne di potere e dominio che usano il linguaggio simbolico che non appartiene alla loro “anatomia”. Nella pratica delle relazioni sociali anche un uomo esattamente come una donna può essere merce di scambio nelle relazioni di potere, anzi il linguaggio simbolico che vorrebbe identificare il maschio con l’attività procura una doppia sofferenza negli uomini, poiché vivono la condizione di doppia negazione del simbolico in cui dovrebbero essere collocati per natura: sono passivizzati nella posizione sociale che ne fa semplici esecutori e sono utilizzati come merce di scambio tra i padroni. Cercare lavoro significa per l’operaio come per il tecnico della classe media “vendersi” e “fingere”: si deve accondiscendere al padrone per sopravvivere, al punto da prostituirsi simbolicamente per ricoprire un ruolo sociale e assicurarsi la sopravvivenza; se tale “operazione” è fallimentare lo attende il disprezzo sociale. Il padrone sa bene che l’adulazione è inautentica, ma riconosce mediante essa la forza del suo potere. Bisogna esplicitare, quindi, nella materialità della vita, la sofferenza che attraversa i sudditi, ma essa non è eguale in tutti: si diversifica nella storia dei generi. Forse necessitiamo di un’archeologia della sofferenza che potrebbe rompere molti pregiudizi e sclerotizzazioni ideologiche. La storia in un’unica prospettiva, il dolore delle donne rese astratte, deve non solo rendere concreta la condizione femminile ma anche completarsi con la storia reale dei generi.

La forza simbolica entra nei dominati, li plasma, ma le differenze andrebbero conservate, per scendere nella profondità del dolore e del male sociale, pensandolo, anche, nella prospettiva “maschile”:

 

«La forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica; ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel più profondo dei corpi».[4]

 

Ben dice, però, Pierre Bourdieu. Bisogna spezzare l’ordine del discorso simbolico: i dominati – per non essere più tali – devono elaborare percorsi di uscita dalla caverna del linguaggio, in cui sono ai ceppi, con un contro linguaggio che spezzi le catene dell’alienazione linguistica. La tragedia in cui siamo situati è linguistica: il linguaggio è azione e visione del mondo, i dominati investono nella lingua del potere, l’inglese commerciale, per poter omologare le menti nel perimetro del valore di scambio, al punto che ammirano i dominatori e non concepiscono altro che il dominio:

 

«Ricordare le tracce che il dominio imprime durevolmente nei corpi e gli effetti che esso esercita attraverso tali tracce, non significa farsi sostenitori di quel modo particolarmente insidioso di ratificare il dominio, che consiste nell’assegnare alle donne la responsabilità della loro stessa oppressione, insinuando, come talvolta si fa, che esse scelgono di adottare pratiche di sottomissione (“le donne sono il loro peggior nemico”) o addirittura che amano l’esser dominate, che “godono” del trattamento loro inflitto, per una sorta di masochismo insito nella loro natura. Occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture devono la loro efficacia solo alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione».[5]

 

Prassi del simbolico

Trasformare il simbolico significa agire sulla struttura economica. Nel tempo della mistificazione sono sempre attivi e vigili le campagne contro le discriminazioni, in primis contro il maschio generico, al fine di non cambiare la struttura sociale e occultare il male radicale che si alligna in essa:

 

«Queste distinzioni critiche non hanno nulla di gratuito. Esse implicano infatti che la rivoluzione simbolica invocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà. Poiché il fondamento della violenza simbolica risiede non in coscienze mistificate che sarebbe sufficiente illuminare, bensì in disposizioni adattate alle strutture di dominio di cui sono il prodotto, ci si può attendere una rottura del rapporto di complicità che le vittime del dominio simbolico stabiliscono con i dominanti solo da una trasformazione radicale delle condizioni sociali di produzione delle disposizioni che portano i dominati ad assumere sui dominanti e su se stessi il punto di vista dei dominanti».[6]

 

La “virilità” – forma simbolica del potere androcentrico – è usata contro il femminile come genere e come disposizione psichica. L’errore, ancora una volta, è valutare la forma simbolica del maschile come mezzo che divide i dominati e i dominatori, a cui risponde sempre il genere maschile contro il genere femminile. Vi è una palese sottovalutazione della discriminazione degli uomini che non appartengono alla classe dei dominanti, i quali si ritrovano in una doppia trappola rispetto al genere femminile: il linguaggio simbolico li includerebbe nel dominio. In realtà sono nella posizione di essere simbolicamente tra i dominanti ma di fatto sono tra i dominati, anzi il genere femminile manipolato dalle classi al potere scarica su di essi ogni colpa al punto da schiacciarli in un silenzio gonfio di dolore e rabbia, il fronte degli oppressi è, così, spezzato e il potere applica la formula antica del “Divide et Impera”:

 

«Quello che chiamiamo coraggio trae così origine a volte da una forma di viltà. Per convincersene basterà ricordare le situazioni in cui, per indurre a commettere omicidi, torture o violenze carnali, la volontà di dominio, di sfruttamento o di oppressione si è appoggiata sul timore “virile” di escludersi dal mondo degli “uomini” inflessibili, da quelli che a volte si dicono “duri” perché resistono alle loro sofferenze ma anche e soprattutto alle sofferenze degli altri, assassini, torturatori e capetti di tutte le dittature e di tutte le “istituzioni totali”, anche le più comuni, come le prigioni, le caserme o i collegi, ma anche i nuovi padroni d’assalto che l’agiografia neoliberista esalta e che, spesso sottoposti anch’essi a prove di coraggio corporeo, manifestano la loro maestria licenziando i dipendenti in soprannumero. La virilità, come si vede, è una nozione eminentemente relazionale, costruita di fronte e per gli altri uomini e contro la femminilità, in una sorta di paura del femminile, e innanzitutto in se stessi».[7]

 

Il compito di una nuova sinistra è rompere il fronte del simbolico che costruisce la gabbia d’acciaio dell’impotenza. Il liberismo – nella sua fase imperiale – scuote e trascende le categorie e le faglie con cui il mondo è stato interpretato. La sovrastruttura tarda a constatare criticamente le modificazioni della struttura economica e a leggerle in senso emancipativo. La prassi – per poter ribaltare le logiche del dominio – necessita di un nuovo linguaggio che mostri nella loro verità i processi di derealizzazione in atto. Il simbolico maschile, oggi più che mai, umilia gli uomini che sono intrappolati in posizione servile nel modo d produzione. Il genere femminile vive anch’esso il grande inganno: usa il simbolico maschile per “emanciparsi”, ma in realtà cade supinamente nella trappola divisiva del mercato. Per disarticolare tali logiche è necessario riconfigurare la posizione del “servo” con le sue innumerevoli trappole linguistiche. Rompere il fronte del linguaggio e del simbolico nella sua glaciazione esige un’operazione collettiva di critica e prassi che carsicamente è già esistente. La storia non è conclusa: siamo ad un passaggio di epoche di cui non vediamo ancora il “nuovo”. Pertanto è necessario mettere in circolo “nuove parole per nuovi pensieri”.

 

Salvatore Bravo

[1] Pierre Bourdieu (Denguin, 1º agosto 1930 – Parigi, 23 gennaio 2002) è stato un sociologo, antropologo e filosofo francese.

[2] Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, pag. 11.

[3] Ibidem, pag. 33.

[4] Ibidem, pag. 50.

[5] Ibidem, pag. 52.

[6] Ibidem, pag. 54.

[7] Ibidem, pag. 66.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Metafisica della domanda. L’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare. Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”. Dove vi è metafisica vi è umanità.

Salvatore Bravo

Metafisica della domanda

L’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare.

Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”.

Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico.

Filosofia è attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi.

Il concetto metafisico è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta.

Metafisica non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare.

La metafisica non importa mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità.

Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso.

 

 

***

 

 

Domandare tutto e tutto domandare

La filosofia è metafisica: non si può pensare la filosofia senza la metafisica, l’affermazione è solo apparentemente banale, poiché i dispregiatori della metafisica sono, in primis, nelle facoltà di filosofia, dove in generale – salvo poche eccezioni – si coltiva l’adattamento della filosofia ai voleri del mercato. L’universale e la verità sono rigettate in nome del relativismo funzionale alla globalizzazione della finanza. In questo contesto rileggere Marino Gentile[1] consente di deviare dalla chiacchiera accademica per ”incontrare” il logos. Sui filosofi dediti alla ricerca metafisica è caduta la scure del silenzio. La verità è avversata e da ciò si deduce la qualità etica del nostro presente.

Dove vi è logos, vi è l’intero e la ricerca dell’universale. L’intero è l’oggetto della filosofia, ma non un “intero” già disposto a priori: il filosofare è un processo critico e dinamico con cui si giunge all’intero senza codificarlo in dogmi. La filosofia – come afferma Marino Gentile – è domandare tutto e tutto domandare: la domanda è apertura alla problematicità dell’esistenza e dell’esperienza. Domandare significa capacità di cogliere la molteplicità focale con cui l’esperienza si rivela al soggetto. Domandare è, dunque, intenzionalità qualitativa con cui la parte è riposizionata alla sua materialità olistico. Non si tratta di svelare il tutto, ma l’intero. L’intero si costituisce come relazione viva tra le parti, mentre il tutto è svelamento della totalità conchiusa in sé. La metafisica è dunque un domandare che svela la struttura dell’intero all’interno dell’esperienza, la razionalizza per cogliere il senso che dà vita alle parti, le coniuga nella direzioni del “perché”:

«Invece l’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare. La totalità non si presenta ad essa come un complesso, ipoteticamente perfetto, di certezze da conquistare, ma come la reazione integrale di ogni certezza, che non sia giustificata da un integrale sapere».[2]

Il domandare per Marino Gentile è l’attività che umanizza, poiché senza “il domandare” l’essere umano non esprime nella prassi il logos dialogico che ne fa il vivente che, con la parola, pone “mondi” e li decodifica. Per creare bisogna domandare. Il possibile e il rischio del nuovo sono consustanziali alla domanda:

«Un domandare tutto, che sia come ho già proposto un tutto domandare, nel senso che esso non sia originariamente altro che domanda: non perché, se tutta la realtà, senza eccezione, non diventa problema, non c’è possibilità di parlare di metafisica».[3]

Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”. Il timor panico che si presenta all’essere umano mediante l’esperire con la sempre cangiante contingenza è ricchezza di sapere, poiché l’empirico presenta all’essere umano sempre nuove sfide, necessita di essere interrogato per cogliere in esso la potenza nascosta del senso. Il soggetto e l’oggetto trovano nella domanda il punto di mediazione e di unità, i due poli si ricongiungono nell’attività del soggetto che contempla l’empirico. Non vi è realtà empirica senza il soggetto, il polo soggetto e il polo oggetto sono uniti nell’eterna tensione della domanda:

«Il tema della “meraviglia” viene ripreso successivamente, a proposito della filosofia generale; a questo punto è necessario che il continuo riferimento all’esperienza venga inteso come un’indicazione non di povertà, ma di ricchezza, cioè come una sempre nuova possibilità di verificare la validità del concetto nei confronti delle manifestazioni più complesse, più singolari o più strane dell’esperienza sensibile ch’esso fa sapere».[4]

 

Concetto scientifico e filosofico

Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico, poiché quest’ultimo è finalizzato all’operatività, è paradigma di azione finalizzato alla pura quantità ed è espresso in linguaggio matematico. Il concetto scientifico, dunque, disegna un ordito limitato, poiché è uno strumento per convogliare i dati verso l’efficienza dell’operatività e dell’accumulo. Non compare il giudizio qualitativo ma solo quantitativo. Esso problematizza al fine di verificare le procedure per ottenere i migliori risultati. Non vi è sospensione dell’utile, ma il suo potenziamento mediante la matematizzazione dei dati. Il concetto scientifico problematizza dei dati, ma mai i presupposti che restano “intoccabili”:

«I concetti scientifici moderni sono esemplati sui concetti matematici, cioè sono conoscenze, ma insieme modi di ordinare le conoscenze ai fini operativi dell’attività umana; si distinguono perciò nettamente dai concetti nel senso classico della parola, in quanto questi vogliono essere puramente e semplicemente conoscere».[5]

Il concetto filosofico sospende, invece, l’utile per individuare l’oggetto nella sua verità, lo lascia emergere in modo che si rivela nella sua sostanza. Il senso del suo esserci per svelarsi deve neutralizzare l’operatività, solo in tal modo la verità può emergere dalla frammentazione e dall’uso che impedisce allo sguardo di vivere, vedere e pensare l’intero:

«Il concetto, insomma, può essere simboleggiato come un baleno luminoso, per indicare, con un’approssimazione meno infelice delle altre, che, mentre non entra quale elemento costitutivo negli oggetti da esso rappresentati, è costitutivamente essenziale alla loro manifestabilità conoscitiva, cioè alla loro effettiva consistenza di oggetti».[6]

La filosofia-metafisica è uno scandalo per l’individualismo proprietario vigente, essa è trasgressione dell’ordine del discorso curvato al solo feticismo del risultato:

«Filosofia viene detta, dunque, giustamente l’attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi».[7]

 

Conoscere e sapere

L’accusa rivolta alla filosofia-metafisica è di essere “inutilmente astratta”, ovvero un vuoto ciarlare finalizzato al nulla, in realtà è un’accusa ideologica: l’individualismo proprietario deve necrotizzare ogni prospettiva altra per consolidare la sua dogmatica naturalizzazione. In realtà la metafisica è concretezza, poiché essa trae dall’esperienza la struttura veritativa occultata dal pragmatismo crematistico e dall’ansia del risultato. Il concetto metafisico, invece, è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta. In tal modo il soggetto vive la realtà empirica nella sua concretezza e problematicità, di conseguenza il conoscere si coniuga in modo fecondo al sapere

«Senonché la relazione tra l’esperienza e il principio metafisico può essere concepita come il rapporto tra la potenza e l’atto soltanto quando questi termini siano concepiti nella forma più assolutamente propria. Giacché se l’atto e la potenza venissero concepiti non nella forma pura, bensì in commistione reciproca, il rapporto stabilito non uscirebbe dai limiti dell’esperienza e perciò non avrebbe capacità e natura di rapporto metafisico».[8]

Metafisica, dunque, non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare, ma costruisce tra l’oti (il che) e il dioti (il perché) un ponte di senso che trascende la frammentazione astratta:

«La seconda condizione è, dunque, che la metafisica non importi mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità».[9]

Marino Gentile, con la sua opera finalizzata a fondare una metafisica che risponda al nuovo clima culturale affermatosi dopo Kant, ci insegna che ciò di cui necessitiamo è “il senso”. Tale necessità è connaturata all’essere umano, non può scaturire dalle scienze dure, ma dall’impianto metafisico. La problematizzazione del dato è già “fare filosofico”, in cui il domandare deve porre le risposte. Se tale attività viene a mancare l’essere umano è mutilo della sua profondità pensante e non può che lasciarsi travolgere dagli eventi e dai risultati scientifici pur se prodigiosi. La furia della produzione di informazioni e merci potrebbe ribaltarsi in terrore panico, in thauma, in quanto il soggetto – dinanzi alle potenze che ha scatenato e di cui non conosce il senso – non può che soccombere.
Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso:

«Il sapere, dunque, si distingue dalle altre forme di conoscere, in quanto imprime all’inquietudine dispersa delle rappresentazioni non collegate e non capaci di persistenza un orientamento e una direzione comune».[10]

L’inquietudine e la società dell’angoscia in cui siamo situati sono il sintomo della rimozione della metafisica funzionale al capitalismo che “forgia” consumatori onnivori e senza orizzonte qualitativo. Il malessere che si constata quotidianamente denuncia la drammatica assenza della metafisica. Senza di essa non vi è paideia, poiché l’essere umano è consegnato indifeso al mercato e alla spirale dei desideri illimitati che non possono che stritolarlo come i serpenti fecero con Laocoonte.

Salvatore Bravo

[1] Marino Gentile (Trieste9 maggio 1906 – Padova31 maggio 1991).

[2] Marino Gentile, Trattato di Filosofia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1987, pag. 53.

[3] Ibidem, pag. 97.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 27.

[6] Ibidem, pag. 32.

[7] Ibidem, pag. 229.

[8] Ibidem, pag. 181.

[9] Ibidem, pag. 178.

[10] Ibidem, pag. 18.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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George Steiner – Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

Salvatore Bravo

 

Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

 

 

Verità ed interpretazione

Vi sono opere imperiture, il cui significato polisemico racchiude segretamente la verità della condizione umana, la quale si offre ad una molteplicità di letture, condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa: pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.

La letteratura greca è fonte di verità, come lo è la filosofia greca: si utilizzano linguaggi differenti ma in entrambe si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo; essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è rizomatica, è una unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni.

La letteratura e la filosofia greca non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura. Tale consapevolezza era presente anche in Marx. La verità eccede la storia, pur vivendo in essa. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale, e l’irrazionale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.

Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo: vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:

 

«Nell’Introduzione alla critica dell’economia politica, Marx cerca di raffinare il modello ingenuo e sociologicamente rozzo delle relazioni tra la “sovrastruttura” estetico-ideologica di una cultura e la sua base economica sociale. Secondo Marx, non è possibile formulare un’equazione semplicistica e univoca di tali relazioni che sono molto più sottili sia in rapporto al carattere del clima ideologico o artistico di una determinata comunità, sia agli stadi temporali dell’evoluzione sociale».[1]

 

D’altra parte la verità di una “civiltà altra” non ci giunge nell’oggettività abbagliante del mattino, ma essa deve implicare uno sforzo ermeneutico e una tensione dialettica capaci di un doppio movimento: si arretra dinanzi ad essa, poiché consapevoli dell’alterità filtrata mediante schemi, giudizi e pregiudizi del proprio tempo storico al fine di approssimarsi alla sua presenza senza l’arrogante pretesa di possederla:

 

«Quando arriva a noi dall’Antigone di Sofocle, il “significato” è distorto nella sua struttura originaria proprio come la luce sellare è deformata quando arriva a noi attraverso il tempo e campi gravitazionali successivi».[2]

 

Dai Greci siamo distanti e vicini, le loro verità sono le nostre, ma nel contempo il vissuto storico le fa apparire in modo diverso e dona ad esse una diversa configurazione. Gli esseri umani sono proiettivi, pertanto per decodificare l’alterità e la verità è opportuno il lavoro dello spirito senza il quale nessuna interpretazione risulta razionale e ben fondata.

 

Le Antigoni

L’Antigone di Sofocle è un’opera eterna: si dispiega davanti a noi non una semplice tragedia, ma l’umanità nei suoi complessi conflitti dialettici. Il male è l’opposizione senza sintesi: se il particolare e l’universale guerreggiano senza la capacità di sintesi del concetto, si è colti dalla rovina. La vita sociale e politica è attività dialettica finalizzata a conciliare ciò che pare-appare opposto. Eraclito,[3] nel frammento 51, già affermava la necessità dell’unità degli opposti: la verità è l’unità nella quale gli opposti ridisegnano posizioni e significati. L’armonia non è nella sclerotizzazione della vita, ma nel confliggere fecondo e consapevole.

La tragedia del nostro tempo storico è la cultura della cancellazione degli opposti: il conflitto è sostituito dall’omologazione. La verità senza opposti riposizionati nel reciproco riconoscimento è solo “il niente” ideologico. Il conflitto concettuale è stato sostituito dal confliggere crematistico senza riconoscimento delle autocoscienze nella loro specificità materiale e di genere.

Hegel ha interpretato l’Antigone, ne ha colto un aspetto eterno, ovvero in Antigone il conflitto conduce alla rovina, poiché il polo femminile (Antigone) e il polo maschile (Creonte) non ammettono la sintesi. Il dialogo è solo un atto di forza, poiché entrambi non ascoltano e rifiutano il polo opposto che vive in ciascuno. Creonte non ascolta Antigone con le sue ragioni, poiché è distante dal suo polo femminile, e lo stesso avviene in Antigone. Entrambi sono irrigiditi dall’incapacità di pensare e vivere il proprio nucleo profondo nel quale vi è una sintesi che se pensata-vissuta favorisce l’ascolto e la comunicazione:

 

«I riti funerari, poiché rinchiudono letteralmente il morto nello spazio della terra e nella sequenza fantomatica delle generazioni, che sono alla base del mondo famigliare, sono un compito specificatamente femminile. Quando tale compito tocca a una sorella, qualora l’uomo non abbia né madre né moglie che lo riportino alla terra custode, i riti funebri acquistano la massima sacralità. L’atto di Antigone è il più sacro che una donna possa commettere. È anche ein Verbrechen: un crimine. Ci sono situazioni in cui lo stato non è pronto a rinunciare alla propria autorità sui morti».[4]

 

Per Hölderlin Antigone è una “santa pazza”, è il polo dionisiaco, è la verità aorgica che vive solo in relazione alla razionalità apollinea. Resecare i due poli significa spezzare la profondità della razionalità. Senza dualità nell’unità non vi può che essere irrazionalità e una pericolosa scissione in cui le parti prendono il sopravvento fino alla morte. L’unità è nella dualità dei poli: Antigone sente le potenze profonde della vita, la sua sacralità terrena e trascendente, ma è respinta dalla razionalità della polis e dai suoi poteri. Antigone mostra con la sua rivolta e il suo dolore la parzialità dell’altro polo, nella lotta palesa che vi è altro oltre l’ordine stabilito, nel contempo è sull’abisso dell’irrazionale, poiché in lei vi è il prevalere di un solo aspetto:

 

«Ella è la quintessenza dell’Antitheos, di cui il poeta aveva parlato nella lettera a Böhlendorff, nel dicembre 1801. Il che significa che Antigone fa parte di coloro che si pongono di fronte a Dio o agli dèi (Hölderlin usa alternativamente queste due espressioni) con atteggiamento contrario, avverso, polemico. Ma questa opposizione, questo attacco agonistico rappresentano una forma sublime di devozione. […] I punti di riferimento di Hölderlin sono di natura filosofica. Proprio come Empedocle e come Rousseau, secondo la descrizione che Hölderlin ne dà nell’ode “Der Rhein” (Il Reno), Antigone è una “pazza santa” (törig göttlich)».[5]

 

Maschile e femminile nell’Antigone

George Steiner individua il dramma e la verità dell’Antigone nel rifiuto della differenza profonda: ciascun uomo reca con sé il maschile con un fondo femminile e lo stesso accade nella donna. Una società sana consente l’ascolto del sottofondo che completa la disposizione di genere prevalente senza cancellarla. La comunicazione interiore non può che favorire e incentivare le relazioni positive tra i due generi. Antigone rappresenta il rifiuto di tale positiva ambiguità che non chiede la rinuncia o la negazione di nessun polo, ma consente una proficua comunicazione-sintesi. Nella tragedia di Sofocle è rappresentata la negazione, e l’incomunicabilità tra le due figure è il segno di una resecazione interiore proiettata all’esterno. Antigone e Creonte sono l’uno speculare all’altro:

 

«Il germe di tutto il dramma sta nell’incontro tra un uomo e una donna. Nessuna esperienza di cui abbiamo diretta conoscenza è portatrice di un maggiore potenziale conflitto. Essendo inalienabilmente una sola cosa, in virtù dell’umanità che li separa da ogni altra forma di vita, uomo e donna sono allo stesso tempo inalienabilmente diversi. Lo spettro della diversità. Come sappiamo, forma un continuum tra i più sottili. In ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità (ogni incontro, ogni conflitto è, di conseguenza anche una guerra civile all’interno del proprio io ibrido). Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum. Questa riunione della personalità divisa, questa composizione dell’identità, creano una breccia attraverso la quale le forze dell’amore e dell’odio si congiungono».[6]

 

Il tempo attuale è nel segno della separazione da sé e dall’alterità. le innumerevoli tragedie sono il sintomo di una realtà sociale ed economica che ha cancellato la bella unità nella differenza sostituendola con forme manierate e artefatte congegnali al sistema capitalistico. Ovunque si assiste ad una imitazione del femminile e del maschile senza autenticità e relazioni. Estetiche e scelte sono dettate dal sistema, sono curvate dall’industria del maschile e del femminile ad uso e consumo del mercato. La violenza non può che generare se stessa. Senza la letteratura greca e la filosofia l’Occidente è avviato alla decadenza, poiché si priva di opere in cui può guardarsi e pensarsi.

[1] George Steiner, Le Antigoni. Un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’Occidente, Garzanti, 2003, pag. 142.

[2] Ibidem, pagg. 232-233.

[3] Eraclito, frammento 51: «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira».

[4] George Steiner, Le Antigoni, cit., pag. 45.

[5] Ibidem, pag. 93

[6] Ibidem, pagg. 262-263.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken. Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro. L’ontologia del non ancora è la comunità.

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende, le cose cercano il loro poeta […]. Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà, e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare».

E. Bloch

Salvatore Bravo

Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

Nello Spirito dell’utopia di Ernst Bloch il concetto di Eingedenken, rammemorare il futuro, ha una portata teoretica che svela la sua pregnanza concettuale nel tempo presente segnata dalla “dimenticanza” del passato e del futuro. Il concetto di Eingendenk deriva dalla preposizione “in” e dal verbo “gedenken” (‘ricordare’), legato a sua volta a denken (‘pensare’): non a caso le forme più arcaiche presentano la forma ingedenk.

Lo sconfittismo del nostro tempo si connota per la neutralizzazione della memoria storica. La storia nelle sue vicende e vicissitudini, invece, con il concetto di Eingedenken non è consegnata all’oblio ma fonda la metafisica umanistica, la quale ha come centro l’essere umano nella sua concretezza comunitaria. Si intrecciano in un sinolo inestricabile la biografia personale e la storia collettiva che non è persa nel tempo, ma ha la possibilità di essere rivissuta, rammemorata e pensata nelle sue possibilità inespresse. L’ontologia del non ancora è la comunità che pensa il tempo trascorso, non si limita a conteggiare gli eventi sulla linea della storia, ma ne scorge con gli errori le potenzialità progettuali da attuare nel futuro.

In Ernst Bloch la metafisica umanistica vive dell’irraggiamento del passato verso il futuro. Senza la mediazione della coscienza nulla è possibile: le potenzialità sono disperse nel tempo o sono schiacciate dalla gravità dell’economicismo e del fatalismo.

Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. Pertanto solo l’umanità capace di leggere plasticamente il passato può scorgere nelle sue pieghe il futuro. Non si tratta di correggere ciò che fu, o di ripetere in modo ingenuo ciò che è stato, ma di pensare la distanza temporale al fine di poterla comprendere nella sua profondità per estrarne esperienze non completamente compiute o inespresse. Ciò che fu – in tale cornice intenzionale – è vivo nel pensiero che rammemora il passato per poter progettare il futuro a partire dal presente. La storia è il mondo degli uomini e delle donne nella quale la vita prende forma con le sue imperfezioni, deviazioni improvvise e scambi di binari che attendono di essere pensati in modo che possano vivere di nuova luce nel futuro. La prassi è orientata verso il futuro, ma la condizione ontologica del suo operare trasformativo non può che affondare creativamente il suo rizoma nel passato:

«Perciò qui brilla il presentimento di un sapere non ancora cosciente, […] emerge qui un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo, in quanto grande e ancora inesplorata consapevolezza o classe di coscienza di un immemorare, capace di conferire al Wiedererinnerung mondo il suo scopo togliendo di mezzo ogni mera rammemorazione […] o ogni mero alfa del platonismo o dello hegelianismo; perciò si mostra qui l’atteggiamento di un filosofare pragmatistico, rivolto tanto al poter volere a ritroso [das zurück Wollenkönnen des Willens] diretto a ciò che fu, quanto al nuovo, a inserzioni metafisico-morali – atteggiamento illuminato da un mondo che non c’è ancora, immediatamente collocato sul ponte verso il futuro, sul problema, dominato dalla propria volontà, della teleologia».1

Metafisica umanistica

Le parole di Ernst Bloch delineano il fulcro sostanziale della metafisica umanistica. L’essere umano non è un automa che appare passivamente nella storia fino a scomparire. Michel Foucault utilizza un’immagine – in Le parole e le cose – per indicare l’apparire fugace dell’idea di essere umano nella storia: sulla sabbia si può scorgere il volto dell’essere umano portato via velocemente dall’onda.

La metafisica umanistica non è una forma di storicismo, non si limita ad enumerare la storia delle idee con le sue visuali antropologiche che diverranno presto archeologia. Essa ha il suo fondamento veritativo nella natura dell’essere umano curvato nella materialità della storia. L’essere umano media con il pensiero l’esperienza storica, e in tal modo pensa il proprio tempo in modo esteso: il passato si riannoda col presente per orientarsi verso il futuro. La prassi è il catalizzatore del tempo pensato che diviene la luce nelle tenebre del nichilismo e nell’oscurantismo del pessimismo senza speranza ed etica:

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende [alles wartet auf uns], le cose cercano il loro poeta e vogliono essere riferite a noi. Ciò che è accaduto [geschehen], è sempre accaduto solo a metà [halb geschehen], e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare»2

Rammemorare ciò che fu

I morti ritornano nel presente, le idee e le lotte trascorse con il loro tributo di sangue e sacrificio sono nel presente. Rammemorare i “morti” significa farli vivere nel presente: ritornano a noi con il pensiero, per progettare il futuro. Non è un eterno ritorno, ma un ritornare per aprire al futuro, per rompere la «gabbia d’acciaio» che vorrebbe restringere la prospettiva al solo presente sclerotizzato nel ciclo consumo-produzione.

Non è un’operazione archeologica, non si tratta di far affiorare il passato per renderlo “oggetto da esporre”, ma di viverlo nell’attività del pensiero, la quale non si limita alla contemplazione di ciò che fu, ma lo riorienta verso il futuro:

«I morti ritornano in nuove connessioni di senso come pure nel nuovo agire, e la storia così concepita, sottoposta a concetti rivoluzionari che continuano a operare, spinta verso la leggenda e interamente illuminata, diventa la non mai perduta funzione nella sua pienezza di testimonianza della rivoluzione e dell’Apocalisse».3

La metafisica umanistica non è una semplice forma di coscienzialismo, in quanto conserva il materialismo storico liberato dai ceppi del determinismo e dai semplicismi delle proiezioni-previsioni degli economisti presi dalle maglie stringenti e vacue della crematistica. Il nostro presente vorrebbe negare la grandezza dell’essere umano riducendolo a semplice archeologia senza futuro.

L’essere umano non è un osso come afferma Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, per cui dinanzi ai riduzionismi che avanzano è necessario opporre e riproporre la metafisica umanistica che riporti la centralità della cura dell’essere umano.

Senza la prassi e la teoretica l’umanità non può che cadere in forme di manipolazione tecnocratica, il cui scopo è impedire l’ascolto profetico delle voci del passato che giungono fino a noi. La metafisica umanistica si traduce in un modello economico che ha come centro l’essere umano. L’economia con fondamento umanistico consente la fioritura dell’umanità, accoglie la pluralità nella concretezza dell’universale. Stabilisce fini alla misura della natura umana, la quale è fondata sul limite, allo scopo di dare forma e identità al singolo nella comunità con la partecipazione consapevole alla produzione. L’ostilità verso ogni forma di umanesimo rivela il dominio capitalistico nella sua verità nichilistica e distruttiva.

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro:

«Ma per sollevarsi oltre l’annientamento del mondo, la vita dell’anima deve diventare “pronta” [fertig] nel senso più profondo, andando a fissare felicemente la gomena alla banchina dell’al di là, onde il suo plasma germinale non sia trascinato nell’abisso della morte eterna, e non si perda la meta verso cui è organizzata la vita terrena: la vita eterna, l’immortalità anche transcosmologica, la realtà unica del regno delle anime, la restitutio in integrum fuori dal labirinto del mondo – a causa della pietà di Satana».4

1 E. Bloch, “Über die Gedankenatmosphäre dieser Zeit”, in Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 255; il passo si trova in tradotto in alcune parti a cura di S. Marchesoni in E. Bloch, W. Benjamin, Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, Mimesis, Milano 2016, qui, p. 43

2 Ibidem, pag. 34.

3 E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 33.

4 E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 442.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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La “cancel culture” procede spedita. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo.

Salvatore Bravo

La cancel culture procede spedita

Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone,
ma solo il
profitto deve guidare il mondo.

Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.


Cancel culture

La Howard University ha ridimensionato gli studi classici. Inoltre, largo spazio è stato dato dai media alle tesi del prof. Dan-el Padilla Peralta, docente a Princeton, originario della Repubblica Dominicana, il quale ha individuato nella cultura dell’antichità il fondamento del suprematismo bianco. La cancel culture procede spedita, si inneggia alla libertà e alla difesa dei diritti delle minoranze, la causa di ogni male è individuato nelle civiltà passate. Il presente è l’incipit di un nuovo mondo nel quale ogni discriminazione è destinata a scomparire. L’analisi ossessiva del passato, sempre negativa, il giudizio esemplificato teso a cancellare ogni possibile comparazione contrastiva tra il modello economico contemporaneo e modelli di altre civiltà, ha lo scopo di ipostatizzare il presente, di renderlo immacolato e scevro da ogni macchia e critica. Il sistema opera per cancellazione, utilizza nobili ragioni per fini ideologici. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo. Libertà e benessere sono proporzionali al censo, chi non ce la fa è lasciato indietro, è colpevole di diserzione o semplicemente non è all’altezza del migliore dei mondi possibili. In questo clima di conservazione e limitazione del pensiero teoretico e divergente vi sono eccezioni che aiutano a comprendere il tempo presente. Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta:

«Il cosiddetto “progresso economico” sta infatti costando molto caro all’Occidente in termini di qualità spirituale della vita per le generazioni attuali, e di speranza di vita per le generazioni future, così come sta costando caro da parecchio tempo alle centinaia di milioni di poveri del mondo non occidentale».1

 

Luca Grecchi e lo storicismo crociano

Luca Grecchi nuota in senso contrario. Gli antichi Greci sono il paradigma con cui pensare il presente e comprenderlo. La cultura occidentale è cristiana e greca, oggi entrambe sono rimosse dall’orizzonte etico e culturale. Per valorizzare il pensiero greco bisogna uscire dalla trappola dello storicismo crociano per il quale ciò che viene dopo è più vero di ciò che viene prima.

La verità sfugge alle maglie della successione temporale, essa “appare” in epoche differenti, può scompare nelle vicissitudini storiche, ma la verità attraversa lo storicismo, lo fende per mostrare che il dopo può essere meno vero del prima.

Il mondo greco ci insegna che una civiltà è eccellente, se è curvata sulla cura dell’essere umano e del ben vivere, se si confronta con le spinte distruttrici presenti in essa.

Nel mondo prefilosofico i Greci non si occupavano ingenuamente del cosmo e degli dèi, ma in essi proiettavano le dinamiche umane. In tal mondo oggettivavano l’umano con il suo caos per armonizzare la comunità e fondarla su solide fondamenta veritative. Il centro del pensiero e della prassi era l’essere umano nella comunità. Le forze cosmiche e divine erano interpretate in modo olistico e dinamico: in esse si rifletteva la vita della comunità; il sapere era finalizzato alla buona prassi politica:

«Nella letteratura prefilosofca era infatti presente non tanto la contemplazione disinteressata del cosmo, quanto un tentativo di unificazione del molteplice e di armonizzazione del caos, operato proprio dall’uomo. L’uomo richiedeva infatti di conoscere l’ordine del cosmo per potervi poi vivere in modo più conforme alla propria essenza razionale, morale e simbolica. È errata pertanto la tesi di chi sostiene che l’uomo avrebbe ricercato la contemplazione del cosmo, nella Grecia, solo per poter poi vivere in modo più conforme a tale ordine. La natura, il cosmo, segnarono indubbiamente, con le loro strutture, i limiti dell’azione umana. All’interno di questi limiti, però, l’uomo operò sempre per comprendere e realizzare nel modo più compiuto la propria essenza».2

 

Non fu filosofia ontocentrica

Non fu la filosofia greca ontocentrica, in quanto la riflessione sull’essere è stata funzionale a codificare la buona vita. L’essere è sempre stato inserito all’interno della concretezza della buona vita. L’essere, metafora della comunità stabile e delle buone leggi rispettose della natura, è stato un tema non secondario dei grandi filosofi classici, i quali hanno utilizzato un nuovo linguaggio per l’umanesimo greco, lo hanno categorizzato e concettualizzato per affinarlo e per criticare la crematistica che minacciava la comunità. L’essere umano, dunque, è sempre stata la priorità del mondo greco:

«La riflessione dell’essere fu molto importante nel pensiero classico. Essa infatti occupa un posto rilevante non solo nel pensiero di Parmenide, ma anche nel pensiero di Platone ed Aristotele (sebbene si sia poi sempre più diradata nell’ellenismo). Tuttavia l’essere costituì, per utilizzare una metafora, la semplice cornice del quadro, infatti, rimase sempre l’uomo».3

Ha ben detto Luca Grecchi: la grecità fu umanesimo, per cui da ciò comprendiamo le ragioni strutturali dell’attacco alla cultura classica. Essa, con la sua semplice esistenza, già denuncia le derive nichilistiche e crematistiche della globalizzazione neoliberista. Il mondo classico è divergente rispetto ai nostri malinconici tempi, per cui la globalizzazione che vorrebbe eternizzarsi eliminando ogni dialettica vorrebbe ridurre al silenzio una civiltà che smentisce la presunta superiorità del neoliberismo con il suo feticismo delle merci. Una civiltà è viva, se le tendenze crematistiche incontrano il limite positivo del logos, altrimenti è condannata al dissolvimento. La nostra realtà sociale è adialettica, pertanto rischia l’abisso:

«Ora: non vogliamo affatto negare che Marx avesse ragione nel sottolineare la specificità del modo di produzione capitalistico rispetto ai modi di produzione precedenti. Ciò nonostante, non ci pare che la discontinuità fra il modo di produzione antico ed il modo di produzione capitalistico sia tale da invalidare tout court le proposte teoretiche, ad esempio, di Platone ed Aristotele. Infatti, come i due grandi filosofi hanno mostrato, la società greca era certo gerarchica, elitaria ed aristocratica, ma solo per la presenza centrale in essa della crematistica, presenza che costituisce il nesso di continuità fra pressoché tutti i principali modi di produzione storicamente sviluppatisi. Non a caso Platone ed Aristotele – ma anche prima di loro, Solone ed altri – attribuirono proprio alla crematistica, ossia alla ricerca del massimo arricchimento privato, le cause dei mali della società greca, le quali sono nella sostanza differenti rispetto a quelle della società capitalistica, anch’essa infatti gerarchica, elitaria ed aristocratica».4

La dimostrazione della generale codificazione umanistica della civiltà greca e in particolare della filosofia è la presenza di pochi pensatori relativisti e sostanzialmente nichilisti:

«Altrettanto tranquillamente si può affermare che l’unica eccezione in tal senso, nel pensiero greco, fu costituita da alcuni esponenti della sofistica e della eristica. Una eccezione, però, conferma la regola, e la regola, in questo caso, conferma proprio la tesi qui esposta. Tale tesi sostiene, in pratica, che la Grecità si costituì essenzialmente come opera di resistenza culturale e politica all’antiumanesimo del denaro, dannoso per gli uomini e per la natura».5

L’eccezione è una conferma della regola, non la smentisce, è una prova evidente della ricostruzione e dell’interpretazione svolta da Luca Grecchi e sostenuta, anche, da grandi studiosi come Rodolfo Mondolfo, Costanzo Preve, Enrico Berti ecc.

Solo se si decodifica chiaramente il pensiero greco nella sua postura umanistica, si può ben comprendere la necessità di rileggere e studiare gli antichi Greci, non per una vuota idolatria, ma per capire il presente nel solco di un’identità europea e occidentale da trasformare in prassi e non certo in erudizione filologica e ritrovare, così, il sentiero interrotto che conduce alla felicità:

«In questa situazione, perché dovrebbe avere ancora senso dirci Greci? Ciò ha ancora senso proprio perché gli antichi Greci, come dicevamo in precedenza, furono coloro che per primi – o maggiormente – posero l’uomo al centro dell’essere, ossia posero la massima cura alla felicità dell’uomo nel proprio contesto sociale, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla natura. Seguendo gli antichi Greci, potremmo esercitare la sola possibilità che ci resta di arrestare il fiume antiumanistico prodotto dalla crematistica, la cui hybris rischia di distruggere l’uomo e il cosmo».6

 

Felicità

La ricerca della felicità, la valorizzazione dei talenti sul comune sostrato della natura umana razionale e comunitaria è negata in modo quotidiano nel sistema capitalistico. Gli effetti sono palesi, non necessitano di particolari capacità critiche per riconoscerli. Nel tempo in cui trasgredire è solo edonismo acquisitivo, gli antichi Greci ci riportano alla necessità della felicità quale esperienza comunitaria e razionale senza di essa nessuna vita è degna di essere vissuta, ma si consuma nel vespaio della violenza competitiva. In tale cornice l’identità si disperde, diviene liquida fino ad evaporare, alla fine non resta che il niente. Studiare i Greci nel tempo ordinario della distruzione dell’umano ha un senso più profondo che mai, in quanto nessun farmaco può restituirci i fondamenti senza i quali non siamo che fuscelli nella tempesta del capitale destinati a scomparire tra i flutti del PIL senza speranza.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica:

«L’umanesimo, inteso, come cura dell’uomo rispettosa del cosmo, è a nostro avviso il primo pilastro della Grecità. Questo pilastro è però strutturalmente connesso ad un secondo pilastro, costituito da quella che potremmo definire anticramatisticagreca. I due pilastri sono connessi in quanto la crematistica, intesa come arte di far denaro, è criticata da pressoché tutto il pensiero greco proprio in quanto innaturale, ossia contraria alla natura umana”».7

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.

Salvatore Bravo

1 Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, pag. 66.

2 Ibidem, pag. 39.

3 Ibidem, pag. 44.

4 Ibidem, pag. 27.

5 Ibidem, pag. 57.

6 Ibidem, pag. 73.

7 Ibidem, pag. 53.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
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La società di Ernesto Balducci. L’uomo nuovo è l’uomo conviviale, che non domina il mondo. Il suo sapere non è potere che stupra e saccheggia il mondo, ma è ascolto. La libertà non è nell’accumulo crematistico. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La libertà è polifonica. Nella profondità dell’anima vi è il “dono”, trasgressione massima al capitalismo. La scelta è tra società del dono o società dell’utile. Senza il dono non vi è futuro per nessuno.


Salvatore Bravo

Ernesto Balducci: società religiosa e cristica

La distinzione tra società religiosa e società cristica è una categoria interpretativa con la quale Ernesto Balducci distingue il dominio puntellato dalla religione “mezzo” per giustificare la gerarchia e la reificazione e la figura di Cristo, il quale è stato un rivoluzionario: ha scacciato i mercanti dal tempio e ha rovesciato – con la sua testimonianza – le gerarchie, indicando nella fraterna convivialità l’unico percorso per realizzare e vivere in pienezza la propria e l’altrui umanità. Le gerarchie e la logica acquisitiva/proprietaria estraniano, rendono le soggettività nemiche, veicolano il conflitto quale malinconica normalità dell’infelice convivenza tra gli uomini. Senza indagine critica e razionale non vi può essere l’esodo dalla distruttività del capitalismo.

L’intelligenza competitiva ha realizzato la “società religiosa”: si è in competizione con l’alterità e con se stessi, si è perennemente sotto il giogo dell’illimitato.

La nuova cattiva religione dell’economicismo è lo sgabello del dominio. Il dramma è che non vi è alcun paradigma alternativo nel tempo attuale che possa svelare il carattere clericale del potere della finanza. Si procede a smantellare la cultura critica in modo da omologare l’orizzonte linguistico: tutto dev’essere come la notte in cui le vacche sono tutte nere. L’indistinguibile consente all’ideologia della finanza di rappresentarsi come l’unica verità possibile. Ci si inchina all’altare del valore di scambio: oltre la finanza che si è impiantata nel cuore e nella mente non vi è altro. In tempi in cui l’antiumanesimo è prassi ordinaria, la rilettura dei testi di Ernesto Balducci può riattivare le energie sopite dalla plumbea condizione storica attuale. Francesco d’Assisi, nell’opera di E. Balducci, è l’uomo nuovo:

«Ma nel concedere a Francesco quanto chiedeva, Onorio non intese affatto annullare l’‘indulgenza d’oltremare’, che anzi, tornato a Roma con la sua curia, rimise in moto la macchina organizzativa e propagandistica delle crociate. Il 23 gennaio 1217 scrisse ai fedeli della Lombardia e della Toscana una lettera nella quale la sconcertante teologia del suo predecessore è condotta al limite: il sangue di Cristo vi appare ridotto a un titolo catastale».[1]

Francesco d’Assisi ha insegnato una eterna verità: l’uomo nuovo è l’uomo conviviale, non domina il mondo, il suo sapere non è potere che trasforma, stupra e saccheggia il creato, ma è ascolto, “creatura tra le creature”, vive una razionalità oceanica in cui la vita ritrova la parola. La libertà non è nell’accumulo crematistico, ma nell’uscire dal mondo per testimoniare la convivialità cosmica.

Francesco d’Assisi di E. Balducci non è una biografia, ma in controluce è una radicale critica alla società contemporanea e alla chiesa cattolica che ha posto la conservazione al centro e non certo Cristo. La Chiesa ha utilizzato Cristo come “un titolo catastale”, un mezzo per giustificare “equilibri sociali” e riscuotere interessi sul titolo “Cristo” quotato nel borsino del mondo. Problema annoso, vi è un chiesa invisibile e una chiesa pronta a schierarsi con i poteri forti.

La libertà in Francesco d’Assisi

Francesco d’Assisi è l’uomo nuovo di ogni epoca, figura carsica pronta a materializzarsi in ogni tempo, è l’uomo nella sua purezza etica che spezza la violenza del valore di scambio.

Ernesto Balducci lo spoglia del titolo di “Santo”: non è l’uomo di una religione o di un’epoca, ma è l’uomo profondo e universale, travalica i confini e le categorie religiose e ideologiche per essere “semplicemente un uomo”:

«La “libertà della gloria” non è una semplice condizione di libertà psicologica, quella, ad esempio, concessa ai poeti, che anche loro rendono accessibili i segreti delle cose (ma si tratta di segreti, per così dire, sul nostro versante, che dilatano l’orizzonte del sentimento senza sradicarlo dal suo centro), è un abitare nel mondo ma dal lato di Dio, e cioè dal lato da cui le cose si vedono prima che entrino dentro la parabola entropica che le porta alla consunzione. Ecco perché Francesco aveva riguardo per le cose inanimate, e parlava con loro ottenendone obbedienza per via di persuasione e non con l’imperio del taumaturgo».[2]

La libertà è relazione con gli esseri animati e inanimati, è lasciare che essi vivano e muoiano nella loro pienezza ontologica. Ritrarsi dall’uso, perché il mondo sia è la legge della libertà. Se non si rende l’altro libero non si è liberi. La libertà rompe il circuito entropico delle dipendenze: usare l’altro come mezzo significa dipendere e nello stesso tempo negarsi. L’essere umano è relazione d’ascolto. Chi non concepisce che l’utilizzo porta il silenzio nella sua esistenza. La violenza germina nel silenzio dell’altro. La libertà è polifonica, si spengono in essa la tracotanza degli oratores, e al suo posto gemmano le parole e le voci nell’incontro, si è umili nella libertà della convivialità:

 «La vera radice di questa filosofia è la “libertà”. “Il sommo studio di Francesco era l’esistere libero da tutte le cose di questo mondo” (1 Cel, 71). In quanto è una forma di possesso, la scienza, al pari di ogni altra ricchezza, imprigiona lo spirito in uno stato di dipendenza dalle cose che si sanno, e cioè da quel patrimonio di cognizioni e di abilità che accomuna nel medesimo privilegio il ceto dei dotti, chierici o laici, e apre nella società la discriminazione fra i letterati e gli ‘idioti’».[3]

La libertà è concreta, poiché Francesco d’Assisi è egli stesso “porziuncola”, si rende “piccolo”, affinché il creato possa svelarsi nel suo volto: nulla è separato, ma tutto è in relazione. La condivisione comunitaria non è solo una prospettiva, un “sentire misticheggiante”, ma è l’adesione alla verità della natura, in essa tutto è relazione, nulla è separato. L’essere umano è parte viva dell’unità, la felicità è nel vivere la totalità dinamica:

«Nel far uso di questa sua capacità di stringere accordi con le creature, l’intento di Francesco era di riconciliare tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, quelle animate e quelle inanimate, spezzando le pareti di separazione, anche quelle create dall’istinto sacrale. La nascita di Gesù gli sembrava, nell’ottica della fede, il vero momento della festa cosmica. Come alla Verna l’umanità del Cristo crocifisso, sciogliendosi dalle regali raffigurazioni bizantine, si impresse in modo misterioso nella stessa carne di Francesco e tornò ad essere, anche nella tradizione devota, l’emblema dell’umanità sofferente, così a Greccio per volontà di Francesco, una volta tanto, la liturgia clericale del Natale ritrovò la verità umana, sociale e fisica della nascita di Gesù».[4]

La festa cosmica non è arretramento nell’arcaico o nell’animismo, ma è la comunione del sentire soffocata e vilipesa dalla sovrastruttura acquisitiva.

Dono e profondità

Nulla fa più paura all’essere umano che la sua profondità. In quell’abisso vi è il male, ma vi sono le sorgenti della verità e del bene che abbattono l’utilitarismo mercantile che divora le vite e le curva al solo valore di scambio. Nella profondità dell’anima vi è “il dono”, trasgressione massima al capitalismo e inibita con la pervasiva logica del calcolo:

“I suoi rapporti di fraternità con le creature non sono da intendere come giochi poetici, ma come esperimenti vissuti di un possibile rapporto tra l’uomo e il suo ambiente vitale. Essi ci suggeriscono non un regresso verso l’arcaico, ma uno spostamento dell’esistenza in profondità, lungo l’asse ontologico. I rapporti economici della società di mercato, questo voglio dire, non vanno demonizzati come a volte sembrò fare lo stesso Francesco. In base alla divisione del lavoro lo scambio dei prodotti mira a realizzare l’utile per il maggior numero di persone possibile, come è nelle esigenze dell’uomo in quanto essere sociale. Ma nel regime reale dell’economia, che cosa avviene? Avviene che le cose si allontanano sempre di più dal loro valore di uso, di oggetti di bisogno, e acquistano il valore di scambio, nel quale la cosa, diventata merce, non è più l’equivalente di se stessa, ma tanto vale quanto è stabilito dalla misura di scambio che è il denaro. Questa mercificazione esce di controllo e assume per suo conto il controllo di tutto, arrivando ad incidere nella stessa modalità percettiva con cui l’uomo si mette in diretto rapporto con le cose, le quali perdono ai suoi occhi la loro nativa consistenza e la loro possibilità di rispondere al suo bisogno».[5]

Nel dono si rivela “Dio nell’uomo” e “l’uomo in Dio”: concetti che si sottraggono ad ogni sterile e vacua categorizzazione. La definizione geometrica è una forma di dominio a cui bisogna rinunciare, perché dio e l’uomo possano essere nella parola, ma nel contempo il disvelamento è inesauribile, non è contenibile in formule da usare per una “società religiosa”. Ernesto Balducci ricorda in L’uomo planetario nel 1943 in Groenlandia[6] la nave Dorchester colpita da un siluro tedesco, quattro cappellani militari: un rabbino, un sacerdote cattolico e due pastori evangelici avevano ceduto la loro cintura di salvezza ad altri. Decisero di legarsi l’un l’altro e di lasciarsi cadere nell’abisso insieme, mentre pregavano. Questa immagine non ha mai abbandonato Ernesto Balducci. Il dio del dono è nella testimonianza vivente dei quattro cappellani che si donano per vivere l’eternità e l’abbondanza della vita. Senza il dono non vi è salvezza, ma solo il contrarsi del tempo nella violenza dell’isolamento e dell’astratto nel quale tutto muore. Il bivio a cui siamo giunti è la scelta tra società del dono o dell’utile, senza il dono non vi è futuro per nessuno.

Salvatore Bravo

[1] Ernesto Balducci, Francesco d’Assisi, Giunti Editore, 2014, p. 96.

[2] Ibidem, p. 136

[3] Ibidem, p. 107

[4] Ibidem, p. 142

[5] Ibidem, p. 135

[6] Ernesto Balducci, L’uomo planetario, Giunti Editore, 2005, p. 64.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Paul Gille – L’uomo è un essere pensante, dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere il giusto. Avere un ideale, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia, ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana. Vivere solo per se stessi è contro natura, l’indipendenza cinica è un’aberrazione. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Salvatore Bravo

A proposito di Paul Gille

 

Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana.

Vivere solo per se stessi è contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Paul Gille

 

L’introduzione di Saverio Francesco Merlino al testo di Paul Gille

Gli ultimi anni di Saverio Francesco Merlino sono poco conosciuti, non si hanno molte notizie in merito. Ciò malgrado, nel 1925 scrive la prefazione al testo dell’amico Paul Gille Abbozzo di una filosofia della dignità umana, edito in Italia nel 1926. La prefazione è doppiamente importante, in quanto è un omaggio ad un amico di lotta, di cui condivide concetti e plessi teorici quali: l’anti-economicismo, il capitalismo come monopolio e la libertà come potenzialità umana da concretizzare con la rivoluzione anarchica. Contro ogni pessimismo e nichilismo Merlino afferma nella prefazione che se l’essere umano fosse una creatura guidata da “sentimenti primitivi” la comunità non sarebbe possibile. Lo sarebbe a condizione di un apparato di difesa esteso che dovrebbe difendere ogni cittadino dall’aggressione altrui. Ma così non è: la comunità esiste malgrado le contraddizioni e testimonia che non è riducibile al pessimismo antropologico liberista. Vi è in ogni essere umano un embrione di dignità personale e rispetto dell’altro che si potenzia con l’educazione e con la prassi paideutica. L’essere umano è un essere sociale e politico, ma tali prerogative umane necessitano di condizioni politiche adeguate, affinché possano attuarsi. La libertà è autonomia e capacità di fondare la propria esistenza su comuni fondamenta comunitarie. La “libertà liberista” è, invece, sopraffazione, mentre la libertà socialista ed anarchica è il riconoscimento consapevole della pari dignità di ogni uomo. Nessuna esistenza può essere scissa dalla fratellanza riconosciuta e consapevole. Merlino riconosce un embrione di giustizia e comunità in ogni essere umano, la società è a misura di essere umano se pone le condizioni per la sua umanizzazione:

 

«Infine, se l’uomo non fosse dotato di questo sentimento primitivo di dignità a difesa personale, che è l’embrione della giustizia, la convivenza non sarebbe stata e non sarebbe possibile: ammenoché ogni individuo non fosse costantemente accompagnato passo per passo da un carabiniere, che lo proteggesse dalle altrui violenze, e da un giudice pronto a dirimere tutte le contese e beghe, in cui egli si può trovare impigliato col suo prossimo: nel qual caso, poi sorgerebbe più arduo e assillante che mai il problema: chi ci protegge da’ nostri protettori? come salvaguardare la nostra libertà, il nostro diritto, la nostra personalità, dagli abusi e dagli arbitrii dell’autorità, a cui ci troviamo sottomessi?».[1]

 

L’egoismo personale può essere sublimato in solidarietà con una attenta educazione. La dignità personale coesiste e trova il suo senso nella dignità collettiva. Non si tratta di solidarietà astratta, ma di prassi, e dunque la solidarietà diviene il fondamento metafisico che guida la vita sociale ed economica. Si impara ad essere solidali con l’affinamento della natura umana nella storia. Merlino, nell’opera di Gille, contempla se stesso e la sua azione politica mai scissa da un implicita metafisica. Aggiunge infatti nell’introduzione:

 

«I vincoli di parentela, i rapporti di amicizia e di vicinato, gli affetti vari e il sorgere d’interessi collettivi (comuni a un dato aggregato) producono la formazione di sentimenti, di costumi ecc., che mutano il sentimento primitivo di dignità individuale, che potrebbe essere anche puro egoismo, in un sentimento ego-altruistico di dignità collettiva (solidarietà nazionale, spirito di campanile ecc.), e contribuiscono anche essi a cementare la società, che può perciò reggersi in gran parte, come si regge, per il libero gioco delle volontà, delle energie, de’ bisogni degl’individui, e per virtù de’ sentimenti affettivi che mantengono uniti gli uomini più e meglio che non possano fare le leggi, la forza organizzata gerarchicamente e disciplinata, e le varie coazioni economiche, militari e poliziesche! Così il sentimento individuale della dignità personale si viene approfondendo e raffinando nell’animo umano, e si estende dall’individuo al gruppo e all’aggregato politico (nazione o Stato), da’ rapporti privati e rapporti tra le classi e tra governati e governanti, e tra popoli e popoli, e da ultimo da sentimento particolare (individuale, regionale o nazionale) si trasforma nel sentimento universale della dignità umana, ossia comune a tutti gli uomini, che ciascuno sente per sé e per gli altri, e che comprende in sé, e riassume, valorizzandoli, i sentimenti di libertà e di responsabilità, di reciprocanza, di solidarietà, di umanità e di giustizia. Questo, mi pare, il concetto fondamentale dell’opera del Gille, ricca di osservazioni acute e argute, e atta a sollevare gli animi dalla morta gora della società presente alla contemplazione di un avvenire migliore, che noi tutti dobbiamo affrettare coi voti e con le opere».

 

Paul Gille[2] e l’anarchia

Vi sono modelli di anarchia e libertà, il momento storico attuale utilizza il termine anarchia in modo improprio ed ideologico: l’anarchia sarebbe scissione da ogni vincolo etico e politico. La versione liberista dell’anarchia è usata per affermare l’individualismo astratto e tracotante, funzionale all’aggressività liberista. L’anarchia nel sistema liberista è il disconoscimento di ogni comune fondamento umano; si perseguirebbero solo interessi privati. Paul Gille nel 1926 guarda invece con gli occhi del pensatore l’anomia anarchica liberista e la distingue dalla anarchia autentica, la quale è solidale ed anti-individualista. L’anarchia, nell’ottica di Paul Gille, deve porre le condizioni per la prassi della libertà umana. Non vi può essere individualità che nella comunità liberata dall’autoritarismo verticistico :

 

«Ma questa an-archia razionale è l’antitesi dell’anarchia individualista e particolarista in seno alla quale viviamo. Tra l’una e l’altra c’è antinomia, c’è contrasto e opposizione di principio. Qui l’assolutismo, l’egoismo individuale e collettivo, e ipocrita o brutale, la violenza autoritaria sotto tutte le sue forme; là, la ragione impersonale, universale, e il diritto umano: la libertà nella giustizia. È una sofisticazione sacrilega, un sofisma verbale, un gioco di parole, quello con cui ci si presentano troppo spesso come atti innovatori, esemplari e “rivoluzionari”, dei gesti di pura violenza impulsiva e cieca, degli atti di autoritarismo brutale che non escono dalle consuetudini della vita attuale».[3]

L’età della sofisticazione assimila i concetti rivoluzionari per curvarli ai bisogni del capitale. La forza perversa del capitalismo è nel suo vuoto metafisico: non vi è fondazione veritativa, pertanto tutto si trasforma in un gioco verbale per la propaganda in funzione del valore di scambio e del dominio muscolare.

 

Oltre i semplicismi

Il semplicismo marxista è pensato e oggetto di critica radicale: l’essere umano non è passivamente in attesa delle leggi della storia, ne è condizionato, ma non determinato. Le circostanze economiche devono essere mediate dal soggetto mediante astrazione e concettualizzazione con cui ridisegnare le prospettive storiche future e trasformare in atto ciò che è in potenza:

 

«Il semplicismo economico, il semplicismo materialista di Marx, è tanto falso, tanto assurdo quanto il semplicismo degli idealisti puri. Negando la causalità della coscienza e della volontà, esso disconosce questa verità biologica elementare che l’uomo, essere vivente, non è puramente passivo, che è dotato d’attività, di movimento proprio, d’iniziativa; esso disconosce questa verità psicologica, che ogni azione cosciente è un fatto complesso, in cui interviene, come sorgente, come fattore efficiente, il fattore personale, il fattore psichico; esso disconosce infine questa verità sociologica, che la vita sociale riposa sulla psicologia collettiva, dalla quale emana, per così dire, come un fiore dal suo stelo».[4]

 

L’automatismo economicistico riduce l’essere umano a semplice animale sottoposto alle leggi fisiologiche. Un certo marxismo fa delle leggi economiche la struttura fisiologica che determina la storia. L’anti-umanesimo di tale economicismo è contestato dall’anarchico Paul Gille, in quanto l’essere umano ha coscienza di sé ed è un essere pensante. I condizionamenti non possono eliminare la natura solidale e pensante dell’essere umano, il pensiero è verticalità metafisica, poiché con esso il soggetto si eleva dai semplici calcoli egoistici per incontrare gli ideali di giustizia. Paul Gille interpreta la natura tutta come un movimento energetico che tende all’aggregazione, dall’atomo all’essere umano vi è una traiettoria che di grado in grado, di salto in salto, conduce alla libertà consapevole dell’essere umano che non nega il soggetto ma lo afferma. Si è liberi nel riconoscimento della reciproca condizione umana. Ogni individualismo autoritario nega la specificità umana e offende la dignità umana. La coscienza pensante è incontro con l’altro che lo eleva gradualmente dalla singolarità alla comunità solidale:

 

“Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana».[5]

 

L’egoismo e l’individualismo sono irrazionali, in quanto l’essere umano è intrinsecamente legato –mediante un’infinita serie di fili invisibili – alla comunità, la quale è il centro da cui emerge la singolarità nella relazione sincretica con l’ambiente, il quale non è un contenitore, ma realtà relazionale e plastica. Nell’ordito delle intenzionalità il soggetto si riconosce e si differenzia, ma non può prescindere da essi, altrimenti sarebbe un puro nulla. L’individualismo economicistico è irrazionalità mascherata dalla razionalità del calcolo:

«Vivere solo per se stessi è, quindi, un’utopia contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio».[6]

 

 Critica al concetto di causalità

Paul Gille utilizza la deduzione sociale delle categorie per smontare criticamente l’organicità dello scientismo e dell’economicismo al sistema liberista ed autoritario. Il concetto di causalità è la traduzione in campo economico e scientifico dell’autoritarismo agente, la causalità è in forma astratta ed impersonale l’autorità che guida e determina i destini del mondo. Tagliare la testa al re significa eliminare il semplicismo autoritario che si cela dietro il concetto di causalità lineare:

“Determinismo non vuol dire fatalismo, — ecco la conclusione a cui noi giungiamo. La vecchia concezione autoritaria della causalità cade, per far posto a un’eziologia dei fenomeni che non vede dappertutto che dei complessi di complessi, delle risultanti, delle interferenze di fattori intrecciati all’infinito, intus et extra. E se niente si crea e nihilo, è pur vero che non esiste alcuna equazione da causa ad effetto, che un effetto non si deduce da una causa, che ogni effetto ha molte cause, come ogni causa molti effetti, e che ciascuna componente, ciascun centro autonomo di forza, ha, secondo il principio di Galileo, la sua funzione indipendente e il suo potere d’azione, e serba, inalienabile, irriducibile, inesorabile, nel suo dinamismo intimo, la spontaneità della vita».[7]

 

Al semplicismo causale bisogna opporre la complessità delle cause che interagiscono, e mediate dal pensiero umano creano il nuovo. Non si tratta di una libertà assoluta, ma condizionata, l’essere umano crea la sua libertà con l’esercizio del pensiero complesso che si genera all’interno di condizionamenti, i quali non passivizzano il pensiero:

 

“È così che la coscienza, autonoma, crea progressivamente la libertà. Sperimentalmente, a poco a poco, essa accumula le astrazioni, i dati, le verità, sempre più sintetiche, sempre più generali, per elevarsi finalmente, nell’umanità, sino alle verità universali che danno all’uomo la chiave dei fenomeni e il potere scientifico».[8]

 

La libertà è comunitaria, le soggettività nello scambio pensato dei dati spingono spontaneamente la loro coscienza oltre i pregiudizi e le sudditanze preconcette per costruire collettivamente percorsi di consapevolezza sempre rivedibili:

«Evidentemente, lo sappiamo, nelle determinazioni più spontanee e più volontarie, c’è una parte di influenza esteriore, ma se l’azione dell’ambiente è certa (checché ne pensi l’Evoluzionismo mistico), l’ambiente non è tutto; l’energia increata dell’essere vivente — increata e, perciò, irreducibile all’ambiente — ha anch’essa la sua funzione; e l’autonomia che ne risulta va crescendo collo sviluppo della coscienza, della lucidità e del sapere, per giungere alla sua pienezza attraverso la conoscenza scientifica del mondo, fine di tutte le illusioni autoritarie e liberazione da ogni assolutismo».[9]

Paul Gille e Saverio Merlino condividono una visione moderatamente ottimista della natura umana, per entrambi la natura comunitaria è ciò che specificatamente connota l’essere umano. La natura umana può essere deviata e condizionata da vecchie e nuove forme di autoritarismo, ma essa è indistruttibile, perché senza di essa l’essere umano non sarebbe tale. Libertà è lavoro dello spirito, che si esplica nella storia e nelle istituzioni. Il pessimismo antropologico attuale è ideologico, in quanto vorrebbe tacitare il messaggio filosofico che giunge a noi, quale dono eterno che invita ad una razionale ribellione contro l’ordine liberista presente.

 

Salvatore Bravo

 

Note

[1] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, traduzione di L. Fabbri, prefazione di F.S. Merlino, Linotipia Ferruccio Ghidoni, Milano 1926.

[2] Paul Gille professore a l’Insitut des hautes études de Belgique.

[3] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, cit., pag. 37.

[4] Ibidem, p. 8.

[5] Ibidem, p. 9.

[6] Ibidem, p. 25.

[7] Ibidem, p. 19.

[8] Ibidem, pp. 21-22.

[9] Ibidem, p. 43.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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