Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Theodor Ludwig Adorno02
Minima moralia

Minima moralia

Nei giorni del consumo totale le parole sembrano sparire, sono consumate dall’industria culturale. Diventano flatus vocis, sono mezzi per la pervasività mercantile, sono parole per un soggetto preda dei crampi del pensiero. La capacità e la motivazione allo scandaglio con il pensiero sembrano ridursi: il tramonto dell’occidente è il silenzio della sua identità. Gli autori che hanno rimasticato per creare nuovi possibili scenari non parlano con il presente, sono reliquie polverose a cui si irride e nel migliore dei casi sono documenti del passato a cui non ci si relaziona: semplicemente si archiviano.
La dimenticanza è la dimensione del presente: l’attività dev’essere rivolta al presente, al consumo immediato senza memoria.
Il pensiero è elaborazione di esperienza, vive nella prassi, ma necessita della sospensione del tempo del consumo per rappresentarsi il vissuto su cui operare ed essere metacognizione.
Si assiste invece ad una avversione preconcetta verso ogni attività che esiga ripensamenti, riconfigurazione, ricategorizzazione di mappe del pensiero. L’imperativo è ormai oltre il consumo per il consumo: è l’attività per l’attività, anche quando questa non consuma o non produce in modo da impedire che il soggetto emerga e possa diventare consapevole del suo esistere e porsi domande.
L’attività per l’attività è un mezzo ideologico di controllo. Il tempo è sempre pieno di attività con cui si impedisce la metariflessione e si educa ad essere disponibili “sempre” all’eterno movimento della globalizzazione. La globalizzazione del capitale finanziario – già descritta da Marx nel terzo capitolo del Capitale – ha la sua triste paideia, la sua diseducazione alla dialettica, mediante la costrizione all’attività: lo smanettare su pc, smartphone mentre si è seduti, spesso ha la sola funzione di formare alle dipendenze, mascherata da educazione digitale. Adorno, in Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, ci dona concetti per la comprensione dei tempi attuali. Il capitalismo finanziario è il regno dell’astratto. Adorno, invece, coerente con l’elaborazione marxiana, ci insegna che il soggetto non è un accidente sostanziale da cui avviare l’indagine; piuttosto bisogna spiegare il soggetto partendo dalle condizioni materiali e dunque dai modi di produzione per capire il processo di soggettivizzazione e giudicarne la qualità. L’epoca dei diritti individuali per i quali si bombarda e si trasforma il pianeta Terra in inferno realizzato compiutamente, l’epoca dell’assoluta peccaminosità, ha favorito il regno dell’astratto: si parte dall’individuo astratto, astorico per poter affermare i diritti individuali universali in nome dei quali perseguire interessi di parte. Adorno mostra quanto l’industria culturale formi le opinioni con inganno mefistofelico. Ovvero, prima crea campagne capillari per la scelta di prodotti o di altro, e poi spinge a scegliere, decantando la libera scelta dell’individuo, il quale diviene paradigma ideologico delle libertà dell’occidente:

«La triste scienza, di cui presento alcune briciole all’amico, si riferisce ad un campo che passò per tempo immemorabile come il campo proprio della filosofia, ma che, dopo la trasformazione dei metodi di quest’ultima, è caduto in preda al disprezzo intellettuale, all’arbitrio sentenzioso, e infine all’oblio: la dottrina della retta vita. Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Parlare immediatamente dell’immediato significa fare come quei romanzieri che adornano le loro marionette, quasi con vezzi a buon mercato, con le pallide imitazioni della passione di un tempo, e fanno agire personaggi che non sono – ormai – che pezzi di un macchinario come se fossero ancora in grado di agire come soggetti, e come se dal loro agire dipendesse ancora qualcosa. Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna. Ma il rapporto tra vita e produzione, che abbassa la prima, nella realtà, ad una manifestazione effimera della seconda, è perfettamente assurdo. Mezzo e fine sono invertiti. Il sospetto di questo assurdo “quid pro quo” non è ancora del tutto cancellato dalla vita. L’essenza ridotta e degradata si ribella tenacemente contro l’incantesimo che la trasforma in facciata».[1]

La vita è offesa quando il soggetto ha come essenza solo la società, quando i pensieri non sono soltanto alienati ma molto di più: sono rubati. La mutazione antropologica che oggi il capitale assoluto tenta di realizzare esige utilizza l’abbattimento di ogni resistenza. Il soggetto si forma nella dialettica costellativa, ovvero nella relazione dinamica in cui l’alterità non è intombata nella gabbia delle logiche verticali di dominio. Se prevale la logica identificativa in cui l’altro è ridotto ad ente, ed è dunque fagocitato, il prigioniero è tale senza esserne consapevole e dunque finisce con l’amare la propria gabbia. È più realista del re perché il suo io è minimo, abituato alla sopravvivenza ed alla sopraffazione ama la sua gabbia e vorrebbe essere come il dominatore:

«Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento, che, per poter sopravvivere nell’orrore del mondo, attribuisce realtà al desiderio e senso al controsenso della costrizione. Non meno che nel credo “quia absurdum”, nell'”amor fati”, nell’esaltazione di ciò che è più assurdo, la rinuncia si umilia davanti al dominio. Alla fine la speranza, come si sottrae, negandola, alla realtà, è la sola figura in cui si manifesta la verità. Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile, ed è la falsità capitale spacciare per verità l’esistenza riconosciuta come cattiva, solo perché è stata una volta riconosciuta. In questo, piuttosto che nel contrario, è il delitto della teologia, contro il quale Nietzsche intentò il processo, senza mai pervenire all’ultima istanza. In uno dei passi piú forti della sua critica, egli ha accusato il cristianesimo di mitologia. “Il sacrificio espiatorio, e nella sua forma più raccapricciante e barbarica, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei colpevoli!”». [2]

È possibile per il sistema di controllo giungere ad un tale risultato in cui le vittime collaborano con i carnefici inquinando le sorgenti di vita. Adorno ipotizza la genesi di un tale processo nella divisione del lavoro, nella specializzazione spinta, nella parcellizzazione dei saperi che favoriscono la formazione di uomini a dimensione unica e minima. Il risultato dell’atomizzazione sociale diventa atomizzazione dello spirito, per cui si recidono le relazioni interne al soggetto il quale non pensa perché non sente, il suo pensiero ha perso la profondità della genealogia pulsionale per divenire semplice azione meccanica irriflessa. In questo modo il soggetto non sente l’umiliazione a cui è quotidianamente esposto ed abbraccia un volgare amor fati consolatorio e specialmente non pensato, oltre il confine della gabbia non vi è nulla perché il gesto a guardare oltre è stato necrotizzato:

«Credere che il pensiero abbia da guadagnare una superiore obbiettività, o, perlomeno, non abbia nulla da perdere dalla decadenza delle emozioni, è già espressione del processo d’inebetimento. La divisione sociale del lavoro si ripercuote sull’uomo, per quanto possa promuovere l’operazione a comando.
Le capacità che si sono sviluppate in un processo d’azione e reazione reciproca, si atrofizzano non appena vengono separate l’una dall’altra. L’aforisma di Nietzsche “Grado e qualità della sessualità di un individuo penetrano fino nella sommità del suo spirito” non riflette solo uno stato di fatto psicologico. Poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso. Non è la memoria inseparabile dall’amore, che vuol conservare ciò che passa, ed ogni moto della fantasia non è generato dal desiderio, che trascende ciò che esiste e pur gli resta fedele, in quanto traspone i suoi elementi? E la più semplice percezione non si modella sull’angoscia di fronte all’oggetto percepito o sul desiderio del medesimo? Certo, con la crescente oggettivazione del mondo, il senso oggettivo delle conoscenze si è sempre più svincolato dal loro fondo impulsivo; e la conoscenza manca al suo compito, quando la sua attività oggettivante resta sotto l’influsso dei desideri. Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero che si sottrae a questo influsso, non si realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità».[3]

Se la comunità è solo la somma di funzioni si può proclamare la vittoria del capitale assoluto e la morte della filosofia e dell’uomo. Malgrado i tempi siano terribili, l’umanità ridotta a vagabondi alla ricerca di emozioni fugaci e poco compromettenti, la Filosofia vive. In essa è possibile trovare contenuti per la resistenza, per formarsi e formare persone capaci di dono (e non solo del “libero” scambio). La speranza non è solo anelito ma motivazione alla resistenza logicamente fondata oltre che sentita.
La rilettura degli autori che paiono scomparsi dall’orizzonte culturale può essere un buon inizio per osservare il mondo con un rinnovato sguardo che possa alimentare con nuovo pensiero vitale la prassi. Ci sono autori che invitano ad uscire dal privato, a superare l’osmosi tra tempo libero e tempo lavorativo, per smascherare quanto il tempo libero è l’altro volto della manipolazione in continuità con il tempo gerarchizzato del lavoro. Si può favorire l’uscita dal privato, dal monadismo mercantile, anche con il semplice invito spontaneo al domandare, ad un agere che si riteneva impossibile e che può dare nuovo senso e densità al quotidiano. La lettura di Adorno oggi ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci, la necessità di guardare la Gorgone, la quale ci pone quesiti sul destino personale e del tempo storico condiviso. Non dobbiamo temere di essere trasformati in statue di sale, poiché è il non guardarla che ci fa essere semplice copia dell’umanità, creature scambiabili, perché funzioni consumanti. Colui che pensa si riappropria della qualità del suo essere umano e dunque rompe il ciclo quantitativo della facile scambibilità.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Theodor Ludwig Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, pp. 48-49.

[2] Ibidem, p. 113.

[3] Ibidem, pp. 128-129.

 


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Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Adam Schaff 01

IL COMUNISMO COME UMANESIMO COMBATTENTE

 

Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. L’intellettuale di formazione marxista fa dell’attività critica un’azione totale nella storia.

 

16166435998«[…] in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità». A. Schaff

 

 

Adam Schaff nel testo Il marxismo e la persona umana coglie l’essenza del pensiero di Marx. Lontano da ogni riduzionismo economicistico, riporta il pensiero marxiano al suo autentico fondamento, ovvero l’emancipazione della persona nella comunità da ogni forma di alienazione. Il fine del pensiero marxiano è la liberazione di un’umanità caduta – e non solo nel senso metaforico – nelle trappole dell’uomo parziale, atomizzato, per essere utilizzato con meno resistenza possibile dal sistema. L’opera di Marx indica il fine di ogni politica che sia tale: la liberazione dalle catene che imbestialiscono e rendono astratto l’uomo. A. Schaff evidenzia che ogni sistema ha i suoi processi di alienazione per cui il processo di liberazione vive con l’uomo e la sua storia. Il pensiero marxiano insegna che le conquiste non sono definitive, le metamorfosi delle alienazioni ci deve indurre alla partecipazione combattente e pensata contro le forme di alienazione che si ripresentano in modo sempre nuovo. Il pensiero comunista è pensiero che educa ad un senso critico capace di cogliere tra le pieghe insospettabili dei sistemi politici, la violenza nelle sue innumerevoli manifestazioni evidente e specialmente occulte: «L’alienazione insomma, è presente anche nella società socialista e si manifesta come relitto non ancora superato, ma appare anche in altre forme più organiche e durevoli, connesse alle condizioni del nuovo sistema. Comunque il problema esiste e va meditato realisticamente».[1]

Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. L’intellettuale di formazione marxista fa dell’attività critica un’azione totale nella storia.

Tale azione è motivata dall’umanesimo combattente marxiano. Sin dalle opere giovanili Marx ha posto al centro della riflessione l’uomo. Anzi, secondo Schaff, tra le opere giovanili e della maturità l’elemento di connessione è l’intramontabile umanesimo combattente di Marx. Nelle opere della maturità la deriva economicistica e meccanicistica di cui è stato accusato Marx è inesatta poiché l’economia del Capitale è la risposta al problema dell’alienazione. Ogni interpretazione economicistica è bieca interpretazione, perché non vuol vedere che Marx cerca soluzioni per affermare l’uomo totale anziché l’uomo unidimensionale del capitalismo. Solo una visione olistica e dialettica può sottrarre Marx a forme di riduzionismo che ne inficiano i fondamenti. Dunque l’analisi dev’essere olistica e genetica: «In questa prospettiva si profila il contenuto umanistico del marxismo ed è possibile interpretare, attraverso il prisma umanistico degli scritti giovanili di Marx, tutte le opere successive dell’autore del Capitale. Quest’analisi genetica ha un’immensa importanza euristica. Invece della tesi assurda che afferma l’esistenza di due marxismi, invece della tesi altrettanto sballata che dà per esistente un solo immutabile marxismo, si sostiene una tesi più moderata e nel contempo assai più feconda, secondo cui Marx, sviluppando il proprio pensiero, ha modificato l’impostazione delle ricerche e dei problemi da risolvere. Però, avendo egli mantenuto in tutte le fasi della propria evoluzione intellettuale l’obiettivo della liberazione dell’uomo come fine ultimo della ricerca e dell’azione, il pensiero dell’età matura di Marx può e deve essere inteso nel quadro dei presupposti e dei principi dell’antropologia filosofica da lui consapevolmente formulati in gioventù».[2]

Per Schaff esiste un unico Marx, il quale ha trasformato l’emancipazione dell’uomo in una, un’opera aperta certamente ma nella chiarezza del fine e degli obiettivi da raggiungere.

Contro ogni riduzionismo Marx ha verificato che la condizione umana è dolorosa ed alienata; nessun appello, nessuna critica potrà mai trasformare l’uomo tenuto ai ceppi. La filosofia con Marx per la prima volta si pone il compito di capire per trasformare il mondo. Il filosofo e la filosofia devono rispondere alla storia, agli uomini, per diventare parte della storia ed esserne il suo motore consapevole. L’obiettivo è l’uomo totale, capace di esprimere la sua essenza poliedrica nei rapporti sociali. Non esiste l’uomo senza la comunità, l’uomo si forma nella rete sociale di produzione, per cui l’uomo liberato da relazioni di divisione e sudditanza sarà un uomo che potrà vivere la sua identità nella comunità in una dialettica positiva: «Ne segue che in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità. Marx, dalla giovinezza all’età matura quando è già noto come autore del Capitale, al raggiungimento di questo obbiettivo subordina ogni altra cosa. Marx giunge rapidamente alla conclusione che i termini “umano” e “disumano” rivestono un significato storico. E nella Ideologia tedesca troviamo una glossa importante alla tesi della protesta contro la “disumanizzazione” della vita. Da questo assunto conviene prender avvio, per poi passare alla rappresentazione positiva del comunismo marxiano».[3]

La filosofia deve umanizzare il mondo, renderlo mondo degli uomini e per gli uomini. L’umanità non deve accettare come un destino la propria condizione. La storia è il luogo nel quale la consapevolezza divenuta politica, progetto, trasforma a storia e le coscienze. La speranza marxiana non è semplice attesa ma partecipazione storica, nella storia: ognuno è chiamato nella condivisione a non essere complice delle sofferenze e delle innumerevoli catene che impediscono la nascita della persona al mondo. L’umanesimo combattente di Marx non attende che gli eventi accadano e trasformino la storia, il suo umanesimo vive della responsabilità dell’azione. La storia offre le sue possibilità. All’umanità il coglierle, leggerle, per trasformarle in alterità militante.

L’umanesimo marxiano si spinge ad affermare che nel comunismo non si stabilirà la felicità ma semplicemente si porranno le condizioni perché ciascuno cerchi la propria felicità nella comunità: «Il socialismo è ben lungi dall’avversare l’individualità umana. Perciò diamo pure via libera all’individuo e lasciamo a ciascuno il diritto di essere felice a modo suo, magari coltivando qualche hobby. Se proprio si vuol differenziare dagli altri e se per essere felice ha bisogno d’essere un po’ eccentrico. Riconoscendo che questa libertà non reca alcun danno al socialismo avremo soddisfatto una delle condizioni indispensabili affinché gli uomini possano sentirsi effettivamente e autenticamente felici».[4]

Ogni individuo ha diritto di essere felice a proprio modo per cui non si può stabilire come essere felici. Occorre porre le condizioni per la felicità nella comunità, rimuovendo i rapporti che limitano il suo concretizzarsi.

Il pensiero marxiano è dunque a distanze cosmiche dall’abisso del capitalismo assoluto che ha imposto un unico modo di ricercare la felicità: la darwiniana lotta per le merci. L’uomo ridotto ad un mero flusso di pulsioni è l’uomo alienato, estraneo a sé ed alla comunità. Lo studio del pensiero marxiano, la sua reintroduzione con le parole dense di significato e speranza, è momento imprescindibile per capire e ridisegnare un progetto umano in un mondo disumano e disperato.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Adam Schaff, Il marxismo e la persona umana, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 142.

[2] Ibidem, pag. 35.

[3] Ibidem, pag. 186.

[4] Ibidem, pag. 183.

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Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

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Le vespe di Panama

Le vespe di Panama è un breve scritto di Z. Bauman nel quale si mostra l’asservimento delle scienze all’economico. L’economia non utilizza le scienze tecnologiche solo per saccheggiare il pianeta, per realizzare il sogno di una produzione infinita dietro la quale si può supporre agiscano pulsioni necrofile. La produzione assoluta sciolta da ogni legame con i bisogni dell’uomo è solo accumulo, distruzione fine a se stessa, stimolante per un delirio di onnipotenza che potrebbe celare tra le sue pieghe l’odio verso la vita. L’uomo economico non conosce la presenza dell’ombra, della resistenza, non parla con le sue ombre. È un turista della vita, un vagabondo tra le mercificazioni: per sentire di esserci deve accumulare ed ostentare. Le scienze pertanto divengono mezzo attraverso cui si rafforza il positivo, ovvero la vita dell’uomo economico trova nelle scienze la conferma che il suo modello di vita è l’unico possibile. La storia è finita in quanto la scienza conferma che gli studi sulla natura decretano che i processi di globalizzazione sono iscritti nei processi naturali. Dunque l’uomo è un essere biologico tra i tanti che popolano la terra e segue le leggi naturali che coincidono con le leggi economiche liberiste. Il riduzionismo favorisce naturalmente comportamenti verbali e politici regressivi e reazionari. L’uomo modulare, pronto ad adattarsi alle esigenze della rete produttiva, a cambiare posizione all’interno della rete ma non opinione, dev’essere pronto a partire, a spostarsi, ad essere perennemente vagabondo, non deve appartenere a nessuno, né a se stesso, né alla comunità: deve parlare la lingua di tutti e pensare come tutti. Il globy è la sua lingua. Ora se l’economia deve giustificare un modello di flessibilità (precarietà – sfruttamento), la scienza si presta al gioco ideologico. Le vespe di Panama di Bauman dimostrano la posizione ideologica delle scienze: l’asse di attenzione si sta spostando su quei fenomeni che devono confermare la migrazione come costante della natura e dunque degli uomini, per cui l’uomo modulare globalizzato è naturale, normale, mentre gli uomini di pensiero, dediti alla vita activa sono un errore della natura, nel migliore dei casi da tollerare, guardare con sospetto e controllare. Le vespe di Panama sono vespe migranti, anch’esse si spostano da un alveare ad un altro e facilmente si integrano nel nuovo sistema per divenire ad esso funzionali, sono ireniche, adattabili esattamente come l’uomo globale: «Contrariamente a tutto quello che si sapeva o si riteneva di sapere da secoli, i ricercatori londinesi hanno scoperto a Panama che una larga maggioranza di «vespe operaie», il 56 per cento, cambiano alveare nel corso della loro vita: e non semplicemente traslocando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, male accetti, discriminati e marginalizzati, a volte attivamente perseguitati, e comunque sempre guardati con ostilità, bensì in qualità di membri effettivi (si sarebbe tentati di dire «a pieno titolo») della «comunità» adottiva, che provvedono, al pari delle operaie «autoctone», a raccogliere cibo e a nutrire e accudire la nidiata locale. La conclusione che si ricava da questa scoperta è che gli alveari su cui è stata condotta la ricerca sono normalmente “popolazioni miste”, con vespe native e vespe immigrate che vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l’ausilio degli identificatori elettronici».[1]

La natura confermerebbe che la condizione attuale è naturale, per cui ogni resistenza, ogni parola piena di significati che vuole evidenziare la possibilità di un altrove è tacitata dall’evidenza della natura, la quale ha, però, al suo interno, un’infinità di possibilità e contraddizioni che vengono occultate. L’attenzione percettiva si sposta su ciò che conferma il sistema vigente in modo da renderlo indiscutibile. Una nuova teologia – ontologia della migrazione, non forzata dagli effetti del capitalismo assoluto, ma dalla natura, voluta… Tutto accade perché lo vuole e lo conferma la natura: «Quello che le notizie in arrivo da Panama ci svelano è innanzitutto uno sbalorditivo rovesciamento di prospettiva: quello che fino a non molto tempo fa era ritenuto lo “stato di natura”, si è rivelato, guardandolo in retrospettiva, nient’altro che una proiezione sugli insetti di prassi fin troppo umane (anche se ormai meno frequenti, lontane nel passato) studiosi. È bastato che i ricercatori, di una generazione un poco più giovane di quella precedente, portassero nella foresta panamense la loro (e nostra) esperienza di vita acquisita e assorbita nel loro nuovo ambiente “multiculturalizzato”, per “scoprire”, doverosamente, che la fluidità delle appartenenze e il costante mescolarsi delle popolazioni sono la “norma” anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo “naturale”, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge frettolosamente introdotti, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo… In questo caso, come in molti altri, la cultura prassomorfica della percezione umana del mondo li ha spinti a scoprire “là fuori nel mondo”, quello che abbiamo imparato a fare e facciamo “qui a casa” e quello che nella nostra testa o nel nostro subconscio rappresenta l’immagine di “come sono veramente le cose”… Di fronte ai dati inaspettati forniti dagli insetti sociali, è «scattato» qualcosa: quello che fino a quel momento era rimasto al livello di premonizioni intuitive, semiconsapevoli o inconsapevoli, è stato articolato (o forse “si è” articolato), e le intuizioni sono state riciclate in una sintesi alternativa di quell’altra (indirettamente la propria) realtà. Ma il fatto che questo riciclaggio sia avvenuto comporta l’esistenza precedente di scorte di «materia prima», pronta per essere riciclata».[2]

In questa pratica prassomorfica per cui si proiettano le categorie storico-sociali nella natura, poche voci si ergono critiche e consapevoli che la filosofia – avendo perso la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva, in quanto vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici –, non smaschera la funzione ideologica delle scienze e contribuisce all’espandersi della necrofilia. Il silenzio rinforza la convinzione che viviamo nell’unico mondo possibile, al punto che anche la natura ci conferma che gli esseri viventi sono liquidi, un fondo a disposizione di “ogni alveare”.

Gli sciami, come gli esseri umani, non fanno gruppo o comunità, si spostano leggeri ed adattabili, sono esseri singoli in perenne movimento, alla ricerca di un luogo momentaneo dove produrre per spostarsi in altro luogo, sono atomi senza relazioni, nati per spostarsi, riprodursi senza aver cura dei piccoli, per poi spostarsi dove vi sono le condizioni per lavorare. Un ciclo perenne senza fine e senza progetto, dove tra la vita dell’uomo e quella dell’insetto le differenze si assottigliano: «C’è un’altra sorprendente similitudine tra come vivono le vespe panamensi e come viviamo noi… In una società di modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo, con i suoi leader, la sua gerarchia di comando e il suo ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti quegli accessori senza i quali un gruppo non sarebbe in grado di formarsi né riuscirebbe a sopravvivere. Gli sciami non devono trascinarsi dietro pesanti strumenti di sopravvivenza: si assemblano, si disperdono e si ricompongono a seconda dei casi, guidati ogni volta da priorità differenti, anche se invariabilmente mutevoli, e attirati da obbiettivi che cambiano in continuazione, bersagli in movimento».[3]

Siamo chiamati a porci il quesito se siamo uomini od insetti. Se mancano le domande il rischio sempre più ampio di risvegliarci insetti diventa sempre più reale ed inquietante come le responsabilità a cui non possiamo sottrarci. La filosofia soltanto, con il suo metodo ontogenetico, può svelare i retroscena della scienza curvata sull’economico liberista per una nuova uscita dalla caverna sempre più simile al sistema alveare.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Le vespe di Panama, Laterza, 2007, pp. 8- 9.

[2] Ibidem, p. 9-10.

[3] Ibidem, p. 27.

 

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – La filosofia è resistenza che magnifica i piani d’immanenza nell’incontro del presente con il passato aprendosi al futuro. Gli pseudofilosofi rendono omaggio, con la loro presenza acclamata, alla commedia mediatica della democrazia: criticano, ma non propongono nulla.

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L’opera di Gilles Deleuze – Felix Guattari, Che cos’è la filosofia?, ci invita ad una riflessione sul senso della filosofia e della pratica filosofica. La filosofia è sotto assedio, sembra arretrare, i suoi spazi divengono sempre più limitati e, in taluni casi, il posticcio cerca di occupare lo spazio da essa lasciato libero. Il ripiegamento dei filosofi nella dimensione normo-temperata degli ambienti accademici, l’assenza del logos filosofico nella politica, sta consentendo non solo l’omologazione, ma soprattutto la regressione sociale e, con essa, il riemergere di immagini del mondo in cui la tensione del logos è sostituita dalla dismisura della glebalizzazione–globalizzazione. La Filosofia vive dell’antitesi, la sua apertura diventa riposizionamento verso lo stato presente, è prassi trasformatrice mediante i concetti vissuti. Creare nuovi piani d’immanenza, di pensiero, significa ridisegnare la cartografia dei significati. La Filosofia diventa in tal modo prassi trasformatrice. Deleuze e Guattari denuncino il tentativo di sostituirla con modesti succedanei: sociologia, epistemologia, psicanalisi ecc. al fine di neutralizzarne la carica rivoluzionaria e critica. La si accoglie, la si spettacolarizza per anestetizzare il pensiero divergente: «Più recentemente la filosofia si è imbattuta in molti nuovi rivali. Furono prima le scienze dell’uomo, e in particolare la sociologia, a volerla rimpiazzare. Ma poiché la filosofia aveva trascurato sempre più la sua vocazione a creare concetti per rifugiarsi negli Universali, non si sapeva bene quale fosse la sua funzione» (G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996, introduzione p. XVIII) . Nega così la sua vocazione, ovvero: creare concetti, dialettizzarli, ripensare il presente. Ogni concetto ripensato e razionalizzato come l’araba fenice rinasce a nuova vita e diviene volano per nuove prospettive. La filosofia necessita del coraggio del pensiero: pensare significa ridisporsi in uno spazio altro, rompere con il conformismo omologante dei facili successi, accettare il rischio della solitudine come un’opportunità per capire. Creare concetti significa vivere il caos dionisiaco e gioioso della vita e delle sue infinite possibilità per operare in esso il taglio come lo definiscono i due filosofi, ovvero una concettualizzazione, un atto creativo con il quale ridefinire la contingenza e l’immagine del mondo: «Il piano d’immanenza prende in prestito dal caos le determinazioni con cui compone i suoi movimenti infiniti, i suoi tratti diagrammatici. Si può, si deve quindi supporre una molteplicità di piani, poiché nessuno di essi potrebbe da solo abbracciare tutto il caos senza ricadervi; oltretutto, ciascuno ritiene solo i movimenti che si lasciano piegare insieme» (ibidem, p. 40). I piani d’immanenza sono infiniti e stratificati, le possibilità del pensiero sono innumerevoli e nessun taglio potrà mai impedire nuove concettualizzazioni. La filosofia è libera, perché esplora sempre nuovi piani; le sue mani conoscono continuamente l’atto della liberazione dalle catene dell’ignoranza come lo schiavo nella caverna di Platone. Denuncia, con il solo suo esserci, ogni riduzionismo: oggi deve confrontarsi con il capitalismo assoluto, il quale nega la possibilità del pensiero, sostituito dalla sola libertà delle merci e dei corpi. Il sistema capitale, con la dismisura, ipostasi del liberismo, assolutizza solo un piano di immanenza: la mercificazione di tutto, la riduzione a quantità di ogni evento per poterlo controllare; ogni piano d’immanenza altro è marginalizzato, ridotto al silenzio. La filosofia, ciò malgrado, vive. L’epoca delle passioni tristi è l’epoca dell’asfissia della speranza, la pressione mediatica e politica nelle sue forme degenerate verso il ‘’si dice’’ ‘’si pensa’’, e dunque la chiacchiera, mostra la sua fragilità negli effetti depressivi che provoca e specialmente nell’incapacità dell’immanenza del pensiero unico a risolvere le sue innumerevoli contraddizioni.
È la corrente calda che E. Bloch paragonava al rosso caldo contrapposto al rosso freddo della corrente gelida, sterile e portatrice del pensiero verticale. La filosofia emancipa e, come tale, partecipa alla vita, la vivifica con la sua rivoluzione attiva: «Il concetto è il contorno, la configurazione, la costellazione di un evento a venire. I concetti in questo senso appartengono a pieno titolo alla filosofia, perché è essa che li crea e non smette di crearne. Il concetto è evidentemente conoscenza, ma conoscenza di sé: esso conosce il puro evento, che non si confonde con lo stato delle cose nelle quali si incarna. Quando la filosofia crea dei concetti, delle entità, il suo scopo è sempre di cogliere un evento dalle cose e degli esseri. Allestire il nuovo evento delle cose e degli esseri, dare loro sempre un nuovo evento: lo spazio, il tempo, la materia, il pensiero, il possibile come eventi…» (ibidem, pp. 22-23).
La sua processualità, mentre crea, fa riaffiorare il tempo della speranza senza identificarsi con il concetto. Essa, in quanto attività creatrice e critica, non si identifica con lo stato irrigidito delle cose, dei concetti del sistema, ma è sempre oltre, è attività vitale che ripensa il già stato per dargli nuovi significati.
Possiamo comprendere l’ostilità del sistema capitale verso una forma di conoscenza che dalla rinuncia alla verticalità, alla gerarchizzazione passiva, trae la dinamicità plastica per percorsi consapevolezza. La Filosofia, precisano gli autori non è l’arte di criticare i concetti; è molto di più, pone le condizioni per concettualizzazioni alternative, per nuovi piani di pensiero: «Criticare significa soltanto constatare che un concetto svanisce, perde alcune sue   componenti o ne acquisisce altre che lo trasformano nel momento in cui viene immerso in un nuovo concetto. Ma coloro che criticano senza creare, che si limitano a difendere ciò che è svanito senza potergli dare le forze per ritornare in vita, costoro sono la piaga della filosofia. Questi polemisti, questi comunicatori sono animati dal risentimento. Non parlano che di se stessi lasciando che si affrontino delle vuote generalità. La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare» (ibidem, p. 19).
I mezzi di comunicazione vorrebbero il requiem della filosofia, quando illustri accademici o pseudofilosofi rendono omaggio, con la loro presenza acclamata, alla commedia della democrazia: criticano, ma non propongono nulla, non trasformano la critica nella speranza che mobilita verso l’uscita della caverna. Sono la piaga della filosofia perché fortificano la retorica democratica con la benedizione della filosofia addomesticata, usata in funzione del potere e dunque ombra della sua autentica finalità.
La filosofia è uno scandalo perché aspira alla conoscenza, e fa della parola motivo d’incontro con sé e con chi è disposto alla ricerca. Il piano d’immanenza è luogo della comunità nel quale le tensioni sono l’apertura al pubblico, alla vita nelle sue dimensioni, che presuppongono l’identità dell’io, sottratto alla liquidità dei nostri tempi: perché nel pensiero si conosce, e dunque scolpisce la sua statua interiore, come affermava Plotino. La filosofia deterritorializza e riterritorializza i concetti, denuncia lo stato presente del capitalismo assoluto in cui i diritti individuali convivono con le violenze più inaudite. La filosofia con la concettualizzazione è la resistenza di cui si sente sempre più nostalgia: «Quantunque la filosofia si riterritorializzi sul concetto, non ne trova la condizione nella forma presente dello Stato democratico o in un cogito di comunicazione ancora più dubbio del cogito di riflessione. Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione. Ci manca la resistenza al presente. La creazione dei concetti fa appello di per sé a una forma futura, invoca una nuova terra e un popolo che non esiste ancora» (ibidem, p. 101).
La filosofia è resistenza che magnifica i piani d’immanenza nell’incontro del presente con il passato aprendosi al futuro. Deve tornare ad essere cerniera tra le moltitudini ed i movimenti che accolgono le urgenze del presente ma sono privi di un progetto politico alternativo al presente in modo da unire la comunità verso una nuova possibilità, verso un nuovo tempo in cui raccogliersi per pensare.

Salvatore Antonio Bravo

 

 


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Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

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Z. Bauman,  Modus vivendi

La società dei cacciatori

L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
L’educazione all’imprenditorialità postulato e dogma della contemporaneità significa pratica della caccia, come in ogni attività venatoria i trofei sono esibiti al fine muscolare di intimorire e terrorizzare ogni altro cacciatore. L’esibizione avviene nella rete, dove persone e cose sono esposte dai momentanei cacciatori quali trofei che ritagliano una temporalità in cui sono stati cacciatori e non prede. L’immagine di Bauman si presta ad una pluralità di significati: in un pianeta globale nel quale la linea di demarcazione è tra vite da cacciatori e vite di scarto, in cui la paura liquida diviene vergogna di essere preda, il cacciatore esibisce il trofeo per mostrare di non essere stato predato, in tal modo mostra i denti e si rassicura. Si assiste all’ontologia della caccia: «La caccia è un’occupazione a tempo pieno, consuma una gran quantità di attenzione e di energie, non lascia quasi tempo per qualsiasi altra cosa; e perciò impedisce di rendersi conto che si tratta di un compito senza fine, e rinvia alle calende greche il momento in cui guardare in faccia il fatto che il compito non potrà mai essere portato a termine».[1] La deregulation in ogni campo – dall’economico alle relazioni – espone ciascuno di noi sull’abisso; in ogni momento il soggetto da ‘soggetto’ può divenire ‘oggetto’, per cui il timore di essere diventato vita di scarto, rifiuto urbano, spinge a mostrare che si è nella linea dei vincenti, dei globalizzanti. È la nuova vergogna della società dell’impresa: se non predi, sei colpevole; sei non ti trasformi in pescecane, fai parte delle vite di scarto. I perdenti sono e divengono il problema, sono le nuove streghe planetarie da cui difendersi, sono la causa di ogni male, per cui – se ci si trova dalla parte dei vincenti – si devono erigere palizzate fisiche e mentali contro le orde che minano il privilegio del vincente secondo il quale «la natura vuole che si lotti, si vinca o si perda»: «Il nuovo e sempre più diffuso folklore urbano assegna alle vittime dell’esclusione planetaria il ruolo dei “cattivi”, raccogliendo, combinando e riciclando la tradizione delle storie terrificanti, costantemente e sempre più largamente richieste, oggi come in passato, per effetto delle insicurezze della vita in città».[2]
Ogni possibilità è esclusa dal pensiero, per cui ci si muove per predare qualsiasi cosa: un’immagine da postare, un corpo da consumare, una proprietà da spogliare ad altri, una terra da saccheggiare. Tutto deve diventare trofeo da mostrare per “mostrare” che non si è caduti nell’abisso delle vite di scarto. Si è colpevoli se si perde, se il risultato – a prescindere dal mezzo – non è stato raggiunto, per cui ogni mezzo è moralmente legittimato dalle pressioni indebite alla violenza materiale. La sorpresa è verificare che nei mezzi di informazione ci si stupisca della violenza psicologica o fisica benché la struttura ideologica –nella quale si naviga sempre a vista –, sia ontologicamente violenta. Hobbes potrebbe assistere allo stato di natura in diretta, ovunque alberga il cacciatore che in modo ossessivo passa da un obiettivo all’altro. La capacità simbolica che umanizza, il pensiero che chiede il senso e riconfigura il suo presente all’interno dell’esperienza umana che si estende dal passato al futuro è censurata dall’azione continua, dal muoversi del predatore uomo all’interno delle giungle in cui in ogni attimo può divenire preda: è l’unica vergogna ammessa. Bauman utilizza un’immagine semplice e diretta, ovvero il gioco della sedia: «Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile».[3] In qualsiasi momento ci può essere sottratto ciò che si ha e la vergogna non risiede nel predatore ma nel predato, il quale ha meritato d’essere stato predato per cui nessuna solidarietà, nessun aiuto di stato o istituzionale; la colpa è pagata con l’esposizione mediatica. Il fallito, lo scarto umano messo alla gogna e umiliato, introietta la vergogna per cui non ha la forza mentale di mettere in atto quei processi mentali per difendersi, per capire, per trasformare il fatto in esperienza condivisa e di rielaborazione di pensiero.
Siamo chiamati a rompere il ciclo che nutre il fascismo finanziario. Riportare il concreto nell’astratto per la prassi trasformatrice. Il pensiero di Hegel, Marx e Gramsci ci devono indurre a trasformare il fato dei colpevoli in un’esperienza pensata, immanente per liberarci dei fantasmi a cui non sappiamo dare ‘il nome’ e dunque depredano le esistenze. Il conflitto da interiore dev’essere verticalizzato, ma ancor più necessita di una grammatica della comprensione che tarda ad apparire poiché anche gli intellettuali sono i nuovi cacciatori vassalli che depredano le coscienze in nome dei neofeudatari delle finanze. Non possiamo semplicemente scandalizzarci ma si deve mettere in atto una prassi trasformatrice per porre le condizioni per una Koinè senza la quale potremmo dichiarare persa la condizione umana al cui posto il cacciatore-imprenditore-banchiere come archetipo del nuovo modello umano, nuova idea platonica, potrebbe divenire il demiurgo di nuovi ed infiniti micro-cacciatori che si spingono vicendevolmente sull’abisso delle vite di scarto. I profughi che non vogliamo guardare sono la carne del mondo, ci mostrano il mondo nella sua verità. Sono bersaglio delle violenze dei cacciatori e delle prede costrette a pura sopravvivenza e pertanto portatrici di ogni violenza e redenzione per tutti: «I profughi si trovano in mezzo ad un fuoco incrociato; più esattamente in un doppio vincolo. Da un lato sono espulsi con la forza o indotti col terrore a fuggire dal loro paese d’origine, ma dall’altro si vedono rifiutare l’ingresso in qualsiasi altro paese».[4]

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017, p. 122.

[2] Ibidem, p. 48.

[3] Ibidem pp. 10-11

[4] Ibidem, p. 49


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Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017

Risvolto di copertina

«Non sono rimasti molti terreni solidi su cui gli individui possano edificare le loro speranze di salvezza. Non possiamo più sperare seriamente di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere; non possiamo neppure rendere veramente sicuro quel posto migliore nel mondo che, forse, siamo riusciti a ritagliare per noi stessi. L’insicurezza c’è e resterà, qualunque cosa accada».
Rendere l’incertezza meno terribile, la felicità più permanente. Ecco la grande utopia inseguita dagli abitanti del mondo liquido. Zygmunt Bauman rapisce la nostra attenzione e affronta la paura più inconfessabile: che futuro ci aspetta?

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Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

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La società dei consumi

Le miserie della società dell’abbondanza

La società dell’abbondanza non muove domande sull’abbondanza poiché essa è letta secondo il parametro unico della quantità. L’uso della quantificazione quale linguaggio unico trasforma uno dei possibili linguaggi in linguaggio unico e, come tale, in ipostasi. I numeri perdono la dimensione di strumento – e dunque l’imperfezione legata alla condizione di mezzo – per diventare enti ontologici. La naturalizzazione della quantificazione forma intelligenze computazionali per le quali la domanda che esula la quantificazione è un disporsi verso un possibile impossibile. La filosofia è il luogo dei linguaggi, la sua ricchezza cognitiva è nella pluralità fenomenologica che riporta la complessità nell’orizzonte materiale del quotidiano. Dunque l’abbondanza, se ridotta a pura quantificazione, fa brillare l’occidente nello spettacolo perenne delle sue vetrine mediatiche. Ma se l’abbondanza è letta secondo parametri qualitativi in cui la relazione di fiducia fonda la relazione e la comunità verifichiamo la nostra pericolosa miseria: «Quel che fonda la “fiducia” dei primitivi, e fa che essi vivano nell’abbondanza persino nella fame è alla fin fine la trasparenza e la reciprocità dei rapporti sociali. È il fatto che nessuna manipolazione qualunque essa sia, della natura, del suolo, degli strumenti o dei prodotti del “lavoro”, viene a bloccare gli scambi e a istituire la scarsità».[1]

La scarsità in cui siamo immersi e che non riusciamo a leggere è la sfiducia reciproca che induce a chiudersi in un narcisismo difensivo: l’altro e la comunità sono il pericolo, per cui il naturale bisogno dell’altro si trasforma nella contemplazione di sé, nella scissione dalla comunità, nella fuga dall’impegno e dalla cura dell’altro. Non resta che un’abbondanza di cose mentre la scarsità è obliata dall’operazione di manipolazione continua che si estende, nella dismisura, ad ogni ambito della vita. La società dell’immagine, dei desideri smodati cela la sua contraddizione: “la scarsità” nella relazione, la quale – se riportata su un piano di consapevolezza e pensata – mostra la verità a cui ci si vuole sottrarre.

L’oblio è possibile grazie alla rete mediatica che rafforza l’ordine del consumo e neutralizza il pensiero. L’epoca iper-ideologica dei nostri giorni ritrova nei mezzi di comunicazione uno dei suoi strumenti più aggressivi: «La verità dei media di massa è dunque la seguente: essi hanno per funzione quella di neutralizzare il carattere vissuto, unico, fattuale del mondo, per sostituirvi un universo multiplo di media omogenei gli uni agli altri, i quali significano e si rinviano l’un l’altro. Al limite, essi divengono il contenuto reciproco gli uni degli altri ed è il “messaggio” totalitario di una società dei consumi».[2]

La verità dell’abbondanza è la scarsità dell’individuo, l’offesa perpetua alla natura, all’indole di ciascuno. Ogni azione disfunzionale al sistema è censurata mediante la marginalità a cui la sottopone il linguaggio assoluto della quantificazione: «La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione e dunque proprio al pari della produzione materiale è una funzione non individuale, ma immediatamente e totalmente collettiva».[3]

Il godimento della società dell’abbondanza è un fine razionale in cui «si gode per produrre» e dunque il godimento diventa funzione del sistema e del ciclo produttivo in cui è assente la finalità fine a se stessa in cui l’io esprime la pienezza del suo esserci, del suo relazionarsi con “il mondo”.

Solo la filosofia, con il suo carattere epistemico olistico, può rilevare le contraddizioni dell’ideologia imperante perché possano essere pensate e dunque possa la razionalità pensare il reale per renderlo consapevole e trascenderlo. L’assenza dell’idealismo di cui l’occidente è oggi orfano deve riportare al suo centro l’hegeliano: «Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale».

Salvatore Antonio Bravo

[1] Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, 2010 , p. 62.

[2] Ibidem, p. 138

[3] Ibidem, p. 77.


Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.

 


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Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

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Il tempo consumabile dell’età moderna

La società dello spettacolo di Guy Debord tratteggia il fondamento ontologico del capitalismo assoluto: il tempo naturalizzato, il tempo ciclico del neopagenesimo prono all’idolatria delle merci. La sostanza taciuta alberga in ogni luogo, in ogni individuo reso funzione, nella ripetizione compulsiva del gesto e della scelta programmata dallo spettacolo delle immagini. La mosca è nella bottiglia e non riesce a trovare l’uscita dal collo della bottiglia, direbbe Wittgenstein. Il tempo ciclico è trasparente e tagliente come il vetro di una bottiglia: c’è, costruisce l’ordito delle alienazioni, ma si è ritirato nel silenzio religioso; l’innominabile è il sovrano delle esistenze, precarizza e porta con sé l’oblio della storia. Non più lessicalmente presente, in quanto l’asservimento alla società dello spettacolo regna, gli intellettuali servono, ormai organici alle caverne del potere del tempo ciclico e dell’assenza della storia. Debord evidenzia che il tempo ciclico della produzione, è il tempo artificiale dell’industria, tempo della tecnica, tempo del dispositivo, penetra capillarmente in ogni strato della coscienza per ridurla ad oggetto. Il tempo ciclico dell’industria ha inaugurato una nuova categoria temporale della ripetizione a ritmo di produzione, consumo, distruzione. La trinità pagana del ciclo temporale consente la sopravvivenza al neointegralismo della produzione per il consumo ed è inversamente proporzionale alla vita: il tempo ciclico sottrae vita per permettere la sua espansione illimitata: «Il tempo pseudo-ciclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna. La sopravvivenza aumentata, in cui il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e questo tempo ritrova dunque del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società preindustriali».[1]

Il tempo ciclico delle società industriali non sfugge al destino, al fato che occhieggia dall’abisso, ovvero esso stesso fondamento dei vissuti senza decisionalità effettiva, è divorato dal ciclo artificiale del tempo. Crono è tra di noi, divora i suoi figli, ma ha fatto un passo in avanti. Non può sfuggire alla sua legge: «deve divorare se stesso», per cui il tempo ciclico artificiale è il tempo del nulla, del nichilismo realizzato, dell’impensabile che si avvera, tutto è consumo. Il tempo che fonda la ritualità del consumo è divorato dai suoi sudditi. Non vi è spazio per il tempo della decisione, del pensiero riflesso, il sistema sopravvive divorando se stesso ed annichilendo ogni possibile dissenso che vive del tempo: «Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che raccoglie tutto ciò che si era precedentemente distinto, durante la fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene allora ad essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati, che s’impongono al mercato come forme di impiego di tempo socialmente organizzato».[2]

Il tempo globale estende la sua rete e le sue caverne su ogni parte del globo, lo spazio dev’essere asservito al tempo artificiale, in tal modo ogni differenza è divorata e sostituita dalle immagini, le reti relazionali sempre più fitte della società dello spettacolo e della comunicazione si dipana in una ripetizione di immagini sempre uguali nei contenuti, apparentemente differenti nelle forme: «La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che dappertutto simultaneamente è la stessa, non è ancora che il rifiuto intrastorico della storia».[3]

Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale. Il tempo irreversibile delle merci è il tempo della quantificazione a cui la coscienza non deve sfuggire. La storia chiude il suo ciclo. Il tempo ciclico vorrebbe divorare la storia e che terminasse con l’energia prometeica della produzione. Nessun delitto è perfetto, per cui la storia assassinata dal tempo artificiale ciclico ha lasciato le sue tracce, le sue contraddizioni, l’ordito per ricostruire nuovi orizzonti nella decodifica collettiva del presente vissuto. Siamo chiamati, vocati al compito di rintracciare i delitti e le categorie che non appaiono, per destrutturarle, perché la storia riprenda il suo soffio vitale, e la corrente calda ci richiami a nuova vita.

Salvatore Antonio Bravo

La Société du Spectacle

La Société du Spectacle

[1] Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini & Castoldi, 2013, p. 142.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p. 137.

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Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Giovanna Borradori
Filosofia del terrore

Filosofia del terrore

«La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. Essa è la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere. Tutto deve vivere purché circoli e produca col movimento la ricchezza di alcuni contro la povertà di molti. Tolleranza che si insinua nelle istituzioni: lasciar vivere le persone come i modelli culturali fin quando non intaccano il potere finanziario, il modello culturale unico che per grazia concede l’esistenza. Lo splendore della gogna è sostituita dal potere che cede la possibilità del soffio vitale: la cultura classica come la religione sopravvivono per grazia otriata nel difficile mondo della globalizzazione. Ogni potere è autoidolatra, misura la propria forza con la percezione che ha di sé, solitamente si sente onnipotente. La società della tolleranza è la società inospitale. L’ospite è accolto, riconosciuto nella sua identità nella dialettica individuale-universale. Non conosciamo l’ospitalità per le persone ed i gruppi che si discostano dalla legge della globalizzazione, della finanziarizazione del presente, come dei modelli culturali che la tradizione ci ha consegnato affinché fossero accolti e ‘sentiti vivi’ per nuove avventure creative. Al posto della integrazione e dell’accoglienza dell’ospite vige il regno della tolleranza: fenomeno da baraccone, inautentica integrazione che cela nelle sue pieghe il giudizio malevolo e strisciante contro le differenze. È evidente quanto la tolleranza sia il sintomo della violenza del modello unico, che deve far emergere le differenze per svuotarle e colonizzarle. La campagna dei cento fiori è in atto e non riconosciuta nell’occidente del libero mercato. Derrida descrive il valore della tolleranza all’epoca della globalizzazione: «La tolleranza è l’inverso dell’ospitalità o perlomeno il suo limite. Se credo di essere ospitale perché sono tollerante, voglio limitare la mia accoglienza, mantenere il potere sull’altro e controllare i limiti della mia “casa”, la mia sovranità, il mio “io posso” (il mio territorio, la mia casa, la mia cultura, la mia religione)».[1]

La tolleranza sorvegliata, dai cento occhi che si allungano per ritagliare margini di spazio a ciò che è altro o vissuto come altro. La cultura della tolleranza diventa cultura del sopportare e del sopportarsi. La mosca di Wittgenstein non trovava l’uscita dalla bottiglia perché metaforicamente incapace di giochi linguistici. La prigione che si ritaglia per gli altri diventa la propria. Molti occidentali hanno tutto ma non sono capaci di seguire se stessi, la propria indole, riducono gli interessi più vivi che li attraversano a pura presenza scenica perché il potere sibila e giudica … tollera. Ogni lasciar vivere è già una distanza, una presa di posizione in cui il giudizio verticalizzato cade e riposiziona l’altro nella distanza del calcolo economico: l’unica passione da seguire è quella mercantile, fare di sé un pezzo dell’economia, un capitale per illimitati investimenti.

Che fare?

Derrida constata la fluidità del potere globale, la sua instabilità e complessità che riportano il possibile in un mondo privato della storia e dunque può tollerare le differenze perché ha vinto il modello vigente. La storia è finita per cui si può sopportare la presenza delle differenze in quanto non cambiano la condizione della fine della storia. Per Derrida la storia non è conclusa, il ventre molle della globalizzazione pone le condizioni storiche per la lotta consapevole a livello locale, internazionale ed intellettuale: «Io credo che i nostri atti di resistenza debbono essere allo stesso tempo intellettuali e politici. Dobbiamo unire le forze per fare pressione e organizzare contrattacchi; e dobbiamo farlo su scala internazionale e secondo modalità nuove, ma sempre analizzando e discutendo i fondamenti più riposti delle nostre responsabilità, le loro basi, le loro eredità e i loro assiomi».[2]

Le contraddizioni attraversano la globalizzazione. Riportarle al centro della scena offre la possibilità di scardinare il simulacro della tolleranza per svelarne i limiti e le urgenze sulle quali ogni silenzio è già complicità, zona grigia, appunto tolleranza reazionaria e conservatrice. Piuttosto bisogna reintrodurre l’idea dell’ospitalità incondizionata, vera rivoluzione copernicana, che consente una disponibilità all’accoglienza, alla sorpresa dell’altro e del nuovo.[3] Mi accorgo bene che questo concetto della pura ospitalità non ha oggi alcuno statuto giuridico o politico. Nessuno Stato lo ha iscritto tra le sue leggi. Ma senza il pensiero progettuale di quest’ospitalità  non si dà alcun concetto di ospitalità in generale, e forse non si potrebbe neppure determinare alcuna norma dell’ospitalità condizionata (con i suoi riti, il suo statuto giuridico, le sue convenzioni nazionali e internazionali)».

Salvatore Bravo

[1] Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, 2003, p. 137.

[2] Ibidem, p. 135.

[3] Ibidem, p. 138.

 

 

 

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Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

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Frammenti postumi

Frammenti postumi

La libertà di vivere i poliedrici colori del possibile

Il Nietzsche dei Frammenti postumi ci offre la sofferenza partecipata del filosofo alla comunità. Il processo di emancipazione passa attraverso l’esperienza dell’estraniamento, della distanza dal gusto plebeo per l’eccesso, per i cibi già confezionati ed offerti come insostituibili. L’abitudine ai cibi guasti diventa simile alla metafora clinica della condizione di coloro che abituati all’aria guasta hanno difficoltà a respirare l’aria buona. L’aria dei nostri giorni è perniciosa per coloro che vorrebbero respirare, vorrebbero, oltre l’orizzonte di un mondo delle sole cose, vivere l’esperienza umana della comunità. Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati. La violenza ideologica oscura la mente, incanutisce i pensieri, fa del grigiore la mortificazione quotidiana. La violenza capillare dell’utile e del calcolo ammorba e svuota la comunità dello spessore creativo che la rende viva. Epoca della sola crematistica, offre pensieri cattivi che come cibi intossicano con l’abitudine a gustare solo una tonalità, una nota di gusto. Allora può capitare che si respingano tutte le tavole, tutti i cibi preconfezionati, i pensieri del conformismo omologante che uccidono l’individuo e la comunità, per poter cominciare a vivere. Respingere i pensieri guasti ed i linguaggi edulcorati dal consumo coatto è un atto emancipativo che vuole coraggio, amore per se stessi e per gli altri. Si diventa un esempio, l’archetipo del possibile contro ogni determinismo pessimista. Nietzsche descrive la sua esperienza del rifiuto del conformismo ideologico ed accademico: [1] «Allora, furioso di disgusto, respinsi da me tutte le tavole a cui mi ero fino allora seduto e feci a me stesso promessa solenne di nutrirmi a caso e male, di erba e di erbaggi, lungo la strada, come un animale, addirittura di non vivere più, piuttosto che dividere i pasti con il “popolo degli attori” e i “cavallerizzi superiori dello spirito”: tali erano le dure espressioni che usavo».

Come non condividere l’effetto rabbioso dell’uscita dalla caverna e la rabbia nel sentirsi defraudati della vita, del possibile, dell’unicità dell’esperienza della vita mediante raggiri meramente mercantili. Ridotto a pura moneta sonante ogni pensiero si radica nel calcolo, ogni sentire se stessi diventa estraneo. La violenza che inquina le relazioni umane, i casi sempre più estremi delle nostre cronache, trovano la ragion sufficiente inespressa e che in pochi voglio esplicitare, nel clima di violenza scientemente organizzata dalla società della sola economia. Si urla allo scandalo, si fa appello alla denuncia ed ai diritti individuali lesi per non dire che l’unica denuncia vera è il rifiuto del cibo guasto che ha pervertito ogni etica ed ha trasformato l’imperativo categorico kantiano nel suo perverso doppio «Usa l’altro come mezzo mai come fine, anche te stesso».

L’uscita dalla caverna del capitale e dei mercanteggiamenti è rappresentato da Nietzsche come animale: divorare tutto, pensare tutto perché nulla si era pensato fino a quel momento. Dopo l’estraneamento, dopo il trauma della consapevolezza, non è finita, c’è ancora vita perché c’è ancora pensiero ed allora lontani dalla fuliggine dei giorni grigi si svela il possibile nel brillio dei molti colori, dei mondi possibili inesplorati nel proprio sé e di cui si vuol far dono: [2] «Allora aprii gli occhi per la prima volta, e subito vidi molte cose e molti colori delle cose, come non capita di vederne ai paurosi che stanno in un angolo, agli spiri preoccupati di sé, che se ne sono sempre stati a casa loro. Una specie di libertà da uccello, una specie di colpo d’occhio da uccello, una specie di mescolanza di curiosità e disprezzo come la prova chiunque abbracci con lo sguardo, senza parteciparvi, un’enorme verità di cose fu questo infine il nuovo stato raggiunto, nel quale resistei a lungo».

L’uscita dalla caverna della crematistica, da ogni idolatria, da ogni religione camuffata come libertà, è il mondo interiore, l’impegno alla cura di sé, alla libertà che rende leggeri perché libera dalla forza di gravità del pregiudizio, dal consumo illimitato che divora la possibilità di limare nuovi sguardi ed incontrare nuove parole.

Nietzsche ci insegna che il presente con i suoi muri invisibili possono essere abbattuti e la storia può tornare nelle nostre vite come nella comunità, ma dobbiamo trovare il disgusto pensato ed il coraggio di uscire dalle cucce che in cambio delle comodità ci restituiscono i ceppi e le catene.

Salvatore Bravo

 

[1] F. Nietzsche, Frammenti postumi, volume VII, Adelphi, Milano, 1975, p. 373.

[2] Ibidem, p. 374.


271 ISBN

L’epoca del PILinguaggio

indicepresentazioneautoresintesi

Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio.

ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.



Salvatore Antonio Bravo

Potere e alienazione in Foucault

238 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.


Salvatore Antonio Bravo

Foucault e la razionalità debole

250 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.


 

 

Salvatore Antonio Bravo

L’ultimo uomo

257 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

L’opera di Nietzsche è spesso associata al superuomo dannunziano o all’oltreuomo di Vattimo, letture che rischiano d’essere limitate e strumentali. Col presente saggio si vuole riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia: l’ultimo uomo. La produzione filosofica su Nietzsche è stata sterminata, ma titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressochè assenti.

La consapevolezza dell’importanza dell’ultimo uomo per decodificare un pensatore così complesso è stata rilevata da Costanzo Preve, che ha spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo. Nella letteratura come nella filosofia il superuomo ha trovato una facile spendibilità ed accoglienza in un secolo segnato da un autentico delirio di grandezza imperialistico e genetico.  Ne è conseguito il dibattito sull’identità del superuomo ed il suo successo mediatico è stato rafforzato dal facile accostamento al nazionalsocialismo ed ai fascismi in generale.

Inoltre l’operazione per ‘ritrovare’ il Nietzsche autentico è stata complessa (vedasi traduzione e la ricostruzione filologica di Colli e Montinari); pertanto, nel tentativo di dare autenticità interpretativa al superuomo, notevole ne è stata la fama ed il successo che ne è conseguito. Quest’operazione ha comportato un ridimensionamento di molti e più interessanti aspetti del filosofo.

L’ultimo uomo, come rileva Costanzo Preve, con la sua forza simbolica critica e dirompente verso il sistema ne è una testimonianza.

Si è cercato quindi di focalizzare l’azione di ricerca su questa figura inquietante al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità. L’ultimo uomo ci proietta nella mediocre quotidianità dell’integralismo capitalistico esprimibile con le parole di Musil («il vuoto dinamismo dei giorni»). Il vuoto produttivo e calcolante è la forma e la sostanza dell’ultimo uomo. La sostanza che per sua natura è pienezza ontologica si alligna nel vuoto del nichilismo disperato e ripetitivo.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

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L’epoca del PILinguaggio

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Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.



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Potere e alienazione in Foucault

238 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.

 


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Foucault e la razionalità debole

 

250 ISBN

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Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.


 

 

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L’ultimo uomo

 

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L’opera di Nietzsche è spesso associata al superuomo dannunziano o all’oltreuomo di Vattimo, letture che rischiano d’essere limitate e strumentali. Col presente saggio si vuole riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia: l’ultimo uomo. La produzione filosofica su Nietzsche è stata sterminata, ma titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressochè assenti.

La consapevolezza dell’importanza dell’ultimo uomo per decodificare un pensatore così complesso è stata rilevata da Costanzo Preve, che ha spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo. Nella letteratura come nella filosofia il superuomo ha trovato una facile spendibilità ed accoglienza in un secolo segnato da un autentico delirio di grandezza imperialistico e genetico.  Ne è conseguito il dibattito sull’identità del superuomo ed il suo successo mediatico è stato rafforzato dal facile accostamento al nazionalsocialismo ed ai fascismi in generale.

Inoltre l’operazione per ‘ritrovare’ il Nietzsche autentico è stata complessa (vedasi traduzione e la ricostruzione filologica di Colli e Montinari); pertanto, nel tentativo di dare autenticità interpretativa al superuomo, notevole ne è stata la fama ed il successo che ne è conseguito. Quest’operazione ha comportato un ridimensionamento di molti e più interessanti aspetti del filosofo.

L’ultimo uomo, come rileva Costanzo Preve, con la sua forza simbolica critica e dirompente verso il sistema ne è una testimonianza.

Si è cercato quindi di focalizzare l’azione di ricerca su questa figura inquietante al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità. L’ultimo uomo ci proietta nella mediocre quotidianità dell’integralismo capitalistico esprimibile con le parole di Musil («il vuoto dinamismo dei giorni»). Il vuoto produttivo e calcolante è la forma e la sostanza dell’ultimo uomo. La sostanza che per sua natura è pienezza ontologica si alligna nel vuoto del nichilismo disperato e ripetitivo.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

 

 


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