Tito Perlini (1931-2013) – È alla tecnica quale sostituto dell’arte che si conferisce la dignità estetica per eccellenza, nella spettacolarizzazione totale della vita, promuovendo l’esteticità trionfante del nichilismo che si gloria del crollo di qualsivoglia sistema di valori.

Tito Perlini 03

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«Fare soldi è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Nel tempo che stiamo vivendo viene imponendosi una specialissima forma d’estetismo, che tende a conferire alla tecnica le prerogative che un tempo erano peculiari dell’arte. Crescentemente l’estetico mostra di contrapporsi all’artistico e di volerlo soppiantare. Si esclude che l’arte, in qualunque modo, possa proporsi alla vita come modello alternativo, negandola nella sua immediatezza per porre l’esigenza di un suo rinnovamento radicale. Non per questo è lecito dire che ci troviamo in un momento poco favorevole all’estetica. A giudizio dei più, il mezzo per un’estetizzazione tendenzialmente totale della vita è costituito proprio dalla tecnica, la quale sembra in grado di realizzare cose prima impensabili, trasformando la realtà in un immenso, variopinto spettacolo, in una fantasmagoria simile a quella delineata con geniale preveggenza da Goethe nel secondo Faust. Se è vero che l’estetica quale discorso e riflessione sull’arte sembra ormai superata, non più che un orpello meramente decorativo, e se la stessa arte sembra condannata come qualcosa di ormai superfluo, non di meno si può dire che l’estetica, declinata in un modo che la renda complice della tecnologia, non sia mai stata così in auge. L’espansione tendenzialmente illimitata della tecnica reca con sé il fenomeno dell’esteticità diffusa. In Italia questo concetto è stato diffuso ormai trent’anni fa da uno dei maggiori teorici dell’estetica del Novecento – Dino Formaggio. Ma nel suo caso aveva un senso molto diverso da ciò a cui stiamo assistendo. Significava che l’arte non è slegata dall’esperienza, che non è distinguibile dal lavoro, e che i confini arte e artigianato sono spesso assai labili. Voleva dire conferire all’arte un ruolo assai importante in una civiltà degna di questo nome, riconoscendo che i suoi “prolungamenti” si espandono in tutte le direzioni, qualificando la realtà in tutti i suoi aspetti in senso simbolico.
L’esteticità diffusa di cui si parla oggi è ben altra cosa. Non si tratta di riconoscere il ruolo della tecnica come modalità del fare artistico, ma della tendenza alla spettacolarizzazione totale. È alla tecnica che si conferisce la dignità estetica per eccellenza, alla tecnica quale sostituto dell’arte, la quale ormai appare disarmata e ridicola, quasi un segno di arretratezza in confronto con l’efficacia della tecnica, capace di cancellare le distanze, di alterare lo spazio e il tempo, d’imporsi come una sorta di nuova magia, potenziata dal dispiegarsi della ragione strumentale, non subordinata ad alcunché di esteriore e ignara di qualsivoglia finalità. La stessa distinzione tra mezzi e fini risulta ormai impensabile. Il mezzo s’impone come fine a sé, tendendo in tal modo a uno sviluppo illimitato. La tecnica si afferma nella sua totale autonomia e gli effetti che produce, in scala gigantesca, risultano sempre meno prevedibili e comunque assai difficilmente controllabili dall’esterno. È il resto a doversi sottomettere alla tecnica, non l’inverso. In questo senso può ben definirsi una favola.
In altre parole, l’arte non è più una critica della tecnica volta al fine di disalienarla, riportandola alla dimensione del fare concreto: al contrario, la tecnica viene esaltata come “più estetica” dell’arte, capace di sprigionare un’energia decostruttiva, derealizzante. La tecnica viene esaltata come forza ludica, gioiosamente creativo-distruttiva, divenendo ormai una sorta di parodia satanica di ciò che un tempo si celebrava come autonomia dell’arte. Le conseguenze di un siffatto, inedito “estetismo” sono ben note: fine delle ideologie (comunque le si voglia intendere) , fine della storia, avvento del nichilismo come condizione di un libero gioco dei significati, che vicendevolmente si annullano nella gioiosa accettazione del non-senso.
Informazione e cultura diventano spettacolo; i comportamenti si teatralizzano; ogni autenticità scompare; tutto si logora e consuma; le teorie si riducono a vaniloquio; trionfa la simulazione, adorata dai cultori più fanatici dell’informatica. L’arte finisce inesorabilmente ai margini, vivacchiando come può, in attesa di morire di disperazione. Perso il carattere romantico di rivelazione dell’assoluto, non più concepibile come vicario della rivoluzione o anticipazione della vera vita, sembra non avere più alcun diritto di sopravvivenza. Il suo destino è morire d’inedia. La sua stessa morte sembra aver perso ogni solennità, mentre il suo vincitore, la tecnica, può scatenarsi senza più alcun disturbo, promuovendo un’esteticità trionfante che si gloria del crollo di qualsivoglia sistema di valori. Etica ed estetica, che nell’arte, pur conflittualmente, si richiamavano a vicenda, si separano a detrimento della prima, incapace di resistere ai continui attacchi dell’altra. Quei prodotti a cui si vuole ancora dare il nome di opere d’arte non sono in realtà che delle contraffazioni. La tecnica è più capace dell’arte, la quale, a confronto, sembra assai rozza. Raggiunge una perfezione prima impensabile, ma in una totale falsità.
La conseguenza ultima di tutto questo è la perdita irreparabile della dimensione del sacro e di ogni senso del mistero. Il tramonto dell’arte lede fibre prima vitali mettendo in questione la nozione stessa di uomo.

 

Tito Perlini, Le spectacle réussira-t-il à tuer l’art?, «Catholica» – Autunno 1997, tr. di E. Cerasi: Lo spettacolo ucciderà l’arte?, in Id., Attraverso il ninichilismo. Saggi di teoria critica, estetica e letteratura, Prefazione di C. Magris, a cura di E. Cerasi, Nino Aragno Editore, Torino 2015, pp. 641-643.


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015
Tito Perlini (1933-2013) – La rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare sé stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.
Tito Perlini (1933-2013) – Il pensiero di Marcuse ha una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, ma arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo.

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

 

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«Fare soldi è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.


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María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.

María Zambrano sogno e pittura 01

[…] Continua a fare una strana impressione – soprattutto a partire da determinate fratture storiche – il fatto che la pittura, che è la più sensuale delle arti, sia anche la più metafisica. Per il colore, naturalmente, ma non solo per esso, in quanto una scultura colorata, ad esempio, non fa che guadagnare, anziché in sensualità, in distanza. Nella scultura, il colore è ornamento liturgico che la trasforma o la rende simile a un’icona, a volte persino a una stella, a qualcosa del firmamento terrestre […]. Perché i corpi della scultura stanno sempre lontano, e il colore non fa che allontanarli di più, qualificando la loro lontananza, determinando lo spazio dal quale ci si rendono visibili. […]
La strana impressione prodotta all’arte della pittura si fa più profonda quando si scopre che ciò che viene dipinto e la pittura non sono propriamente oggetto adeguato della visione. […] Che il segreto, l’intimo motivo del dipingere, non è mai stato il solo desiderio di vedere. C’è, nella pittura, nel quadro, per ultimato, realizzato, che esso sia, uno star sempre facendosi. Come se l’opera della pittura fosse, rispetto alla scultura, meno separata dall’azione che l’ha prodotta. Come se ciò che viene dipinto fosse meno indipendente, meno oggettivo, in minor grado o in grado diverso «oggetto ideale». […]
La pittura è evento, un intimo evento che si manifesta, chiaro, in forme e figure, quali che siano, rappresentative o no, «figurative» o no. […] La pittura non pone, come la scultura, il problema della partecipazione, perché si dà immediatamente, come ciò che avviene, e solo dopo può e deve accadere che da tale evento si tragga o si esprima un tanto di contemplazione, segno della maturità e del compimento dell’evento dipinto e della pittura stessa.
Un evento nell’intimità, un mistero. Un sogno; un sogno che abbraccerebbe la pittura tutta.
La pittura nasce, com’è noto, nelle caverne per afferrare magicamente qualcosa che fugge e prende il largo, le anime dei viventi oggetto di desiderio. Fosse per la caccia o per qualche altra forma di appropriazione la smania che assillava quei «pittori» – quella società, meglio –, si trattava di strappare l’anima a quegli esseri e di tenerla lì, né viva né morta: viva, ma separata e catturata.
L’anima, che è l’«essere» per chi non ha ancora fatto filosofia, e per chi sogna. Stare davanti alle pitture delle caverne è sognare, stare sognando, lo stesso che davanti alle Meninas di Veláquez.
Un sogno, la pittura; un sogno semplicemente, no. Un sogno realizzato, ossia un sogno che è entrato nella realtà, forse per la sua verità, perché non tutti i sogni possono, nemmeno attraverso la pittura, entrare a formar parte della realtà, di quella strana realtà che è l’arte.
Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne, nella notte perenne illuminata dal bagliore disuguale del fuoco, materia leggera come quella dei sogni, aderente alla nuda roccia – resistenza a sua volta della materia originaria del pianeta, suo primo e perenne fondale. Per ospitare la sua nascita, fu necessario che si aprisse il vuoto, il viscere oscuro della terra, o che un alto muro si alzasse: una parete liscia, il fondo. Senza di esso, non ci sarà pittura; per ridotta che sia la sua superficie, per affidata alla superficie che essa sia, la pittura sarà sempre percepita come aderente a un muro, a un fondo, se non rinchiusa in una caverna. Custodita in essa, come un segreto colto di sorpresa o come un mistero che si lascia vedere.
Non contraddicono l’intima legge della pittura le pitture sigillate, difese, scoperte nelle tombe dell’antico Egitto. Esse, al contrario, ci fanno sentire che sono l’intimo nucleo, il cuore, della pittura. E che l’aspetto secondario è dipingere qualcosa perché sia visto, perché qualsiasi occhio lo veda. Cosa, questa, che si deve a quel processo di laicizzazione del sacro che necessariamente è venuto portando tutti i segreti, tutto il segreto, sotto gli occhi di tutti gli uomini, almeno in potenza.

[…]

Un sogno, un certo tipo di sogno, un proposito; un sogno messaggero, o un sogno in cui si compie o si cerca di far compiere un destino. Orazione, voto, pegno, promessa, impegno. La materia fluida della speranza e dell’amore, a volte anche del semplice desiderio, ricevuta nella ferma, resistente materia della volontà che resiste al tempo, del volere che oltrepassa il tempo e sogna, a sua volta, di annullarlo.
La pittura, pertanto, sarà come un istante vivo, vivente, di tempo tra due sogni: quello dal quale nasce e l’altro, quello della tenace volontà di raffigurare, di raffigurarsi, in tutti i tempi, passando attraverso di essi.
Questo, è vero, lo si potrebbe dire in sostanza di tutte la arti: che tutte, compresa quella della parola, si danno tra questi due sogni e li realizzano col poco tempo che portano con sé – li realizzano relativamente.
Nell’arte della pittura, però, questa condizione si mostra con maggiore proprietà, perché il suo contenuto sono fantasmi, fantasmi come quelli dei sogni. Appare, cioè, che essa è il sogno stesso che alla fine si è aperto l’alveo più adeguato al proprio fluire. Che ha trovato il corpo, appena meno impalpabile del proprio corpo fantasmatico, che gli consente di entrare a far parte del reale.
I sogni, infatti, una certa specie, hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile, sì, tanto più se ciò è conseguenza del suo essere entrato nel mondo della realtà, che è quello del tempo; del suo essere stato salvato a opera del tempo. Perché il tempo è salvatore.

Roma, 1960

María Zambrano, Sogno e destino della pittura, in María Zambrano, Dire luce. Scritti sulla pittura, a cura di C.armen Del Valle, Rizzoli, Milano 2013, pp. 103-109.

Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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