«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».
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Pierre Bourdieu individua nel simbolismo tratto dai corpi nella loro anatomia per generi il linguaggio e la prassi con cui il potere stratifica, divide e vorrebbe eternizzarsi.
È necessario mettere in circolo “nuove parole per nuovi pensieri”.
L’ordine del discorso
Il dominio e lo sfruttamento non sono il destino dell’Occidente ma scelte ideologiche e di classe. La tragedia del tempo presente è l’ipostatizzazione dello sfruttamento a cui è consustanziale il processo di alienazione. Il dominio, per giustificare la “naturalità” di se stesso, deve programmare il linguaggio, deve diffondere il “suo” ordine del discorso tra i vinti e gli sfruttati, in tal maniera rafforza e consolida non solo il dominio, ma anche il controllo. Le tecnologie sempre più pervasive non solo controllano dall’esterno, ma hanno lo scopo di far introiettare parole ed azioni, in modo che il dominato sia spontaneamente al servizio della classe dominante e diffonda il suo “verbo”. Gli studi di Michel Foucault hanno dimostrato la circolarità del potere: il dominio è ovunque, l’ideologia capitalistica è disseminata senza mediazione dagli stessi dominati.
Il momento attuale è caratterizzato dalla circolarità dell’ordine del discorso del potere, il quale ha l’obiettivo di cannibalizzare le parole che rimandano ad altre visioni del mondo. La distopia è circolare, ritorna su se stessa rafforzata dal suo viaggio nel quale destrutturano coscienze e logos. Lo sfruttato non solo parla e pensa come il dominatore, ma spesso ha i suoi stessi obiettivi: individualismo e crematistica.
Le ingiustizie sono tollerate, le contraddizioni non causano dolorose e feconde lacerazioni, in quanto il dominato è stato lobomotizzato. Le lacerazioni sociali ed individuali sono accettate come naturali, in quanto la rabbia non ha parole per trasformare il dato in concetto. Le parole del potere sono sostenute da una campagna di disinformazione e aggressione verso le contro parole. La speranza e la prassi non sono impossibili, in quanto – pur se l’ingannevole ordine del discorso derealizza – le condizioni materiali smentiscono i miti con cui il dominio vorrebbe sterilizzare la popolazione. Si tratta di un potere molto simile a quella violenta prassi medicale che interviene sulle menti come sui corpi per poterli neutralizzare della loro componente divergente e feconda. L’Occidente è nel deserto che avanza. La desertificazione dell’ambiente è speculare alle coscienze necrotizzate dallo sfruttamento e dal consumismo: quest’ultimo non è che un diverso modo per sfruttare e impoverire i lavoratori.
Pierre Bourdieu e il simbolico
Pierre Bourdieu[1] individua nel simbolismo tratto dai corpi nella loro anatomia per generi il linguaggio e la prassi con cui il potere stratifica, divide e vorrebbe eternizzarsi. Il simbolismo che fa riferimento al maschile e la femminile corrisponde all’attività e alla passività resi naturali, in quanto giustificati sul fondamento «movimenti-azioni del corpo sostenuti dall’anatomia e dalla biologia». Si tratta di un falso fondamento, in quanto è l’utile mezzo con cui rendere oggettivo il dominio:
«Questo passaggio attraverso una tradizione esotica è indispensabile per spezzare il nesso di familiarità ingannevole che ci unisce alla nostra stessa tradizione Le apparenze biologiche e gli effetti assolutamente reali che ha prodotto, nei corpi e nei cervelli, un lungo lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale si coniugano per rovesciare il rapporto tra le cause e gli effetti, e per far apparire una costruzione sociale naturalizzata (i “generi” in quanto habitus sessuati) come il fondamento in natura della divisione arbitraria situata alla radice sia della realtà sia della rappresentazione di essa».[2]
Il biologico è socializzato, la sua simbologia determina e rende tossiche le relazioni umane. La sociodicea, versione laica del male, infetta l’intero corpo sociale con i suoi simboli e diviene la verità intorno alla quale si catalizza l’intero corpo sociale attraversato da relazioni di dominio naturalizzate:
«Non sono le necessità della riproduzione biologica a determinare l’organizzazione simbolica della divisione sociale del lavoro e, successivamente, di tutto l’ordine naturale e sociale; è piuttosto una costruzione arbitraria del biologico, e in particolare del corpo, maschile e femminile, dei suoi usi e delle sue funzioni, soprattutto nella riproduzione biologica, a offrire un fondamento in apparenza naturale alla visione androcentrica della divisione del lavoro sessuale e della divisione sessuale del lavoro, quindi di tutto il cosmo. La forza particolare della sociodicea maschile è data dal fatto che essa accumula e condensa due operazioni: legittima un rapporto di dominio inscrivendolo in una natura biologica che altro non è per parte sua se non una costruzione sociale naturalizzata».[3]
Il pericolo nel discorso di Pierre Bourdieu è l’individuare nel polo simbolico maschile la fonte del male sociale. Non esistono “uomini” in generale e “donne” in generale, il polo maschile-femminile, dominanti-dominatori vale solo se visto dalla prospettiva dei capitalisti. Vi sono uomini, la maggior parte, che nel modo di produzione sono passivizzati e vivono la discrasia del linguaggio simbolico tra la loro posizione sociale e le parole. Vi sono donne di potere e dominio che usano il linguaggio simbolico che non appartiene alla loro “anatomia”. Nella pratica delle relazioni sociali anche un uomo esattamente come una donna può essere merce di scambio nelle relazioni di potere, anzi il linguaggio simbolico che vorrebbe identificare il maschio con l’attività procura una doppia sofferenza negli uomini, poiché vivono la condizione di doppia negazione del simbolico in cui dovrebbero essere collocati per natura: sono passivizzati nella posizione sociale che ne fa semplici esecutori e sono utilizzati come merce di scambio tra i padroni. Cercare lavoro significa per l’operaio come per il tecnico della classe media “vendersi” e “fingere”: si deve accondiscendere al padrone per sopravvivere, al punto da prostituirsi simbolicamente per ricoprire un ruolo sociale e assicurarsi la sopravvivenza; se tale “operazione” è fallimentare lo attende il disprezzo sociale. Il padrone sa bene che l’adulazione è inautentica, ma riconosce mediante essa la forza del suo potere. Bisogna esplicitare, quindi, nella materialità della vita, la sofferenza che attraversa i sudditi, ma essa non è eguale in tutti: si diversifica nella storia dei generi. Forse necessitiamo di un’archeologia della sofferenza che potrebbe rompere molti pregiudizi e sclerotizzazioni ideologiche. La storia in un’unica prospettiva, il dolore delle donne rese astratte, deve non solo rendere concreta la condizione femminile ma anche completarsi con la storia reale dei generi.
La forza simbolica entra nei dominati, li plasma, ma le differenze andrebbero conservate, per scendere nella profondità del dolore e del male sociale, pensandolo, anche, nella prospettiva “maschile”:
«La forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica; ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel più profondo dei corpi».[4]
Ben dice, però, Pierre Bourdieu. Bisogna spezzare l’ordine del discorso simbolico: i dominati – per non essere più tali – devono elaborare percorsi di uscita dalla caverna del linguaggio, in cui sono ai ceppi, con un contro linguaggio che spezzi le catene dell’alienazione linguistica. La tragedia in cui siamo situati è linguistica: il linguaggio è azione e visione del mondo, i dominati investono nella lingua del potere, l’inglese commerciale, per poter omologare le menti nel perimetro del valore di scambio, al punto che ammirano i dominatori e non concepiscono altro che il dominio:
«Ricordare le tracce che il dominio imprime durevolmente nei corpi e gli effetti che esso esercita attraverso tali tracce, non significa farsi sostenitori di quel modo particolarmente insidioso di ratificare il dominio, che consiste nell’assegnare alle donne la responsabilità della loro stessa oppressione, insinuando, come talvolta si fa, che esse scelgono di adottare pratiche di sottomissione (“le donne sono il loro peggior nemico”) o addirittura che amano l’esser dominate, che “godono” del trattamento loro inflitto, per una sorta di masochismo insito nella loro natura. Occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture devono la loro efficacia solo alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione».[5]
Prassi del simbolico
Trasformare il simbolico significa agire sulla struttura economica. Nel tempo della mistificazione sono sempre attivi e vigili le campagne contro le discriminazioni, in primis contro il maschio generico, al fine di non cambiare la struttura sociale e occultare il male radicale che si alligna in essa:
«Queste distinzioni critiche non hanno nulla di gratuito. Esse implicano infatti che la rivoluzione simbolica invocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà. Poiché il fondamento della violenza simbolica risiede non in coscienze mistificate che sarebbe sufficiente illuminare, bensì in disposizioni adattate alle strutture di dominio di cui sono il prodotto, ci si può attendere una rottura del rapporto di complicità che le vittime del dominio simbolico stabiliscono con i dominanti solo da una trasformazione radicale delle condizioni sociali di produzione delle disposizioni che portano i dominati ad assumere sui dominanti e su se stessi il punto di vista dei dominanti».[6]
La “virilità” – forma simbolica del potere androcentrico – è usata contro il femminile come genere e come disposizione psichica. L’errore, ancora una volta, è valutare la forma simbolica del maschile come mezzo che divide i dominati e i dominatori, a cui risponde sempre il genere maschile contro il genere femminile. Vi è una palese sottovalutazione della discriminazione degli uomini che non appartengono alla classe dei dominanti, i quali si ritrovano in una doppia trappola rispetto al genere femminile: il linguaggio simbolico li includerebbe nel dominio. In realtà sono nella posizione di essere simbolicamente tra i dominanti ma di fatto sono tra i dominati, anzi il genere femminile manipolato dalle classi al potere scarica su di essi ogni colpa al punto da schiacciarli in un silenzio gonfio di dolore e rabbia, il fronte degli oppressi è, così, spezzato e il potere applica la formula antica del “Divide et Impera”:
«Quello che chiamiamo coraggio trae così origine a volte da una forma di viltà. Per convincersene basterà ricordare le situazioni in cui, per indurre a commettere omicidi, torture o violenze carnali, la volontà di dominio, di sfruttamento o di oppressione si è appoggiata sul timore “virile” di escludersi dal mondo degli “uomini” inflessibili, da quelli che a volte si dicono “duri” perché resistono alle loro sofferenze ma anche e soprattutto alle sofferenze degli altri, assassini, torturatori e capetti di tutte le dittature e di tutte le “istituzioni totali”, anche le più comuni, come le prigioni, le caserme o i collegi, ma anche i nuovi padroni d’assalto che l’agiografia neoliberista esalta e che, spesso sottoposti anch’essi a prove di coraggio corporeo, manifestano la loro maestria licenziando i dipendenti in soprannumero. La virilità, come si vede, è una nozione eminentemente relazionale, costruita di fronte e per gli altri uomini e contro la femminilità, in una sorta di paura del femminile, e innanzitutto in se stessi».[7]
Il compito di una nuova sinistra è rompere il fronte del simbolico che costruisce la gabbia d’acciaio dell’impotenza. Il liberismo – nella sua fase imperiale – scuote e trascende le categorie e le faglie con cui il mondo è stato interpretato. La sovrastruttura tarda a constatare criticamente le modificazioni della struttura economica e a leggerle in senso emancipativo. La prassi – per poter ribaltare le logiche del dominio – necessita di un nuovo linguaggio che mostri nella loro verità i processi di derealizzazione in atto. Il simbolico maschile, oggi più che mai, umilia gli uomini che sono intrappolati in posizione servile nel modo d produzione. Il genere femminile vive anch’esso il grande inganno: usa il simbolico maschile per “emanciparsi”, ma in realtà cade supinamente nella trappola divisiva del mercato. Per disarticolare tali logiche è necessario riconfigurare la posizione del “servo” con le sue innumerevoli trappole linguistiche. Rompere il fronte del linguaggio e del simbolico nella sua glaciazione esige un’operazione collettiva di critica e prassi che carsicamente è già esistente. La storia non è conclusa: siamo ad un passaggio di epoche di cui non vediamo ancora il “nuovo”. Pertanto è necessario mettere in circolo “nuove parole per nuovi pensieri”.
Salvatore Bravo
[1]Pierre Bourdieu (Denguin, 1º agosto 1930 – Parigi, 23 gennaio 2002) è stato un sociologo, antropologo e filosofo francese.
[2] Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, pag. 11.
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Nous e thanatos. Scritti su Anassagora e sulla filosofia antica
Prefazione di Gherardo Ugolini: L‘Anassagora di Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-343-0, 2022, pp. 368, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [142].
In copertina: Thanatos e Hypnos trasportano il corpo di Sarpedonte via dal campo di battaglia di Troia. L’autore, il cosiddetto Pittore di Thanatos, è vissuto nel V secolo a.C. ad Atene. Dettaglio da una lekythos attica a fondo bianco datata agli anni 440-430 a.C. circa. British Museum, Londra (Cat. Vases D56).
Il νοῦς (‘intelletto’, ‘mente’) è il principio che nel sistema cosmogonico di Anassagora dà origine al turbinoso movimento circolare da cui le sostanze si formano per separazione; θάνατος (‘morte’) è per Epicuro un semplice vuoto, mentre per Aristotele non era possibile intenderne il concetto altrimenti che in chiave biologica. Attorno a questi due temi ruota gran parte dell’analisi di Diego Lanza, presentata in alcuni saggi pubblicati tra il 1963 e il 2005 su riviste specializzate di studi classici e in miscellanee, ed ora raccolti nel presente volume. Nell’approccio al pensiero di Anassagora, come pure nell’indagine su concetti importanti della cultura greca antica quali σοφία, σωφροσύνη, ἀρετή etc., Lanza ricorre ad uno specifico approccio ermeneutico-filologico che muove dall’analisi linguistica e stilistica dei testi, e punta alla comprensione del contesto storico-culturale in cui inquadrare ogni singola testimonianza, con la finalità di smascherare e decostruire i modelli d’interpretazione che si sono costruiti e consolidati nel corso del tempo. Il tutto senza mai ostentare la presunzione di aver raggiunto un’interpretazione oggettivamente vera e definitiva, ma sempre nell’ottica di problematizzare le questioni illuminandole da molteplici punti di vista. Si tratta dello stesso metodo che Lanza ha utilizzato altrove per interpretare la tragedia greca, la figura del tiranno nel teatro, la Poetica e gli scritti biologici di Aristotele, gli snodi teorici della storia degli studi classici.
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Familiari dei “condannati a morte nelle Rsa italiane”
e contributi di
Laura Campanello, Alessandra Filannino Indelicato, Fabio Galimberti, Franca Maino, Lorena Mariani, Linda M. Napolitano Valditara, Gianni Tognoni, Silvia Vegetti Finzi
La tragedia di essere fragili
Filosofia biografica per una nuova cultura della vecchiaia
a cura di Alessandra Filannino Indelicato
ISBN 978-88-7588-367-6, 2022, pp. 208, Euro 15.
In copertina: Alfredo Pirri,Facce di gomma, latice in gomma, cotone, tempera, 1992.
ho sognato che non avevi perso la memoria e ti ricordavi chi ero.
Oggi lo sai cosa è successo e speravo di sentirti ma ti sogno solo.
In questi giorni sognavo te nell’ospedale nella RSA che non stavi bene e mi svegliavo male la mattina. Non volevo scriverti perché mi viene da piangere. Oggi ho ritirato la notifica dal tribunale, c’è scritto che l’Rsa non ti ha ucciso e io sto male e sono sola. […]
Una pubblicazione che prende una netta posizione rispetto alle ingiustizie subite dai familiari di molti ricoverati durante la pandemia, condannati a morte in alcune, moltissime, Rsa italiane. Incapacità di affrontare una crisi che ci ha coinvolti tutti, per ragioni storico-culturali molto complesse, ragioni a cui si tenta di dare voce in chiave filosofico-biografica, per spiegare (senza esaurire o ridurre) la più grande tragedia della nostra società contemporanea: quella di essere fragili, e anche quella di essere vecchi. Dando voce a chi ha subito ingiustizia e si trova ancora costretto all’anonimato, ancora costretto in una posizione di estrema impotenza, questa pubblicazione è anche una raccolta di lettere-testimonianze dei familiari e vuole essere un monito. Un monito di speranza e di luminosa instancabile indomabile presenza e anelito alla lotta per la verità di chi la sua verità non può ancora dirla, nel compito della memoria di chi è morto nel silenzio generale. Un monito verso la non indifferenza individuale e collettiva che scuota le coscienze affinché si costruisca un sistema migliore di quello di cui tutti siamo stati inermi e terribili testimoni
Gianni Tognoni, vecchio (1941) ricercatore, con un retroterra di teologia e filosofia, e laurea in medicina, pensionato sempre attivo, dopo più di 40 anni di attività nell’Istituto Mario Negri (di Milano, e per 12 anni nella sede ora chiusa in Abruzzo), con contributi anche internazionalmente riconosciuti come innovativi nel campo della metodologia e dell’etica della sperimentazione clinica e della epidemiologia comunitaria. Ha pubblicato fin troppo , in campo strettamente scientifico e non, in inglese, spagnolo, italiano, con tracce facilmente ritrovabili anche recentemente su siti come Volere la Luna ed Altreconomia. Dal 1979, nella sua vita parallela e assolutamente di riferimento, è Segretario Generale del Tribunale Permanente dei Popoli.
Fabio Galimberti, laureato in Scienze Pedagogiche, è analista filosofo. Prima falegname, da vent’anni lavora come operatore di base in una Rsa. Si interessa di lingua locale, cultura tradizionale e botanica popolare della Brianza e della Lombardia alpina, con la pubblicazione di articoli, saggi e organizzando corsi, cammini e visite guidate.
Silvia Vegetti Finziè psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia, della famiglia e della scuola. Ha condiviso per molti anni il lavoro intellettuale e l’impegno sociale con il marito Mario Vegetti, storico della filosofia antica. Dal 1968 al 1971 ha partecipato alla vasta ricerca sulle cause del disadattamento scolastico, promossa dall’Istituto IARD (F. Brambilla) e dalla Fondazione Bernard Van Leer di Milano. I suoi maggiori contributi hanno riguardato la storia della psicoanalisi, nonché lo studio delle problematiche pedagogiche da un punto di vista interdisciplinare, facendo riferimento soprattutto alla psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza ed alla psicoanalisi. I suoi testi sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco e albanese. Dal 1975 al 2005 è stata docente di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pavia. Nel 1990 è stata tra le fondatrici della Consulta di bioetica. Ha fatto parte del Comitato Nazionale di Bioetica, dell’Osservatorio Permanente sull’Infanzia e l’adolescenza di Firenze, della Consulta Nazionale per la Sanità. È membro onorario della Casa delle donne di Milano e vice-presidente della Casa della Cultura di Milano. Nel 1998 ha ricevuto, per le sue opere sulla psicoanalisi, il premio nazionale “Cesare Musatti” e per quelle di bioetica il premio nazionale “Giuseppina Teodori”.
Linda M. Napolitano Valditara è professoressa ordinaria di Storia della filosofia antica (in pensione dal 2021). Ha insegnato negli Atenei di Padova, Trieste e Verona. Studia soprattutto Platone, la letteratura greca, i modi del formarsi del sapere-comunicare nel mondo antico e la loro ripresa odierna (filosofia della cura, dialogo socratico). A Verona, quale responsabile, tuttora, del Centro Dipartimentale di Ricerca “Asklepios. Filosofia della salute”, studia le forme di teoria e pratica della cura (Medicina Narrativa e Terapia della Dignità), interagendo con strutture e figure sanitarie del territorio. Studi: Il sé, l’altro, l’intero. Rileggendo i Dialoghi di Platone, 2010; Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina, 2012; Prospettive del gioire e del soffrire nell’etica di Platone, 20132; Virtù, felicità e piacere nell’etica dei Greci, 2014; Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, 2018; Filosofi sempre. Immagini dalla filosofia antica, 2021; con C. Chiurco: Senza corona. A più voci sulla pandemia (2020). Ha curato il volume collettaneo Curare le emozioni, curare con le emozioni (2020).
Lorena Mariani, Direttrice dell’Area Infermieristico – Assistenziale della Rsa Convento di S. Francesco della Confraternita di Misericordia di Borgo a Mozzano. Esperta della cura della persona in età senile e appassionata di socio sanitario, crede nella potenzialità dei sistemi di cura integrati e nei risultati che tali atteggiamenti virtuosi producono. Si occupa di formazione, collaborando con le principali agenzie formative del territorio della Provincia di Lucca e della Toscana, svolgendo docenze nell’area sanitaria, tecnico assistenziale e sociale, come esperto di settore. Sovrintende a tutte le questioni socio sanitarie e di prevenzione che riguardano i servizi sanitari e sociali svolti dalla Confraternita di Misericordia di Borgo a Mozzano ed è il punto di riferimento della stessa Misericordia per tutte le problematiche igienico sanitarie e di sicurezza riguardanti la pandemia Covid-19. Ha pubblicato il libro Il manuale: buone pratiche in Rsa, ed. Spazio Spadoni, 2021.
Laura Campanello, laureata in filosofia e specializzata in pratiche filosofiche e consulenza pedagogica. Collabora con la Scuola superiore di pratiche filosofiche di Milano “Philo” ed è consulente etica nelle cure palliative e nell’ambito della malattia e del lutto. Nel corso della sua carriera ha studiato e approfondito il tema della felicità attraverso la pratica filosofica e la psicologia analitica e scrive di questi temi per il “Corriere della Sera”. È inoltre Presidente dell’Associazione di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico (Sabof). Tra le varie pubblicazioni, si ricorda: Ricominciare. 10 tappe per una nuova vita, Mondadori, 2020; Leggerezza. Esercizi filosofici per togliere peso e vivere in pace, Bur Rizzoli, 2021; Sono vivo, ed è solo l’inizio. Riflessioni filosofiche sulla vita e sulla morte, Mursia, 2013.
Franca Maino dirige il Laboratorio Percorsi di secondo welfare ed è Professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna “Politiche Sociali e del Lavoro”, “Politiche Sanitarie e Socio-sanitarie”, “Welfare State and Social Innovation”.
Alessandra Filannino Indelicatoè una ricercatrice in generale, nella vita, attualmente impiegata presso l’Università di Milano-Bicocca. Esperta di Pratiche Filosofiche e Gestalt counselor, lavora per vocazione nel campo dell’ermeneutica delle tragedie greche e della filosofia del tragico, offrendo corsi, seminari e consulenze individuali e di gruppo. Nel 2022 ha contribuito con “Pace gattesca” alla raccolta Verrà la pace e avrà i tuoi occhi. Piccolo Vademecum per la pace, Anima Mundi Edizioni. Per l’Editrice Petite Plaisance è anche Direttrice della collana “Coralli di vita”. Nel 2019, per Mimesis, ha pubblicato Per una filosofia del tragico. Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco, e nel 2022, per Petite Plaisance, Apologia per Scamandrio o dell’abbandono. Contributi di Iliade VI a una filosofia del tragico.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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L’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare.
Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”.
Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico.
Filosofia è attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi.
Il concetto metafisico è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta.
Metafisica non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare.
La metafisica non importa mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità.
Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso.
***
Domandare tutto e tutto domandare
La filosofia è metafisica: non si può pensare la filosofia senza la metafisica, l’affermazione è solo apparentemente banale, poiché i dispregiatori della metafisica sono, in primis, nelle facoltà di filosofia, dove in generale – salvo poche eccezioni – si coltiva l’adattamento della filosofia ai voleri del mercato. L’universale e la verità sono rigettate in nome del relativismo funzionale alla globalizzazione della finanza. In questo contesto rileggere Marino Gentile[1] consente di deviare dalla chiacchiera accademica per ”incontrare” il logos. Sui filosofi dediti alla ricerca metafisica è caduta la scure del silenzio. La verità è avversata e da ciò si deduce la qualità etica del nostro presente.
Dove vi è logos, vi è l’intero e la ricerca dell’universale. L’intero è l’oggetto della filosofia, ma non un “intero” già disposto a priori: il filosofare è un processo critico e dinamico con cui si giunge all’intero senza codificarlo in dogmi. La filosofia – come afferma Marino Gentile – è domandare tutto e tutto domandare: la domanda è apertura alla problematicità dell’esistenza e dell’esperienza. Domandare significa capacità di cogliere la molteplicità focale con cui l’esperienza si rivela al soggetto. Domandare è, dunque, intenzionalità qualitativa con cui la parte è riposizionata alla sua materialità olistico. Non si tratta di svelare il tutto, ma l’intero. L’intero si costituisce come relazione viva tra le parti, mentre il tutto è svelamento della totalità conchiusa in sé. La metafisica è dunque un domandare che svela la struttura dell’intero all’interno dell’esperienza, la razionalizza per cogliere il senso che dà vita alle parti, le coniuga nella direzioni del “perché”:
«Invece l’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare. La totalità non si presenta ad essa come un complesso, ipoteticamente perfetto, di certezze da conquistare, ma come la reazione integrale di ogni certezza, che non sia giustificata da un integrale sapere».[2]
Il domandare per Marino Gentile è l’attività che umanizza, poiché senza “il domandare” l’essere umano non esprime nella prassi il logos dialogico che ne fa il vivente che, con la parola, pone “mondi” e li decodifica. Per creare bisogna domandare. Il possibile e il rischio del nuovo sono consustanziali alla domanda:
«Un domandare tutto, che sia come ho già proposto un tutto domandare, nel senso che esso non sia originariamente altro che domanda: non perché, se tutta la realtà, senza eccezione, non diventa problema, non c’è possibilità di parlare di metafisica».[3]
Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”. Il timor panico che si presenta all’essere umano mediante l’esperire con la sempre cangiante contingenza è ricchezza di sapere, poiché l’empirico presenta all’essere umano sempre nuove sfide, necessita di essere interrogato per cogliere in esso la potenza nascosta del senso. Il soggetto e l’oggetto trovano nella domanda il punto di mediazione e di unità, i due poli si ricongiungono nell’attività del soggetto che contempla l’empirico. Non vi è realtà empirica senza il soggetto, il polo soggetto e il polo oggetto sono uniti nell’eterna tensione della domanda:
«Il tema della “meraviglia” viene ripreso successivamente, a proposito della filosofia generale; a questo punto è necessario che il continuo riferimento all’esperienza venga inteso come un’indicazione non di povertà, ma di ricchezza, cioè come una sempre nuova possibilità di verificare la validità del concetto nei confronti delle manifestazioni più complesse, più singolari o più strane dell’esperienza sensibile ch’esso fa sapere».[4]
Concetto scientifico e filosofico
Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico, poiché quest’ultimo è finalizzato all’operatività, è paradigma di azione finalizzato alla pura quantità ed è espresso in linguaggio matematico. Il concetto scientifico, dunque, disegna un ordito limitato, poiché è uno strumento per convogliare i dati verso l’efficienza dell’operatività e dell’accumulo. Non compare il giudizio qualitativo ma solo quantitativo. Esso problematizza al fine di verificare le procedure per ottenere i migliori risultati. Non vi è sospensione dell’utile, ma il suo potenziamento mediante la matematizzazione dei dati. Il concetto scientifico problematizza dei dati, ma mai i presupposti che restano “intoccabili”:
«I concetti scientifici moderni sono esemplati sui concetti matematici, cioè sono conoscenze, ma insieme modi di ordinare le conoscenze ai fini operativi dell’attività umana; si distinguono perciò nettamente dai concetti nel senso classico della parola, in quanto questi vogliono essere puramente e semplicemente conoscere».[5]
Il concetto filosofico sospende, invece, l’utile per individuare l’oggetto nella sua verità, lo lascia emergere in modo che si rivela nella sua sostanza. Il senso del suo esserci per svelarsi deve neutralizzare l’operatività, solo in tal modo la verità può emergere dalla frammentazione e dall’uso che impedisce allo sguardo di vivere, vedere e pensare l’intero:
«Il concetto, insomma, può essere simboleggiato come un baleno luminoso, per indicare, con un’approssimazione meno infelice delle altre, che, mentre non entra quale elemento costitutivo negli oggetti da esso rappresentati, è costitutivamente essenziale alla loro manifestabilità conoscitiva, cioè alla loro effettiva consistenza di oggetti».[6]
La filosofia-metafisica è uno scandalo per l’individualismo proprietario vigente, essa è trasgressione dell’ordine del discorso curvato al solo feticismo del risultato:
«Filosofia viene detta, dunque, giustamente l’attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi».[7]
Conoscere e sapere
L’accusa rivolta alla filosofia-metafisica è di essere “inutilmente astratta”, ovvero un vuoto ciarlare finalizzato al nulla, in realtà è un’accusa ideologica: l’individualismo proprietario deve necrotizzare ogni prospettiva altra per consolidare la sua dogmatica naturalizzazione. In realtà la metafisica è concretezza, poiché essa trae dall’esperienza la struttura veritativa occultata dal pragmatismo crematistico e dall’ansia del risultato. Il concetto metafisico, invece, è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta. In tal modo il soggetto vive la realtà empirica nella sua concretezza e problematicità, di conseguenza il conoscere si coniuga in modo fecondo al sapere
«Senonché la relazione tra l’esperienza e il principio metafisico può essere concepita come il rapporto tra la potenza e l’atto soltanto quando questi termini siano concepiti nella forma più assolutamente propria. Giacché se l’atto e la potenza venissero concepiti non nella forma pura, bensì in commistione reciproca, il rapporto stabilito non uscirebbe dai limiti dell’esperienza e perciò non avrebbe capacità e natura di rapporto metafisico».[8]
Metafisica, dunque, non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare, ma costruisce tra l’oti (il che) e il dioti (il perché) un ponte di senso che trascende la frammentazione astratta:
«La seconda condizione è, dunque, che la metafisica non importi mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità».[9]
Marino Gentile, con la sua opera finalizzata a fondare una metafisica che risponda al nuovo clima culturale affermatosi dopo Kant, ci insegna che ciò di cui necessitiamo è “il senso”. Tale necessità è connaturata all’essere umano, non può scaturire dalle scienze dure, ma dall’impianto metafisico. La problematizzazione del dato è già “fare filosofico”, in cui il domandare deve porre le risposte. Se tale attività viene a mancare l’essere umano è mutilo della sua profondità pensante e non può che lasciarsi travolgere dagli eventi e dai risultati scientifici pur se prodigiosi. La furia della produzione di informazioni e merci potrebbe ribaltarsi in terrore panico, in thauma, in quanto il soggetto – dinanzi alle potenze che ha scatenato e di cui non conosce il senso – non può che soccombere. Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso:
«Il sapere, dunque, si distingue dalle altre forme di conoscere, in quanto imprime all’inquietudine dispersa delle rappresentazioni non collegate e non capaci di persistenza un orientamento e una direzione comune».[10]
L’inquietudine e la società dell’angoscia in cui siamo situati sono il sintomo della rimozione della metafisica funzionale al capitalismo che “forgia” consumatori onnivori e senza orizzonte qualitativo. Il malessere che si constata quotidianamente denuncia la drammatica assenza della metafisica. Senza di essa non vi è paideia, poiché l’essere umano è consegnato indifeso al mercato e alla spirale dei desideri illimitati che non possono che stritolarlo come i serpenti fecero con Laocoonte.
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