25 Aprile 2022 – Una nuova resistenza sotto la bandiera del bene e della verità.

Anna Magnani in una celebre sequenza di “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini.
Salvatore Bravo

Una nuova Resistenza sotto la bandiera del bene e della verità

Esodo per una nuova cultura della Resistenza

Resistenza e riduzionismo

 

 

Il 25 Aprile è il giorno in cui la democrazia sociale afferma i propri valori sconfiggendo le forze oscure del nazifascismo. Nella liturgia annuale della ricorrenza però si tende da più parti ad occultare che il sistema capitalistico – già vigente in tutto il Novecento  (prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale) e oggi globalizzatosi –, non è così antitetico al nazifascismo come sovente ama dipingersi: il nazifascismo è parte sostanziale della ormai lunga storia del capitalismo.

 

La multinazionale capitalistica della IBM, al servizio di Mussolini e di Hitler

In un articolo pubblicato il 14-02-2001 su “il manifesto” si poteva leggere a proposito di un libro di Edwin Black (La IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001):

«[…] uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dal libro di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è persino trasfigurato in una istituzione “morale”, fonte dei valori che contano […]. Sul versante della casa madre IBM il libro mette in luce l’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare […]. Le schede perforate della IBM grondano di sangue […]. I manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocifio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”. […] Thomas Watson [si vedano immagini cliccando qui], presidente della IBM, sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, e fu ricevuto dal Führer con tutti gli onori a Berlino nel 1937 [Si vedano le foto cliccando qui]. Ancora nel marzo del 1941 un manager IBM telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”. […] Dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 i rapporti con la filiale svizzera della IBM non si interruppero, e per questo tramite […] forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data».[1]

 

Mettere a nudo la realtà capitalistica del presente

La vittoria del 25 Aprile e le sue celebrazioni ritrovano il proprio autentico significato se davvero riescono ad individuare le forze che oggi operano (in vario modo) nel controllare, soggiogare, silenziare ogni istanza comunitaria alternativa: è questo l’unico modo per resistere e non lasciarsi avvolgere e stritolare dai tentacoli del capitale. Se ci si limita ad una monumentale celebrazione del passato, e specialmente, se la giornata del 25 Aprile è usata ideologicamente dalle attuali forze capitalistiche per autocelebrarsi, la ricorrenza è svuotata del suo significato etico e politico. Costoro dicono che il nemico è stato sconfitto nel passato e affermano che ora regna il miglior sistema sociale e politico possibile, che bisogna “solo gestire” l’ordinario costituito dai bombardamenti etici e dalla flessibilità (sfruttamento) sul lavoro in nome della libertà del capitale. Resistere significa, invece, far emergere “il nemico” della democrazia e della libertà.

 

L’inganno del riduzionismo

La contemporaneità ha nel riduzionismo e nel capitalismo (nella sua forma globale) i nemici da combattere. La bestia selvatica del mercato, come l’ebbe a definire Hegel, produce riduzionismi in campo culturale, in modo da congelare le coscienze individuali e comunitarie condannate a ipostatizzarsi.
Il feticismo dei mercati sta divorando le libertà mediante l’inganno del riduzionismo: si elimina ogni discorso sul bene e sulla verità per sfuggire allo sguardo critico e non svelare le dinamiche dei processi di accumulo e profitto.

 

Accogliere solo chi testimonia dialetticamente la verità

In tale clima infausto bisogna leggere e pensare autori che testimoniano dialetticamente la verità. Senza la ricerca veritativa il sistema capitale non si palesa nella sua miseria culturale, la quale si traduce in nichilismo e squallore antropologico. Il dialogo tra Carmelo Vigna e Luca Grechi dona uno sguardo critico e fuori dal coro accademico che consente di comprendere le dinamiche in atto. Si resiste al presente, se si introduce il parametro della qualità e del bene con cui giudicare e pensare la totalità.
Il riduzionismo è il velo di Maya con il quale il capitale neutralizza il pensiero dialettico e la prassi. I riduzionismi devono essere letti nella loro valenza storica e ideologica per poterli smascherare nella loro verità strutturale e ideologica:

«Vigna: […] Questo riduzionismo si associa ad altre forme di riduzionismo: naturalistico, psicologico ecc. L’epistemologia è, comunque, sul piano filosofico, la fonte (e la forma) maggiore di questi riduzionismi, specie se coltivata senza la consapevolezza ch’essa è solo riflessione su un frammento dell’esperienza, e non sul senso della esperienza nella sua totalità».[2]

 

Adattarsi passivamente oppure agire criticamente dall’interno?

Resistere significa scegliere. Gli uomini e le donne che hanno resistito al nemico nazifascista hanno scelto la libertà, non sono stati “idioti” nel significato greco del termine. Gli idioti erano coloro che si occupavano solo degli affari privati e non avevano nessun senso del pubblico.

Resistere implica avere il senso etico del pubblico che si costruisce attraverso lo sguardo olistico con il quale si giudica il valore qualitativo della totalità, in cui siamo implicati:

«Vigna: […] La massa può solo fare i conti col proprio “starci dentro” quotidiano, cioè dentro la vita quotidiana. E, in questo quotidiano, si può vivere sostanzialmente in due modi: adattandosi passivamente oppure agendo criticamente dall’interno».[3]

 

Resistenza e flessibilità

La mercificazione totale dell’essere umano e della vita è il vero nemico. Il male è tra di noi e con noi, ogni tentativo di occultarne la verità va combattuto e denunciato. Bisogna tenere la posizione, non cedere all’adattamento che in questo caso è già assimilazione. Le gioie e le promesse del grande tentatore, il capitalismo, si stanno rilevando nella loro effettualità: gli esseri umani con le loro relazioni sono merce di scambio. Il dialogo ha ceduto il posto al solo calcolo utilitario, per cui si è tutti in pericolo e minacciati dal valore di scambio e dai processi di alienazione che producono l’infelicità generale e le guerre nel privato, nel pubblico e tra gli Stati nazionali:

«Grecchi: […] Tutto, nel modo di produzione capitalistico, diventa inevitabilmente merce: non più solo il lavoro, la natura, la moneta (come sottolineava K. Polany), ma anche tutte le relazioni umane, e in un certo senso perfino le strutture della personalità, che il capitale tende a produrre appunto come merci, funzionalmente al proprio valore processo di valorizzazione complessiva».[4]

  

Resistenza significa cambiarne i processi produttivi

Il nucleo del problema resta la produzione. Resistenza significa cambiarne i processi produttivi. Nela produzione capitalistica gerarchizzata i soggetti imparano la normalità del dominio, assimilano e riportano nel loro privato la logica dello sfruttamento e della negazione dell’altro. La produzione forma soggettività passive pur nella loro aggressività competitiva.
Resistere, oggi, significa trasgredire gli inutili specialismi astratti per una critica argomentata al sistema capitale non scissa dalla prassi. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita è la violenza legalizzata col sistema capitalistico.
Bisogna spostare l’attenzione sul problema essenziale, il quale, non è la distribuzione, ma la produzione che si esplica con la gerarchizzazione e con la sussunzione. La produzione con la divisione tra dominatori e dominati addomestica ed insegna la passività. La genesi della passività è nella produzione la quale forma coscienze che ipostatizzano la gerarchizzazione produttiva con cui si nega l’attività politica. La produzione passivizzante vuole formare alla normalità della pratica del dominio. Resistere e sperare significa storicizzare i sistemi produttivi per emanciparli dalla normalità della violenza globale:

«Grecchi: […] Engels ha chiarito bene che la ridistribuzione della ricchezza dipende dalla forma (privatistica e sociale) della sua produzione, e oggi la forma produttiva è quella capitalistica privata dei gruppi transnazionali…».[5]

 

La fioritura della nostra umanità

Resistere significa coltivare nella lotta la speranza di una nuova fioritura nella vita e nella storia:

«Vigna: […] La fioritura della nostra umanità è sempre inizialmente un sogno, ed è un sogno che vuole (e che deve anche) farsi reale. Perciò è necessario coltivare cose come l’audacia e la speranza, fin da quando si è giovani».[6]

Il primo esodo per una nuova cultura della Resistenza è capire i significati delle nuove liturgie del sistema con il suo linguaggio falsamente libertario e orwelliano. La speranza è prassi critica e consapevolezza teorica del luogo-mondo in cui siamo. Bisogna trovare le ragioni per resistere e sperare, non vi è resistenza senza speranza. Gli adulti devono testimoniare non la flessibilità-adattamento al sistema capitale, ma la speranza critica in opposizione alla crematistica alienante e violenta. La speranza e la resistenza hanno la loro genealogia nella testimonianza critica a cui le nuove generazioni guardano per orientarsi in una realtà depressiva che li vuole perennemente flessibili e adattabili agli ordini del capitale.

 

Note

[1] Un test statistico chiamato Shoah

il manifesto 14/02/01

La Ibm e l’Olocausto Il ramo tedesco del gigante informatico Usa fornì a Hitler il know how dello sterminio. Un libro lo svela, cinque scampati chiedono i danni GUIDO AMBROSINO – BERLINO

Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.

In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.

Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).

Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.

Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.

Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.

Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.

Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documementazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.

Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.

I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.

Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.

In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.

L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.

Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.

[2] Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia 2011, pag. 18. [indicepresentazioneautoresintesi ]

[3] Ibidem, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 77.

[5] Ibidem, pag. 115.

[6] Ibidem, pag. 118.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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28 Marzo 2022 – Presentazione del volume di Luca Grecchi “La filosofia prima della filosofia” / SFI di Taranto, Coordinamento di Ida Russo, Introduzione di Mino Ianne / Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».



A seguire:
Riflessioni di Salvatore Bravo
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Italo Calvino (1923-1985) – Due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino - Charles Fourier

È la contraddizione tra i due modi d’usare l’utopia: considerandola per quello che in essa appare realizzabile, come il modello d’una società nuova che possa crescere in margine alla vecchia per eclissarla con l’evidenza dei nuovi valori, oppure per quello che in essa appare irreducibile a ogni conciliazione, in opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa, il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci capaci di liberarci fuori.

Italo Calvino, Introduzione a Charles Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso, e altri scritti sul lavoro, l’educazione, l’architettura nella società d’Armonia, Scelta e introduzione di Italo Calvino, Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p. IX.


Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …
Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
Italo Calvino (1923-1985) – Classici sono quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – la rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare se stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

Tito Perlini 01

Tito Perlini ha osservato acutamente che nell’atteggiamento rivoluzionario di Rosa Luxemburg si rintraccia pure un aspetto importante di conservazione:

 

«Nella Luxemburg si fondono paradossalmente le figure antitetiche del rivoluzionario integrale e del conservatore. L’impegno rivoluzionario è rivolto contro il capitale, il dominio del quale sulla società non può venir corretto, ma deve essere spezzato pena la condanna della società stessa alla rovina. Ciò che si tratta di conservare è il patrimonio civile dell’umanità che rischia di venir compromesso irreparabilmente dalla barbarie capitalistica. E’ necessario rivoluzionare integralmente il modo di produzione e la rete di rapporti che da esso derivano per impedire che la sua logica infernale distrugga la civiltà umana. Negazione del passato non è la rivoluzione, ma ciò cui essa s’oppone. Il capitalismo mira solo a conservare se stesso, facendo strame del passato, imprigionando il presente nella sua cecità, togliendo al futuro ogni prospettiva rispondente ai bisogni e alle esigenze degli uomini. Il capitalismo è antitetico allo sviluppo della civiltà. Rispetto ad essa è falsa conservazione destinata a rivelarsi come il proprio contrario, come distruzione. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente che fa insieme ingiuria al passato e al futuro, ma chi insorge contro tale falsa conservazione assumendo il ruolo del rivoluzionario, teso a dar luogo ad una svolta radicale della storia per impedire a questa di precipitare nell’abisso».[1]

Parole di straordinaria lucidità, queste risalenti al 1971 di Tito Perlini a commento dell’aut-aut luxemburghiano, ancor più vere oggi, nell’epoca della devastazione ambientale del pianeta intero, in cui l’abisso che si avvicina sempre più non riguarda soltanto le modalità della convivenza umana, ma la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutti gli esseri viventi.

Franco Toscani

[1] Tito Perlini, Il ruolo della cosiddetta ‘teoria del crollo’ nel pensiero di Rosa Luxemburg, in “aut aut”, Lampugnani Nigri editore, novembre-dicembre 1971, pp. 69-70.

 


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Un percorso veritativo per uscire dal pessimismo heideggeriano del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. Il presente invoca un cambiamento di rotta.

Costanzo Preve e Heidegger

Salvatore Bravo

Un percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere
e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica.
Il presente invoca un cambiamento di rotta.

G. Klimt, Morte e Vita.

Interpretazione adattiva
L’interpretazione di Heidegger di Costanzo Preve decostruisce l’uso antimetafisico e “la trasmissione” adattiva al capitalismo assoluto del filosofo di Meßkirch. Heidegger è decodificato, e presentato dalle Accademie e dal circo mediatico, come l’autore del requiem alla metafisica, pertanto non resta che il nichilismo e il trionfo degli enti. La critica di Heidegger alla società inautentica del capitale si arena nello svelamento, nella verità che resta inattingibile (ἀλήθεια), quindi sono gli enti a regnare. L’inautentico non è trascendibile, al presente non vi è alternativa, è negata la temporalità politico-progettuale per devenire gestione economico-amministrativa dell’eterno presente. Heidegger da critico del trionfo della tecnica e della categoria della quantità nel suo imperio e dominio assoluto è trasformato in filosofo organico al potere.

Costanzo Preve, invece, interpreta Heidegger quale filosofo che legge la storia della metafisica capovolgendo la ricostruzione hegeliana: per Hegel la storia della metafisica è il progressivo svelamento della verità nella storia, per Heidegger vi è il progressivo rivelarsi della metafisica come abbandono dell’Essere e della verità. Il comunismo reale e il capitalismo sono il momento apicale del disvelamento che invoca una svolta, un ritorno sui «sentieri interrotti»:

«La connotazione heideggeriana della lunga storia del pensiero filosofico occidentale come storia universale delle avventure della metafisica, e solo nella metafisica, rappresenta la prosecuzione tematica e metodologica della concezione hegeliana della storia della filosofia non come disordinata filastrocca di opinioni casuali, ma come manifestazione storica di oggettività logiche ed ontologiche. Una simile opinione può sembrare bizzarra, se si pensa che ciò che in Hegel appare come problema un progredire temporale della consapevolezza teorica, appare in modo rovesciato in Heidegger come progressivo allontanamento da una situazione originaria migliore, e non peggiore».[1]

 

L’Essere consumato
L’Essere non si è consumato, come vorrebbero i paladini del nichilismo del capitale. Non può consumarsi l’Essere, perché la verità-fondamento è altro rispetto agli enti. Si applica volutamente la categoria del consumo all’Essere per poter escludere dalla visuale la verità e sostituirla con gli enti. Se l’Essere si è consumato nella storia come qualsiasi merce, non resta che il nulla, pertanto gli enti non incontrano limite e senso alcuno. La tecnica abita l’essere umano che agisce manipolando ”ente tra gli enti”. Con il consumo dell’Essere la storia si ritira, perché ogni progetto politico necessita di un fondamento veritativo:

«La consumazione della lunga storia occidentale in tecnica planetaria non è ovviamente una consumazione dell’Essere in quanto tale, per il fatto che la metafisica non potrebbe mai “consumare” l’orizzonte trascendentale dell’Essere stesso. Ciò che viene “consumata”, piuttosto, è la lunga serie di illusioni storiche legate all’assolutizzazione indebita degli enti via via assolutizzati».[2]

 

La “diagnosi” di Heidegger è inserita all’interno di categorie estranee alla filosofia: ottimismo/pessimismo. Heidegger sarebbe un pessimista. Il pessimismo consolida il capitalismo assoluto con la sua “filosofica disperazione”. Ogni critica che riporti il calco della disperazione e del pessimismo è un mezzo per confermare il presente. La filosofia, in quanto prassi veritativa, dovrebbe usare la categoria di vero/falso, per cui l’analisi heideggeriana svela il trionfo del falso e dell’antiumanesimo col dominio degli enti sull’umano, e indica la necessità di un cambiamento di rotta. Essa invoca e ci invoca alla ricerca della verità, ad uscire dal falso per andare incontro alla radura (Lichtung), ad orientarci verso la verità. La radura è l’immagine di uno spazio improvviso nel bosco nel quale la verità si svela in un abbaglio, la si intravede, ma non si lascia catturare, perché essa non è un ente, ma il fondamento degli stessi. La radura è una forma di “riorientamento gestaltico” per uscire dalla trappola dell’assolutizzazione degli enti e della manipolazione:

“Ma la nozione heideggeriana di Tecnica non è assolutamente avvicinabile in termini di pessimismo verso le possibilità immediate di trasformazione positiva delle cose. Si tratta di una diagnosi storica di un evento della storia dell’Essere, e le diagnosi si interrogano in base alla dicotomia vero/falso, e non in base alla dicotomia ottimismo/pessimismo».[3]

 

Compensazioni narcisistiche
L’imperio degli enti e della crematistica conducono ed inducono alla vita inautentica, essa è segnata dall’inautenticità. In assenza di un fondamento veritativo, le esistenze sono preda del caos e dell’economicismo. Il pensiero è solo calcolo quantitativo acquisitivo; pertanto l’omologazione genera forme parossistiche di identità narcisistiche, prede dell’onnipotenza mediatica dietro cui si cela il nulla: il narcisismo compensa il vuoto quotidiano:

«Mano a mano che il mondo sociale esterno non appare più come la realizzazione voluta di un cosciente progetto umano, ma come la risultante imprevedibile di meccanismi anonimi incontrollabili, il soggetto per conservare la sua identità, sia pure largamente illusoria deve autopotenziarsi e “centralizzare” il senso delle cose su se stesso e la sua attività di creazione semantica dei significati vitali».[4]

 

Prassi contro l’Evento
Costanzo Preve condivide la critica e l’appello alla verità di Heidegger, ma non può seguirne il sentiero che porta all’Evento (Ereignis). L’Evento è improvviso, viene a noi, se si abbandona il calcolo e il fare tecnico; implica l’attesa destinale. Costanzo Preve, invece, fonda il suo Umanesimo comunitario rielaborando filosofi della prassi e della responsabilità dell’agire (Aristotele, Marx, Hegel). La natura generica dell’essere umano (Gattungswesen) consente in circostanze storiche determinate di scegliere per progettare nuovi modi di vivere sul fondamento comunitario della natura umana. Nella relazione comunità individuo, vi è la prassi della verità, poiché il soggetto umano pensante sviluppa, discerne e valuta le sue potenzialità sul fondamento della verità. La politica diviene, in tal maniera, prassi e consapevolezza condivisa del limite: le libere individualità possono attualizzarsi solo nel limite. Sono i soggetti che “calcolano” con il logos la presenza ed il senso degli enti. Il soggetto umano diviene l’autore della sua storia senza titanismi:

«La comprensione di questo punto è teoricamente decisiva. Se infatti si parla di “essenza umana generica” (Gattungswesen), ciò significa che Marx pensava che l’essenza umana generica esistesse, e fosse addirittura la verità dell’uomo, più o meno come nel pensiero greco classico l’anima umana (psyché) era considerata il fondamento della verità. Per Marx, dunque, l’essenza umana generica è la verità dell’uomo. La piena comprensione di questo punto permette di escludere qualsiasi interpretazione di Marx di tipo “storicistico assoluto” in chiave di “relativismo temporale”. Se l’essenza umana generica fosse infatti soltanto l’insieme dei rapporti sociali di produzione (come Marx confusamente e contraddittoriamente fa capire in altri passi sparsi della sua opera mai rivista e tantomeno risistemata), se ne avrebbe la conseguenza che essa non esiste, e si avrebbero tante essenze umane generiche quante sono e sono state le formazioni economico – sociali umane (e cioè migliaia), il che equivale appunto a dire che essa non esiste. Lo storicismo – relativismo, ovviamente, è sempre una forma di nichilismo. Se allora io rifiuto ogni interpretazione storicistico – relativistica di Marx (la presunta essenza umana è al 100% l’insieme storicamente determinato e sempre mutevole dei rapporti sociali di produzione e di classe), devo tener ferma la posizione per cui dicendo “essenza umana generica” (Gattungswesen) Marx intendeva alludere a qualcosa di logicamente ed ontologicamente reale, e non ad una sorta di sociologismo eracliteo. Ed io penso allora che se si tiene ferma questa interpretazione si coglie il nucleo metafisico profondo del pensiero di Marx, che in caso contrario resta un evanescente fantasma».[5]

 

Impegno comune
Costanzo Preve ha aperto un campo d’azione storico, in cui tutti siamo chiamati all’impegno per uscire dalla reificazione del mercato: il primo passo è sostituire nel giudizio la categoria ottimismo/pessimismo, con vero/falso. Solo la visione argomentata e logica della verità può essere elemento motivante per uscire dall’anomia del pessimismo indotto e dalla trappola del falso:

«Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica. Questa rinuncia è gigantesca e non mi stupisce che i comunisti l’abbiano ignorata quando Lukács era in vita e poi l’hanno completamente rifiutata. Egli chiedeva al movimento comunista una conversione totale e cioè la rinuncia al presupposto religioso che il comunismo è qualcosa di ineluttabile che nasce dalle ceneri della società capitalistica e che è possibile prevedere come se si trattasse di una legge di natura. Egli ha impostato giustamente il problema anche se poi è rimasto a metà strada; non perché fosse vile ma perché era un uomo totalmente inserito nella Terza Internazionale, diceva di sé di esser un vecchio cominternista. Se devo parlare di un mio profilo filosofico posso dire che secondo me la via individuata da Lukács era giusta, ma che bisogna andare avanti, ammettendo, per esempio che, mentre la teoria della storia di Marx è strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria è idealista[6]”.

Bisogna riprendere il percorso veritativo per uscire dal pessimismo del consumo dell’Essere e dal suo uso ideologico in funzione antiumanistica. I tempi per il riorientamento non sono profetizzabili, ma il presente invoca un cambiamento di rotta non più procrastinabile. Non ci sono sentieri sicuri su cui inerpicarsi, ma dinanzi a noi sono compresenti più sentieri. Sta a noi “scegliere” quale attraversare: la storia è il luogo della scelta contro il fatalismo messianico e pessimistico.

Salvatore Bravo


[1] Costanzo Preve, Hegel Marx Heidegger, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 52.

[2] Ibidem, pag. 54.

[3] Ibidem, pag. 57.

[4] Ibidem, pag. 58.

[5] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia, pag. 16.

[6] Costanzo Preve, Apriamo i sigilli, Intervista a cura di Franco Romanò, Petite Plaisance, 2010, pag. 8.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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e saranno immediatamente rimossi.

Jules Romains (1885-1972) – La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo.

Jules Romains 001

Salvatore Bravo

Mercato e malattia

I popoli non sono più costituiti da cittadini, ma sono potenziali malati, e quindi consumatori di farmaci. La nuova plebe deve brucare farmaci. In questo modo è sancita la dipendenza dal mercato gestito dalle multinazionali e nel contempo i “farmaco-dipendenti” continuano ad essere ossessionati dalla “salute” del corpo senza spirito: scrutano dunque i sintomi di ogni potenziale malattia, ne inseguono pervicacemente l’evoluzione e le manifestazioni apprezzabili, e ne vogliono prevenire farmacologicamente lo sviluppo. La distinzione tra malati e sani diviene tanto sottile da non essere più distinguibile. L’anti-umanesimo si radica, anche, nel mito della salute ad ogni costo, del corpo come feticcio da adorare e servire, mentre la vita interiore avvizzisce e la creatività è addomesticata con la fobia della malattia. L’atomocrazia si espande mediante la paura dell’altro, il quale è portatore di virus e batteri. Ogni politica decade e si cancella nel timore che l’altro sia il latore della morte.

La trasformazione del cittadino in paziente è il successo delle multinazionali del farmaco colluse con la politica, in un flusso incontenibile e vorticoso di denaro. Non solo hanno rinnegato il Giuramento di Ippocrate, seppellendolo nella strategia di marketing, ma hanno trasformato i popoli in plebi impaurite dalla malattia. I nuovi pazienti sono sollecitati ad allungare i giorni della propria vita affidandosi religiosamente a medici e luminari che spesso sono rappresentanti delle multinazionali, sono la truppa che assalta il mercato diffondendo timori, incutendo il terrore, ammalando i pazienti che dovrebbero guarire. Il mercato trasforma il farmaco in prodotto e il cittadino in consumatore: per arrivare a questo obiettivo deve diffondere l’inquietudine della malattia. La minaccia è introiettata nel consumatore, che si auto-percepisce come malato perenne in continua lotta contro le malattie. L’attenzione è orientata alla difesa della sola “nuda vita”, ogni movimento interiore scompare nella battaglia contro le tempeste delle potenziali malattie.



Il mercato del farmaco[1] diviene “luogo dei veleni”, si inventano malattie, si aumentano gli effetti delle stesse, si insegna ad osservare i segni del suo apparire per medicalizzare i popoli e porli sotto custodia dei potentati farmaceutici e dei suoi “generali”, ormai divi televisivi che dispensano nelle loro liturgie l’imperativo categorico della medicalizzazione della vita. Sono i nuovi sacerdoti che castigano i nuovi peccati: la cura di sé dev’essere orientata al corpo biologico, ogni deviazione è un peccato che si paga con la malattia e con la morte. La nuova obbedienza è generale, la nuova chiesa è la multinazionale del farmaco che dispensa farmaci come fossero sacramenti. Si inventano malattie per aumentare, con i “sacramenti”, gli introiti. La sindrome disforica premestruale ne è un esempio: è stata creata per vendere il “Sarafem”, le inchieste lo hanno dimostrato. Il Prozac stava scadendo per cui è stato riciclato dandogli una nuova veste con cui giustificare la sua reintroduzione nel mercato. L’ansia sociale, una volta timidezza, è una nuova patologia da curare con il Paxil. Chiunque in una società competitiva mostri sintomi di ansia sociale risulta malato: per normalizzarlo si utilizza il farmaco.

Il mercato è sempre alla ricerca di nuovi malati: si può ipotizzare che il nuovo malato su cui si sta puntando possa essere “il maschio” rappresentato nelle cronache come “patologico aggressore”, e dunque, da curare. La cornice sociale con le sue dinamiche non compare, la violenza in tal modo è spiegata facendo riferimento alla “natura patologica”. Le patologie sono strategia di marketing che trovano nella cultura dell’astratto il loro humus di formazione. Se la capacità dei popoli di contestualizzare declina, è inevitabile che siano disarmati dinanzi all’esercito di “graduati” delle multinazionali. Verità e menzogna si confondono, la platea dei veri ammalati è minima, ma per vendere il farmaco è necessario allargare la platea degli ammalati. Il bio-potere colluso con la politica diviene un corpo unico che avanza con i suoi cingolati e slogan contro i popoli. Se lo dice la scienza tutti tacciono, la scienza è rappresentata come imparziale, come la divinità mondana che con i suoi oracoli indica la strada per la salvezza dalla malattia. L’astratto ancora una volta sostituisce il concreto. La letteratura umanistica e critica sempre meno praticate ci consentono di capire il presente con i suoi pericoli.

 

Knock, ovvero il trionfo della medicina
L’opera teatrale Knock, ovvero il trionfo della medicina (Knock ou Le triomphe de la médecine) di Jules Romains scritta nel 1923, denuncia la medicina che si trasforma in un affare. Il dottor Knock usa il tamburino, oggi si utilizzano i mezzi mediatici per penetrare nella psiche ed indebolire le difese critiche. Lo scopo è lo stesso: favorire la sensazione che non ci si curi abbastanza. È il nuovo peccato:

 

«K Comprendete, amico mio, quello che io voglio innanzitutto, è che la gente si curi. Se volevo guadagnare era a Parigi che m’installavo o a New York.
T Ah! Avete messo il dito sulla piaga. Non ci si cura mai abbastanza. Non ci si vuole ascoltare, e ci si tratta troppo duramente. Quando si ha male ci si sforza. Tanto varrebbe essere degli animali.
K Noto che ragionate molto giustamente, amico mio».[2]

 

A scuola di medicina
La nuova medicina per imporsi deve allearsi con l’istruzione, deve diffondere il terrore dei germi, deve favorire un’igienica distanza. Il dottor Knock si allea col maestro, l’istruzione dev’essere assimilata al bio-potere, dev’essere asservita per allevare i futuri consumatori nella paura della malattia che si trasforma nel timore dell’altro. La socializzazione dev’essere inibita in nome del terrore batteriologico, in modo da assicurarsi un fiorente mercato nel presente e nel futuro:

 

«K Vediamo! Voi eravate in relazioni costanti col dott. Parpalaid, vero?
B Lo incontravo di tanto in tanto al caffè dell’Hotel. Ogni tanto facevamo una partita al biliardo.
K Non è di quelle relazioni che voglio parlare.
B Non ne avevamo altre.
K Ma … ma … come vi eravate ripartiti l’insegnamento popolare dell’igiene, l’opera di propaganda nelle famiglie … che so … i mille compiti che il medico e il maestro non possono che svolgere d’accordo!
B Non ci eravamo spartiti nulla di nulla.
K Cosa?? Avete preferito agire ciascuno isolatamente?
B È più semplice. Non ci abbiamo pensato né l’uno né l’altro. È la prima volta che si parla di questo a San Maurizio.
K (con tutti i segni di una grande sorpresa) Ah! … Se non lo sentissi dalla vostra bocca, vi assicuro che non ci crederei.
B Sono desolato di causarvi questa delusione, ma non potevo prendere io una decisione di tal genere, l’ammetterete, anche se ne avessi avuto l’idea, e anche se il lavoro della scuola mi avesse lasciato più tempo libero.
K Evidentemente! Voi aspettavate un appello che non è venuto». [3]

L’assimilazione opera con “le parole buone che celano cattive intenzioni”. Il maestro è osannato come “autorità morale”, ma è solo il servo del nuovo marketing. La nuova medicina penetra nelle istituzioni per trasformarle in allevamento per i futuri consumatori, facendo appello al timore più inquietante, ovvero alla paura di ammalarsi e morire. Il nuovo terrore scorre e circola in nome della vita:

 

«B Qui l’acqua è buona, siamo in montagna.
K Sanno almeno cos’è un microbo?
B Ne dubito molto! Qualcuno conosce la parola, ma devono immaginare che si tratti di una specie di mosca!
K (si alza) E’ spaventoso. Ascoltate, caro signor Bernard, non possiamo riparare, noi due, in otto giorni anni di … diciamo d’incuria. Ma bisogna fare qualcosa.
B Non mi rifiuto, temo solo di non potervi essere di molto aiuto.
K Signor Bernard, qualcuno che vi conosce bene, mi ha rivelato che Voi avete un grave difetto: la modestia. Siete il solo ad ignorare che qui Voi avete autorità morale ed una influenza personale non comuni. Mi dispiace di dovervelo dire ma nulla di serio si può fare qui senza di voi.
B Voi esagerate dottore.
K Certamente, io posso curare i miei malati senza di Voi. Ma la malattia chi mi aiuterà a combatterla? Chi istruirà questa povera gente sui pericoli che ogni secondo attentano il loro organismo? Chi insegnerà loro che non bisogna aspettare di essere morti per chiamare il medico?
B Sono molto negligenti, non lo nego.
K Cominciamo dall’inizio. Ho qui il materiale di molte conferenze divulgative, note molto complete, belle figure e una lanterna (antico strumento per proiettare le diapositive). Sistemerete tutto ciò come sapete fare. Tenete, per cominciare, una breve conferenza, tutta scritta, certamente molto gradevole, sulla febbre tifoide, le forme insospettabili che prende, i suoi numerosi veicoli: acqua, pane, latte, molluschi, verdure, insalata, polvere, fiato, ecc… le settimane e i mesi durante i quali cova senza tradirsi, gli accidenti mortali che provoca immediatamente, le complicazioni temibili che trascina in seguito; il tutto abbellito da graziose vedute: bacilli ingranditi in modo formidabile, dettagli di escrementi tifoidi, gangli infetti, perforazioni intestinali, e non in bianco e nero, ma a colori, rosa, marrone, giallo, bianco verdastro come potete vedere Voi stesso (si siede di nuovo)».[4]

 

Conferenze e seminari divengono luoghi dell’ammaestramento al mercato, sono occasione per inoculare la paura e guadagnare clienti in nome della difesa della vita.

 

In farmacia
La rete medicale-mercantile si allarga, la nuova medicina trova nei farmacisti gli alleati per l’affare. Knock invita il farmacista Mousquet ad essere parte del dispositivo, bisogna trasformare la popolazione in graduati della malattia, bisogna spillare da ciascuno denaro offrendogli in cambio il prodotto salute. La persona non dev’essere più tale, ma deve sentirsi un ammalato in modo che la rete medicale possa ridurlo a cliente dell’apparto medico-mercantile, nessuno deve sfuggire al dispositivo, ma tutti vi devono partecipare:

 

«K Ammalarsi … vecchia nozione che non regge più di fronte ai dati della scienza attuale. La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Sa cosa diceva Pasteur: “Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo”. Per parte mia io conosco solo gente più o meno affetta da malattie, più o meno numerose ad evoluzione più o meno rapida. Naturalmente se Voi andate a dir loro che stanno bene … non chiedono di meglio che credervi, ma Voi li ingannereste. Vostra sola scusa sarebbe che avete già troppi malati da curare per prendere di nuovi. Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … così come in un esercito ci sono i soldati, i graduati, gli ufficiali, i generali …
M In ogni caso è una gran bella teoria.
K Teoria profondamente moderna, signor Mousquet, riflettete, è parente molto prossima dell’ammirabile idea della nazione armata che fa la forza dei nostri stati.
M Voi siete un pensatore dottor Knock, e i materialisti avranno un bel sostenere il contrario, il pensiero guida il mondo.
K (si alza) Ascoltatemi! (Tutti due sono in piedi) Può essere che io sia presuntuoso. Forse mi aspettano amare disillusioni. Ma se, in un anno, giorno dopo giorno, Voi non avrete guadagnato i venticinquemila franchi netti che vi sono dovuti, se madame Mousquet non avrà le gonne, i cappelli e le calze che la sua condizione esige, vi autorizzo a venirmi a fare una scena qui e vi porgerò le guance perché possiate schiaffeggiarmi.
M Caro dottore, sarei un ingrato se non vi ringraziassi con effusione e un miserabile se non vi aiutassi con tutto il mio potere».[5]

 

Moda per ammalati
I nuovi poteri si alleano con i nuovi. Si viene a riprodurre una nuova configurazione, una nuova geometria. La signora in viola è una nobile decaduta, comprende la finalità del medico e subodora l’affare. Propone di usare il suo prestigio sociale per incoraggiare “la pubblica salute”, per vincere reticenze e timori, in cambio risolverà i suoi problemi economici lanciando camicie da notte per gli ammalati. L’affare si allarga, diventa tentacolare:

 

 «SV Ecco. Ho voluto dare l’esempio. Trovo che voi avete avuto una bella e nobile ispirazione. Ma conosco la mia gente. Ho pensato: “Non ne hanno l’abitudine, non ci andranno. E questo signore ci resterà male per la sua generosità”. E mi sono detta: “Se vedono che una signora Pons, signorina Lempoumas, non esita a inaugurare le consultazioni gratuite, non avranno più paura di presentarsi”, perché i miei anche minimi gesti vengono osservati e commentati. Il gioco è fatto. Ci sarà la fila fra poco qui fuori, caro dottore.
K Il vostro comportamento è molto lodevole signora. Vi ringrazio.
SV (si alza e fa come per ritirarsi) Sono felice, dottore, di aver fatto la vostra conoscenza. Resto a casa tutti i pomeriggi. Viene sempre qualcuno. Facciamo salotto attorno a una vecchia teiera Luigi XV che ho ereditato dai miei avi. Ci sarà sempre una tazza a parte per Voi (Knock si inchina, la signora in viola avanza verso la porta). Sapete che io sono veramente molto, molto tormentata dai miei affittuari e dai miei titoli. Passo delle notti senza dormire. E’ orribilmente stancante. Non conoscete, dottore, un segreto per far dormire?».[6]

 

Vecchia e nuova medicina
Il dottor Parpalaid simbolo della medicina della cura e non dell’affare vorrebbe riprendere il suo posto, ma il dottor Knock riesce a gabbarlo, ad incutere anche in lui il timore della malattia. La vecchia medicina è sconfitta. Al suo posto vi è l’immenso potere della nuova medicina penetrata in ogni gesto, parola, pensiero e comportamento. Il paesaggio è impregnato di medicina e di ammalati. Il mercato ha fagocitato il paese vivo. Al suo posto vi è un immenso affare, pazienti intimoriti dalla malattia e dalla morte e dunque manipolabili:

 

 

«K Perbacco! Guardate un po’ qua, dottor Parpalaid, certo conoscete la vista che si ha da questa finestra, tra una partita di biliardo e l’altra, a suo tempo, non avete potuto non vedere: là in fondo il monte Aligre che segna il confine del Comune. I paesi di Mesclat e di Treburn si intravedono a sinistra; e se, da questo lato le case di San Maurizio non facessero una specie di rigonfiamento, avremmo d’infilata tutti i cascinali della valle. Voi non avrete visto in ciò null’altro che quelle bellezze naturali di cui siete avido. È un paesaggio rude, a malapena umano, che contemplavate. Oggi ve lo mostro tutto impregnato di medicina, animato e percorso dal fuoco sotterraneo della nostra arte. La prima volta che mi sono piantato qui davanti, il giorno dopo del mio arrivo, non ero molto fiero, sentivo che la mia presenza non aveva gran peso, che questo vasto territorio esisteva indipendentemente da me e dai miei simili. Ma ora io sono a mio agio qui come un organista davanti al suo grande organo. In duecentocinquanta di queste case – non le vediamo tutte a causa del fogliame – ci sono duecentocinquanta camere dove qualcuno s’inchina alla medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo steso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso medico. La notte è ancora più bello, perché ci sono i lumi. E quasi tutte le luci sono mie. I non malati dormono nelle tenebre. Sono spariti. Ma i malati hanno tenuto la loro lampada accesa. La notte mi sbarazza di tutto quello che è rimasto ai margini della medicina, me ne nasconde il fastidio e la sfida. Il cantone lascia il posto ad una specie di firmamento del quale io sono il creatore continuo. E non vi dico delle campane. Pensate che per tutti loro, il primo compito delle campane è ricordare le mie prescrizioni dato che esse ne sono la voce. Pensate che tra qualche minuto suoneranno le dieci, che per tutti i miei malati le dieci sono la seconda misurazione della temperatura rettale, e che tra qualche istante, duecentocinquanta termometri penetreranno allo stesso tempo…». [7] Atto III

 

L’opera del 1923 è profetica. È stata rappresentata a teatro come in film. Ci parla ancora, è viva nella sua verità, e pone il problema fondamentale che si vuole rimuovere, ovvero il senso della medicina e dell’informazione. Al suo posto, oggi, in attesa che la domanda si ponga, imperano le sirene delle multinazionali e dei suoi gendarmi.

Salvatore Bravo

[1] Farmaco deriva dal greco φαρμακον, pharmakon, che vuol dire “rimedio, medicina”, ma anche “veleno”.

[2] Knock, ovvero il trionfo della medicina, Knock e il tamburino.

[3] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[4] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[5] Ibidem, Knock e il farmacista Mousquet.

[6] Ibidem, Knock e la signora in viola.

[7] Ibidem, Atto III.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Thomas Isidore Noël Sankara (1949-1987) – Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire.

Thomas Sankara 01

L’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a conquistare un territorio, imperialismo è più spesso ciò che si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente ad un pugno di uomini sulla terra di comandare tutta l’umanità.

Thomas Sankara


Per ottenere un cambiamento radicale
bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire.
Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire.

Thomas Sankara


Salvatore Bravo

Il Che Guevara africano

Thomas Isidore Noël Sankara (Yako, 21 dicembre 1949 – Ouagadougou, 15 ottobre 1987) è stato Presidente del Burkina Faso dal 1983 al 1987, anno in cui fu assassinato durante un colpo di Stato sostenuto dalla Francia e dagli Stati Uniti. Sankara affermava che le idee non muoiono, che si possono ammazzare coloro che le professano, ma le idee sopravvivono. Sankara non è stato un santo, ma è stato comunque un martire, perché in nome del popolo e delle idee ha sacrificato la sua vita, ha lasciato una traccia su cui abbiamo il dovere di pensare e costruire un modello altro rispetto all’attuale. Aveva ben chiaro che la politica deve gestire l’economia, e che senza tale dialettica non si hanno che oligarchie che dominano e riducono repubbliche e democrazie a pura attività procedurale. Il suo discorso sul debito all’Organizzazione per l’Unità Africana del 29 luglio 1987 ci parla ancora, perché esplicita una verità che vale per i paesi africani, ma anche per i paesi occidentali. Il colonialismo non è terminato, ma ha cambiato forma, anzi è diventato più subdolo. Per dominare uno Stato non necessariamente si devono utilizzare i cingolati: uno Stato può essere dominato con i prestiti. Questi ultimi sono il mezzo con cui la finanza controlla l’economia e la politica, interviene in esse, ne determina le finalità. I nemici dell’Africa non sono i precari diffusi in ogni nazione, ma le oligarchie globali che cannibalizzano i popoli con prestiti che determinano forme di dipendenza e ingerenza distruttive:

 

Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo.Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici anzi dovremmo invece dire «assassini tecnici». Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei «finanziatori». Un termine che si impiega ogni giorno come se ci fossero degli uomini che solo «sbadigliando» possono creare lo sviluppo degli altri [gioco di parole in francese sbadigliatore/finanziatore, bâillement/bailleurs de fonds]. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Signor presidente, abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri.[1]

 

L’internazionale delle patrie può essere un argine a tale strategia di dominio neocoloniale. Non a caso Sankara cambiò il nome al proprio Stato appena insediatosi, da Alto Volta Burkina Faso, il primo era un nome dato dai colonialisti francesi, in cui il popolo non poteva identificarsi, il secondo è un nome che fa riferimento alla storia e alle tradizione del suo Stato.

Autonomia
Il Burkina Faso (Paese degli uomini integri) è un progetto di riconquista della sovranità popolare, in modo che il popolo sia agente attivo del suo sviluppo e non certo “plebe” che vive degli aiuti alimentari internazionali. Non praticò l’autarchia, ma l’autonomia dello Stato dalla dipendenza alimentare e delle merci. Tutto ciò che poteva essere prodotto in Burkina Faso andava favorito, in modo da consolidare lo Stato e formare una diffusa classe media. Cercò di fermare la desertificazione piantando 10 mln di alberi. La politica patria doveva rispondere alle esigenze della popolazione, senza contrapporsi agli altri popoli. Tale transizione verso un’effettiva indipendenza fu sostenuta con un processo di alfabetizzazione, circa il 70% della popolazione fu alfabetizzata durante i pochi anni della sua presidenza. Il popolo doveva diventare consapevole che la crisi è un mezzo per passivizzare il popolo, chiuderlo in uno stato di minorità permanente. La crisi economica dev’essere compresa nel suo significato politico, essa non è un evento fatale o naturale, essa è causata dalle oligarchie, pertanto comprenderla significa porre le condizioni per defatalizzare il destino degli Stati:

Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individui. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassi fondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.[2]

 

Si esce dalla crisi con l’autonomia della patria, che pone le condizioni per i diritti sociali e l’emancipazione. Il popolo è un’unità complessa, per cui tutti i suoi componenti devono partecipare alla vita politica. Lottò contro le discriminazioni, e per la pari dignità delle donne. Non volle pagare i debiti dello Stato per liberarsi dalla dipendenza economica che assoggetta i popoli, e consente alle logiche gerarchiche di perpetuarsi. Il ciclo debito-pagamento è funzionale a lasciare gli equilibri del potere stabili, e a neutralizzare la consapevolezza dei popoli. La dipendenza sviluppa nei popoli uno stato di prostrazione psicologica di cui i poteri approfittano per dominarli perennemente, per cui cancellare i debiti indotti da politiche neocoloniali e oligarchiche è il primo passo per rendere autonomi uno Stato e ridare dignità ai popoli:

Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire al contrario che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi, sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe qui che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da «giovani», senza maturità e esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto.[3]

 

Armi e plebeizzazione dei popoli
La vendita delle armi da parte di paesi democratici e non è uno dei mezzi più efficaci per dominare i popoli, in particolare i popoli africani, con le armi si sostiene l’odio tribale, con le armi la violenza diventa la normalità che inibisce la crescita economica e civile. Un popolo che ha paura non è mai libero, le armi diffondono insicurezza, inducono ad invocare i governi “forti” per difendere la vita. Le armi non sono semplici merci, ma un mezzo per soggiogare i popoli africani con le divisioni e le guerre intestine sostenute dalle multinazionali delle armi:

E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. È contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano .Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che a partire da Addis Abeba decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i macete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo.Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonnade, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione ed io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. È il solo modo di vivere liberi e degni. La ringrazio Signor presidente. Patria o morte, vinceremo![4]

 

Quando Thomas Sankara fu ucciso possedeva solo una casa col mutuo ancora da pagare e il suo conto in banca era appena attivo. Nei pochi anni della sua presidenza ha ottenuto risultati sorprendenti:

 

  • Vaccinati 2.500.000 bambini contro morbillo, febbre gialla, rosolia e febbre tifoide. L’Unicef stesso si complimentò con il governo.
  • Creati Posti di salute primaria in tutti i villaggi del paese.
  • Aumentato il tasso di alfabetizzazione.
  • Realizzati 258 bacini d’acqua.
  • Scavati 1.000 pozzi e avviate 302 trivellazioni.
  • Stoccati 4 milioni di metri cubi contro 8,7 milioni di metri cubi di volume d’acqua.
  • Realizzate 334 scuole, 284 dispensari-maternità, 78 farmacie, 25 magazzini di alimentazione e 3.000 alloggi.
  • Creati l’Unione delle donne del Burkina (UFB), l’Unione nazionale degli anziani del Burkina (UNAB), l’Unione dei contadini del Burkina (UPB) e ovviamente i Comitati di difesa della rivoluzione (CDR), che seppur inizialmente registrarono alcuni casi di insurrezione divennero ben presto la colonna portante della vita sociale.
  • Avviati programmi di trasporto pubblico (autobus).
  • Combattuti il taglio abusivo degli alberi, gli incendi del sottobosco e la divagazione degli animali.
  • Costruiti campi sportivi in quasi tutti i 7.000 villaggi del Burkina Faso.
  • Soppressa la Capitazione e abbassate le tasse scolastiche da 10.000 a 4.000 franchi per la scuola primaria e da 85.000 a 45.000 per quella secondaria.
  • Create unità e infrastrutture di trasformazione, stoccaggio e smaltimento di prodotti con una costruzione all’aeroporto per impostare un sistema di vasi comunicanti attraverso l’utilizzo di parte di residui agricoli per l’alimentazione.[5]

 

L’impossibile è possibile.

Coloro che invocano come unica soluzione per gli Stati africani l’emigrazione – che dissangua l’Africa delle sue energie migliori per compensare la denatalità dell’Occidente e favorire la precarizzazione generalizzata –, lavorano comunque per le oligarchie, talvolta con le migliori intenzioni, altre in modo palesemente complice.

Salvatore Bravo

***

[1] Discorso di Sankara sul debito all’Organizzazione per l’Unità Africana del 29 luglio 1987.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Fonte Wickipedia


Alessandro Aruffo, Sankara. Un rivoluzionario africano, Massari, 2007


Carlo Batà, L’Africa di Thomas Sankara, Achab, 2003.


Giuliano Cangiano, Sostiene Sankara. Racconti disegnati di felicità rivoluzionarie, Becco Giallo, 2014


Marinella Correggia (a cura di), Thomas Sankara, il presidente ribelle, Manifestolibri, 1997


Thomas Sankara Speaks. The Burkina Faso Revolution, 1983-87, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 1988


Thomas Sankara, I discorsi e le idee (a cura di Marinella Correggia, introduzione di Paul Sankara), Sankara, 2006.


Valentina Biletta, Una foglia, una storia. Vita di Thomas Sankara, Ediarco, 2005.


Vittorio Martinelli (con Sofia Massai), La voce nel deserto (prefazione di Jean-Léonard Touadi), Zona, 2009


We Are the Heirs of the World’s Revolutions. Speeches from the Burkina Faso Revolution 1983-87, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 2007


Women’s Liberation and the African Freedom Struggle, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 1990


Thomas Sankara : La mia rivoluzione si chiamava felicità.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Eugenio Montale (1896 – 1981) – La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta, la sua direzione non è nell’orario. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.

Eugenio Montale, La storia

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

 

Eugenio Montale, [1]

 

Il presente non è tutto
Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:

 

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.

 

Piani di passaggio
La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:

 

La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli.

 

 

Fuori dalle reti
Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:

 

C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

 

Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.

Salvatore Bravo

 

[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Theodor L. Adorno (1903-1969) – … quando il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita … ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente l’opposto del tempo realizzato … Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.

Theodor Ludwig Adorno - il tempo

Solo un quarto d’ora. Notte insonne: si può definire con una formula: ore tormentose, trascinate senza la prospettiva di una fine o dell’alba, nel vano sforzo di dimenticare la vuota durata. Ma ad incutere spavento sono le notti insonni in cui il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita. Uno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare qualche conforto. Ma mentre non può calmare i suoi pensieri, va sprecato per lui il tesoro prezioso della notte, e prima di essere in grado di non vedere più nulla sotto le palpebre accese, sa che è ormai troppo tardi, e che presto il mattino lo farà destare di soprassalto. Può darsi che, per il condannato a morte, l’ultimo spazio di tempo che gli rimane passi così, inarrestabile e inutilizzato. Ma ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente l’opposto del tempo realizzato. Mentre in questo la forza dell’esperienza spezza l’incantesimo della durata e concentra nel presente il passato e il futuro, nella notte insonne e affannosa la durata genera un orrore intollerabile.

La vita umana si riduce a un istante non già perché sopprima e conservi in sé la durata, ma perché cade in balia del nulla, e si ridesta alla coscienza della sua vanità di fronte alla cattiva infinità del tempo stesso. Nel ticchettio fragoroso dell’orologio si percepisce, per così dire, lo scherno degli anni luce per la breve durata della nostra esistenza. Le ore che sono svanite come secondi prima ancora che il senso interno le abbia afferrate e fatte sue, e che lo travolgono con sé nella loro caduta precipitosa, gli dicono che anch’esso, come ogni memoria, è votato all’oblio nella notte cosmica. Oggi gli uomini sono costretti, che lo vogliano o meno, a prenderne atto. Nello stato di perfetta impotenza in cui si trova, lo spazio di tempo che gli è stato lasciato da vivere appare all’individuo come una breve dilazione prima dell’esecuzione della sentenza. Egli non si aspetta più di poter vivere la propria vita fino in fondo, secondo la misura delle sue forze. La prospettiva della morte violenta e della tortura, che è presente ad ognuno, si prolunga nell’angoscia di chi sa che i giorni sono contati, e che la lunghezza della propria vita è soggetta a leggi statistiche; che la possibilità di invecchiare è diventata, per così dire, un privilegio sleale, che deve essere carpito astutamente alla media degli uomini. Forse la quota di vita che la società mette a disposizione dei suoi membri, riservandosi di revocarla in qualsiasi momento, è già esaurita. Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.


Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.
Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.
Theodor L. Adorno (1903-1969) – Il fatto che a filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico.
Theodor L. Adorno (1903-1969) – l’ontologia di Heidegger finisce in una terra di nessuno. In ciò si manifesta la miseria del pensiero che vuoI giungere al suo altro, e non può permettersi nulla senza timore di perdervi ciò che afferma. La filosofia diventa tendenzialmente gesto rituale. In esso però c’è anche qualcosa di vero: il suo ammutolirsi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
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Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Günter Anders 10

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria.

Goffredo Fofi


Salvatore Bravo

I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo
di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità

***

 

Cinismo
Il cinismo dei nostri giorni ha bisogno d’essere compreso, trasformato in concetto per poter ipotizzare la possibilità della prassi e dell’esodo dal pantano dall’anomia etica in cui siamo intrappolati. Solo lo sguardo filosofico della civetta-filosofia può penetrare il buio senza distogliere la vista dal vorticoso nichilismo nel quale siamo immersi. Il nichilismo lasco nelle parole, e distruttivo nelle azioni è la verità con cui ci si deve confrontare senza infingimenti. Quando il reale storico con la sua violenza opportunistica aggredisce ogni energia positiva, ogni pensare creativo – rappresentandolo come “pia illusione” per poter giustificare la pratica del cinismo – è facile lasciarsi conquistare dalla cattiva politica per disperazione. Il nichilismo inquina le acque della creatività ed insidia ogni resistenza con la sua rappresentazione del reale come unico possibile, come un destino che fatalmente tutto divora senza speranza alcuna. A volte, rileggere i racconti brevi di Günther Anders, quasi degli aforismi, può essere di ausilio per vedere con gli occhi della mente ciò che solitamente rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare. La letteratura filosofica può essere un percorso di liberazione dal velo di Maya che offusca l’agire e la visione della verità. Essa è, con i suoi simboli-concetto, veicolo di attraversamento della notte oscura in cui siamo. Guardare il buio è già l’inizio di una nuova alba. Le contraddizioni sono la breccia verso un nuovo mondo: senza di esse non vi è prassi e non vi è vita degna di essere vissuta.

Lo sguardo dalla torre
Lo sguardo dalla torre è un breve testo scritto da Günther Anders nel 1932. Lo sguardo che cade dall’alto è il segno di una distanza che modifica il reale storico in sguardo psicotico, in fuga dalla realtà, per rifugiarsi in una distanza che non vuole vivere e pensare la tragedia con le sue contraddizioni. La distanza rende la verità un gioco, una finzione a cui si può assistere senza esserne coinvolti: pertanto è respinta la responsabilità etica e la sofferenza che comporta. La distanza diviene il rifugio da cui ci si protegge nell’illusione che ciò che accade non ci coinvolge e non ci chiama in causa. La torre descritta da Günther Anders è metafora dell’uso delle tecnologie che allontanano dall’impegno storico, esse sono il mezzo con cui il potere neutralizza la partecipazione. Lo sguardo della tecnologia si installa in noi ed educa alla distanza, all’anestesia del concetto e del sentimento. La sostituzione della realtà diretta con l’immagine di essa forma ad un comportamento “psicotico”: ci si rifugia in una torre interiore che non si lascia toccare da nulla. Si assiste, dunque, passivamente all’accadere storico. Anzi, l’inquietudine della realtà e l’incapacità acquisita ad orientarsi nelle tragedie storiche rafforzano l’eternizzarsi del gioco, del virtuale sul reale, eternizzando il presente. Scendere dalla torre interiore diviene, in tal modo, il primo atto di emancipazione senza il quale nulla può iniziare:

 

«Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica[1] gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò a malapena nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!”».[1]

 

Lo sguardo all’insù
Lo sguardo all’insù, del 1957, ancora una volta descrive la distanza da un’altra prospettiva. In questo caso dal basso. Non più un singolo, ma un gruppo umano – abituato ad un quotidiano senza emozioni – assiste al suicidio di un loro simile senza far nulla per la sua salvezza. Lo spettacolo del tentativo di suicidio è vissuto come un evento che rompe il ritmo quotidiano: pertanto è occasione per liberarsi dalla noia. Gli spettatori non si pongono domande, non empatizzano. Continuano, mentre assistono all’insolita rappresentazione, a gestire i loro affari. L’impazienza e la curiosità li solleticano a restare, perché desiderosi di sapere-vedere se il suicida porterà a termine il suo proposito. La distanza cinica è la vera protagonista del racconto. Ripiegati su se stessi, “educati” all’atomistica delle solitudini, quegli uomini sono ormai incapaci di sentirsi parte di un tutto, sono monadi abituate a consumare le loro vite come fossero pratiche burocratiche da espletare. Il suicida ha su di sé lo sguardo degli altri. Per la prima volta è oggetto, si può dedurre, dell’attenzione dei suoi simili. Deve accontentarsi di una sguardo anonimo, perché vive in una realtà di cecità emotiva assoluta. Il suicida è la disperazione della normalità che cerca di essere riconosciuta in modo distorto e assurdo, perché solo un gesto estremo può provocare l’attenzione di coloro che vivono nell’indifferenza. La disperazione cade dall’alto e si muove dal basso, le disperazioni si incrociano, ma sono diverse: il suicida ha un livello di consapevolezza più alto, ma senza prospettiva. La curiosità – alla fine – è soddisfatta: il suicidio si realizza, e quindi il gruppo raccogliticcio ed occasionale si scioglie e ritorna «alla patologica normalità di ogni giorno»:

 

«”Coraggio, sbrigati!” gridava la folla verso l’alto, dove alcuni avveduti – stavano ancora indicando all’insù coi loro bastoni da passeggio – avevano individuato sul davanzale della più alta finestra della torre qualcosa di minuscolo, riconoscibile dai nuovi sopraggiunti solo dopo pochi istanti, qualcosa di nero, che non poteva essere nient’altro che un uomo arrampicatosi fin là per buttarsi nel vuoto “Coraggio, sbrigati!” gridavano, perché, come annunciava uno sprezzante brusio, era già da un’ora buona che quell’uomo stava perdendo tempo, e dopo quest’ora buona non era ancor riuscito a prendere la sua decisione – “Coraggio, sbrigati!” gridavano, e alcuni: “Salta, deciditi!” e altri: “Per quanto tempo ancora dovremo aspettare in piedi?” – e poco a poco le loro voci sfociarono in un generale mormorio collettivo, e poi in un generale gridare spazientito e indignato, come se egli, per il fatto di starsene lassù in alto, avesse assunto l’obbligo di fare ciò per cui loro erano appostati lì con le bocche aperte: vale a dire, o lasciarsi cadere come una pietra, oppure – cosa che avrebbero forse preferito vedere – esibirsi in un perfetto tuffo di testa attraverso il blu del cielo di mezzogiorno; e come se costoro, dal momento che era proprio per amor suo che erano rimasti lì in piedi, e per amor suo avevano abbandonato i loro affari, avessero diritto non soltanto a questo spettacolo, ma anche a che egli non continuasse a rimandarlo di un altro istante; e come se quel che si trovava lì sotto di lui non fosse la marea di tetti della città, ma il mare vero nel quale gettarsi e immergersi, in questa caldissima giornata d’agosto, per poter rimediare un invidiabile refrigerio. Ed era per lui, che in maniera così imperdonabile veniva meno ai propri doveri, che essi ora là sotto, altrimenti così tanto coscienziosi, stavano sottraendosi ai loro doveri – cosa che comunque continuavano a giudicare inconcepibile–; e se poi egli, mentre si raccoglieva per la sua ultima decisione impiegandoci così tanto tempo, potesse in qualche modo distinguere la folla che da laggiù, accalcata testa a testa, lo stava scrutando, e se avesse percepito il baccano dell’affollamento, se egli facesse in qualche modo riferimento a questo chiasso, sempre che l’avesse percepito, se egli intuisse che fra coloro i quali avevano perso la pazienza, perché la lunga attesa cominciava a essere un peso per tutti e perciò iniziarono tutti insieme a gridare in coro, se intuisse che fra questi vi fossero anche conoscenti o suoi amici, non ci è dato saperlo con certezza. È certo invece che il loro numero cresceva di minuto in minuto. E che a nessuno, fra le persone bloccate tra la folla in attesa già da un’ora, parve saltar in mente di abbandonare lo spettacolo prima dell’atto conclusivo, o addirittura tentar di defilarsi dalla folla per dare seguito ai propri affari. In ogni caso rimasero tutti così immobili, come se quel giorno fosse stato un giorno di festa in cui a nessuno sarebbe potuto sfuggire qualcosa, e con lo sguardo fisso verso l’alto; ed è verosimile che costoro sperassero al tempo stesso non soltanto ch’egli finalmente saltasse giù, ma anche che non saltasse proprio adesso, no, forse che addirittura non saltasse mai, perché dopo il salto sarebbe tutto tornato come un tempo – una situazione estremamente sgradevole e mortalmente noiosa che, già adesso probabilmente, nessuno vedeva di buon occhio, tanto quanto il fatto che l’uomo non fosse ancora saltato giù. Solo dopo, quando l’attesa fu interrotta dal suo lancio nel vuoto, e senza nessun preavviso per altro, cosicché molti di loro mancarono scandalosamente il momento cruciale; solo dopo che egli, rotolando in aria più volte su se stesso come un sacco o una pietra, si era lanciato sfiorando il muro della torre, per poi schiantarsi a terra con un tonfo, laggiù dove egli (sicuramente il più irriconoscibile) si era ferito mortalmente assieme a tre dei curiosi che la folla aveva spinto direttamente ai piedi della torre; solo dopo essersi rassicurati, perché «era proprio ora», solo in seguito iniziarono tutti a spingersi lentamente l’un contro l’altro, molti col viso indispettito, e solo in seguito iniziarono a confessarsi che gli affari, tuttavia, sarebbero continuati, e che forse erano addirittura continuati nel frattempo».[2]

 

Il fuori che è andato perduto
Dove fuggire in un mondo reso omogeneo dalla tecnocrazia, dalla violenza dell’efficientismo orbo di ogni ideale e senso?
In Il fuori che è andato perduto, del 1958, Günther Anders descrive il pianeta ormai globalizzato e sussunto al pensiero-governo unico, in cui le nazioni sono scomparse perché il potere è globale. Il pianeta è una grande prigione senza speranza e senza politica, non vi sono modelli sociali alternativi, non vi è la dialettica politica, ma regna solo la violenza del pensiero unico. Il racconto sembra parlarci dell’attualità e del futuro prossimo possibile, in cui l’imperio della lingua unica, l’inglese, si associa al modello economico unico, il liberismo, che penetrano ogni spazio geografico e mentale per restituirci la trasformazione del globo in un’immensa gabbia d’acciaio senza uscita e prospettiva:

 

«Quando nell’anno 2058, mezzo secolo dopo la fondazione dello Stato mondiale, un alunno lesse nella ‹Storia del 20° secolo› la frase: “Nei momenti in cui qua e là il peso delle dittature diveniva insopportabile, c’erano sempre folle di fuggiaschi”, chiese – perché per lui che il mondo fosse uno ed ermeticamente chiuso era assolutamente scontato: “Folle di fuggiaschi? Ma che significa? E dove mai poterono scappare? C’era davvero un fuori?” – Ed esclamò, colmo di disprezzo, come se per lui queste domande fossero già state risolte, e come se la condizione misera in cui era nato potesse essere un motivo d’orgoglio o addirittura un merito personale: “Guarda un po’, un ‹peso› le avevano definite quelli!” – Dal che si deve imparare che dovremmo riflettere tre volte prima di fondare uno Stato mondiale. Perché laddove ve ne è soltanto uno, allora non rimane più nessuno spazio al di fuori. Quindi nemmeno alcun rifugio possibile».[3]

 

Günther Anders tratteggia con la sua scrittura pungente e priva di “ogni morbidezza” i pericoli del tempo presente, in lui lo sguardo filosofico diviene “senso storico” e capacità di inseguire le dinamiche storiche nel loro sviluppo futuro. Günther Anders ci avverte dei pericoli a cui andiamo incontro, descrive il tempo presente con la lucidità e l’onestà tipica di un inattuale come lui, che – per comprendere – si è reso disorganico ad ogni potere.
La resistenza è sempre possibile ed è sempre in fusione combinata con la concettualizzazione del reale storico. Ma resistere non basta, è necessario partecipare alla creazione di una nuova visione del mondo, è necessario sottrarsi all’accettazione passiva degli automatismi indotti in ogni sfera e ri-forgiare l’umanità di ogni atto umano, consapevole e/o spontaneo, al fine di poter contribuire allo sviluppo un nuovo umanesimo comunitario.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Günther Anders, Lo sguardo dalla torre: Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, Mimesis, Milano 2011, pp. 8.

[2] Ibidem, pp. 106 107.

[3] Ibidem, pp. 57-58.


Dalla Prefazione

di Goffredo Fofi

Non credo esista un filosofo che dall’esperienza del Novecento abbia tratto considerazioni così pregnanti come Günther Anders, in particolare in quell’immenso saggio in tre parti che è L’uomo è antiquato, un libro chiave, un libro poco letto e poco amato dagli stessi filosofi che, rifiutando o non riuscendo a guardare in faccia la realtà, continuano a gingillarsi con i problemi di una vita quotidiana che non è mai stata così avariata e di una morale che non è mai stata così fragile e provvisoria. Che non sentono affatto il peso di quella «vergogna prometeica» che pure è avvertita più o meno coscientemente anche da persone comuni e senza studio: la nostra dissociazione dalle cose che noi e quelli come noi hanno prodotto, la perdita di senso della nostra esistenza divisa tra le immense potenzialità della tecnica (dei suoi prodotti continuamente rinnovati, e tutti in definitiva destinati alla distruzione, il cui solo scopo è quello di venir distrutti) e la nostra possibilità di intenderli, l’incapacità di ciascuno di elaborare una morale del loro uso, la nostra sottomissione ai nostri prodotti, l’acquiescenza ai messaggi mediatici che ce li impongono e che, imponendoceli, impongono altresì l’adesione al sistema che ce li offre.
L’uomo stesso, dice Anders, sta scomparendo, grazie all’oscura azione della tecnica e della genetica, e cambia di sensibilità e di conformazione, secondario alle cose e infinitamente più deteriorabile delle cose a cui ha dato forma e presenza, cui ha permesso il diritto a un’esistenza che ci oltrepassa. L’uomo è diventato antiquato, non può che contare sempre di meno rispetto al concreto inganno in cui si è involto, e se ci saranno ancora uomini, a costoro – come già ci accade così spesso di constatare –, delle qualità che hanno caratterizzato nei secoli l’umano resterà ben poco: mutanti e mutati, astorici per la mutazione stessa della storia.
Tra poco, se sopravviveremo – perché è di noi medesimi che parliamo –, e già ora per notevole parte, saremo irriconoscibili a noi stessi.
Abbiamo conosciuto per primo l’Anders del «pilota di Hiroshima», del rischio atomico, del pacifismo radicale, grazie, in Italia, all’opera di traduttore e diffusore di Renato Solmi presso le edizioni Einaudi. Anders venne a Torino nei primissimi anni sessanta e ricordo, al Centro Gobetti, un incontro non felice con il gruppo dei Quaderni Rossi, ancora presi di rivoluzione operaia e di «marxismo critico» e troppo chiusi sull’immediato dei «rapporti di proprietà» per accettare una visione del presente e del futuro più ampia e, per dirla tutta, post-socialista… Anche coloro che, vicini all’area nonviolenta dei movimenti di quegli anni di «prima del ‘68», non mi pare capissero fino in fondo la novità e l’attualità del discorso di Anders, poiché tutti, dico tutti, eravamo imbevuti di quell’ideologia del progresso che si era imposta al senso comune negli anni della ricostruzione, e da quell’illusione di rivoluzione che, in vario modo, attraversava allora il pianeta – una guerra perduta. Il contingente ci velava il soggiacente, il mutamento irreversibile che pure, a saper guardare, era più che evidente.
Ritrovammo Anders molti anni dopo, nel pieno di quegli anni ottanta che volevano sancire la «fine della storia» e che ormai rendevano evidente la sua attualità e la centralità del suo pensiero, capace di spingersi più oltre di qualsiasi altro e vedere quel che ci si era ostinati e ancora ci si ostinava a non voler vedere. Fu sulle colonne di “Linea d’ombra”, dove la firma di Anders comparve più e più volte grazie alla nostra affettuosa insistenza sullo stesso Anders, per il tramite di un’amica che lo visitava spesso a Vienna comunicandogli la nostra ammirazione e il nostro affetto, Ea Mori.
Ora Anders veniva infine conosciuto e studiato anche nel nostro paese. E veniva infine nuovamente tradotto permettendoci di scoprire le molte facce della sua attività e, tra l’altro, la durezza della sua critica al generico pacifismo e alle superflue marce domenicali dei nonviolenti, da lui definite happening. Il suo sarcasmo ci colpì e ci convinse, con la proposta che ne stava al fondo, dell’indispensabilità di un’azione ben più dura nei confronti di un nemico senza volto che ossessivamente trasformava il mondo – e che oggi il movimento degli Occupy ha finalmente individuato, senza nessuna possibilità di errore, in Wall Street e in genere nella grande finanza. Di fronte all’enormità dell’aggressione, occorrevano – occorrono – risposte adeguate che, se in Anders non rifuggivano più dall’appello alla violenza, in altri avrebbero ben potuto essere quelle, mai praticate o fiacchissimamente dai movimenti pacifisti e nonviolenti, della disobbedienza civile. E questo non è un altro discorso!
Ma esiste un terzo Anders, a fianco dell’Anders filosofo e dell’Anders della guerra e della pace, ed è l’Anders letterato e scrittore, critico e interprete non soltanto nei modi tradizionali dell’esercizio della filosofia e della critica, ma aperto alle commistioni, poiché sempre di una stessa cosa egli deve – e si deve infine parlare –, anche per essere ascoltati oltre l’ignobile chiacchiericcio dei media e dei pensatori autorizzati.
In questo prezioso ed esaltante volume curato da Devis Colombo scopriamo infatti un altro aspetto dell’opera di Anders: un eccezionale talento del racconto icastico e sintetico, che egli definisce favola ma che è qualcosa di più e di diverso dalla favola. Intanto, perché si tratta di favole adulte per adulti – vicine all’aforisma e per più versi, non sappiamo dire quanto ci se ne debba sorprendere, vicine a una tradizione ugualmente adulta che è quella esercitata talvolta dal suo contemporaneo Bertolt Brecht (maestro comune Karl Kraus?).
Vicine formalmente, ma diverse nelle intenzioni e nella morale, poiché l’elemento dell’immediata comunicatività e della «lezione», sembra contare meno per Anders a tutto vantaggio della profondità, della complessità, della provocazione al lettore perché ci metta del suo, ci lavori sopra, perché si lasci interrogare dal racconto e lo interroghi, perché si interroghi. […]

 

Goffredo Fofi

Günther Anders, Lo sguardo dalla torre. Favole, con le illustrazioni di A. Paul Weber, a cura di Devis Colombo. Prefazione di Goffredo Fofi, Mimesis, Milano 2011.


Quarta di copertina

Lo sguardo dalla torre raccoglie le favole che Günther Anders scrisse tra il 1931 e il ’68. In un tempo in cui l’umanità fatica a mantenere il passo con lo sviluppo della tecnica, occorre rivedere radicalmente il nostro modo di pensare, abbandonando le tradizionali categorie del discorso. Così questa scelta narrativa del filosofo tedesco non è dovuta a una semplice ragione di stile, ma a un’esigenza concreta di resistenza all’impoverimento del linguaggio che l’incontrastata proliferazione degli apparati tecnici porta con sé. Per far fronte al senso d’inferiorità originato dalla sempre più autonoma funzionalità dei prodotti da lui stesso creati – ciò che Anders definisce “vergogna prometeica” – l’uomo tende ad assorbire le modalità univoche e immediate dei segnali delle macchine, perdendo quella capacità dialogica e riflessiva di comunicare che costituisce il fondamento dell’essere umano, e dalla quale dipende la possibilità di immaginare e di provare sentimenti. Le favole diventano allora uno strumento, tanto critico quanto salvifico, di riflessione, a partire da uno sguardo rinvigorito, fantasioso quanto provocatorio che soltanto la forma favolistica è in grado di offrire. Prefazione di Goffredo Fofi.


Opere di A. Paul Weber

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.
Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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