Fernanda Mazzoli – Una vita consumata: a proposito di «La Peau de chagrin» di Balzac: un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza

Fernanda Mazzoli

Una vita consumata:
a proposito di
La Peau de chagrin

Un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società
che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva

***

Il 25 febbraio del 1867,  poco prima di consegnare alle stampe il Primo Libro del Capitale, Karl Marx scrisse al suo amico Friedrich Engels suggerendogli di leggere due racconti di Balzac, «pieni di deliziosa ironia».

***

«Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comèdie humaine  un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa».

F. Engels

 


Parigi 1831: si celebra con fasto sfrontato il matrimonio d’interesse fra la monarchia di luglio, esito moderato delle Trois glorieuses1 dell’anno precedente, e la borghesia degli affari e delle professioni. Invitata d’onore la stampa, chiamata a svolgere un ruolo di primo piano a garanzia del fruttuoso sodalizio che lega indissolubilmente potere politico e potere economico. Fuori dagli hôtels particuliers,2 teatro di feste sfarzose dove si concentrano, ostentano e sperperano fortune di dubbia provenienza, gli esclusi, per scelta o per necessità: repubblicani irriducibili, uomini di studio e di pensiero votati esclusivamente alla propria arte e poveri di ogni sorta.

Fra questi, Raphaël de Saint-Valentin, il protagonista di un folgorante romanzo di Honoré de Balzac, La Peau de chagrin,3 collocato nell’edizione del 1834 della Comédie humaine nella sezione Etudes philosophiques. La storia è presto detta: un giovane aristocratico rovinato, di grande intelligenza e cultura, di animo ardente e sensibile, ma condotto alla disperazione da una povertà che il suo talento non arriva a scalfire entra in possesso di un singolare talismano, la pelle di un onagro, un asino selvatico che vive in Asia. Il bizzarro mercante di antichità nel cui magazzino essa è custodita lo mette in guardia dal potere straordinario che risiede in questo lembo di pelle su cui è incisa una misteriosa iscrizione che promette a chi la possiede di possedere tutto, di vedere esaudite tutte le proprie brame. La contropartita a questo illimitato potere è, però, inquietante: ad ogni volere soddisfatto, la pelle si assottiglierà esattamente come i giorni di chi ha espresso il desiderio. Noncurante delle ammonizioni del vecchio mercante, Raphaël accetta lo sciagurato patto; in breve diventa incredibilmente ricco, ma con orrore deve constatare che l’iscrizione dice il vero: la pelle si è ridotta e lui comprende appieno in quale abisso si è lanciato. Rinchiuso nel meraviglioso palazzo che può ora permettersi, arredato con il gusto che la sua sensibilità d’artista gli suggerisce, conduce una vita triste e solitaria, oppresso dall’angoscia per la fine che sente ineluttabile e vicina. Per evitare di desiderare, cioè di accorciare la propria vita, smette di vivere, rinuncia alle ragioni stesse che rendono l’esistenza desiderabile, innanzitutto l’amore e l’amicizia. Ma la vita è più forte e finisce per valicare le spesse mura difese da un domestico devoto incaricato di frapporsi tra il giovane e il mondo. L’amore sa trovarlo e smuovere la sua voluta indifferenza, la pelle continua a ridursi, Raphaël, nel fiore degli anni, si ammala e a nulla valgono gli esperimenti che tenta con insigni scienziati per distendere il maledetto frammento. La minacciosa promessa contenuta nell’iscrizione si compie, trascinando l’avventato e sventurato ragazzo nelle braccia della morte.

Il racconto, concentrato in tre capitoli che scandiscono l’inesorabile marcia del protagonista dall’accettazione del patto all’agonia, è molto di più di una riflessione filosofica e/o di un apologo morale sul potere corruttivo e venefico della ricchezza e la sua inadeguatezza a garantire la felicità.

Con la forza visionaria che lo caratterizza, con la sua ambizione di cogliere e restituire la totalità sociale e attraverso essa i destini individuali, Balzac individua e isola con sorprendente precisione un carattere fondante della condizione umana nella società dove il capitale ha ormai imposto la sua legge: l’illimitata disponibilità di beni che esso promette e gli altrettanto illimitati desideri che esso accende finiscono per assorbire la vita fino alla sua negazione, nel momento stesso in cui sembrano consentirle di manifestarsi in tutte le sue possibilità, di coronare il suo sogno di pienezza.

L’orgia che riunisce giornalisti, artisti e cortigiane nella sontuosa dimora di un parvenu di dubbia fama e che spalanca all’aristocratico in miseria le porte di un mondo dove tutto è permesso, a condizione di disporre di faccia tosta e denaro, fornisce lo sfondo brillante e cangiante sul quale si muove un’umanità frenetica, piena di sé eppure insoddisfatta e rancorosa, pronta a giocare con tutte le opinioni, perché in fondo non crede in nulla, se non nel proprio diritto ad occupare un posto adeguato nel gran festino.

Ebbene, voglio vivere nell’eccesso, ribatte, afferrando convulso la pelle magica, il protagonista alle argomentazioni dell’antiquario che non gli nasconde i rischi del talismano che riunisce in sé volere e potere, a un’intensità tale da condurre agli eccessi più temibili e distruttivi. E così, il romantico mal di vivere, nobile ed inesausta aspirazione dello spirito insofferente dei limiti della propria umana natura verso l’Infinito e l’Ignoto, si trasforma, nel nuovo contesto sociale e politico contrassegnato dal trionfo della borghesia, in mal di consumo, in cui a finire per essere letteralmente consumata è la vita stessa.

Intuizione poetica e lucidità dello sguardo si intrecciano sotto le sapienti mani del romanziere a creare una potente metafora della reificazione della vita, ridotta ad oggetto che si usura al ritmo dei desideri che realizza, fino all’annientamento.

Doppiamente peau de chagrin: la pelle di asino, un oggetto fra i tanti in un polveroso magazzino di antichità, si rivela in realtà pelle di dolore,4 quanto mai provvisorio ed infelice di un’esistenza che si è persa, irretita dalle volgari sirene di una società che riconosce e venera solo la ricchezza e il potere d’acquisto che ne deriva.

Anche se Raphaël mancasse di perspicacia, la brutale materialità della pelle che sotto le sue dita gli segna il tempo lo riporterebbe immediatamente all’enormità della sua scelta, gli farebbe comprendere la tragica portata del passo che, distogliendolo momentaneamente dal suicidio con cui aveva deciso di risolvere una situazione di intollerabile esclusione, lo ha portato comunque alla morte, ma attraverso una desolazione, un rimpianto e un’angoscia anche più grandi, scontati ogni giorno. Il giovane, per proteggersi dai propri desideri – da se stesso in definitiva – che gli accorciano la vita, deve abdicare alla vita per continuare a vivere. Insomma, lui che aveva sognato amori splendidi, forti emozioni, squisite sollecitazioni dei sensi si ritrova a salvaguardare la propria salute con l’attenzione paranoica di un vegliardo minacciato dalla stessa aria che respira e naturalmente la perde. La vita, infatti, si prende gioco della nuda vita, della vita biologica che le arranca dietro senza poterla raggiungere, nemmeno sfiorare.

Come tutti i libri che vale la pena leggere, anche questo interroga direttamente il lettore su una questione fondamentale, ineludibile: che cosa è vivere, che cosa è una buona vita? Raphaël, cercando di dare un senso a questa domanda, si è cacciato in una tragica impasse, ha sconfessato tutte le promesse che erano dischiuse per lui alla nascita, ha ceduto alle lusinghe dell’affermazione sociale, ha sacrificato alle divinità del suo tempo (sostanzialmente le stesse del nostro), si è perso nel cattivo infinito dei desideri che dalla società rimbalzavano fino al suo cuore.

Sfortunato eroe di una fiaba moderna senza lieto fine, l’incontro con l’oggetto magico che consentiva al giovane smarritosi nel bosco di rovesciare una situazione svantaggiata, se non disperata, segna la sua perdita: nel racconto di Balzac, infatti, tale oggetto è al centro di una scelta, non si tratta di un dono non cercato e accettato con noncuranza. È una scelta etica in cui si traduce una certa idea della vita, è una prova senza appello che il protagonista non supera. Né l’oggetto è di alcuna utilità nei confronti di mostre e streghe appostati sulla sua strada: prendendone possesso, è proprio alla loro corte che liberamente e baldanzosamente corre, credendo di potersi sedere da pari alla loro tavola imbandita. Confidando nella forza e nel potere, è la debolezza estrema che stringe, è il nulla. Ha tradito se stesso, ha calpestato le buone qualità che natura ed educazione gli avevano generosamente elargito per un riflesso di bonheur inviatogli da uno specchio menzognero. Lo specchio si è infranto, la verità gli si è rivelata, spalancandogli innanzi il pozzo di una sofferenza senza fondo, ma ormai il gioco non è più nelle sue mani. Se lo è lasciato scappare da quando le ha tese bramoso di afferrare la pelle di zigrino, questa pelle che ci ammicca da tutte le vetrine, da tutti i palcoscenici, da tutti i banchetti già apparecchiati e dove resta un posto scoperto, un posto da occupare, e forse è proprio il nostro.

1 Vengono così denominate le tre giornate di insurrezione del luglio 1830 (27, 28 e 29) che portarono alla caduta della monarchia assoluta e all’ascesa al trono di Louis-Philippe d’Orléans, roi des Français e non più de France, vale a dire sovrano costituzionale.

2 Lussuose dimore spesso occupate da una sola famiglia.

3 H. de Balzac, La peau de chagrin, Gallimard, Paris, 2003; ha conosciuto in italiano numerose traduzioni, sotto il titolo La pelle di zigrino, pubblicate da diverse case editrici.

4 Chagrin è termine appartenente al campo semantico della sofferenza: dolore, dispiacere, pena …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günther Anders – L’essere umano è tale soltanto se qualcuno lo chiama in causa, se si preoccupa di lui. Diversamente dal cartesiano «cogito ergo sum», la prova dell’esistenza valida, di fatto, nella vita dovrebbe recitare: «cogitor ergo sum», “Mi si pensa, dunque sono”.

L’essere umano è tale soltanto
se qualcuno lo chiama in causa,
se si preoccupa di lui.


Diversamente dal cartesiano
«cogito ergo sum»,
la prova dell’esistenza valida, di fatto, nella vita,
dovrebbe recitare:
«cogitor ergo sum»,
Mi si pensa, dunque sono”.

 

Günther Anders, L’emigrante, Introduzione di Orlando Franceschelli, Postfazione di Florian Grosser, Traduzione di Elena Sciarra, Donzelli Editore, Roma 2022.

Scheda libro

«Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, “la vita”, noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati».

Ogni emigrazione è una rottura fondamentale nella vita. Sradica una persona, la rende priva di voce, sola e invisibile. Con spietata onestà, Günther Anders racconta la vergogna sperimentata nella propria esistenza da esule, vittima della persecuzione nazista, costretto a emigrare perché ebreo. Il suo brillante saggio – uscito su rivista nel 1962, pubblicato ora per la prima volta in volume e mai tradotto in italiano – getta nuova luce sulla principale «miseria morale» del XX secolo. Come mostra programmaticamente il titolo, la figura al centro è quella del soggetto migrante, che non vede se stesso come «immigrato», dunque proiettato su un luogo di arrivo, ma sempre in relazione alla propria origine e al proprio passato perduto. Nonostante le differenze di circostanze storiche tra l’emigrazione indotta dai regimi totalitari del Novecento e quella del nostro mondo globalizzato, questo breve e folgorante scritto ci porta direttamente al presente, un tempo in cui – osserva Anders – la fuga e l’esilio non sono più casi isolati o estremi ma si configurano come un’«esperienza generale». Nel saggio l’autore si rivolge a un «tu» che, ovviamente, rimane indefinito. Il testo assume così il carattere di una conversazione con chiunque sia disposto ad ascoltare il vissuto di qualcuno che è «incalzato dalla storia». Il carattere dialogico e quello testimoniale rendono evidente quanto Anders sia alla ricerca di una scrittura che «raggiunga la gente di oggi». Nel suo insieme, l’attenzione alla «sostanza» dell’esperienza dell’emigrante e ai destinatari conferisce al testo una straordinaria attualità. Felicemente a cavallo tra letteratura e riflessione filosofica, il testo di Anders sa andare direttamente al cuore dei problemi più significativi connessi alla «miseria» dell’emigrazione: di quella che i migranti subiscono e di quella a cui non dovrebbe essere indifferente chi si ritrova nelle mani il potere di concedere loro il «permesso di vita».

 

Günther Anders
Günther Anders è uno dei filosofi più importanti del XX secolo. Nato a Breslavia nel 1902, si laureò in filosofia nel 1923 ed emigrò per ragioni razziali nel 1933, trasferendosi prima a Parigi e poi negli Stati Uniti. Nel 1950 tornò in Europa e si stabilì a Vienna. Fu tra i promotori del movimento internazionale contro la bomba atomica e tra gli oppositori alla guerra in Vietnam. Morì nel 1992. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La coscienza al bando. Carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Günther Anders (Einaudi, 1962; Mimesis, 2016), Opinioni di un eretico (Theoria, 1991), Noi, figli di Eichmann (Giuntina, 1995), L’uomo è antiquato (Bollati Boringhieri, 2003, 2 voll.), Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia (Bollati Boringhieri, 2008), La battaglia delle ciliegie. La mia storia d’amore con Hannah Arendt (Donzelli, 2012), Kafka. Pro e contro. I documenti del processo (Quod libet, 2020).


Alessio Cernicchiaro

Günther Anders, la Cassandra della filosofia

indicepresentazioneautoresintesi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Friedrich Hölderlin – Chi pensa le cose più profonde [das Tiefste], ama ciò che è più vivo [das Lebendigste]». Essere uno con il tutto: questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia.

Chi pensa le cose più profonde [das Tiefste], ama ciò che è più vivo [das Lebendigste]».

«Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste»

Friedrich Hölderlin , Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade)

«O felice natura!
Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza […]. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità.
Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dèi; questo è il cielo per l’uomo.
Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano»

Friedrich Hölderlin, Iperione, trad. di G. V. Amoretti.


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Chandra Candiani – Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Un lavoro costante. Una risoluta risposta nella direzione del giusto e della testimonianza del vero.


«È tipico del filosofo quello che tu provi, essere pieno di meraviglia; il principio della filosofia non è altro che questo».

Platone, Teeteto, 155 D.

«Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia».

Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 B.

 

«La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla se non il pensiero, l’instancabile pensiero filosofico».

M. Zambrano

 

 

Chandra Candiani

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Un lavoro costante. Una risoluta risposta nella direzione del giusto e della testimonianza del vero.

 

Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura […]. Restavo allibita dal non sapere. Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: più leggevo e più mi sfuggiva tutto di mano. Imparando a meditare, sono entrata in familiarità, lentamente, lentamente, con il non sapere. […] Chi crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell’esperienza non si può accumulare, l’esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti […].

Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. […] La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra.

[…]

Non è la consapevolezza, né tantomeno la semplice attenzione che fanno risveglio, ma è la saggezza che, allenando attenzione e consapevolezza, sgorga da sé, dal cuore, quando diventa soffice e compassionevole, quando è lavorato come un pane o un pezzo di terra. Un lavoro costante. Una saggezza non concettuale ma nemmeno istintuale, una pacata resa a quel che c’è e una risoluta risposta, dopo la resa, nella direzione del giusto e della testimonianza del vero.

 

Chandra Candiani, Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Einaudi, Torino 2021, pp. 8-9 e p. 93.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Miguel Hernández – «Tristi guerre se non è d’amore l’impresa. Tristi. Tristi. Tristi armi se non sono parole. Tristi. Tristi. Tristi uomini se non muoiono d’amore. Tristi. Tristi». Il poeta che lottò e scrisse sul campo e nel carcere fascista di Francisco Franco.

Tristi guerre

se non è d’amore l’impresa.

Tristi. Tristi.

Tristi armi se non sono parole.

Tristi. Tristi.

Tristi uomini se non muoiono d’amore.

Tristi. Tristi.

Miguel Hernández

 

 

 

Ma c’è un raggio di sole nella lotta,

che lascia per sempre l’ombra sconfitta.

Miguel Hernández

 

La lucciola in amore
brilla di più.

La donna senza l’uomo
spenta se ne va.

Spento cammina l’uomo
senza luce di donna.

La lucciola in amore
si vede già.

Miguel Hernández



Un altro grande poeta spagnolo, Juan Ramón Jiménez, scriveva di Hernández:

«I poeti non erano convinti di quel dicevano.
Erano signorini, imitazioni di guerriglieri che portavano a spasso fucili e pistole giocattolo per Madrid,
vestiti con tute blu ben stirate.
L’unico poeta, allora giovane, che lottò e scrisse sul campo e in carcere fu Miguel Hernández».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Platone – La ποίησις [creazione] è causa del passaggio dal non essere all’essere, e coloro che posseggono questa arte della creazione sono detti creatori [poeti] (ποιηταί).

La ποίησις [creazione] è causa del passaggio
dal non essere all’essere,
e coloro che posseggono questa arte della creazione
sono detti creatori [poeti] (ποιηταί)

 

οἶσθ’ ὅτι ποίησίς ἐστί τι πολύ· ἡ γάρ τοι ἐκ τοῦ μὴ ὄντος εἰς τὸ ὂν ἰόντι ὁτῳοῦν αἰτία πᾶσά ἐστι ποίησις, ὥστε καὶ αἱ ὑπὸ πάσαις ταῖς τέχναις ἐργασίαι ποιήσεις εἰσὶ καὶ οἱ τούτων δημιουργοὶ πάντες ποιηταί. […] Ἀλλ’ ὅμως, ἦ δ’ ἥ, οἶσθ’ ὅτι οὐ καλοῦνται ποιηταὶ ἀλλὰ ἄλλα ἔχουσιν ὀνόματα, ἀπὸ δὲ πάσης τῆς ποιήσεως ἓν μόριον ἀφορισθὲν τὸ περὶ τὴν μουσικὴν καὶ τὰ μέτρα τῷ τοῦ ὅλου ὀνόματι προσαγορεύεται. ποίησις γὰρ τοῦτο μόνον καλεῖται, καὶ οἱ ἔχοντες τοῦτο τὸ μόριον τῆς ποιήσεως ποιηταί.

 

Tu sai che la creazione (ποίησις) è qualcosa di molteplice. La causa, infatti, per la quale una cosa passa dal non essere all’essere è sempre la ποίησις. Cosicché tutte le opere che si realizzano nelle diverse arti (τέχναις) sono creazioni (ποιήσεις) e tutti gli artefici sono creatori [poeti] (ποιηταί). […] Però sai che non sono chiamati tutti creatori (ποιηταὶ), ma hanno altri nomi (ὀνόματα), e che una parte distinta di tutta intera la creazione, ossia quella che riguarda la musica (μουσικὴν) e i versi (μέτρα), viene designata con il nome dell’intero (τοῦ ὅλου ὀνόματι). Solamemnte questa viene detta creazione (ποίησις), e coloro che posseggono questa arte della creazione sono detti creatori [poeti] (ποιηταί).

 

Platone, Simposio, 205 b-c, trad. di Giovanni Reale, in Id., Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2001, p. 513.


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Julian Assange – «La domanda che dobbiamo porci è quale tipo di informazione sia importante nel mondo, quale tipo di informazione può realizzare le riforme». Cerimonia di consegna tessera onoraria al giornalista Julian Assange, perseguitato politico, rinchiuso in carcere di massima sicurezza a Londra.

La domanda che dobbiamo porci è quale tipo di informazione sia importante nel mondo, quale tipo di informazione può realizzare le riforme. Esiste una montagna di informazioni. Le informazioni che le organizzazioni con un grosso sforzo economico stanno cercando di occultare, è un segnale molto positivo che dice che quando l’informazione viene a galla, c’è una speranza di fare qualcosa di buono.

J. Assange


Julian Assange è il fondatore di Wikileaks, il sito giornalistico che riceve da fonti anonime e rende disponibili al pubblico documenti catalogati come confidenziali o segreti da governi, organizzazioni internazionali, imprese multinazionali. Ha ricevuto il premio Amnesty International per i Nuovi Media nel 2009, la medaglia d’oro della Sydney Peace Foundation, il premio Walkley per il Giornalismo e il Premio Martha Gellhorn nel 2011. Internet è il nemico. Conversazione con Jacob Appelbaum, Andy Müller-Maguhn e Jérémie Zimmermann (Feltrinelli, 2013) è il suo primo libro, a cui ha consegnato la sua radicale, visionaria lettura del nostro tempo.



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Platone – La giusta maniera di procedere nelle cose d’amore per conoscere il bello in sé. In chi abbia imparato a contemplare l’infinito universo della bellezza le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere (φιλοσοφια).

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Eraclito, Aristotele – Per l’uomo il carattere è il suo “daimon”. Nelle amicizie fondate sulla virtù non si verificano recriminazioni e, come misura, come sembra, si usa la scelta di colui che dona: l’elemento principale del carattere e della virtù, infatti, è la scelta.



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Salvatore Bravo – Alla ricerca dello sguardo in una realtà senza “vero” sguardo. Ogni soggetto umano chiede, per sentirsi vivo, lo sguardo della tenerezza: essere accolti e guardati nella propria totalità. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme (che stanno fuori), ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore.


Salvatore Bravo

Alla ricerca dello sguardo in una realtà senza “vero” sguardo

 

Se non si è visti con lo sguardo della tenerezza si cerca, in modo travisato, ciò che ogni soggetto umano chiede per sentirsi vivo: essere accolti e guardati nella propria totalità. Se ci si sente guardati nella propria singolarità irripetibile non si cercheranno formule estetiche estreme (“che stanno fuori”), in quanto si è nella pienezza della propria natura. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme, ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore. Tale affinamento è possibile solo in una comunità a misura di essere umano e non dell’albagia del business.

 

***

La filosofia è l’arte di produrre concetti veritativi. Ma i concetti appaiono a condizione che ci poniamo domande sull’ovvio, che è percepito normalmente in quanto tale, ma che di solito è passivamente accettato nella sua ovvietà, e dunque non è conosciutopensato in quanto meramente ovvio. «Il noto non è conosciuto»,1 la rinuncia a concettualizzare il noto è il segnale della decadenza del tempo presente e del ritrarsi dello sguardo dell’anima. Il solo sguardo anatomico può scorgere forme e colori ma non il concetto.

Si può pensare ovunque, il linguaggio vivo è concetto, capacità di rompere lo spazio tempo in cui si è incapsulati per ricostruirlo, trascenderlo, guardarlo da altre prospettive.

Passeggiando per le vie della città non si possono non notare corpi che si manifestano con estensioni sempre più invadenti di tatuaggi che li avvolgono in una ragnatela, e li trasformano fino a renderli secondari rispetto all’ordito e ai colori del tatuaggi. Corpi vissuti solo in quanto sostrato che serve a mostrare in giro per la città disegni sempre più arditi, a volte volgari. Si può liquidare il tutto affermando che è solo questione di moda; oppure ci si può soffermare e chiedersi il “perché”. La filosofia comincia con i “perché”, minuscoli e grandi: deve svelare il non detto, ciò che si nasconde dietro l’abbagliante presenza dell’empirico, lo deve attraversare per renderlo razionale. Senza immaginazione concettuale nulla è possibile.

Occorre chiedersi cosa desiderano quelle folle di giovani e meno giovani che sovente riducono il proprio corpo ad oggetto da offrire in pasto agli sguardi altrui, giovani e meno giovani che cercano sguardi quasi mendicando solo un po’ di attenzione e di essere finalmente visti. I tatuaggi sempre più estesi svelano che viviamo in una realtà senza “vero” sguardo. È quella una richiesta, implicita ed esplicita, che passa attraverso un corpo vetrinizzato, agghindato in ermetiche forme e colori. Si chiede di essere visti. Lo si chiede disperatamente, non pensando che con il passare degli anni il tatuaggio si degraderà con l’invecchiamento del corpo al punto da divenire un marchio che racconterà della propria solitudine.

Se non si è visti con lo sguardo della tenerezza si cerca, in modo travisato, ciò che ogni soggetto umano chiede per sentirsi vivo: essere accolti e guardati nella propria totalità. Il capitalismo, nella sua fase apicale, colonizza le menti con la sua oscura e perversa metafisica narcisistica. Le soggettività sono rese schiave di un violento automatismo che le induce a proposi sul mercato della vita, in quanto ogni realtà vissuta, in questo contesto sociale, è tragicamente e malinconicamente esperienza di mercato.

Si cerca di essere visti, ma non si è disponibili a guardare e a donare attenzione. Il risultato è la disperazione, da anoressia d’amore. In questo humus degradato la moda acquista illimitata potenza: al fine di indurre gli altri a guardare per sentire di esistere diviene esperienza tragicomica. La solitudine quotidiana, la difficoltà e/o l’incapacità di tessere relazioni stabili in cui soddisfare il naturale bisogno di sentirsi parte di un gruppo, di una comunità o di sentirsi semplicemente in coppia, porta a vestire il proprio corpo di tatuaggi per colpire ed indurre lo sguardo a posarsi e a sostare sul proprio “io” anoressico e/o bulimico. Anoressia emotiva in quanto ci si sta asciugando nel corpo e nell’anima, in quanto si è affamati di pensieri e sentimenti, bulimia in quanto si vuole assorbire l’attenzione di tanti, ma senza essere parte di un comune progetto, si divora e si vomita in un ciclo disperato senza senso ed incompreso. L’abitudine all’autopromozione sviluppa personalità incapaci di comunicare e progettare. L’emancipazione da tali perversi giochi di dominio che impoveriscono i popoli fino a renderli plebi (nel gusto e nella dimensione estetica) è estremamente difficile, in quanto il sistema agisce con forza su ciascuno, non lascia scampo, non concede il tempo per pensare e formare un autonomo giudizio. Non vi sono leggi che tutelino dalla punzonatura che rimarrà impressa nei corpi a segnare la normalità del male di vivere prodotto dal capitalismo. Chiunque ponga il problema è tacciato come bacchettone, il business non deve avere limiti, deve cannibalizzare i clienti.

 

Oscurità capitale

L’oscuramento della razionalità e dei sentimenti denuncia la violenza del capitale a cui le vittime rispondono con reazioni capaci soltanto di mostrare il problema, che però non è pensato, non deve essere pensato. Chi osa pensarlo è fatto oggetto di micro e macro bombardamento etico. Il bombardamento etico è una modalità d’azione che bisogna riconoscere nel quotidiano per comprenderlo nelle sue manifestazioni più eclatanti. Ci si appella alla libera scelta e ai diritti individuali per tacitare i dissenzienti ed occultare il condizionamento mediatico e la cattiva vita quotidiana a cui si è sottoposti. L’abbrutimento generale è il volto della vita nella violenza del modo di produzione capitalistico che sostituisce la parola ed il logos con la speranza di attenzioni da ricercare con gesti estremi e con mode il cui fine è incidere sempre più profondamente nella carne dei singoli per disarticolarne le personalità. La forza del capitale è nell’attaccare frontalmente la vita razionale ed etica dei soggetti umani.

Senza lo sguardo che accoglie ed educa, l’essere umano rompe gli ormeggi verso fenomeni sempre parossistici per attrarre attenzione. In tutto questo disastro emerge ancora una volta la natura comunitaria dell’essere umano che necessita dell’altro per sentirsi semplicemente umano. Il capitale disumanizza e cerca di rendere impotente e perversa la natura umana, la piega per neutralizzare l’incontro amicale in cui dagli sguardi e dalle parole fioriscono i concetti e gli affetti. Se ci si sente guardati nella propria singolarità irripetibile non si cercheranno formule estetiche estreme (“che stanno fuori”), in quanto si è nella pienezza della propria natura. La plenitudo vitae non necessita di esperienze estetiche estreme, ma richiede di sentire, vivere e realizzare la propria indole, e la gioia di tale condizione conduce alla semplicità e sobrietà della vita esteriore come alla profondità della vita interiore. Tale affinamento è possibile solo in una comunità a misura di essere umano e non dell’albagia del business. Il capitale ha l’obiettivo di ridurre la persona a semplice esteriorità disperata e mendace: in tal modo si rafforza il suo perverso dominio. Il nostro “no” deve partire dai gesti quotidiani per elevarsi in progetto politico e in paziente assedio di lunga durata al capitale.

1 «Ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri e di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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