Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Prudenza–Salvatore Bravo 032

Salvatore A. Bravo

La Prudenza al tempo della categoria della quantità

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Il sistema merce rimuove le categorie di qualità e di misura

La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico: in assenza di un asse ontologico ed assiologico, l’essere umano – non più soggetto attivo di scelte e deliberazioni – è parte di un enorme sistema in cui la vita è sostituita con la sopravvivenza aumentata: non si vive che per la quantità, mentre la qualità e la misura sono categorie rimosse dal sistema merce, perché antieconomiche.
Nella Scienza della logica di Hegel le categorie che strutturano ontologicamente l’ente per determinarlo sono: quantità, qualità e misura. Il nichilismo appare nell’infinita produzione di merci e varianti per assimilare tutto in un’unica categoria: la quantità. Quest’ultima è il paradigma mediante il quale ogni esperienza umana è ridotta a pura astrazione, resa su un piano orizzontale senza differenze qualitative e misura. Ciascuna esistenza è ridotta sul piano della matematizzazione: gli esseri umani sono classificati per età, reddito, capacità di prestazione e resistenza. La qualità e la misura non compaiono in alcuna indagine demoscopica quali fattori imprescindibili della condizione umana.
Il pensiero critico – il suo affinamento, la sua formazione – è considerato una pietra d’inciampo nella corsa verso la quantità. Lo stato presente della globalizzazione è nel segno della quantità. La quantità è in ogni gesto, è il metro di misura con cui ci si relaziona, è – e si vorrebbe fosse sempre di più un meccanismo attuantesi in modo automatico – parte della psiche, dei processi di valutazione e giudizio. Si è perso il bivio in cui il deliberare implicava la chiarezza dell’universale, del bene da perseguire; al suo posto regna la quantità e la competizione deregolamentata: l’unica valutazione che viene effettuata è il risultato finale. Ognuno è come gli altri, ma nel contempo lotta contro tutti.
La quantità – senza qualità e misura – si rende visibile nello smantellamento della virtù della prudenza, espressione non solo della responsabilità soggettiva, ma specialmente del discernimento prudenziale, che presupponeva il cercare la differenza tra il bene ed il male. Se la quantità è l’unico paradigma di valutazione, ogni giudizio sulle conseguenze di un’azione come sul valore in sé di una scelta è reso nulla. Tutto si valuta in astratto, il necessario diviene l’accumulo a prescindere dal senso e dalla qualità. La quantità forma alla fredda triste passione dell’alienazione da sé e dalle alterità.

 

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Piero del Pollaiolo, Prudenza (1470)

Metafora della prudenza

Non è un caso che la prudenza, virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola, è raffigurata con l’immagine-metafora di una donna seduta in trono che regge con la mano destra uno specchio e con la mano sinistra un serpente. Lo specchio non allude alla vanità, ma alla necessità di conoscersi, non vi è prudenza senza conoscenza di sé, e dunque del bene e del male. È l’anima umana a dare la misura alla quantità non senza aver deliberato sui bisogni autentici. Affinché ciò possa avvenire è indispensabile esperienza, capacità di guardarsi con l’occhio dell’anima, di serbare memoria di sé, degli altri e della comunità. Il serpente è parte dell’immagine della prudenza, poiché con le sue spire annodate ben rappresenta a memoria ed il tempo. Solo la chiarezza delle finalità etiche, della gerarchia dei valori consente la pratica della prudenza:

«Il providens dalla cui contrazione si ottiene prudens è chi è in grado di evitare pericoli o danni. Si tratta, dunque, della virtù deliberativa per eccellenza, che pone la pratica in condizione di discernere il bene dal male, ma anche di prepararsi per il futuro a partire da un presente che ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato».[1]

Senza la prudenza non vi è concordia, non vi è giustizia, non vi è comunità, ma solo il caos della lotta, senza trascendenza.
La prudenza è virtù che rende manifesto il fondamento umano della realtà: l’essere umano non solo fonda la realtà, ma specialmente dà ad essa senso mediante la valutazione delle circostanze, la relazione tra mezzi e fini, e quindi introduce la qualità e la misura, non consente all’opacità delle quantità di sovrechiare qualità e relazione:

«Alla radice dell’ampia trattazione di questa virtù si colloca soprattutto il sesto libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele. In cui la prudenza (phronesis) è posta in contrasto con la scienza (episteme). Mentre la prima si riferisce alla capacità di giudicare e valutare, in base a norme flessibili, ciò che muta “ciò che può essere diversamente da ciò che è”, la seconda ha a che fare con l’immutabile, come nel caso degli enti matematici o dei movimenti degli astri».[2]

 

 

Giotto, Prudenza, 1306

Giotto, Prudenza, 1306

Declino della prudenza

Il declino della prudenza, la sua manipolazione fino a renderne perverso il significato, passa attraverso il nichilismo dell’onnipotenza. Con l’affermarsi degli Stati nazionali, con il delinearsi della potenza acquisitiva, la prudenza perde il suo senso ontologico per divenire azione di potenza che utilizza ogni mezzo per affermare la potenza nullificatrice della quantità. A questo punto la qualità e la misura si eclissano per lasciare spazio alla prudenza nella forma della scaltrezza, in funzione nichilistica ed acquisitiva: ogni limite adesso naufraga a favore della dismisura, della quantità che pur di espandersi utilizza qualsiasi mezzo, in vista del fine. Ogni equilibrio tra mezzo e fine per salvaguardare l’universale è scisso:

«La prudenza a questo punto non è più la virtù che insegna a scegliere tra il bene ed il male. Venendo a mancare i criteri indiscutibili della scelta (perché vengono da Dio), il male è necessario a conservare il potere. I mezzi sono indifferenti quel che conta è il conseguimento dei fini. Del resto, in quel tempestoso periodo della storia, l’indebolimento degli Stati e delle Chiese scarica più pesantemente sugli individui il peso delle decisioni rischiose, non più garantite da norme riconosciute ed unanimemente condivise». [3]

Cesare Ripa, Prudenza

Cesare Ripa, Prudenza

Democrazia e politica senza prudenza

La democrazia ridotta ad atomistica delle solitudini, la coazione a ripetere del modo di produzione capitalistico è svuotata di ogni senso e significato, perché è nei fatti il regno della quantità, della prudenza-scaltrezza che ha come fine gabbare l’altro. La prudenza asservita alla quantità, al successo, al narcisismo primario, resa perversa nel suo agire fonda la tragedia dell’epoca attuale, in assenza del fondamento veritativo. La prudenza nella forma della scaltrezza finalizzata alla quantità divora ogni alterità, assimila nella forma della quantificazione violenta:

«L’impresa anche oggi non è agevole, perché la deviazione dell’idea di prudenza verso quella di cautela, di astuzia, di simulazione e dissimulazione è penetrata in profondità nel senso comune a causa della diffusione capillare delle teorie della ragion di Stato tra Cinquecento e Seicento. Teorie discusse, secondo i contemporanei, perfino nei negozi di barbiere o nelle chiacchiere, in cui si citano continuamente Tacito e Machiavelli. La democrazia fatica perciò ancora oggi a dissipare i sospetti allora seminati e a riprendere come virtù propria anche la prudenza quale strumento per passare dai valori ultimi che, politicamente o religiosamente, ciascuno in Europa aveva cercato di imporre con la violenza, ai “valori penultimi” che creano uno spazio comune di confronto».[4]

 

Carpaccio, Prudenza

Carpaccio, Prudenza

Prudenza e coraggio

Senza prudenza autentica anche le altre virtù sono sminuite nel loro valore. L’anomia della società globale, del capitalismo assoluto, è nella forma di un piano liscio dove tutto avviene semplicemente. La virtù della fortezza, del coraggio consapevole, della prassi trasformatrice è obliata; al suo posto non vi è che l’azione rapace dei mercati, in assenza di un fondamento veritativo che possa distinguere il bene dal male, non resta che l’apeiron della violenza travisata in coraggio. La virtù del coraggio, invece, dev’essere mediata anch’essa dalla conoscenza di sé,. Risuona ancora una volta “Conosci te stesso”, l’ascolto di sé. Senza la conoscenza di sé, non si conoscono le paure personali e collettive che si addensano nell’animo di ognuno per impedire quelle resistenze che ogni agire creativo e non conformistico producono. Il coraggio è sguardo rivolto alla propria identità: non vi è prudenza senza coraggio. La comunità è viva quando le istituzioni formano al coraggio ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è che la violenza della sudditanza. L’essere umano ridotto alla passività, alla bestialità negatrice diviene veicolo di violenza. Ogni democrazia viva ed autentica non può che formare alla fortezza ed alla prudenza, virtù senza le quali non vi è partecipazione, ma solo mobilitazione coatta ed indifferenza:

«In sintesi, il coraggio consiste, nel nominare la paura, nel riconoscerla; in un secondo momento, nel trovare il modo di attraversarla; e, infine, nel trovare i mezzi e la possibilità per agire, nonostante si continui ad avere paura. Perché non è vero che, mentre si agisce, la paura è solo un ricordo». [5]

Il coraggio, affermava Dante nel libro quarto (capitolo XVII) del Convivio, è la consapevolezza della paura e la capacità di tenerle testa. Non vi è umanesimo e formazione all’umano senza la riflessione sulle virtù. Tale Bildung non può avvenire che con la formazione classica e con gli studi umanistici: senza di essi siamo destinati al regno ferino, alla regressione collettiva.

Senza prudenza e fortezza non c’è trasformazione. L’economicismo, con il suo integralismo, rafforza se stesso con il declino di ogni virtù, della verità, con la riduzione a pura quantità di ogni differenza, perché l’opposizione esige il coraggio e la prudenza per riportare l’umanità nella condizione di soggetto della Storia.

 

Salvatore A. Bravo

 

 

Le virtù cardibnali

Le virtù cardibnali

 

[1] Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano, Salvatore Veca, Le virtù cardinali, Laterza, Bari 2017, pag. 5.

[2] Ibidem, pag. 6.

[3] Ibidem, pagg. 12-13.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 49.


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Salvatore A. Bravo – La neuroeconomia è ipertrofia delle merci, e sottrae all’essere umano la sua essenza e le sue potenzialità da concretizzare in atti di senso. L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

Nuoroeconomia–Neuroscienze

La neuroeconomia

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.

G.W.F. Hegel

Salvatore A. Bravo

La neuroeconomia

 

 

La neuroeconomia

L’economicismo integralista negli ultimi decenni sta compiendo un salto qualitativo. Dalla propaganda mediatica continua ed ossessiva, ma ancora debolmente controllabile dagli utenti e dai popoli, si sta gradualmente strutturando una nuova strategia di mercato: entrare nella mente, controllare il cervello, per disporlo al baratto.

Brainfluence

Brainfluence

Si tratta di un intervento radicale e discreto, l’economia trasforma gli esseri umani, i popoli, in stabili consumatori per il mercato, ambisce a forgiare la natura umana. Il mercato – novello Demiurgo – vuole plasmare i circuiti cerebrali per rendere la persona non solo consumatore, ma specialmente, dipendente in modo assoluto dal mercato, anzi ad esso organico. Si tratta di una forma di totalitarismo, assolutamente nuova, che non trova precedenti nella storia umana.

Digital Neuromarketing

Digital Neuromarketing

Il mercato ipostatizza se stesso, mediante l’asservimento globale all’economia con una strategia assolutamente nuova: entrare nella mente, fessurare la mente ed incidere in essa la logica del mercato. Le neuroscienze, la psichiatria e la psicologia divengono lo sgabello dell’economia, mettono a disposizione le loro ricerche per rafforzare l’espansione del mercato e contribuire alla trasformazione dei popoli in pubblici dipendenti del valore di scambio, inconsapevoli e nel contempo complici.

 

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Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

 

La neuroecomia

La neuroecomia

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience01

Introduction Neuromarketing & Consumer Neuroscience

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia in azione

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, Neurofinanza

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Neuroeconomia. El modelo Spenta

Bradley R. Poste, Neuroscienze cognitive. L'essenziale

Neuroscienze cognitive

Gli strumenti

La neuroeconomia si avvale delle neuroscienze, queste ultime portano a compimento un processo iniziato con David Hume ed Adam Smith.
David Hume ha destrutturato il soggetto rendendolo un fascio di emozioni in entrata ed in uscita senza nessuna consistenza ontologica, funzionale, in tal modo, alle logiche del baratto, dei desideri che lo attraversano e poi si dileguano, per poi ripresentarsi, come se il soggetto fosse un ciclo meccanico che puntualmente si riempie di desideri, li consuma, li svuota per ricominciare il ciclo.
Adam Smith ha ipostatizzato il mercato, affermando che l’essenza del soggetto umano è il baratto, lo scambio: tutta la storia umana è letta da Smith secondo la logica dello scambio e dell’utile.
Le due tesi – complementari l’una con l’altra – si possono facilmente smentire. Gli studi di Karl Polany, di Ivan Illich e di molti antropologi contraddicono l’integralismo economicistico ed il servidorame del turbocapitalismo: l’essenza dell’uomo è un’essenza generica (Gattugswesen), l’essere umano è simbolico, dà senso alla propria esistenza nelle circostanze che gli sono date.

Neuroeconomia

Neuroeconomia

Il fine attuale è smantellare ogni dubbio, ridurre le conoscenze, elidere la formazione critica ed umanistica in modo che la neuroeconomia e le neuroscienze possano agire senza ostacoli, glorificando il mercato ed i suoi crimini. Il primo di questi crimini è di ordine filosofico, si smantella un’intera tradizione, la si riduce a pochi autori funzionali alla logica del mercato. La neuroeconomia è ipertrofica nelle merci, ma sottrae all’essere umano la sua essenza, le potenzialità da concretizzare in atti di senso.

 

 

Neuroeconomia01

Neuroeconomia

Le neuroscienze, per entrare nella mente e decodificarla, per comprenderne i processi che favoriscono, hanno utilizzato dapprima la PET (Tomografia per emissione di positroni), che è uno strumento di registrazione indiretta dell’attività cerebrale, e successivamente l’fMRI (Risonanza Magnetica Nucleare funzionale) la quale è, invece, basata sul fenomeno della risonanza magnetica nucleare, che utilizza le proprietà nucleari di alcuni atomi in presenza di campi magnetici. I risultati della PET non sono immediati, per cui gradualmente è stata sostituita dall’fMRI, la quale invece riesce a dare risultati veloci. L’fMRI consente di visualizzare su una scala temporale quantificabile al dettaglio le alterazioni dell’ossigenazione delle regioni corticali, variazioni che si considerano siano in stretta relazione con il grado di attività delle regioni cerebrali.

 

Neuroeconomic Analysis

Neuroeconomic Analysis

La neuroeconomia è stata definita come la condizione in cui conoscenza ed utilizzazione dei processi cerebrali consentono di trovare dei nuovi fondamenti per le teorie economiche (Colin Camerer, La neuroeconomia. Come le neuroscienze possono spiegare l’economia [2004], Il Sole 24 Ore, 2008). Gli esperimenti di Platt e Paul Glimcher [Platt e Glimcher, 1999] sulle scimmie sono stati finalizzati a capire per comparazione la reazione degli esseri umani. Secondo l’esperimento di Platt è sufficiente l’inalazione di un ormone, l’ossitocina, per avere comportamenti generosi. La coscienza è così sostituita da ormoni, da agenti ormonali che possono indurre ad assumere comportamenti pro-comunitari o pro-mercato.

Neuroscienze cognitive

Neuroscienze cognitive

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

Neuroeconomics. Theory, Applications, ad Perspectives

 

Le conoscenze e la formazione che dovrebbero essere al servizio dell’umanità, per favorirne i processi di emancipazione, sono ora la gabbia d’acciaio, la caverna, in cui l’essere umano è sospinto per essere allevato in funzione del mercato come un animale da batteria. L’animalizzazione dell’essere umano non potrebbe essere più palese.

Neuroeconomics

Neuroeconomics

 

Gli studi di Dondres e più tardi di Robert Stenberg (psicologo cognitivo) Michael Posner (psichiatra clinico) e Amos Tversky e Daniel Kanheman (psicologi dell’economia comportamentale), hanno poi contribuito a studiare mediante sperimentazione e quantificazione i tempi di reazione ad uno stimolo, le aree interessate e la conseguente reazioni. Gli studi sul sonno sono tesi a piegare il ciclo naturale della sospensione del consumo e della produzione in direzione dell’attività continua. Le neuroscienze offrono il fianco ideologico non solo all’economia, ma anche al ridimensionamento del pensiero: senza sonno non vi è pensiero, ma solo un essere sempre più vicino alla condizione di MUSULMANO: tali erano chiamati nei campi di sterminio le persone non più tali, o quasi, più simili ad oggetti con il soffio vitale, in loro non albergava pensiero o volontà personale:

«Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono, i ricercatori di varie accademie stanno conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno […]. Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato […]. I passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni dal sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone. I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastrutura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo».[1]

 

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Paul W. Glimcher, Decisions, Uncertainty, ans the Brain. The Science of Neuroeconimics

Neuromarketing

Neuromarketing

In questo modo le neuroscienze, spesso finanziate da potentati economici, sono al servizio del mercato. Cade il mito, se qualcuno ci credeva, della neutralità della scienza, e del suo essere al servizio dell’umanità. Neuroscienze, psichiatria e psicologia sono così alleate in funzione adattiva, lavorano per ridurre l’essere umano a poche leve da stimolare secondo i bisogni del mercato. L’uomo macchina non più per la produzione, ma per il consumo. Si installano nell’essere umano l’abitudine a comprare, a vendersi, a desiderare l’inautentico agendo nella carne, stimolando alcuni settori dell’area corticale prevedendone gli effetti. Il biopotere non deve gestire la vita, ma il consumo, necessario è solo la vita del mercato, gli esseri umani non sono che comparse che animano il mercato. Si potrebbe definire l’attuale periodo storico come biomercato.
Il Regno animale dello Spirito descritto da Hegel e l’alienazione marxiana trovano nella contemporaneità, e probabilmente in un futuro prossimo, la loro massima realizzazione. L’atomizzazione dell’essere umano passa per una sorta di lobotomia: si elimina la creatività, la cura di sé e della comunità, per ridurre la mente a cervello, a poche parti di esso da stimolare secondo piani di investimento, offrendo in cambio l’illusione della libertà, della scelta.

 

Le condizione per la neuroeconomia

Il successo della neuroeconomia è possibile, perché si concretizza in un contesto storico sociale in cui l’essere umano è debilitato, reso debole e dunque indifeso da una serie di fattori: la cultura filosofica ha abbracciato il pensiero debole (G. Vattimo), la natura umana è dichiarata inesistente (M. Foucault). I diritti sociali tra cui la formazione sono nell’agenda finanziaria al fine di essere smantellati, i corpi medi (partiti, sindacati, associazioni) sono una presenza più formale che sostanziale.

Il soggetto, abbandonato ai flutti delle manipolazioni, non ha difese di ordine culturale, sociale e politico. L’intero sistema spinge a rendere il soggetto suddito ubbidiente della ipostasi mercato. Nei fatti si nega la democrazia in modo radicale, e con essa la Costituzione degli stati democratici e il Manifesto di Ventotene (1941) che teorizzava l’Europa dei popoli liberi ed emancipati. L’ordito economico che si sta delineando ha il fine di disegnare l’uomo ad una dimensione, sogno di ogni totalitarismo.

La Logica hegeliana per sottrarsi alla neuroeconomia

La tragedia dei nostri giorni è il vuoto politico. La pervasività della neuroeconomia ha un nuovo alleato: l’assenza delle sinistre, il silenzio sulla favola triste del libero mercato nella società dei diritti individuali.
La speranza vive nella concretezza dell’umanità che – malgrado il regno della chiacchiera mediatica – vive l’esperienza dell’alienazione e dell’infelicità collettiva. Il travaglio del negativo di tanti è l’humus per il pensiero, per la riorganizzazione teorica contro l’economicismo integralista. La resistenza è ancora possibile ed appare nei luoghi più impensabili: nelle istituzioni, nelle chiese, nei singoli isolati che conservano la nostalgia per l’unità come nel mito dell’androgino nel Simposio di Platone.
Al momento tutto è nebuloso, fosco, ma il tempo presente non è tutto, la storia a volte ha svolte improvvise. Malgrado ciò, l’essere umano è portatore potenziale della sua salvezza, reca con sé la possibilità sua più autentica: il pensiero quale attività concettualizzante, che riporta le rappresentazioni, gli stimoli, i desideri ad un ordine unitario di senso. Ripensare Hegel contro la neuroeconomia, ripensare il pensiero, reimparare l’attività del pensiero per difendersi dall’invasità dell’illimitato.
Soggettività e limite sono due capisaldi imprescindibili della natura umana senza di essi non vi è pensiero. Concludo ricordando cos’è il pensare secondo Hegel, perché solo il pensiero filosofico può salvarci dalla catastrofe dell’illimitato scientemente organizzato:

 

 

Lezioni sulla logica

Lezioni sulla logica

 

«È vero che ciascun uomo ha tuttavia una logica, una logica naturale; pensiamo in modo immediato, e per pensare non dobbiamo studiare la logica. Ci si appella per questo al fatto che la logica non sarebbe necessaria. Tuttavia, in primo luogo, conoscere il pensare è già un oggetto degno di per sé; e in secondo luogo, solo così impariamo in che misura quel che pensiamo è vero.
L’utilità della logica consiste perciò nel farci padroni di questo pensare.
Pensare e avere pensieri sono due cose diverse.
L’oggetto della nostra disciplina consiste nel sapere il pensare; sapere ciò che siamo.
L’uomo è spirito, e sapere ciò che questo comporta è il compito più grande. L’uomo è davvero soltanto ciò che sa di essere.
Perciò, l’uomo reca con sé il diritto al pensare; ma sapere in cosa veramente consista tale diritto è qualcosa di più. Non esiste alcuna logica artificiale, come si usa dire, ma esiste senz’altro una logica conscia. I pensieri, per così dire, li riceviamo nelle nostre teste; pensieri che sono il vero. Apprendiamo poi a tener fermo qualcosa di universale, ed è in ciò che consiste la nostra formazione [Bildung], mediante cui impariamo a far emergere l’essenziale. Le considerazioni di utilità, qui, non vanno disdegnate. Si deve voler conoscere il vero per se stesso, si afferma, e tuttavia anche l’utile costituisce un altro lato della cosa. Dio si sacrifica nella natura a beneficio del mondo individuale; quel che è in sé e per sé il più eccellente è anche il più utile».[2]

Salvatore A. Bravo

 

[1] J. Crary, 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015, pp. 5-6.

[2] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Logica [1831], ETS, Pisa 2018, p. 14.

 

 

 

 


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Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore Bravo 030
Salvatore A. Bravo

Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie

 

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Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

La rivoluzione passiva delle tecnologie

Ecco l’inglese globale

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Popolo e ragione (Vernunft)

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe non ha agorà

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

 

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Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata

Vi è popolo dove vi è sovranità partecipata, dove le politiche sociali ed economiche non cadono come un destino ineluttabile, come catene fatali sul popolo. Oggi siamo oltre la Rivoluzione passiva descritta da Cuoco e da Gramsci. La Rivoluzione passiva presuppone una borghesia affetta da coscienza infelice, capace di sentire l’universalità dei valori fondanti della Rivoluzione francese e dell’Umanesimo. Il popolo, ancora plebe, deve ancorarsi alla classe motrice della coscienza nazionale per poter essere protagonista, defilato, perché agito. La condizione attuale ha sostituito alla rivoluzione delle coscienze, dell’idea che diventa Spirito (Geist) nel movimento della storia, la sola rivoluzione permanente delle tecnologie, del mercato della produzione e del lavoro, una nuova trinità senza salvezza.

La rivoluzione passiva delle tecnologie

La rivoluzione tecnologica appare scissa dalla storia dell’umanità, essa avviene… È un evento che plana nella storia e modifica le esistenze. Rivoluzione anonima: la scienza – quale sostanza astratta dalla realtà contingenze – detta i suoi ordini, riconfigura le comunità, le travia fino a fessurare il loro essere, la loro identità culturale, per annientarle. Le comunità passivizzate perdono – con la coesione – sincronicamente anche le parole. La rivoluzione passiva delle tecnologie senza finalismo, smantellano non solo lo stato sociale, ma con esso anche il linguaggio.

Ecco l’inglese globale

Ed ecco l’inglese globale, lingua che ha la stessa funzione della materia omogenea, ovvero far scivolare le merci e gli scambi mercantili per il pianeta ed abbattere ogni limite linguistico e culturale, purchè l’economia – alleata delle tecnologie – possa trionfare senza limiti e confini. Le lingue nazionali – a parte pochissime eccezioni (Francia, Spagna) – sono gradualmente smantellate dalle nuove generazioni che, educate alla cultura imprenditoriale, corrono verso la rivoluzione che subiscono: il sistema scolastico asservito all’economia non consente senso critico e con esso lo sviluppo di empatica appartenenza “ruere in servitium”.[1]

Schiacciare la lingua sull’indicativo, riducendo a nulla il congiuntivo

Si corre verso l’asservimento, lo si abbraccia, si risponde all’appello della rivoluzione passiva dell’economia secondo logiche adattive: si amano le proprie catene. Affinchè il declino dello spirito critico, del pensiero connettente sia neutralizzato, si favorisce – con l’angloitaliano – la riduzione della lingua nazionale ad una manciata di parole pronte per l’uso. Ci si limita ad una lingua che deve limitarsi a soddisfare le esigenze individuali particolari ed immediate. Si schiaccia la lingua sull’indicativo riducendo a nulla il congiuntivo, il modo del dubbio, della possibilità, della complessità: non è un caso che si favorisca la lingua inglese, la quale praticamente ha il congiuntivo solo alla prima persona del verbo essere al passato, e spesso non è utilizzato, specie nell’americano. Devono esserci solo certezze e pensieri semplici per radicarsi nel presente. Pertanto bisogna congelare il congiuntivo, in quanto il dubbio introduce visioni critiche che rompono con l’atteggiamento adattivo al presente.

Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio

Il popolo diventa plebe non solo quando è minacciata la sua sopravvivenza materiale, quando lo si ricatta attraversa la precarietà. È plebe in assenza di pensiero, di linguaggio che eccede l’utile del tempo immediato. Senza il pensiero connettente e la ragione filosofica, non vi è che lo schiacciamento verso il basso, la riduzione del popolo a plebe consumante, brulicante a testa bassa. La plebe, non è una classe sociale, non si definisce mediante il censo: la plebe è la popolazione in cui prevale la condizione spaziale sulla condizione temporale. Il linguaggio è relazione, è memoria, esperienza riflessa, conoscenza di sé, dunque è movimento, temporalità concreta che riallaccia e trascende le divisioni.

Il popolo, per essere davvero tale, deve essere comunità

Ancora una volta la Filosofia ci è di ausilio per definire il popolo. Hegel, nella parte sesta della Fenomenologia dello Spirito, descrive il popolo come comunità. Il popolo è la comunità culturale di appartenenza, non tribale, che pensa se stesso come un tutto in cui convivono le parti. Il popolo è l’umanizzazione del singolo, che – non più atomo, non più astratto dal tutto – liberamente rinuncia al proprio egoismo per aprirsi all’altro, per riconoscere se stesso attraverso la relazione comunitaria.

Il popolo è tale se la condizione del tempo è vissuta nella pienezza della coscienza. Il popolo è storia, attività che pone progetti e dunque non vive scollato dalla sua contingenza storia, dal suo immediato, ma esso è il suo tempo pensato nell’estensione del pensiero che riannoda le fila del passato e del futuro passando per il presente:

«Nella misura in cui lo spirito è la verità immediata, esso è la vita etica d’un popolo: l’individuo che è un mondo. Lo spirito deve allora procedere fino alla coscienza di ciò che esso è immediatamente; deve levare la bella vita etica e raggiungere, attraverso una serie di figure, il sapere di se stesso. Queste figure però si differenziano dalle precedenti perché si tratta di spiriti reali, realtà effettive vere e proprie, e anziché essere figure solamente della coscienza, sono figure d’un mondo».[2]

 

Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato

Il popolo è comunità manifesta, la coscienza di un popolo è progetto partecipato e di conseguenza palese. Dove vi è il popolo la politica ha la sua massima espressione nei corpi medi partecipati. Il linguaggio diventa così condizione imprescindibile della partecipazione, non è limitato al solo utile immediato, ma si declina ed arrichisce nei contesti della partecipazione. Un popolo senza linguaggio, senza cultura è solo plebe, è oggetto della storia. Popolo e etica coincidono, vi è etica dove vi è comunità consapeole che agisce nella storia, si fa storia trasformando in prassi le verità eterne che l’esperienza storica custodisce:

«La comunità – la legge suprema, la cui validità pubblica si manifesta alla luce del sole – ha la propria vitalità effettiva nel governo, inteso come ciò in cui essa è individuo. Il governo è lo spirito effettivo riflesso entro di sé, è il Sé semplice della sostanza etica nella sua totalità. Questa forza semplice consente certamente all’essenza di espandersi nell’articolazione dei suoi membri, e di dare a ogni parte una sussistenza e un proprio essere-per-sé. In ciò, lo spirito ha la propria realtà ossia il proprio esistere, e l’elemento di questa realtà è la famiglia».[3]

Popolo e ragione (Vernunft)

Nel popolo non vi sono atomi, individui separati, astratti dalla comunità, dalla storia, da se stessi e pertanto alienati. Nel popolo ogni individuo è parte consapevole di un comune e condiviso progetto politico, per cui il soggetto umano trova la sua ragion d’essere, il suo destino. Nella comunità non vi è che la vita della ragione che unisce i destini, pone limiti, struttura processi di autoriconoscimento mediato dalla relazione con l’alterità. La relazione non è solo l’incontro dello sguardo, l’empatia immediata, ma è specialmente linguaggio quale figura universale dell’incontro e dell’unione. La lingua patria non è nazionalismo escludente, ma è consapevolezza nella differenza. L’autoriconoscimento dei popoli avviene nell’incontro delle differenze:

«In un popolo libero, la ragione s’è perciò data vera effettuazione; essa è presenza dello spirito vivente, in cui l’individuo non soltanto trova la propria determinazione destinale – vale a dire, la propria essenza universale e singola – enunciata e data al modo della cosalità, ma anzi è egli stesso tale essenza, e ha anche raggiunto quella propria determinazione».[4]

 

La plebe intelletto (Verstand)

La plebe è il popolo animalizzato, non necessariamente ridotto in miseria, anzi vi può essere popolo e nel contempo deficienza di beni, perché la verità di un popolo è la sua consapevolezza comunitaria. La plebe è la pratica della specialistica, senza capacità di cogliere la totalità, è la pratica dell’intelletto (Verstand).
La plebe è anche la cultura specialistica senza struttura, e pertanto facilmente oggetto di manipolazione. La plebe è disinformata, o meglio la sua informazione è costituita dall’accettazione acritica delle fonti informative. È belante, ripetitiva, automatica nelle parole e nei comportamenti, ma specialmente difetta di coscienza di sé e di coscienza pubblica. La plebe non crede di poter cambiare il proprio tempo, per cui non lo pensa, lo subisce. Regredisce ad uno stato superstizioso, crede nel potere magico del grande leader, crede nella sua lingua, nelle sue parole, si deresponsabilizza dinanzi alla storia, dinanzi a se stessa, è carne da cannone per il consumo:

«Nella tradizione della filosofia politica occidentale, che è di origine greca, il “popolo” (demos) si distingue dalla mera aggregazione popolare (laos) proprio perché è “informato”, ed è informato nello spazio pubblico (demosion), spazio pubblico che è presupposto alla sua sovranità (kyriarchia) che del suo potere (exousia)».[5]

La plebe non ha agorà

La plebe dunque non ha agorà. Dove vigono le oligarchie finanziarie, non vi sono spazi pubblici, ma solo luoghi per l’ortopedia del consumo: ipermercati e luoghi del divertissiment. Tutto deve indurre alla fuga dal proprio tempo, non bisogna pensare, rappresentarsi il reale, il pensiero non deve porre l’essere, ma lo deve subire mediante l’esercizio e la pratica dell’ideocrazia.
Non si nasce servi, lo si diventa mediante l’addestramento quotidiano all’ideocrazia, al pensiero unico: poche parole tutte funzionali alla valorizzazione del capitale senza limiti. L’ideocrazia del mercato, del modello unico del pensiero e della lingua non è un destino. La storia è il luogo della vita degli esseri umani, del possibile. Nella storia le faglie liberano potenzialità impensabili. La condizione di plebe può ribaltarsi in popolo, se si mettono in atto pratiche virtuose del pensiero.

Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere

La resistenza di un popolo non può che iniziare con il pensare il proprio tempo, con il rilevare il tragico non come un destino, ma come una circostanza posta da più soggetti responsabili popoli annessi: il riconoscimento delle proprie responsabilità dinanzi alla storia ed a se stessi è già prassi, uscita dalla caverna del nichilismo programmato da altri. La storia è Wirchliche Historie. Nessuna provvidenza verrà a salvarci. Ma, come l’Angelus Novus di Klee nel commento di Benjamin, non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere dal destino del Regno animale dello Spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] «At Romae ruere in servitium consules, patres, eques» (A Roma intanto si precipitavano in gesti servili consoli, senatori, cavalieri), Tacito, Storie, I, 7.

[2] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Einaudi, Torino, p. 293.

[3] Ibidem, p. 300.

[4] Ibidem, p. 239.

[5] Costanzo Preve, L’Ideocrazia Imperiale Americana, Roma, p. 58.


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Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Le metafore nella filosofia

«Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore»,
in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di

«portare l’oggetto sotto gli occhi».
Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a,
in Opere, vol. 10, Laterza, Bari 1977.

 

310 ISBN

Salvatore A. Bravo

Le metafore nella filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

La metafora assume una polisemia di significati formativi: è l’immagine che porta al concetto; è configurazione di tensioni concettuali dal forte contenuto emozionale, non estranee alla razionalità nella sua processualità radicata in piani differenti. È totalità umana: fantasia, sentimento e razionalità sono un trittico imprescindibile per l’uomo teoretico. La metafora “trasporta” il concetto, è libertà antitetica alla riduzione dell’essere umano ad ente senza autentica progettualità, è l’affacciarsi dell’essere umano fuori dal corpo. La metafora educa al possibile. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente. Creare e ripensare concetti con la metafora rompe la successione sempre eguale della linea del tempo. «Noi apprendiamo soprattutto dalle metafore», in quanto esse hanno il ruolo fondamentale di «portare l’oggetto sotto gli occhi» (Aristotele, Retorica, III, 10, 1411a).


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.
Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».
Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.
Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.
Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.
Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.
Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.
Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.
Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.
Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.
Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.
Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.
Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.
Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.
Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.
Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.
Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

 


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Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

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costanzo-preve_mr copia    Costanzo Preve (1943 – 2013) –  La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

 

 

Salvatore A. Bravo

Vogliamo ricordare l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

 

  

Il 23 novembre del 2013, cinque anni fa moriva Costanzo Preve.
Vogliamo ricordare un uomo, un filosofo che ha testimoniato la resistenza ai poteri, e specialmente al capitalismo speculativo, come Preve definiva l’attuale fase del capitalismo. Nei suoi innumerevoli scritti ha denunciato il nichilismo, l’alienazione della natura umana; la quale, da essere per sua natura di ordine simbolico, è ridotta ad essere ad una funzione dell’immenso organismo cannibalico del capitalismo assoluto.
La Bestimmung, la resistenza attiva e propositiva, come vocazione duratura, è stata la stella polare di un’esistenza che ha vissuto in pienezza la sua resistenza.
La Filosofia è sempre Filosofia del presente, affermava Preve, ovvero è risposta alle contingenze storiche nell’alveo della tradizione veritativa della Filosofia.
La passione durevole per la Filosofia e per la politica sono state la sua catabasi, la discesa nell’agorà, sempre con l’intento di guardare in pieno viso il nichilismo del capitalismo speculativo/capitalismo assoluto, sciolto da ogni legame, curvato sull’illimitatezza, sul saccheggio ordinario non tanto delle finanze, ma della natura umana (Gattungswesen).
Per Costanzo Preve il mondo accademico della Filosofia aveva rinunciato alla Filosofia così come al suo fondamento veritativo.
Il nichilismo del capitalismo speculativo è stato l’oggetto dei suoi studi, ma non secondaria è stata la denuncia dell’asservimento dello specialismo accademico al capitalismo assoluto: in nome di una falsa libertà deregolamentata, perché senza fondamento, il mondo accademico è diventato lo sgabello del capitale, così come le “sinistre” dei soli diritti individuali.

Costanzo Preve si è sottratto a tali logiche. Ha vissuto la marginalità cui veniva sospinto il suo pensiero e la sua ricerca, in modo eticamente alto e forte (accettandone consapevolmente la sofferenza). Anzi, ha scelto l’isolamento, che gli ha consentito di guardare in profondità le menzogne spacciate per verità dai complici del nichilismo. Ha filosofato con il vomere come direbbe Nietzsche o con lo scandaglio secondo la definizione del filosofare di Hegel. È sceso nella profondità della nostra epoca per ricostruirne la genesi dell’economicismo nichilistico ed attraverso di essa, ha visto, ha ascoltato i suoi sommovimenti, per proporre un’uscita dalla «gabbia d’acciaio», dalla caverna che ci fa vivere nel continuo abbaglio dell’errore non pensato. All’immediatezza della caverna, alla furia del dileguare, ha proposto in alternativa il dialogo socratico, la razionalità dell’ascolto contro la ragione strumentale, per ridefinire in modo corale, logico ed argomentato il fondamento della natura umana.

Per poter far resistenza, condizione imprescindibile è la chiarezza concettuale della contingenza ipostatizzata in cui siamo caduti, della trappola dell’illimitato, ed a ciò contrapporre il pensiero concreto della verità, delle persone, della qualità relazionale. La sua esperienza nei decenni che verranno – a partire da questi giorni difficili –, ci inviterà ad un confronto responsabile con la verità della globalizzazione/glebalizzazione.

Nel ricordare la sua testimonianza di vita, la sua resistenza spesso solitaria, non possiamo che continuare a pensare in modo libero, a trarre forza veritativa da chi è assente nello spazio del nostro presente, ma le cui idee sono dialetticamente poste nel tempo della coscienza dinanzi a noi. Sta a noi ora decidere se guardare in pieno volto il nichilismo e dare i nostro contributo in questa resistenza nel limite di quello che siamo, delle nostre identità e delle nostre storie.

La memoria è una delle componenti della resistenza. Non l’unica: ogni resistenza necessita anche di una casa, ma non del tutto arredata e completa, perché si muove all’interno di spazi da reinterpretare responsabilmente assumendosi il rischio del nuovo. Costanzo Preve si è assunto il rischio del nuovo in un momento storico lasco e fondato sulle passioni tristi secondo la bella accezione di Spinoza.

Non resta che dare il proprio contributo, perché il finale non è stato scritto, riposa anche in noi, nell’agere di ogni giorno. Ricordare ha oggi una valenza polisemica di resistenza. Non è solo giusto in sé, ma dobbiamo anche rammentarci che il capitalismo speculativo ci vuole senza memoria, senza volto, non come liberi individui nella dimensione comunitaria, in modo da spingerci verso il cammino del consumo belante.

Senza memoria è l’ultimo uomo, figura idiomatica dello Zarathustra dei Nietzsche, perché nichilisticamente perso nel mercato, senza dio, senza verità.

Costanzo Preve giudicava l’ultimo uomo la figura più vera e rappresentativa dello Zarathustra.

Ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dall’ultimo uomo.

La memoria dei legami spezza lo spazio angusto dei piccoli mercanteggiamenti per restituirci la dimensione temporale e spaziale sempre orientata verso il possibile, verso la potenzialità creativa. Sta a noi, nel tempo che ci è dato vivere, scegliere. Ma ogni scelta complessa e consapevole, per aprire un nuovo tempo, deve mediare il presente con la memoria.

Salvatore A. Bravo

 


 

Luca Grecchi,
Per l’amico Costanzo Preve. Un ricordo personale

 


 


Venturi non immemor aevi

 

Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.

 

Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:

Venturi non immemor aevi

Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.

Carmine Fiorillo

*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].

Andrea Rovere – Cade in questi giorni il quinto anniversario della morte del filosofo Costanzo Preve. Scriveva: «L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere».


Costanzo Preve

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196GCostanzo Preve

Una nuova storia alternativa della filosofia.
Il cammino oltologico-sociale della filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

 

 

 

 

 


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Costanzo PreveLuca Grecchi

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


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Luca Grecchi

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve

Storia dell’etica

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Costanzo Preve

Storia della dialettica

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Costanzo Preve

Storia del materialismo

indicepresentazioneautoresintesi

 


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

 


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Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.

Salvatore Bravo 029

 

Salvatore A. Bravo

Il bisogno di Filosofia

 

Bisogno ineludibile come l’arte e la religione

 

Filosofia come argine contro le forze della disintegrazione

 

Filosofia come modus vivendi nella prassi della vita quotidiana

 

La dissoluzione comunitaria nella tecnospecializzazione

 

Responsabilità del nuovo clero orante nel declino della filosofia

 

Quantità senza qualità

 

 

Bisogno ineludibile come l’arte e la religione
Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Fin quando l’essere umano esisterà in natura nella forma da noi conosciuta e vissuta, la filosofia sarà parte del suo paesaggio esistenziale: bisogno ineludibile come l’arte e la religione. Non è un caso che la Filosofia dello Spirito Assoluto di Hegel si costituisce in tre momenti: l’arte, la religione, la filosofia. Hegel, attraverso tale manifestazione della verità/totalità su livelli di consapevolezza e chiarezza concettuale crescenti, fino al concetto coincidente con la filosofia, palesa tre aspetti eterni della natura umana che si concretizzano nella Storia: l’arte, la religione, la filosofia.
Arte, religione, filosofia apportano umanità alla condizione umana, poiché sono espressione di pulsioni spirituali interiori che necessitano di risposte che si fenomenizzano per essere trascese in quanto pensate. La consapevolezza, la matariflessione dell’umanità sulle sue eterne manifestazioni, consente non tanto il progresso nel senso positivistico – in quanto concretizzazione di strumenti d’uso e tecnici con cui operare nella contingenza – ma la consapevolezza etica del telos (dal termine greco τέλος, che significa “fine”), senza il quale l’umanità si ritrova determinata dalle contingenze tecnocratiche che fatalmente e passivamente la guidano nell’applicazione, senza che essa possa discernere e discriminare le modalità d’uso. La filosofia è dunque necessaria per pensare progetti sociali ed etici condivisi. Se tale disposizione naturale al pensiero, al bisogno metafisico è ridimensionata o dileggiata a favore della tecnocrazia, siamo innanzi al tentativo di mutare la natura umana e la Storia.

 

Filosofia come argine contro le forze della disintegrazione
La filosofia è un argine contro le forze della disintegrazione, dell’atomismo sociale senza speranza e fine a se stesso. La necessità della filosofia è tanto più urgente tanto più le scienze esatte alleate dell’economia, vivono il trionfo della frammentazione specialistica senza la capacità di pensare la totalità, le conseguenze del proprio operato. La filosofia è il pensiero, il concetto (Begriff) che connette le scissioni per ricostruire l’ordito del complesso con i suoi innumerevoli piani di azione e reazione. La totalità, la complessità – con la dialettica della dimostrazione razionalmente fondata – rende evidente quanto lo stesso elemento assuma declinazioni diverse, se lo si giudica in astratto, separatamente dal tutto o in concreto, collegandolo al tutto.

 

Filosofia come modus vivendi nella prassi della vita quotidiana
La presenza della filosofia, il suo ruolo, è un indicatore della salubrità di una comunità. Se prevale solo l’intelletto (Verstand), regna la scissione, la quale non è da confinare alle sole scienze, ma investe la comunità tutta, rendendola conflittuale, regno della dismisura, della polarizzazione dei diritti come delle ricchezze. La ragione (Vernunft) è la connessione, la complessità, l’unità, da non intendersi come semplice elemento metodologico, ma è un modus vivendi nella prassi della vita quotidiana. La comunità razionale vive di vincoli sociali, etici, relazionali. L’intelletto e la ragione, se non sono in equilibrio intensivo, strutturano comunità disomogenee sempre sul rischio dell’abisso. Hegel ci viene incontro e ci offre con chiarezza le ragioni del bisogno della Filosofia:

«Se consideriamo più da vicino la forma particolare che una filosofia assume, allora la vediamo nascere da un lato dalla vivente originalità dello spirito, che ha in lei ristabilito e autonomamente configurato per mezzo di sé la lacerata armonia, dall’altro dalla forma determinata che assume la scissione da cui il sistema scaturisce. La scissione è la sorgente del bisogno della filosofia, e, in quanto cultura dell’epoca, il lato non libero e dato della figura. Nella cultura ciò che è manifestazione dell’assoluto si è isolato dall’assoluto e fissato come qualcosa di autonomo. Ma allo stesso tempo la manifestazione non può rinnegare la sua origine e deve prefiggersi di costituire in una totalità la molteplicità delle sue limitazioni; la forza del limitare, l’intelletto, intreccia al suo edifico, che pone tra gli uomini e l’assoluto, tutto ciò che per l’uomo ha valore ed è sacro, lo consolida per mezzo di tutte le potenze della natura e dei talenti e lo estende nell’infinità; in esso si trova la totalità completa delle limitazioni, ma non l’assoluto stesso; perduto nelle parti, mentre anela ad estendersi fino all’assoluto, produce infinitamente solo se stesso, e si prende gioco di sé».[1]

La dissoluzione comunitaria nella tecnospecializzazione
L’urgenza della filosofia è oggi sempre più stringente: le scienze moltiplicano con la specializzazione la quantità delle loro conoscenze. Esse – sganciate da ogni paradigma etico e filosofico – hanno un potenziale distruttivo irreversibile. Dinanzi alla poderosità tecnocratica, l’immane potenza del negativo che con la dialettica non solo ricompone unità empiriche, ma specialmente pone tra l’essere umano e l’uso delle tecniche la mediazione della ragione olistica, non è più rimandabile.
La comunità si dissolve in società dei bisogni illimitati ed inautentici, in quanto con la moltiplicazione dei mezzi incentivati da una tecnologia sempre più sganciata dalla scienza (altra scissione!). L’individualizzazione dei soggetti umani impera, per cui – presi dal semplice soddisfacimento dei bisogni – si taglia ogni vincolo con la comunità.
La disintegrazione è dietro l’angolo. Pertanto, l’esponenziale crescita, rende la filosofia tanto più necessaria quanto più alla crescita delle conoscenze specialistiche si accompagna la scissione sociale e culturale:

«Quanto più la cultura progredisce, quanto più molteplice diviene lo sviluppo delle manifestazioni della vita, nelle quali si può intrecciare la scissione, tanto maggiore diviene la potenza della scissione, tanto più fissa la sua sacralità climatica, tanto più estranei alla totalità della cultura e privi di significato gli sforzi della vita di rigenerarsi nell’armonia. Tali tentativi, pochi in rapporto alla totalità, che hanno avuto luogo contro la cultura moderna, e le belle creazioni più significative del passato o della cultura straniera hanno potuto risvegliare solo quell’attenzione che resta possibile quando non può venir inteso il più profondo e serio rapporto all’arte vivente; con l’allontanamento da lei dell’intero sistema delle relazioni di vita è perduto il concetto della sua connessione che tutto comprende, ed è trapassato nel concetto o della superstizione o di un gioco di intrattenimento».[2]

Responsabilità del nuovo clero orante nel declino della filosofia
Il declino della filosofia non avviene in modo fatale, ma trova la causa profonda nella responsabilità degli stessi intellettuali. Coloro che praticano la filosofia non come scelta di vita, ma soltanto come professione, declinano verso le discipline scientifiche, disprezzano i metodi filosofici d’indagine e specialmente reputano la ricerca della verità, in quanto totalità, un sogno adolescenziale da superare in nome dello scientismo ad ogni costo. La filosofia smette di essere un segnalatore di pericolo, un salvavita per tutti – come afferma Costanzo Preve in Storia critica del marxismo[3] – per diventare ideologia, ovvero parte della riproduzione del sistema: diventa anch’essa automatismo, in quanto ha rinunciato alla verità per rifugiarsi tra le braccia rassicuranti dell’esattezza. La filosofia ha le sue responsabilità con cui deve confrontarsi. Il circolo mediatico, il clero orante è sempre in azione:[4] tra di essi si ritrovano specialisti della filosofia per mestiere, non certamente però filosofi, pronti a vendere ‘pericolosamente’ un’intera insostituibile tradizione:

«Il disprezzo verso la ragione si mostra nel modo più forte non nel fatto che essa viene liberamente disdegnata e ingiuriata, ma nel fatto che la limitatezza si gloria di maestria nella filosofia e di amicizia con lei. La filosofia deve respingere l’amicizia con simili falsi tentativi che si gloria no in modo disonesto dell’annientamento delle particolarità, muovono dalla limitazione e applicano la filosofia come un mezzo per salvare e mettere al sicuro tali limitazioni. Nella lotta dell’intelletto con la ragione, quello guadagna una forza solo in quanto questa rinuncia a se stessa; il buon esito della lotta dipende dunque da lei stessa e dell’autenticità del bisogno di ricomposizione della totalità da cui procede. Il bisogno della filosofia può essere espresso come il suo presupposto, se alla filosofia, che comincia con se stessa, deve essere fatta una specie di vestibolo; e nei nostri tempi si è molto parlato di un presupposto assoluto. Ciò che viene chiamato presupposto della filosofia non è altro che il bisogno sopra espresso».[5]

Quantità senza qualità
La scissione imperante ha la sua verità profonda non solo nelle specializzazioni sempre più estreme, ma anche negli ambienti istituzionali della filosofia che hanno abdicato al loro dovere etico (Sollen), in nome del valore di scambio. In questo caso il baratto, qualora si confermi anche nei tempi che verranno, troveranno un’umanità sconfitta, persa tra mercificazione e alienazione. La quantità senza la qualità del senso e delle relazioni non è un compensativo immediato della negazione metafisico-ontologica: presto tale compensazione mostrerà i suoi tragici limiti.
Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza idee, senza teoretica, votato unicamente al valore d’uso e quindi all’autodistruzione. Se il pianeta è in affanno, se i popoli sono solo plebe alla catena dell’economia, ciò accade ed è per l’assenza del pensiero che connette, e supera la morte – presente nella scissione – a favore della vita, la quale è unità, tensione tra diversi piani che si riconoscono nell’unità:

«Allo stesso modo ogni apparenza di un centro, che la filosofia popolare dà al suo principio dell’assoluta non-identità di un finito e di un infinito, vien rigettata dalla filosofia, che mediante l’assoluta identità innalza alla vita la morte degli scissi, e mediante la ragione, che li intreccia entrambi in sé e maternamente li pone come uguali, si sforza di raggiungere la coscienza di questa identità del finito e dell’infinito, cioè il sapere e la verità».[6]

Salvatore A. Bravo

 

 

 

Monumento di Hegel a Jena

Monumento di Hegel a Jena

 

[1] G.W.F. Hegel, Differenza tra il Sistema filosofico fichtiano e scellinghiano, www.ousia.it (http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/TestiDiFilosofia/TestiPDF/Hegel/DifferenzaFichteSchelling.pdf), p. 6.

[2] Ibidem, p. 7.

[3] C. Preve, Storia critica del marxismo. Dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco, Introduzione di André Tosel, La Città del Sole, Reggio Calabria 2007.

[4] C, Preve, Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, Petite Plaisance, Pistoia 2017.

[5] G.W.F. Hegel, Differenza tra il Sistema filosofico fichtiano e scellinghiano, op. cit., p. 7.

[6] Ibidem, p. 51.

 

 

 

 


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Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.

Platone 013b

L’epoca dello straniamento

Alcibiade I e II

Alcibiade I e II

 

Τί δέ; τίς τέχνη βελτίω ποιεῖ αὐτόν,
ἆρ’ ἄν ποτε γνοῖμεν ἀγνοοῦντες τί ποτ’ ἐσμὲν αὐτοί;

E allora? Quale arte rende migliori se stessi,
potremmo noi conoscerla
se ignoriamo che cosa mai siamo noi stessi?
(Platone, Alcibiade I, 128 d).

 

 

Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza

Famuli, servi, plebe

La vera trasgressione
è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza

Il «conosci te stesso» socratico e la « parmenidea

L’insocevole socevolezza

Limiti e possibilità, bisogni essenziali ed inessenziali

Con la quale arte potremmo migliorare noi stessi?

Senza la conoscenza di sé il declino è fatale

Rendersi virtuosi per trasmettere ai cittadini la virtù

L’inclusione è l’ortopedia didattica dell’adattamento

 

 

Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza

L’Alcibiade I di Platone ci parla ancora: segnala un problema che la contemporaneità ha rimosso nel chiasso del divertissement globale, del divertere, del cambiare strada per non vivere l’esperienza del negativo, della contraddizione che ci introduce nel regno della consapevolezza, dell’umano. La globalizzazione è il regno non più della peccaminosità assoluta, come affermava Fichte, ma della colpevole innocenza. Il divertissement globale è la trasformazione del processo di alienazione in industria, ovvero il prodotto sotteso alla cultura dell’economicismo secondario, fine a se stesso. Come affermava Costanzo Preve è l’alienazione: la vita ridotta ad azioni automatiche ed imitative. Se ciò è possibile, se la minaccia perenne dilaga scientemente organizzata, pur nel flusso incostante dei numeri profetici degli economisti, è a causa l’economia fine a se stessa che, per aumentare decimali di PIL, deve indurre popoli a trasformarsi in consumatori alieni a se stessi.


Famuli
, servi, plebe

Popoli ridotti a famuli, a servi – come direbbero Vico e poi Hegel. Popoli che, manipolati e spinti al consumo a qualsiasi costo, diventano plebe e dunque molle argilla da manipolare, da trasformare in macchine desideranti senza responsabilità. Il pianeta ha la febbre, si riscalda tanto da rendersi inospitale, eppure si induce al consumo, ai bisogni inautentici, si perpetuano comportamenti delinquenziali contro la vita. Jonas, dinanzi alle masse obnubilate dal consumo narcisistico sperava in un satrapo illuminato che potesse salvare il pianeta e l’umanità.
Il momento storico a volte sembra senza uscita, pare che si avviti su se stesso. Eppure, anche in questo frangente estremo, in cui il logos (λόγος), sembra tacere e le parole diventano numeri per i lupi della borsa, per i loro servi al seguito, e non resta che la catastrofe dei giorni, un ausilio non secondario ci può giungere dai classici. La trasgressione continuamente citata e propagandata dal capitalismo assoluto è in realtà il convenzionale della vendita, dell’immediato che si appropria di fuggevoli emozioni da barzelletta.

La vera trasgressione è il pensiero critico
contro l’attività perenne senza consapevolezza

La vera trasgressione, osteggiata ed a volte giuridicamente censurata è il pensiero. La legge 107 sulla Buona scuola, con l’alternanza scuola/lavoro (un ossimoro palese), è un tentativo di ridurre gli spazi del pensiero critico, per indurre all’attività perenne senza consapevolezza. La cultura dell’azienda deve entrare in ogni fibra, in ogni muscolo delle nuove generazioni, novelli automi della produzione, negatori di se stessi, della loro indole. Il mercato esige un olocausto spiritualizzato nei paesi industrializzati, ovvero si deve insegnare alle nuove generazioni la pedagogia del nichilismo, della negazione di sé. L’asse di interesse si deve spostare “fuori”, gli uomini non devono avere baricentro in se stessi, ma nel mercato: in tal modo si trasformano in greggi belanti pronte a ripetere slogan e precetti del mercato. La loro irripetibile individualità, unica, deve svaporare. Lo stesso personalismo cristiano è anch’esso tra le vittime dell’integralismo economicistico, non deve apparire, dev’essere estraniato, alienato da loro fino a provarne vergogna.

Il «conosci te stesso» socratico e la «Y» parmenidea

Il «conosci te stesso» socratico appare dunque, una vergogna, il bivio su cui non ci si deve neppure soffermare. La Y con cui gli appartenenti alla scuola parmenidea simbolizzavano la loro adesione all’autentico, simbolo ritrovato nelle tombe dei discepoli della scuola di Elea,[1] è ora strutturata secondo un percorso a linea retta: non bisogna vedere-vivere il bivio che induce alla scelta tra vita autentica e vita inautentica, tra scelte politiche reali , al suo posto vi è solo un tunnel che porta alla vita inautentica, alla «gabbia d’acciaio» da cui è impossibile la salvezza.

L’insocevole socevolezza

La caverna attende tutti come destino, moira inevitabile. Ci si deve perdere nella crematistica (κρηματιστικός) nell’eccesso e nei suoi crimini piccoli e grandi. La doxa deve diventare il fine di ogni esistenza, doxa offerta dal mercato mascherata da scelta di prodotti e da scelte di vita indirizzate verso l’atomismo delle solitudini, della società dei bisogni ove regna l’utile, l’insocievole socievolezza descritta da Kant. Ogni educazione al senso della dimensione comunitaria è rappresentata nella forma di una minaccia alla pace dei commerci globali, alla fratellanza delle merci. Naturalmente si nasconde il dato sostanziale che la pace delle merci, da perseguire con la forza, occulta gli effetti dei bombardamenti umanitari come lo smantellamento dei diritti sociali senza i quali non vi è esistenza qualitativa, ma solo quantitativa e possibilmente breve, in modo che non da non pesare troppo sulle finanze dello Stato. La vita è concessa fin quando si hanno i mezzi privati per entrare nel mercato.

Limiti e possibilità, bisogni essenziali ed inessenziali

In questa condizione storica i classici non hanno smesso di parlarci, di invitarci a pensare alle loro verità ideali che attraversano le contingenze. L’Alcibiade I di Platone rende irrinunciabile un principio senza il quale una città non è tale, ma è solo un mercato esposto al flusso delle lotte di potere e all’incostanza dei mercati. Ciascun essere umano, e specialmente chi vuole governare, deve avere la chiarezza di se stesso, deve conoscere se stesso, per poter ambire a governare. Conoscere se stessi significa conoscere di sé limiti e possibilità, ma specialmente tratteggiare una linea netta tra i bisogni essenziali ed inessenziali, tracciare il limite, il metron, entro cui impegnarsi consapevolmente in una linea di sviluppo, senza la quale il futuro politico non può che governare male e nella dismisura, percependo se stesso come il centro del mondo, proprio perché non ha fatto conoscenza dei suoi limiti e non ha governato il caos che ciascun essere umano che nasce alla vita, che si apre ad essa, scopre di recare con sé:

Con la quale arte potremmo migliorare noi stessi?

«Socrate: Dunque con un’arte ci prendiamo cura di ciascuna cosa, presa per sé, mentre con un’altra arte ci prendiamo cura di ciò che appartiene a quella cosa.
Alcibiade: È evidente.
Socrate: Allora quando ti prendi cura di ciò che ti appartiene, non ti prendi cura di te stesso.
Alcibiade: In nessun modo.
Socrate: Infatti, a quel che sembra, non è la stessa arte quella con cui ci si prende cura di se stessi e di ciò che appartiene a se stessi.
Alcibiade: No, è chiaro.
Socrate: Suvvia, con quale arte potremmo prenderci cura di noi stessi?
Alcibiade: Non so dirlo.
Socrate: Ebbene, su un punto almeno siamo d’accordo, che è un’arte con la quale non potremmo migliorare qualsivoglia delle cose che ci appartengono, ma con la quale potremmo migliorare noi stessi?
Alcibiade: Ciò che dici è vero.
Socrate: E poi, avremmo potuto conoscere quale arte migliora le scarpe, senza conoscere le scarpe?
Alcibiade: È impossibile.
Socrate: Né quale arte migliora gli anelli, se non conoscessimo l’anello.
Alcibiade: È vero.
Socrate: E allora? Quale arte rende migliori se stessi, potremmo noi conoscerla se ignoriamo che cosa mai siamo noi stessi?
Alcibiade: È impossibile.
Socrate: È dunque facile conoscere se stessi ed era uno sciocco colui che pose questo detto nel tempio di Pito oppure è un’impresa difficile e non di tutti?
Alcibiade: Spesso, o Socrate, pensai che fosse alla portata di tutti, molte volte invece che fosse estremamente difficile.
Socrate: Ma, Alcibiade, che sia facile o no, tuttavia la cosa sta così per noi: conoscendo questo, noi potremmo conoscere la cura di noi stessi, ma se siamo ignoranti non possiamo farlo».[2]

 

Senza la conoscenza di sé il declino è fatale

Senza la conoscenza di sé non vi è persona che possa essere giudicata tale, ma vi è ancora il caos dell’ignoranza, dell’estraniamento da sé. La cura di sé invece è già politica, buona politica perché dispone all’ordine pensato, mediato dal logos attraverso l’amicizia, la philia (ϕιλία) con se stessi e con l’alterità. Ci si conosce assieme per salvarsi assieme. La conoscenza di sé – oggi presentata solo in forma adattiva alla maniera cartesiana, cambiare il mondo e non se stessi – è rigettata perché faticosa, perché non produce PIL.
Ma essa è limite all’illimitato, all’apeiron. Senza la conoscenza di sé non possiamo che avviarci ad un declino fatale, esiziale per le generazioni che verranno.
Ancora una volta i classici ci invitano a guardare dentro noi stessi, a capire che il dentro è relazione con il fuori. Alcibiade, per poter ben governare la città, deve conoscere se stesso altrimenti condanna se stesso e la polis al caos. Le sue passioni segnate dalla dismisura travolgeranno tutti e lui medesimo:

Rendersi virtuosi per trasmettere ai cittadini la virtù

«Socrate: Non è certo colui che è diventato ricco che si libera dall’infelicità, ma colui che è diventato saggio.
Alcibiade: È evidente.
Socrate: Non è dunque di mura né di triremi né di cantieri navali ciò di cui hanno bisogno le città, o Alcibiade, se vogliono essere felici, né di popolazione né di grandezza, se manca la virtù.
Alcibiade: No, certamente.
Socrate: Se allora vuoi gestire gli affari della città in modo retto e onorevole, devi trasmettere ai cittadini la virtù.
Alcibiade: Certo, come no?
Socrate: Ma in che modo si può trasmettere ciò che non si ha?
Alcibiade: E come?
Socrate: Bisogna per prima cosa che tu ti renda padrone della virtù e così deve fare chiunque altro voglia stare al governo e curarsi non soltanto privatamente di se stesso e dei propri interessi, ma della città e degli interessi della città.
Alcibiade: Quel che dici è vero.
Socrate: Non devi procurare libertà d’azione né il potere di fare ciò che vuoi, a te stesso e neppure alla città; devi invece procurare giustizia e saggezza.
Alcibiade: È chiaro.
Socrate: Agendo infatti con giustizia e con saggezza tu e la città agirete in modo gradito agli dèi.
Alcibiade: È naturale.
Socrate: E, cosa che appunto dicevamo nei precedenti discorsi, agirete tenendo sempre davanti agli occhi ciò che è divino e luminoso.
Alcibiade: È chiaro.
Socrate: Ma appunto con lo sguardo rivolto a questo, voi vedrete e conoscerete voi stessi e il vostro bene.
Alcibiade: Già».[3]

 

L’inclusione è l’ortopedia didattica dell’adattamento

La lettura dei classici non è consolatoria, o espressione del vezzo di un’anima bella, è l’inizio di un percorso educativo verso l’emancipazione, parola oggi sostituita – nel pedagogese ideologico – con inclusione, ortopedia didattica dell’adattamento. Hegel e Marx hanno costruito i loro sistemi partendo dai classici. A voler praticare la cultura del sospetto sorge il dubbio che si voglia uccidere sul nascere ogni potenziale probabilità che si possano formare spiriti grandi tesi all’emancipazione della comunità.

Salvatore Antonio Bravo

 

***

[1] «[…] la sacra Y a due bracci che vediamo su monumenti funebri posteriori di ambito neopitagorico, e che simboleggia la decisione del defunto di fronte al bivio della vita fra vizio e virtù, [risale] al venerando Parmenide e alle sue due vie. Appunto la via giusta è quella della legge della ragione, è madre della legge umana, di ciò che permette un rapporto stabile e paritario fra gli uomini. Dike, la dea della giustizia, guida nel cammino incerto il viandante del poema parmenideo» (Antonio Gargano, http://www.iisf.it/scuola/int_fil_greca/parmenide.htm).

[2] Platone, Alcibiade I, http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneAlcibiade1.pdf, pp. 17-18.

[3] Ibidem, p. 22.



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Salvatore Bravo – Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto

Bravo Salvatore 027

Coperta 292

Salvatore Bravo

Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il cacciatore globalizzato nel capitalismo assoluto è onnivoro, ha smarrito la strada del bene e del male, è solo interno al visibile, alla merce ed alle sue immagini che ne colonizzano la carne privandola della sensibilità della comunicazione. Vive nell’immediatezza, consuma ogni prodotto nell’irrilevanza critica ed etica: ha fatto dell’attimo consumante l’ontologia della consolazione. Il mercato è il fondamento ontologico che si rispecchia nel suo pensiero. È l’automa cartesiano realizzato, privo di anima ma pronto all’azione imitativa. Vive l’imperio del caos, insegue i flussi dell’economia diventandone parte fino ad esserne parte indifferenziata, non pensa il suo tempo, lo insegue, lo annusa in cerca di selvaggina: la merce.

La vita allora si disfa in una temporalità segnata dal tempo liturgico del consumo senza limiti, e la chiamata al consumo non conosce soste. Vive l’incontro solo come occasione per soddisfare i suoi biologici interessi, divora l’altro.

Con questo saggio l’autore vuole contribuire a pensare l’epoca presente, a porre delle domande sul dominio del nulla sull’essere, sempre più incombente, sull’avanzare del deserto spirituale, nel dolore silenzioso dei tanti senza voce, senza destino. E chiama in causa la necessità di elaborare una filosofia capace di progettualità sociale e comunitaria.

 

Indice

Il cacciatore onnivoro

Il soggetto debole, ovvero il cacciatore

Il tempo della quantificazione: la vita oltre la vita

Gli abitanti della società liquida

Nella mente del cacciatore

L’uomo modulare

L’irrilevantocrazia

L’io nuvola

L’angoscia autentica

Il bisogno ontologico

La caverna del cacciatore

Il trascendentale dei cacciatori

La domanda nel tempo del neorealismo

La trasparenza dell’indifferenziato

Che fare?

Conclusioni


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Salvatore Bravo – Il presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Agnes Heller001

Salvatore Bravo

La domanda filosofica e l’utopia concreta

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L’indagine filosofica pone domande radicali. In ogni filosofare vi è l’atto dell’uscire dalle posizioni ordinarie, dall’ovvio, per interrogarlo. La domanda filosofica non vive nel chiuso delle accademie, delle istituzioni o nelle parole paludate degli specialisti: abita ovunque vi siano esseri umani che pongano l’esigenza del senso, del riportare il quotidiano alla sua razionalità. Si procede per scissione e ricomposizione. La domanda filosofica vive socraticamente nella strada. È nei luoghi della vita routinaria che possono emergere domande su dettagli che rivelano la sostanza, la verità del proprio tempo. Domandare nel filosofare è sempre pratica dell’epochè, sospensione dell’atteggiamento naturale, porre le sovrastrutture culturali ed ideologiche in uno stato limbico, per guardare con occhi nuovi, per imparare a guardare il mondo in carne e d’ossa, come affermava Husserl.[1] La parola teoria deriva dal greco θεωρέω theoréo, “guardo, osservo”, composto da θέα, thèa, “spettacolo” e ὁράω, horào, “vedo,” dunque senza il guardare profondamente non vi è la domanda filosofica.

***


 

SUV carro armato

SUV carro armato

 

Prodotto negli Stati Uniti arriva il carro armato di lusso:
si chiama Ripsaw Ev2 Extreme Luxury Tank. Dotato di un motore Diesel da 6.6 litri  è prodotto dalla Howe Technologies. Tra i super ricchi americani sta già diventando un oggetto di culto.


Fenomenologia del SUV

Muoviamo un passo con un esempio: l’analisi del SUV. La mastodontica auto sovrana delle nostre strade. Il SUV tradisce le contraddizioni del nostro reale “molto virtuale.” In primis, la sua storia è inquietante, in quanto tale modello ha un’origine militare. L’acronimo di SUV è Sport Utility Vehicle, un’automobile corazzata derivata dai modelli corazzati della prima guerra del Golfo.
Se la propaganda politica presenta il turbocapitalismo quale diffusore di pace e diritti universali, le guerre, si propugna “seraficamente”, sono un incidente necessario nel cammino della pace. La guerra ispira tecniche di conquista adattandole all’ambiente, utilizzandole in svariati settori industriali ed anche per il mercato dell’auto. Si tratta dunque di un unico mercato. Sicuramente solo un numero sparuto di compratori ne conosce la storia e le tragedie di cui è segno. La guerra è tra di noi, non solo nel caso vi sia un’implicazione diretta o indiretta nelle scelte governative, ma anche quando si adotta un mezzo che si è ispirato ad essa. Il compratore non si domanda certo il Perché della mastodontica presenza, semplicemente la usa. La ragione strumentale trionfa sulla razionalità oggettiva. Lo spirito con cui ci si approccia al mercato cambia, se semplicemente si obbedisce alla propaganda, o se si interpone la domanda tra essa e se stessi. La Filosofia si situa in quello spazio di elaborazione: sentire/guardare con lo scandaglio, per capire, per non essere fruitore passivo delle contingenze.

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La falsa cultura capitalistica della cosiddetta ecologia “sostenibile”

Più palese – rispetto alla precedente – è la contraddizione che si manifesta nel continuo salmodiare del circolo mediatico sullo sviluppo sostenibile da parte della falsa cultura capitalistica. Non una contraddizione si apre, ma una voragine che mostra e denuncia l’ipocrisia dell’attuale modello economico. Il SUV consuma notevoli quantità di carburante con il conseguente inquinamento da benzene, sostanze alifatiche, polveri sottili, nanoparticelle. Ecco la verità del capitalismo assoluto: dell’ambiente come della vita non gli importa nulla, il plusvalore resta l’unico fine, al punto da infischiarsene dell’inquinamento e della febbre della Terra con i suoi eventi estremi. Giunge un’altra domanda: “A quale bisogno risponde il SUV?”.

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Bisogni radicali, bisogni alienanti

I bisogni – se seguiamo la linea di Agnes Heller – si distinguono in bisogni radicali e bisogni alienanti. I primi sono i bisogni autentici che favoriscono la formazione dell’essere umano, permettendogli di fiorire secondo la famosa metafora di Aristotele. L’essere umano è possibilità che si attua nella convivialità, nella cultura etica del disinteresse. I bisogni autentici sono i bisogni della comunità. Nella parola comunità è presente uno scrigno di significati dimenticati: comunità deriva da cum-munus: nel mondo antico munus è il dono disinteressato che reca in sé la reciprocità del gesto. La società dei SUV non è una comunità, ma solo un mercato, in cui è assolutamente estranea l’esperienza del dono. Il guidatore – trincerato nell’abitacolo del SUV – con la sua ombra minaccia i pedoni, e fa della distanza la cifra del suo successo nel mercato delle quantità: ingerisce sempre più massicce dosi del “farmaco” della quantità pensando di “curare” così la propria paura dell’altro attraverso il suo nascondimento corazzato.

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La paura curata con il “farmaco” della quantità

L’altra verità del SUV è la paura curata con il “farmaco” della quantità, con l’espandersi del proprio fragile io nell’esoscheletro della corazza dell’auto. Il sistema del lavoro astratto, aumenta il timore dell’altro: la competizione diventa esperienza darwiniana di selezione: si è ciò che si produce. Se la capacità poietica non è altamente performativa, si cade nella disistima generale fino alla marginalità sociale. La quantità è la cifra del turbocapitalismo e si concretizza nel plusvalore come nell’espansione della res extensa: naturalmente l’estensione della quantità è direttamente proporzionale alla presenza dell’io. La qualità scompare dietro il gigantismo del SUV, come delle sue innumerevoli copie. La quantità invade le strade, gli spazi come la coscienza dei servi del capitale. I bisogni alienanti sono dunque bisogni indotti e compensativi dell’assenza della qualità.
La comunità è il luogo della qualità: convivialità, amicizia, reciprocità, progettualità condivisa. Nei bisogni radicali si iscrive la verità della natura umana, ogni comunità con un tasso di convivialità sviluppata conosce la malattia mentale come eccezione. Le società che tale più non sono – perché potere e plusvalore sono i suoi fondamenti – non conoscono che la malattia, l’inquietudine giornaliera del vivere. Il bisogno alienante non conosce la presenza dell’altro e la reciprocità, poiché è un bisogno incontenibile: è stato introiettato al fine di espandersi con funzione geometrica, e non raggiunge mai la gratificazione, che è spostata in avanti in un tempo indefinito, con il risultato che il soggetto desiderante è dominato e asservito. Il bisogno radicale conosce il senso del limite in quanto vive l’esperienza della qualità, della profondità, della gioia.

***

La mancanza d’essere

Nell’epoca in cui domina il lavoro astratto, ridotto a sola energia poietica senza qualità, per riportare i bisogni radicali ed il lavoro concreto quale tema centrale del dibattito culturale e politico, è necessaria la domanda filosofica supportata dalla postura filosofica:

«La filosofia può fare solo una cosa: può dare al mondo una norma e può volere che gli uomini siano in grado di dare alla norma un mondo. […] il filosofo non opera una mediazione filosofica fra essere e dovere, la compie solo in quanto uomo: come un uomo tra milioni, un uomo tra coloro che vogliono sapere la verità, uno di quelli che vogliono che il mondo possa diventare la patria dell’umanità».[2]

La Filosofia deve riportare l’umano nella comunità umana. Sin dalla catabasi di Platone, ed ancor prima, sa bene che l’essere umano è mancanza d’essere, non gli è sufficiente la semplice vita, la sola quantità, ma ha bisogno di senso. Privato del senso l’uomo soggiace all’esperienza del disastro: vive fuori da ogni riferimento, fatticità heideggeriana. In assenza della domanda del senso non resta che un mondo minacciato dalle cose, dai SUV nelle multiformi manifestazioni. Mondo della paura, nel quale l’essere è solo un estraneo. In assenza di orientamento, dello spazio di una patria, i bisogni alienanti assalgono l’essere umano. La Filosofia nella contemporaneità è sostenuta da Filosofi deboli: in assenza di esperienze storiche profonde, radicali (nell’accezione marxiana) e dirette, sembra che anche le domande abbiano perso la loro energia critica. Solo la consapevolezza che viviamo l’esperienza estrema di un totalitarismo non riconosciuto potrà, forse, ridare vigore alla domanda. Per riportare l’umano nel mondo è necessario il logos, il dubbio che investa la vita nella sua totalità come nella risposta.

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L’utopia come problema

Il logos è domanda che si prende cura della vita giorno dopo giorno. La domanda elabora utopie, ma affinché non diventino distopie, incubi, esse hanno un valore puramente regolativo, è un tendere verso, con la consapevolezza dell’impossibilità di realizzazioni assolutamente perfette. L’utopia la si può coltivare nella cura del quotidiano, vivendo l’esperienza della qualità, della convivialità, nel concreto. Perché la vita diventi umana vi deve essere una stratificazione temporale dell’utopia: la perfezione è un tendere verso che si radica nella cura del presente. La convivialità diviene anticipazione di un tempo impossibile, perfetto, definitivo, ma che trasforma il presente in possibilità creativa nel nome della reciprocità:

«La normalità ci impone di giudicare il nostro mondo né migliore né peggiore di qualunque altro mondo umano di cui abbiamo conoscenza. In ogni caso, tutto ciò che conosciamo del passato lo sappiamo attraverso le utopie. Perché cosa altro sono le opere artistiche e storiche se non frammenti di una realtà utopica? Abbiamo bisogno di utopie per il futuro, ma non di credere alla loro realizzazione. Le utopie, infatti, non si realizzano mai; non ne hanno bisogno, dato che esistono già. La cosa migliore delle donne e degli uomini di un dato mondo sono le utopie che essi creano nei confini del loro universo. […] Normalità significa prenderci cura del nostro mondo. La cosa migliore che possiamo fare è agire in modo utopistico, mettendo in luce le possibilità positive della nostra epoca moderna».[3]

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 La Filosofia come nostalgia dell’umano

La domanda ci riconduce alla nostalgia di un mondo degli esseri umani e per gli esseri umani. In ogni domanda filosofica la radicalità è nella richiesta di un mondo umano, e nel contempo è un “no” verso l’ordine vigente: nella domanda vive la fiducia di un mondo perfettibile. Il presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. L’esodo è nel presente: l’esperienza del passaggio, della prassi filosofica vive già nella domanda. La domanda è già utopia concreta. La domanda trasforma la posizione dell’alterità: si compie il transito dalla prospettiva strumentale alla prospettiva tra soggetti in relazione. In questa attività risiede la forza rivoluzionaria della Filosofia. Dove il silenzio regna sovrano, dove la critica filosofica è solo esperienza di un passato glorioso, si assiste al dominio, al potere come destino, al mondo delle cose che signoreggiano sull’essere umano offrendogli soltanto la penuria del non-essere, schiacciandolo in un’esistenza puramente biologica.

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L’immaginazione

Si vive senza immaginazione: la quantificazione opera un taglio sull’immaginazione. Ogni totalitarismo fa la guerra all’immaginazione. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita.
La domanda filosofia trova il suo humus nell’immaginazione, della capacità tutta umana di trascendere il presente.
L’arte come la religione può favorire l’immaginazione filosofica:

«Quale ruolo gioca il riferimento alla tradizione biblica? Per rispondere occorre riflettere, almeno per un momento, sulla natura dell’immaginazione, questa straordinaria facoltà mentale che deriva dalla fusione tra ragione ed emozione. Ogni momento della nostra giornata è segnato dalla presenza dell’immaginazione anche dal punto di vista psicologico, ma questa facoltà è addirittura decisiva quando si tratta di innovare: di immaginare, appunto, un futuro che sia diverso dal presente. Questa dimensione creativa dell’immaginazione, caratteristica in particolare dell’arte, è determinante per il formarsi delle utopie e ha trovato espressione in molte pagine della Bibbia. Personalmente trovo molto convincente la tesi dell’egittologo Jan Assmann, che riconosce nel Libro dell’Esodo uno dei capisaldi dell’utopia di ogni tempo. Attraverso la promessa ricevuta da Mosè, il popolo di Israele riesce a concepire la liberazione dalla schiavitù e l’avvento di un mondo completamente nuovo. Si verifica così salto di scala nel percorso immaginativo che avrà conseguenze formidabili per tutta l’umanità».[4]

Per giungere alla convivialità, ai bisogni autentici, la domanda filosofica deve essere sostenuta dall’immaginazione senza la quale il pensiero è solo calcolo, dominio dell’ente uomo sugli altri enti. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia, un incubo realizzato. Per riprenderci la Storia, per un nuovo inizio, abbiamo bisogno del pensiero e delle sue strutture senza le quali si è schiacciati tra le cose.

Salvatore Bravo


[1] Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. 1, Einaudi, 2002. Nella prima parte del I libro delle Ideen, Essenza e conoscenza di essenza, viene sviluppata la critica al naturalismo positivistico. Essa si basa sulla distinzione tra dato di fatto ed essenza, quindi sui possibili fraintendimenti naturalistici dei dati di fatto.
L’empirismo viene considerato come scetticismo e il carattere dell’essenza vien chiarito in modo tale da superare ogni sua interpretazione in chiave di realismo platonico. Il fatto costituisce l’essenziale, in esso si vede l’essenziale. L’essenzialità è colta nell’intuizione. Ogni fatto rivela così l’eidos. La riduzione eidetica strettamente legata alla riduzione al soggetto. Possiamo cogliere l’essenza solo se ci liberiamo da ogni pregiudizio e se descriviamo quello che vediamo come lo vediamo. Husserl formula, muovendo da qui, il principio dei principi:«Nessuna immaginabile teoria può cogliere in errore nel principio di tutti i principi: cioè, che ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si da originalmente nell’intuizione, per così dire in carne ed ossa (leibhaft) è da assumere come essa si da.» Questo principio dei principi è ciò che rimane dopo la critica scettica, anzi, è il risultato stesso dell’accettazione della critica scettica. Si possono negare tutte le teorie e le scienze, ma resta sempre quello che si vede e si sente nei limiti di ciò che si percepisce. Si possono verificare discordanze con gli altri sul percepito reale, ma queste possono essere chiarite per mezzo della costituzione intersoggettiva, cioè del dialogo tra i soggetti della conoscenza e dell’esperienza.

[2] Á. Heller, La filosofia radicale, il Saggiatore, Milano 1979, p. 154.

[3] Á. Heller, Scrivere dopo Auschwitz, p. 54.

[4] Á. Heller intervista “Noi orfani dell’utopia”, Avvenire del 26/5/2016

 



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Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Bravo Salvatore 028

 

Xilografia del 1474

Xilografia del 1474

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“E dimmi che non vuoi morire”.
Quattordici volte avrebbe pronunciato questa frase,
una per ognuno dei suoi quattordici figli,
sette maschi e sette femmine
uccisi a causa della sua superbia.

Solo il numero la rendeva orgogliosa,
non giudicava le qualità interiori dei figli,
ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto.

Zeus la condannò a un pianto eterno.
Pianto che continuò a sgorgare
nonostante fosse stata trasformata in pietra da Zeus.

 

Niobe di pietra

Salvatore Bravo

L’epoca degli sradicamenti

 

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Gegenstand ed obiectum
La velocità
La manipolazione del concreto
Il mito di Niobe
Proprietà pubblica
Proprietà privata
La verità


L’epoca dello sradicamento, ovvero della vita fuori dalla storia, sia della coscienza che della comunità in cui la vita fiorisce. Per capire la profondità esiziale dello sradicamento globale può esserci d’ausilio Hegel con la Fenomenologia dello Spirito: le figure che si susseguono nell’opera rappresentano il percorso di radicamento della coscienza, i passaggi ed il travaglio per nascere a forme di vita sempre più consapevoli.
Il travaglio della coscienza è la storia del radicamento, della consapevolezza, del baricentro che si sposta dal fuori al dentro, e del suo disporsi verso e nella comunità. La prima figura è la coscienza, lo stadio più primitivo è la certezza sensibile in cui il soggetto giudica l’oggetto non posto dal soggetto, ma soggetto animato di vita propria.

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Gegenstand ed obiectum

È il trionfo dell’obiectum sul Gegenstand. Lo sradicamento opera a favore della certezza sensibile e dunque dell’obiectum, mentre nel Gegenstand è la coscienza a porre la realtà, a conoscerla per trasformarla. Con l’integralismo dell’obiectum, il soggetto vive fuori di sé, è alienato, si inginocchia dinanzi all’oggetto non riconoscendolo come sua creazione. Lo sradicamento globale è il regno della certezza sensibile, il soggetto è spettatore nel turbine degli eventi che si concretizzano dinanzi a lui, e che fatalmente deve servire. L’asservimento globale è dunque sradicamento. Fenomeno complesso e poliforme, talvolta difficilmente riconoscibile, poiché in modo semplicistico è associato ai migranti, flusso ininterrotto di viaggiatori senza meta per il globo, odissea senza patria, senza ritorno. E dunque anche l’atto del partire è privo di densità emotiva e storica: non si parte da nessun luogo, per lo sradicato tutti i luoghi sono non luoghi, sono soste nel transito perenne.
La perversione dello sradicamento del migrante è solo una voce del fenomeno, in verità sono presenti manifestazioni altrettanto perniciose, ma non riconosciute.

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La velocità

La velocità, vero mito baconiano della contemporaneità, è una forma di sradicamento. La velocità nella mitizzazione della stessa è espressione di efficienza e competitività. Se si guarda la velocità da un altro punto di vista, essa è la manifestazione dello sradicamento da ogni pensiero, dall’ascolto dei pensieri che ci giungono per svelarci mondi. La velocità orienta a vivere in uno stato costante di disorientamento: non conta verso dove è finalizzato l’accrescimento cinetico, ma è valutato solo il risultato finale. La produzione a ritmi crescenti è incentivata senza critica, non importa se il mondo si inabissa tra prodotti e scorie. La velocità è competizione: l’altro è sempre il nemico da battere sul tempo e nel tempo. Ogni percezione dell’altro è dunque puramente strumentale. I predoni della velocità, misurano i tempi delle prestazioni, ogni riflessione sulla qualità tace.
Ogni problema teoretico è solo un limite nella logica della competizione. La sindrome della velocità è entrata nelle relazioni umane, che velocemente si consumano. Nel linguaggio comune vi sono soltanto rapporti flessibili, che si orientano – già nella loro genesi iniziale – ad una durata velocemente transeunte. Nelle scuole gli apprendimenti devono essere veloci e “concreti”.

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La manipolazione del concreto

Il termine è concreto è utilizzato con somma superficialità. Il concreto è parola che deriva da concrescĕre, dunque da cum e crescĕre, crescere con, dove appunto particolare ed universale sono compresenti. Nulla è più complesso del concreto che esige la lentezza della lettura filologica. Il “concreto” all’epoca dello sradicamento è semplicemente il dato dilavato da ogni principio e contesto: in tal modo il concreto diviene astratto, empiria volgare e semplice. Lo sradicamento è polimorfo nel senso freudiano: fenomeno perverso in cui le parole perdono il loro radicamento significante per essere flatus vocis. Se le manifestazioni dello sradicamento sono innumerevoli, diventa pur necessario riportare tale fenomeno alla sua verità logica, storia e sostanziale. In questo caso ci viene in aiuto un mito greco analizzato da Simone Weil.

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La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe

La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe.

Il mito di Niobe

Niobe è il simbolo di coloro che associano il bene alla quantità. Niobe giudicava i suoi quattordici figli, sette maschi muscolosi e sani, sette femmine bellissime, il bene assoluto. Il numero la rendeva orgogliosa, non giudicava le qualità interiori dei figli, ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto. I valori della res extensa contro i valori della res cogitans.
Per Simone Weil lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, l’essere umano così, si sradica dal pensiero, dalla coscienza per essere parte della natura. La quantità si rende manifesta nell’occupazione del tempo asservito al solo lavoro:

 

La prima radice

La prima radice

«Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ d’oro puro vale molto oro puro. Un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura. E così una statua greca perfetta contiene altrettanta bellezza di due statue greche perfette. Il peccato di Niobe consisteva nell’ignorare che la quantità non ha nessun rapporto col bene; e venne punita con la morte dei figli. Noi commettiamo lo stesso peccato ogni giorno, e veniamo puniti allo stesso modo».[1]

La punizione è quotidiana: se il bene è la quantità, il male è per tutti.[2] L’atomistica delle solitudini ne è conseguenza: sradicati da se stessi, dalla comunità, dalla storia come da ogni tradizione. Lo sradicamento e la quantità occupano lo spazio della mente: il tempo è pieno per cui non vi è spazio che per le mercificazioni. Il successo dello sradicamento non potrebbe essere più totale. L’essere umano ridotto ad atomo, ad individuo, non ha anticorpi per opporsi alla manipolazione: diviene, così, facile preda dei mercati, vera rete mondiale del saccheggio. La punizione ricade su tutti, poiché ogni vita è speculare alle altre, per quanto tentino di convincerci del contrario. Non solo l’infelicità nelle forme di alienazione si radica per divenire capillare, ma ancor più è in pericolo un intero pianeta: ogni vita umana è sotto scacco. La quantità agisce per trasformare l’altro in “fondo” da cui trarre plusvalore ed energia per eventuali piani di investimenti.
Il linguaggio stesso si contrae per essere veicolo della separazione. Nella lingua di ogni giorno le parole della quantificazione restringono le visuali e con esse le capacità empatiche. Le parole della quantificazione sono respingenti, creano mondi nei cui paesaggi la presenza umana non è contemplata. Dinanzi a processi di disgregazione di tale enormità, Simon Weil riconosce l’importanza degli spazi pubblici quali luoghi nei quali vivere lo spirito della comunità come appartenenza partecipata ad una storia.

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Proprietà pubblica

La proprietà pubblica implica la pubblica fruizione di spazi monumentali e politici. In questo modo tutti vivono l’esperienza del pubblico radicamento senza chiusura. Il radicamento nello spazio-tempo pubblico educa all’empatia, diviene educazione sentimentale e razionale sconosciuta al regno della quantità dove vige un sostanziale analfabetismo emotivo e razionale:

«Un bisogno altrettanto importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo Stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di fornire la soddisfazione di questo bisogno. Una grande fabbrica moderna costituisce uno spreco dal punto di vista della proprietà. Né gli operai, né il direttore che dipende da un consiglio d’amministrazione, né i membri del consiglio che non la vedono mai, né gli azionisti che ne ignorano l’esistenza, possono trovarvi la minima soddisfazione a questo bisogno. Le modalità di scambio e di acquisto, quando comportano lo spreco dei nutrimenti materiali e morali, vanno trasformate. Non esiste nessun legame naturale fra la proprietà e il danaro. Il legame oggi stabilito è solo il risultato di un sistema che ha concentrato sul danaro la forza di ogni possibile movente. Questo sistema è dannoso; occorre operare la dissociazione inversa».[3]

Lo sradicamento si invera nelle fabbriche, nelle quali la gratificazione, il senso di esistere è assente. Sono luoghi della non vita. Solo la relazione, l’esplicitarsi di bisogni profondi ed irrinunciabili possono rendere le condizioni qualitative. La punizione cade su tutti nel regno della quantità, dal vertice della gerarchia al suo livello più basso: tutti sono coinvolti e stravolti dalla violenza della quantità.

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Proprietà privata

Simone Weil non è radicale nella sua soluzione, ribadisce l’importanza anche della proprietà privata, ma come struttura finalizzata ai bisogni autentici. La casa, la terra, i mezzi di produzione devono essere parte diretta della vita del cittadino, in modo che la soddisfazione dei bisogni materiali autentici possa essere la premessa per la liberazione dall’ossessione della quantità, in modo da aprire un varco verso il pensiero dal quale nessuno dev’essere escluso:

«La proprietà privata è un bisogno vitale dell’anima. L’anima è isolata, perduta, se non è circondata da oggetti che siano per essa come un prolungamento delle membra del corpo. L’uomo è irresistibilmente portato ad appropriarsi col pensiero ciò che continuamente e a lungo ha usato per il lavoro, per il piacere o per le necessità della vita. Così un giardiniere, dopo un certo tempo, sente che il giardino è suo. Ma là dove il sentimento di appropriazione non coincide con la proprietà giuridica, l’uomo è continuamente minacciato da separazioni dolorosissime. Se la proprietà privata è riconosciuta come un bisogno, questo implica per tutti la possibilità di possedere altri oggetti oltre quelli di normale consumo. Le modalità di questo bisogno variano molto secondo le circostanze; ma è auspicabile che la maggior parte degli uomini sia proprietaria dell’alloggio e di un po’ di terra e, quando non vi sia una impossibilità tecnica, degli strumenti di lavoro. La terra e il bestiame fanno parte degli strumenti del lavoro agricolo. Il principio della proprietà privata è violato nel caso di terra lavorata da braccianti e da servi di fattoria sottoposti agli ordini di un amministratore, e che sia proprietà di cittadini i quali ne percepiscano il reddito. Perché fra quanti sono in rapporto con quella terra non ve n’è neppur uno che, in un modo o in un altro, non le sia estraneo. C’è spreco non dal punto di vista del frumento prodotto ma dal punto di vista della soddisfazione che quella terra potrebbe offrire al bisogno di proprietà. Fra questo caso estremo e l’altro caso limite del contadino che coltiva con la sua famiglia la terra di sua proprietà, ci sono molte situazioni intermedie nelle quali il bisogno umano di appropriazione è più o meno misconosciuta».[4]

La proprietà come espressione di sé, non è sradicamento, ma relazione. La cura, il rispecchiarsi nella proprietà come parte di sé e della propria storia può avvenire solo qualora soddisfi l’autoconsumo o sia luogo della comunità famiglia. La proprietà privata così fatta sublima l’individuale, lo investe, trascendendolo. Nella proprietà finalizzata all’accumulo, non vi è che un senso di estraneità e sradicamento, di ignoranza della stessa. Gli accumulatori seriali di proprietà non le gestiscono, non le conoscono, le usano soltanto.

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La verità

Nella quantità vi è lo sradicamento dalla verità. Il radicamento è verità immanente e trascendente, mentre lo sradicamento è menzogna, dimenticanza dell’altro come dell’appartenenza la quale è di ordine orizzontale e verticale, nel primo caso è il legame carnale con la comunità dei viventi, nel secondo caso radicamento nella storia, nell’invisibile che motiva l’apertura all’altro nel presente:

«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».[5]

Si osanna il relativismo, la libertà da ogni legame, per mettere in atto il nichilismo economico, il quale esige il superamento di ogni limite. La verità è giudicata nel circo mediatico come limite minaccioso, da cui liberarsi velocemente.
Lo sradicamento è dunque una condizione innaturale, l’irruzione nella storia di un tentativo di mutazione antropologica. L’essere umano nella sua natura è relazione concreta. Lo sviluppo qualitativo della sua personalità e del pensiero non può che avvenire nelle relazioni. L’accelerazione e la speditezza sono divenute gli ausili per bruciare le relazioni, per svuotarle di significato, renderle inautentiche, in modo da favorire lo sradicamento. Ogni relazione è giudicata nella spettacolarizzazione della libertà come limite, anzi chiunque faccia resistenza è già “vecchio”.
Ci costringono a vivere nello sradicamento anche dalla propria età, e radicati invece nella fuga nel tempo. Il totalitarismo economico, non riconosciuto, è la tragedia politica di questi anni.

Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare? (1863)

N. G. Cernysevskij, Che fare? (1863)

 

La prima edizione del libro Che fare? (1902 di Lenin)

V.I. Lenin, La prima edizione del libro Che fare? (1902)

Dinanzi ad un’apocalisse antropologica che si annuncia, deve risuonare nuovamente il Che fare? di N. G. Černyševskij e il Che fare? di V. I. Lenin. A questa domanda si dovrà rispondere, il rischio è l’oblio dell’uomo, ed il riapparire del “musulmano” [6] l’essere umano al limite dell’inumano, della cosa, descritto da Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Bollati Boringhieri, 1998), non più come eccezione, ma come sistema, come normale prassi della vita.

Salvatore Bravo

 

[1] Simone Weil, La prima radice, trad. di F. Fortini, SE, Milano, 1990, pag. 32.

[2] «Fare il male, come ha detto Simone Weil, ma è anche ciò che testimoniano da Auschwitz Primo Levi o Elie Wiesel, è ridurre l’uomo a cosa. […] il dolore di un “cancro”, il dolore dell’anima, che non a caso si è detto che “impietrisce”, come nel mito di Niobe, ci fanno “cose”. Le SS nei campi di sterminio riducevano l’uomo a cosa, quasi si fossero calati nel ruolo di agenti storici del male universale, incarnando, per così dire, ogni dolore e ogni pestilenza. Uno dei personaggi di Ombre sulll’Hudson di Singer si chiede se Dio stesso, il creatore e l’ordinatore dell’universo, non sia un Hitler cosmico che scatena appunto i suoi agenti contro l’uomo, come è già stato raccontato nel Libro di Giobbe, nella Bibbia. […] La sofferenza affonda il mondo, ci rende muti, afasici, senza linguaggio come meri oggetti, relitti abbandonali su una squallida riva …» (Franco Rella, Figure del male, Meltemi, 2002).

[3] Ibidem, pag. 18.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 21.

[6] Scrive Isabella Adinolfi: «Chi è il musulmano? Secondo la  rappresentazione e definizione che ne hanno dato testimoni quali Levi, Wiesel, Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani, erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l’umano e il non umano: non erano – sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo – né veramente vivi, né ancora morti, né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini. Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell’indicare questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come “perdita di coscienza, di consapevolezza”, come il venir meno “della volontà di vivere”, come “ripiegamento” e chiusura su se stessi. Nella “situazione estrema”, nell’”esperienza limite” del campo, il musulmano, secondo Bettelheim, è colui che “non resta un essere umano”, colui che non riesce a rimanere uomo.

Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Figure del male

Figure del male

C’è, secondo quest’autore, “un punto di non-ritorno”, una sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all’ultimo margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora l’uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e talora anche fisicamente» (I. Adinolfi, Quel che resta di Auschiwitz. Una riflessione sul saggio di Giorgio Agamben, minima&moralia, blog di approfondimento culturale, 24-01-2014: http://www.minimaetmoralia.it/wp/quel-che-resta-di-auschwitz-una-riflessione-sul-libro-di-giorgio-agamben/).



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