«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista, definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni, ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio della rivoluzione.
La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.
La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:
“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.
L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:
“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.
Capitalismo e razionalità strategica L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:
“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[3]”.
La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:
“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[4]”.
Crisi e opportunità
Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:
“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[5]”.
Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:
“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[6]”.
Ricominciare da Marx? L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:
“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[7]”.
Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente. Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[8]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:
“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[9]”.
Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.
Salvatore Bravo
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[1] Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo, Petite Plaisance Pistoia 2004, pag. 15.
[7] Gianfranco La Grassa, Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica.
[8] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994, pag. 15.
[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class.
071 Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro. ISBN 88-87296-69-3, 1999, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: M. Chagall, Il giocoliere (1943). Chicago, The Art Institute.
074 Luca Grecchi, Il necessario fondamento umanistico della metafisica. ISBN 978-88-7588-093-4, 2005, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [6]. In copertina: Auguste Rodin, La cattedrale. 1908. Pietra, cm. 64×29,5×31,8. Meudon, Musée Rodin.
075 Fabio Bentivoglio, Aristotele: Metafisica. Scienza, natura e destino dell’uomo. ISBN 88-88172-12-2, 2002, pp. 104, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Le passioni dell’anima” [2]. In copertina: Ritratto di Aristotele, da Aristoteles cum Leonardi Aretini commentario.
077 Massimo Bontempelli – Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia.Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush. ISBN 88-87296-50-2, 2001, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, foglio 43 dei Capricci, 1799. Fondazione Antonio Mazzotta, Milano.
079 Giuseppe Bailone – Nello De Bellis – Enrico Berti – Alberto Giovanni Biuso – Luca Grecchi – Domenico Losurdo – Michele Marolla – Costanzo Preve – Giovanni Stelli – Mario Vegetti, Dialettica oggi. “Koiné”. Anno XII – NN° 3-4 / Settembre – Dicembre 2005. ISBN 978-88-7588-094-1, 2005, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [8]. In copertina: Antonio di Jacopo Benci, detto il Pollaiolo, La Dialettica. Roma, S. Pietro, Grotte Vaticane.
080 Antonella Lumini, Caino. Dramma del buio e della luce. Con uno scritto di Paolo Coccheri. ISBN 978-88-7588-087-3, 2005, pp. 96, formato 120×180 mm., Euro 10 – Collana di teatro, “Antigone” [10]. In copertina: Amalia Ciardi Duprè, La morte di Abele,1980.
051 Gianfranco La Grassa, La tela di Penelope. Conflitto, crisi e riproduzione nel capitalismo. ISBN 88-87296-65-60, 1999, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [27]. In copertina: P. Picasso, Natura morta con sedia impagliata, 1912. Olio su tela cerata applicata sulla tela, cm 25×37. Collezione privata.
053 Massimo Bontempelli-Costanzo Preve, Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero. ISBN 88-87296-01-4, 1997, pp. 320, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “La Crisalide” In copertina: H. Matisse, Icaro.
057 Andrea Cavazzini, Teoria, Ideologia, Storia. Note critiche su un inedito di Althusser. ISBN 88-87296-22-7, 1998, pp. 48, formato 140×210 mm., Euro 5 – Collana “Divergenze” [7]. In copertina: Alchimisti al lavoro intorno ad un alambicco di distillazione; illustrazione xilografica dal De Secretis Naturae (1544) di Philip Ulstadt.
058 Gianfranco La Grassa, L’imperialismo. Teoria ed epoca di crisi. ISBN 88-88172-17-3, 2003, pp. 80, formato 170×240 mm., Euro 10 – Collana “Divergenze” [35]. In copertina: Victor Vasarely, Arlecchino, 1935. Galleria Denise Renè, Parigi.
059 Costanzo Preve, Un secolo di marxismo. Idee e ideologie. ISBN 88-88172-29-7, 2003, pp. 208, formato 170×240 mm., Euro 15 – Collana “Divergenze” [36]. In copertina: R. Magritte, Il grande secolo.
060 Costanzo Preve, Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi. ISBN 88-87296-66-9, 1999, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Divergenze” [22]. In copertina: La quinta tromba (Apoc., 1-12), Bamberg, Staatsbibliothek, miniatura.
001 Maura Del Serra, Congiunzioni. Ventiquattro poesie inedite. ISBN 88-7588-096-4, 2004, pp. 32, formato 115×167 mm, Euro 5. In copertina: Matrimonio dell’acqua e del fuoco, antica raffigurazione indiana.
004 Luca Grecchi, L’anima umana come fondamento della verità. ISBN 88-87296-46-4, 2002, pp. 112, formato 140×225 mm, Euro 12 – Collana “La ziqqurat” [4]. In copertina: Juseppe de Ribera, detto lo Spagnoletto, I saltimbanchi, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid.
005 Luca Grecchi, Karl Marx nel sentiero della verità. ISBN 88-87172-37-8, 2003, pp. 176, formato 140×225 mm, Euro 15 – Collana “La ziqqurat” [5]. In copertina: Leonardo da Vinci, Canone di proporzioni.
007 Costanzo Preve,Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale. ISBN 88-87172-20-3, 2004, pp. 160, formato 140×210 mm, Euro 12 – Collana “Divergenze” [37]. In copertina: Alchimisti al lavoro intorno ad un alambicco di distillazione; illustrazione xilografica dal De Secretis Naturae (1544) di Philip Ulstadt.
008 Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palestinese. Con testi di Henry Laurens, Francis Jennings, Zeev Sternhell, Norman Finkelstein, Gherson Shafir. ISBN 88-87172-19-X, 2004, pp. 304, formato 170×240 mm, Euro 20 – Collana “Divergenze” [38]. In copertina: Una rifugiata palestinese separata – con il filo spinato – dalla sua casa dalla “Linea Verde”, la linea armistiziale definita dopo la guerra arabo-israeliana del 1948. Oggi si costruisce IL MURO.
009 Ain Zara Magno, Parole d’amore, a cura di Ilaria Rabatti. ISBN 88-88172-03-3, 2001, pp. 64, formato 120×180 mm., Euro 8,00 – Collana “Filo di perle”. In copertina: Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne seduta in fronte, 1918.
010 Luisa Giaconi, Dalla mia notte lontana, a cura di Ilaria Rabatti. ISBN 88-88172-02-5, 2001, pp. 64, formato 120×180 mm., Euro 8,00 – Collana “Filo di perle”. In copertina: D. G. Rossetti, Sogno a occhi aperti (1878), Oxford, Asmolean Museum.
L’elaborazione di Gianfranco La Grassa del concetto di Imperialismo
Premessa Lo studio pluriquarantennale di questo misconosciuto studioso del marxismo e del leninismo (che ha comunque pubblicato decine di libri su entrambi gli argomenti!), è approdato ad alcune formulazioni originali sia dell’uno che dell’altro. Dal momento che, nella situazione attuale, è proprio un quadro complessivo cui far riferimento che fa difetto, cercherò di illustrare dette formulazioni, a partire dalla rilettura che La Grassa fa dell’“Imperialismo, fase suprema del capitalismo” di Lenin, ivi comprese le sue ipotesi su come possa evolvere nei prossimi decenni “la formazione sociale capitalistica ri-mondializzatasi nel 1989-91”. Cercherò, nei limiti delle mie capacità, innanzitutto di “descrivere” il nuovo quadro teorico che ne risulta, quanto alle mie “riserve”, pur dichiarandomi fin da ora complessivamente d’accordo con La Grassa (cosa del tutto evidente del resto, visto che ho scelto questo originale e rinnovato contributo alla teoria, per collocarvi le mie argomentazioni), le esprimerò in una o due paginette, a parte, che allegherò al testo. Premetto che si tratta di un lavoro, decisamente faticoso e difficile! Ad una prima parte sostanzialmente teorica, che io credo di non difficile comprensione (anche se di non facile accettazione, visto il quadro ossificato dei teorici marxisti), ne seguirà una seconda, con la quale occorre confrontarsi se non si vuole stare soltanto alla finestra, e che sarà costituita, per solido convincimento dello stesso autore, da una serie di ipotesi pronte a smentire il più approfondito dei convincimenti, anche se fondato su di una solida teoria. Di fatto ho già cominciato, con questa affermazione, ha definire il criterio metodologico fondamentale degli studi di La Grassa, secondo il quale le più “ispirate” previsioni sono di fatto “largamente aperte a possibilità di errori anche notevoli, in molti casi di ampiezza tale da inficiare l’apparato categoriale impiegato nel formularle”, senza per questo rinunciare appunto alla teoria in quanto sistema di ipotesi (da non confondersi ovviamente con la realtà!). Un approccio decisamente scientifico al problema. In ogni caso, anche se le previsioni dovessero, in linea di larga massima, rivelarsi per 1’essenziale esatte, queste non potranno finire con l’affermarsi se non nel corso di decenni, non certo di anni.
L’Imperialismo: due opposte concezioni Prima di seguire La Grassa nel suo “riassunto” della teoria dell’imperialismo di Lenin rispetto alla quale emergeranno sia i suoi punti di affinità con essa, sia le novità sostanziali rispetto ad essa, c’è bisogno di fare alcune precisazioni.
In primo luogo si tratta di mettere subito in evidenza un punto essenziale circa il carattere dell’imperialismo e cioè il suo essere intrinseco alla struttura dei rapporti del modo di produzione capitalistico, contrariamente a quanto sostenevano Hobson e Kautsky, che ritenevano invece l’imperialismo una semplice politica di settori arretrati del capitalismo (i settori finanziari, considerati parassitari, putrescenti) e che, di conseguenza, erano convinti si potesse contrastare detta politica, senza la trasformazione del capitalismo in un’altra formazione sociale. Si tratta dunque di riaffermare il profondo convincimento di Lenin che, per l’appunto, vedeva il capitalismo intrinsecamente conflittuale, fortemente competitivo non soltanto a livello economico ma anche in campo politico e militare. E dunque l’imperialismo non poteva che essere inestricabilmente intrecciato con il modo di produzione tipico della formazione sociale capitalistica. Per Lenin perciò, il capitale finanziario (tipica espressione dell’imperialismo), non costituiva una degenerazione del capitalismo, dovuta alla presenza di capitalisti parassitari, puramente speculativi. Era invece simbiosi, tra capitale bancario e capitale industriale. Un capitale finanziario dunque indissolubilmente legato a quello produttivo. La tesi di Hobson e di Kautsky, secondo la quale è necessario combattere il primo per far meglio fiorire il secondo, considerato tutto sommato positivamente, perché avrebbe potuto essere utilizzato a vantaggio della collettività, grazie alla sua dinamicità e al veloce sviluppo delle sue capacità produttive, (tesi che ancora oggi riemerge), è di fatto storicamente servita soltanto ad indebolire la lotta antimperialistica e continua a svolgere, anche oggi, la stessa funzione. Secondo La Grassa, partendo dalla tesi leniniana dell’imperialismo strutturalmente legato al capitalismo, si può e si deve trarre una conclusione ancora più generale, e cioè che la definizione e la trattazione del primo dipendono da come viene concepito il modo di produzione capitalistico. Come vedremo meglio in seguito, La Grassa a questo punto si allontana dall’impostazione leniniana. Si tratta di un processo molto simile a quello che avviene, per l’autore, con Marx. E siamo ad una seconda precisazione. La Grassa parte da Marx per definire il modo di produzione capitalistico, per poi “innovarlo” con successivi spostamenti concettuali di rilievo, e così pure parte da Lenin nel trattare il problema dell’imperialismo, per apportarvi poi modificazioni radicali. Prima di arrivare all’analisi dell’imperialismo è perciò assai opportuno seguirlo, nella sua lettura “essenziale” di Marx.
Marx secondo La Grassa Il punto essenziale della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico, è rappresentato dall’importanza capitale che Marx attribuisce al fatto che, nel capitalismo, lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, si socializzino solo indirettamente, tramite il mercato. La produzione capitalistica è dunque produzione di merci, avviene di fatto in unità separate e autonome, ognuna delle quali porta avanti i suoi propri interessi, in conflitto con altre unità (che d’ora in poi chiameremo imprese) dello stesso genere. La forma di merce è evidentemente in stretta correlazione con quella di denaro, in definitiva con le diverse manifestazioni monetarie di quest’ultimo. Se si producono merci, è ovvio che la ricchezza prodotta presenti sempre il suo aspetto monetario. La somma di merci è sempre tradotta in una somma di denaro. Il calcolo economico è di fatto effettuato in moneta. Questa acquista ogni cosa, ed ogni cosa può essere trasformata, in tempi più o meno lunghi, in moneta. Se tra queste imprese si creano alleanze e collegamenti secondo le molte forme giuridiche esistenti per farlo, o se addirittura alcune di esse sono fagocitate da altre che le battono nella concorrenza, tutto ciò avviene per poter accrescere le capacità competitive delle imprese. Dal momento che il capitalismo è, produzione di beni e servizi in forma di merce, se ne deve necessariamente concludere che il conflitto inter-imprenditoriale è generale e permanente, mentre l’accordo, la fusione, il collegamento, l’inglobamento e l’incorporazione, tra imprese sono particolari e transitorie. Il conflitto è il fine, dice La Grassa, mentre l’accordo, l’alleanza, ecc. sono il mezzo per quel fine. Per poi precisare che non si tratta di “un conflitto fine a se stesso, ma a sua volta strumento per l’affermazione della propria temporanea predominanza”. Quanto segue, è l’assunto sostanziale che allontana La Grassa da Marx. L’elemento fondamentale, “essenziale”, del modo di produzione capitalistico non sarebbe, come sostiene Marx, la proprietà privata dei mezzi di produzione, cui si contrappone quella della forza o capacità lavorativa di coloro che sono pagati mediante salario e cioè il conflittocapitale-lavoro, ma il conflitto inter-imprenditoriale. E le forme proprietarie rappresentano i mezzi utilizzati dalle imprese per realizzare le condizioni migliori nelle quali collocarsi in vista del reciproco conflitto prima di tutto per la supremazia mercantile. Secondo La Grassa, seguendo l’ottica marxiana della mera proprietà privata dei mezzi di produzione, si finisce per fissare l’attenzione sostanzialmente su di un fenomeno, la centralizzazione dei capitali, che porta alla fase monopolistica del capitalismo, come uno stadio irreversibile del suo sviluppo, che di centralizzazione in centralizzazione, dovrebbe portare al famoso ultra-imperialismo, o capitalismo pienamente organizzato, di Kautsky e Hilferding. Di fatto questa tendenza non si è mai realizzata, mentre oggi la conflittualità inter-imprenditoriale, con imprese ben più giganti di quelle dell’epoca di Lenin (e di Marx), si va progressivamente esasperando.
La struttura dell’impresa Nel momento in cui si accetta la tesi che il conflitto tra imprese è l’elemento decisivo, e fondante, del capitalismo, è molto importante cercare di definire le strutture di dette imprese. Queste, in quanto entità produttive, sono costituite da collettivi di lavoro produttivo (salariato), a struttura piramidale, in cui, partendo dal basso, esistono i diversi ruoli del lavoro manuale ed esecutivo e, verso l’alto, i diversi ruoli del lavoro direttivo. Al vertice stanno i direttori dei dipartimenti e delle divisioni, e, su tutti, il gruppo dirigente dell’impresa nel suo complesso. L’impresa è un’organizzazione che, considerata in sé stessa, persegue finalità di profitto, utilizzando una razionalità produttiva (strumentale), con la ricerca di una efficienza economica fondata sulla migliore utilizzazione di una serie di risorse e di fattori produttivi (dove per migliore s’intende quella che minimizza i costi), per ottenere la massima produzione possibile (dove il massimo concerne in realtà il ricavo ottenibile dalla vendita delle merci). Ogni impresa cerca di conseguire un simile risultato in competizione con le altre, tra di esse si stabiliscono a volte rapporti di collaborazione (sostanzialmente e solo in funzione della volontà di prevalere su altri gruppi di imprese). Si tratta in realtà soltanto di semplici alleanze, poiché ogni impresa persegue il fine del successo, della prevalenza nella competizione, e in base a ciò regola la sua condotta che è di reciproca cooperazione (solo transitoria e locale) e di reciproca lotta (permanente e complessiva).
Le funzioni di direzione dell’impresa L’organo dirigente dell’impresa espleta due funzioni ben differenti che, nelle imprese di maggiori dimensioni, tendono ad essere assunte anche da soggetti concretamente distinti. E’ infatti necessario innanzitutto che: 1) si formi una gerarchia (interna) di ruoli al cui vertice si situa il gruppo, con il compito di assicurare la coesione dell’impresa, il coordinamento d’insieme, la migliore efficienza in termini di costi e ricavi. Tale gruppo gestisce i processi tecnici e amministrativi, forgia l’organizzazione e assume il comando diretto delle “truppe”. 2) venga affidata al gruppo in questione, o ad una sua sezione, anche la gestione, la promozione e l’utilizzazione delle innovazioni, siano esse di processo, (atte cioè a ridurre i costi unitari di produzione), o di prodotto, (in grado cioè di ampliare la gamma delle merci vendute) e di accrescere in tal modo la quota di mercato dell’impresa, indipendentemente da costi e prezzi. Infatti, nel modo di produzione capitalistico, fondato sulla competizione tra imprese nei mercati, sia le innovazioni del primo tipo sia quelle del secondo, sono piegate alle esigenze di detta competizione, alla necessità cioè di battere i concorrenti e di appropriarsi di sempre maggiori quote della ricchezza prodotta in forma monetaria. Va detto che, ai fini del conflitto inter-imprenditoriale, risultano però nettamente più decisive le innovazioni di prodotto, in particolare quando si tratti di prodotti interamente nuovi e non di nuove versioni di vecchi prodotti, che consentono di produrre, per un periodo di tempo più o meno lungo, in condizioni di quasi monopolio e di far così dirottare verso le imprese innovatrici, grosse quote di risorse (i “risparmi”) accumulate, in specie mediante il settore bancario, e finanziario in genere. Ma vista l’organizzazione conflittuale della produzione capitalistica, non è pensabile che i gruppi dirigenti imprenditoriali possano limitarsi a svolgere soltanto funzioni di gestione tecnica, di organizzazione, di coordinamento d’insieme, di innovazione. E’ dunque necessaria una diversa funzione che: 1) abbia la visione d’insieme dell’impresa e del complesso delle sue potenzialità competitive, ivi comprese quelle attinenti alla sua flessibilità nell’adattarsi ad eventuali mutamenti delle modalità e del terreno del conflitto inter-imprenditoriale, 2) sia in grado nello stesso tempo di studiare attentamente queste modalità e lo specifico terreno dello scontro, di condurre un’adeguata politica delle alleanze tra imprese, di scegliere i tempi più consoni all’acutizzazione del conflitto in questione, e di stringere legami con altri settori sociali non imprenditoriali, senza l’appoggio dei quali la “guerra tra imprese” risulterebbe non gradita a buona parte della popolazione, creando in questo modo un ambiente tendenzialmente ostile all’imprenditorialità e un indebolimento della sua egemonia, della sua presa ideologica. Questa funzione, particolarmente complessa, viene assunta da un organo imprenditoriale dirigente con compiti strategici, di carattere fondamentalmente politico. Anche se tale organo spesso è in possesso dei pacchetti di controllo azionario delle imprese, non è però la proprietà ad essere decisiva, quanto piuttosto la sua funzione strategico-politica, di una politica tutta intenta a favorire il successo di alcuni, e la loro predominanza su altri, nella competizione nell’ambito della sfera economica della società. L’organo direttivo strategico, che pure ha un’attenzione prevalente ai fenomeni della sfera economica, si fa carico contemporaneamente, e necessariamente, dei compiti di coinvolgimento delle altre sfere della società capitalistica, quella più specificamente politica e quella ideologica. Solo l’adempimento di questi altri compiti, non più semplicemente economici, pur se espletati con l’utilizzazione di risorse finanziarie (sia ben chiaro!), consente alle imprese, centri in cui si produce la ricchezza nella sua forma generale di denaro, di non isolarsi dal resto della società, ma di conquistare invece in essa un’influenza che la permea nel suo insieme e di esercitare perciò un’autentica egemonia, di ottenere un consenso non disgiunto dall’uso del potere.
L’impresa e lo Stato Va a questo punto sottolineato che la competizione, e il possibile successo in essa, rappresentano una forte molla per il consenso sociale, impossibile a raggiungersi, senza una regolamentazione del “gioco” competitivo e senza ideologie di mascheramento dei vari trucchi possibili per alterare queste regole a proprio vantaggio. E’ necessaria la presenza delle sfere sociali politica e ideologica, e cioè, usando le parole di La Grassa:
“di complessi di rapporti sociali che si ‘rapprendono’, si ‘coagulano’, in apparati vari in cui si svolgono processi lavorativi il cui ‘prodotto’ sembra indirizzato a garantire gli interessi più generali e complessivi dell’insieme societario, dell’insieme dei suoi membri posti formalmente su un piede di parità, di eguaglianza (di possibilità)”.
Lo Stato è la denominazione del complesso degli apparati politici che sembrano svolgere compiti amministrativi per scopi pubblici, (l’interesse generale si dice correntemente) e non in funzione di particolari gruppi di potere sia esso economico e/o politico, come avviene di fatto nella realtà. Questi ultimi si pongono in conflitto anche nell’ambito della sfera politica (e degli apparati di Stato), ma con modalità e intenti assai diversi rispetto a quelli in vigore nella sfera economica. Si tratta infatti di una competizione tra gruppi dominanti imprenditoriali di tipo strategico. Questi gruppi dominanti, sia economici che politici, sanno bene che non deve essere lesa l’unità dello Stato, perché resti salda tra la gente la credenza che tale unità serva alla prestazione di servizi per la società nel suo insieme, senza manifesto favoritismo a vantaggio di certi gruppi sociali o di certi altri. E così, la competizione, svolta nell’apparente saldezza dell’unità della sfera politica, e statale in particolare, porta alla formazione in detta sfera di gruppi dominanti che attuano strategie particolari, diverse da quelle svolte dai gruppi strategico-imprenditoriali nella sfera economica sia produttiva che finanziaria. Tra gruppi dominanti politici ed economici c’è sostanziale unità di intenti, per quanto concerne la riproduzione dei decisivi rapporti capitalistici, ma anche frizioni dovute alla diversità dei compiti e delle modalità di esercizio della dominanza. E ulteriori diversità esistono con riguardo ai gruppi dominanti e all’esercizio (e alle modalità) di tale dominanza nella sfera ideologica. Il fulcro della sfera politica, lo Stato, è entità con competenze territoriali, che coinvolgono particolari aree geografico-culturali della formazione sociale capitalistica complessiva. In sostanza, agli Stati corrispondono dei paesi. Come si è già sottolineato, lo Stato esercita un potere che appare, e deve sempre apparire, unitario, pena la disgregazione della sua struttura, del complesso dei suoi apparati. Tuttavia, al suo interno si svolge una più o meno intensa lotta tra gruppi di agenti capitalistici dominanti. Nella sfera economica, la competizione spezza l’unità della produzione in tante unità di carattere privato non tanto in senso giuridico, ma in quanto a separatezza e autonomia di dette unità. Infatti, La “socializzazione” di detta produzione (e cioè che essa, pur mirando al profitto, alla valorizzazione cioè dei capitali investiti nelle unità considerate, soddisfa al tempo stesso i bisogni creatisi nell’ambito di quella particolare forma storica di società), avviene indirettamente, è mediata dal mercato, dalla concorrenza mercantile. Dunque, la competizione aperta, cui è finalizzata anche ogni eventuale alleanza tra imprese, è in definitiva il collante sociale della sfera economica nel capitalismo. Del resto è proprio questo tipo di “socializzazione” mediante il conflitto che rende tale modo di produzione più dinamico e potente, in termini di creazione di ricchezza, rispetto a quelli finora conosciuti, compreso il socialismo reale, di fatto mero statalismo. Nella sfera politica, almeno nel suo fulcro costituito dallo Stato, non è invece ammessa l’evidenziazione di una socializzazione indiretta tramite aperto conflitto fra gruppi di agenti politici dominanti. Tale conflitto è pur sempre presente, e spesso acuto. lo Stato, al di là della strutturazione (coordinata) in apparati vari, è campo sociale attraversato da una fitta rete di rapporti, a configurazione gerarchica, nel cui ambito si svolge, sordo e sotterraneo, il confronto per la supremazia tra gruppi di agenti dominanti di tipo particolare, che agiscono in collegamento con quelli dominanti di carattere strategico-imprenditoriale. Ma, mentre la competizione tra questi ultimi prende la forma di concorrenza mercantile, sembra cioè risolversi nel confronto-scontro fra i prodotti delle attività gestite in reciproca lotta per prevalere nell’ambito del mercato, nella sfera politico-statale il conflitto precede sempre l’esito “produttivo” (servizi e funzioni di tipo “pubblico”) delle attività degli apparati in cui lo Stato si materializza. Quando i “prodotti” emergono – viene dunque posta in essere una certa politica avente determinati indirizzi – lo scontro tra agenti dominanti politici, con “alle spalle” i loro referenti strategico-imprenditoriali, deve avere trovato il suo momento di sintesi in nome di un fondamentale interesse che riguardi l’intera collettività nazionale. O meglio: tale interesse solo in apparenza riguarda l’intera collettività e anche tramite le ideologie e i relativi apparati si fa di tutto per convincere quest’ultima che si tratta della realtà. E’ in ogni caso evidente che, nel capitalismo, il potere viene gestito precipuamente mediante l’utilizzazione della forma generale secondo cui appare, in questa formazione sociale, la ricchezza prodotta: la forma di denaro. L’aspetto finanziario della ricchezza quindi – gli apparati in cui questo aspetto si concretizza, e le politiche (finanziarie, appunto) che di tali apparati sono il “prodotto” – diventa il tramite necessario tra politica (e ideologia) e produzione; dunque tra gli agenti dominanti politico-ideologici e quelli strategico-imprenditoriali. La produzione (di merci a mezzo di merci) esige la presenza dell’equivalente generale delle stesse (questa è la parte più banale del problema). Ma tutta la politica delle innovazioni sarebbe resa estremamente difficoltosa senza la “liquidità” della ricchezza. Altrettanto difficile, forse impossibile, sarebbe la politica delle dirigenze imprenditoriali di carattere strategico con riferimento alla possibilità di incorporare le unità imprenditoriali sconfitte nella competizione (senza semplicemente distruggerle), alla utilità o esigenza di stabilire alleanze con altre unità dello stesso tipo, alla capacità di influire decisamente e di coinvolgere nel conflitto inter-imprenditoriale gli apparati, quindi gli agenti dominanti, della sfera politica (e statale) e di quella ideologico-culturale. Terminate le precisazioni, meglio ancora le premesse teoriche fondamentali dell’elaborazione lagrassiana, possiamo passare alla lettura dell’imperialismo secondo l’autore.
L’Imperialismo di Lenin secondo La Grassa
Per semplicità espositiva e anche per una migliore comprensione delle “novità” rispetto alla teoria leniniana, ricordiamo brevemente le cinque caratteristiche dell’imperialismo individuate da Lenin: 1) centralizzazione monopolistica dei capitali quale stadio supremo del capitalismo; 2) formazione del capitale finanziario in quanto simbiosi tra capitale bancario e capitale industriale; 3) sviluppo relativamente maggiore dell’esportazione di capitali rispetto a quella di merci; 4) competizione tra grandi concentrazioni monopolistiche per la spartizione del mercato mondiale; 5) conflitto tra Stati (grandi potenze) per la divisione del mondo in zone di influenza.
Vale la pena sottolineare che, per Lenin, la caratteristica essenziale è sicuramente la prima. La Grassa sostiene una differente concezione, e riduce le cinque caratteristiche alle ultime due, e non solo! In primo luogo, dopo quanto detto in precedenza, risulta chiaro che per La Grassa non esiste l’ultimo (o supremo) stadio di una progressiva centralizzazione dei capitali. Come abbiamo visto, tale idea ha come sottofondo la concezione marxiana relativa al carattere (“essenzialmente”) proprietario del modo di produzione capitalistico, da cui deriva che la tendenza intrinseca di quest’ultimo conduce alla formazione di un ristretto gruppo di semplici rentier, ad un polo della società, e di una gran massa di lavoratori salariati (dai massimi dirigenti ai più bassi livelli esecutivi), “il lavoratore collettivo cooperativo” all’altro polo. Nell’analizzare l’impresa è risultato evidente che i gruppi di agenti dominanti strategico-imprenditoriali non sono affatto dei semplici rentier.
E dal momento che: 1) non sussiste la tendenza alla progressiva, e sempre crescente centralizzazione monopolistica, ma semmai soltanto alla crescita delle dimensioni delle imprese; 2) l’elemento essenziale del capitalismo è il conflitto e non la proprietà; 3) in tale conflitto, e non in una presunta socializzazione crescente delle forze produttive risiede l’indubbia capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, sia pure nel caos e nell’anarchia, più di ogni altra formazione sociale finora conosciuta; 4) tale conflitto conduce solo momentaneamente (nel senso di epoca storica) alla supremazia monocentrica, mentre poi esso si riacutizza policentricamente, e non tanto con i metodi del plusvalore relativo (e cioè con le innovazioni di processo) ma piuttosto con la riclassificazione, la ristrutturazione e l’apertura di nuovi settori produttivi (e cioè le innovazioni di prodotto, assai più decisive delle prime).
Se ne conclude che: 1) i gruppi dominanti capitalistici sono quelli strategico-imprenditoriali, e il considerare questi ultimi quali puri parassiti, sintomi di disfacimento e putrefazione del capitalismo, è un errore fatale per la lotta anticapitalistica; 2) il relativo monopolio è tipico delle epoche monocentriche, mentre quelle policentriche (quelle in cui si afferma l’imperialismo) vedono la sua attenuazione, proprio il contrario di quanto pensava Lenin che del monopolio faceva la caratteristica principale di tale fase capitalistica.
Lenin, che nella pratica, individua nell’imperialismo lo scatenarsi della lotta più aspra possibile tra capitalismi ai fini della prevalenza di alcuni di essi sugli altri, non rimette in discussione l’ortodossia marxista – anzi di questa finisce con l’accettare la versione peggiore, quella kautskiana, che riduce il “lavoratore collettivo cooperativo” alla sola “classe operaia” – e si trova invischiato nella presunta tendenza progressiva alla centralizzazione monopolistica. Sostiene che il monopolio non elimina la concorrenza, ma la “porta ad un livello più alto”, affermazione generica, contraddittoria, che fa il paio con l’accettazione, sia pure “in ultima istanza”, della tesi ultra-imperialistica di Kautsky, che cercherà di confutare sul piano pratico con l’appello alla rivoluzione proletaria generale. In realtà, la fase imperialistica – in quanto non ultimo stadiodel capitalismo, ma sua fase ricorsivadi tipologia apertamente policentrica, non è quella contraddistinta dalla crescente monopolizzazione, pur se in essa si affrontano per la predominanza imprese giganti. E dunque, la prima caratteristica di Lenin può essere, tralasciata. Ma anche la seconda non resta immune dai mutamenti concettuali che La Grassa propone relativamente all’elemento su cui “fondare” il modo di produzione capitalistico. Resiste certo l’idea brillante della simbiosi tra capitale bancario e industriale. Tuttavia, nella sua impostazione non vi è dubbio che la prevalenza, pur nella simbiosi tra i due, spetta al capitale bancario, e questo è logico sempre che si parta dalla già considerata accettazione della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico (che in quest’ultimo considera decisiva la tendenza alla centralizzazione proprietaria e alla formazione dei rentier quale gruppo dominante supremo nel capitalismo). Tutte le forme del conflitto nella sfera economico-produttiva, per essere sfruttate appieno, esigono la rapida disponibilità di somme cospicue. Una parte consistente del capitale non può dunque essere immobilizzata, ma deve poter essere facilmente tradotta in liquido. E’ ovvio che su questa parte cresca un settore “specializzato” in operazioni finanziarie, che crea ulteriori attività imprenditoriali e su di esse si concentra senza necessariamente tener conto degli altri settori. E’ altrettanto ovvio che in esso si sviluppino operazioni speculative. Ma è però necessario capire da dove derivano, e perché, le “risorse finanziarie”. Queste prendono origine non dall’affermazione come gruppo dominante, di tipo parassitario, dei “tagliatori di cedole”, ma dalle esigenze della competizione a tutto campo, economico-produttiva, finanziaria, politico-ideologico-culturale, tra i vari gruppi strategico-imprenditoriali, autentici insiemi di agenti dominanti nel capitalismo che si scontrano per la supremazia, innanzitutto nei mercati, ma non solo in questi. In definitiva, la finanza è certamente indissolubile dal capitalismo, in quanto produzione di merci, soggette agli scambi nelle varie forme monetarie, ma le epoche in cui la finanza si dilata, accrescendo il caos e l’anarchia tipica del capitalismo, sono quelle policentriche, quelle imperialistiche. Per quanto riguarda la terza caratteristica, non vi è dubbio che gli investimenti all’estero assumono decisiva importanza rispetto alla semplice esportazione di merci (chiara indicazione relativa sia alle crescenti dimensioni, e relativa ramificazione (filiali, ecc.), delle imprese, sia soprattutto alle esigenze intrinseche al loro conflitto per la supremazia nei mercati (che attiene alla quarta caratteristica leniniana). Di conseguenza, il realismo delle considerazioni intorno alla finanziarizzazione del capitale e agli investimenti all’estero delle grandi imprese non cancella la chiara subordinazione di entrambi i processi al conflitto inter-imprenditoriale in quanto carattere cruciale (della dinamica) del modo di produzione capitalistico. Tutto questo ha convinto La Grassa che la quarta e la quinta caratteristica dell’imperialismo secondo Lenin, sono più che sufficienti a definire questa fase ricorsiva (e non stadio) dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico.
Le trasformazioni delle due caratteristiche leniniane secondo La Grassa In realtà, nella teorizzazione lagrassiana, entrambe mutano notevolmente il loro aspetto caratteristico. Nell’elaborazione leniniana si parla di grandi concentrazioni economiche (monopolistiche) e di Stati (grandi potenze) in lotta fra loro. In questo modo, sostiene La Grassa, si finisce col concentrare l’attenzione sugli aspetti “materiali” del conflitto inter-capitalistico. E si finisce col dimenticare che, nella concezione di Marx, l’analisi decisiva deve svelare l’assetto dei rapporti sociali celati nelle loro concretizzazioni istituzionali. La Grassa preferisce indicare perciò, come caratteri specifici di una fase pienamente imperialistica:
a) l’esistenza di grandi concentrazioni imprenditoriali capitalistiche di tipo oligopolistico, nell’industria come nella finanza, in acuta competizione sul piano mondiale, per l’acquisizione di sempre maggiori quote di mercato;
b) l’esistenza di un conflitto altrettanto acuto, ma condotto con metodi differenti, tra Stati, o comunque tra gruppi di agenti capitalistici di tipologia politica, con estensioni nell’attività militare, per la conquista di sempre più ampie sfere di influenza cui va aggiunto il confronto tra agenti portatori di ideologie diverse per l’egemonia culturale.
In questo modo, si sottolinea l’importanza dell’organismo politico-statale che non è mero strumento nelle mani delle classi dominanti. Se dunque fissiamo l’attenzione sugli agenti sociali, in linea di principio gli agenti dominanti di ogni sfera sociale vengono messi sullo stesso piano. I dominanti nella sfera economica (gli agenti strategico-imprenditoriali) e quelli della sfera politica (e militare) o di quella ideologica hanno obiettivi e strategie differenti. I secondi, in particolare quelli politico-militari, che confliggono fra loro per le sfere di influenza, hanno spesso una visione degli interessi di interi sistemi (“nazionali”) economico-sociali più complessiva di quella dei primi, ovviamente più attenti ai problemi delle imprese o gruppi di imprese da essi controllati, fra loro in competizione più che altro per le quote di mercato. In ogni caso, l’accertamento della prevalenza nell’insieme della società degli agenti dominanti in una delle differenti sfere sociali non è una semplice questione di definizione teorica, ma soprattutto di congiuntura pratico-politica. Una volta definito l’imperialismo nel modo appena indicato, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche le geniali intuizioni leniniane ne escono rafforzate e parzialmente riutilizzabili. Scompare la tendenza alla centralizzazione ultra-imperialistica, e si evidenziano le contraddizioni tra i dominanti, da sfruttare per eventuali trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie dei dominati. Senza però nutrire illusioni (deterministiche) sulla “vicinanza” di queste ultime, dal momento che il capitalismo non è arrivato al suo stadio “maturo” o “morente”. Si rafforza nettamente la tesi di una necessaria finanziarizzazione del capitale, pur sapendo che non si tratta di stadio irreversibile e definitivo relativo alla putrescenza del capitalismo, dato che quest’ultimo, pur nell’anarchia e nel caos, può vivere ancora fasi di forte sviluppo delle forze produttive. Si comprende anche meglio l’affermazione leniniana circa l’Oriente socialmente arretrato ma politicamente avanzato. In realtà, non esiste una “classe universale”, oggettivamente (in sé) formata dalla dinamica di sviluppo del modo di produzione capitalistico e investita della missione salvatrice dell’intera umanità. Vi sono “nel mondo” strutturazioni sociali complesse, contraddizioni multiple che, a partire dall’esplosione aperta di quelle interne ai gruppi dominanti, possono condurre in direzioni diverse, aprendo spazi a forze alternative, “antisistema”. Si comprende anche perché Lenin accentuasse tanto l’aspetto politico del conflitto, poiché nutriva la profonda convinzione della possibilità di un intervento decisivo in esso degli Stati (secondo il linguaggio lagrassiano, dei gruppi dominanti politico-militari), ma anche di “avanguardie” determinate a cogliere la congiuntura (spazio-temporale) particolare in cui operare per il rovesciamento dell’intero insieme dei dominanti. La definizione dell’imperialismo, in quanto fase ricorsiva tramite le due caratteristiche appena più sopra indicate, permette dunque un’indagine puntuale intorno alla strutturazione del campo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale. Ne emerge la sua particolare configurazione monocentrica, alcuni tratti importanti della quale si sono andati formando a causa della presenza del campo avverso (sedicente “socialista”), mentre altri erano fondamentalmente autonomi. Emerge la struttura dei blocchi dominanti nel paese centrale (USA) e in quelli capitalisticamente sviluppati ma non centrali (europei occidentali e Giappone), mettendo in luce quanto offuscato dalla generale ideologia denominata “keynesismo” e dal successivo riaccendersi del conflitto tra quest’ultima e la più vecchia ideologia liberista, tornata in voga negli ultimi decenni. Permette infine di chiarire cosa si nasconde dietro le espressioni “keynesismo di guerra” (struttura degli agenti dominanti nel paese centrale) e “keynesismo sociale” (configurazione del blocco dominante nei paesi non centrali), e di svelare soprattutto con chiarezza le caratteristiche peculiari dei gruppi dominanti che rendono gli USA ancor oggi il paese centrale, esercitante cioè una netta supremazia; e non solo di tipo militare cui troppo spesso, e superficialmente, si fa esclusivo riferimento. Secondo La Grassa, la centralità statunitense dipende attualmente soprattutto dal gruppo di agenti dominanti politico-militari (e anche ideologici), mentre in qualche misura si è riacceso, in specie dopo la ri-mondializzazione capitalistica successiva al 1989-91, il conflitto tra gli agenti dominanti strategico-imprenditoriali centrali e non centrali, pur se quest’ultimo è comunque ancora largamente segnato dalla supremazia statunitense nel campo della ricerca scientifico-tecnica e, dunque, delle innovazioni (in specie di prodotto), supremazia cui non è certo estranea quella schiacciante di tipo politico e soprattutto militare. In ogni caso, la ri-mondializzazione capitalistica non ha mutato in profondità la struttura dei blocchi dominanti nella formazione capitalistica centrale e in quelle non centrali, mentre nuovi paesi emergenti insidiano le potenzialità di sviluppo e di espansione di queste ultime. Nonostante le debolezze da cui sono affetti i blocchi dominanti dei paesi non centrali – e anche quelli in formazione nei paesi emergenti – si è in misura non irrilevante riattizzato il conflitto tra dominanti strategico-imprenditoriali, mentre quello tra agenti di tipologia politico-militare vede tuttora una supremazia a senso unico, contrastata forse da “strane” vie traverse, cui potrebbe appartenere il cosiddetto “terrorismo” (non le lotte di liberazione nazionale, tipo quella palestinese, che vengono confuse, da corrotti e disonesti ideologhi occidentali, con quest’ultimo). Per La Grassa l’epoca attuale sarebbe dunque caratterizzata da una situazione di semimperialismo, eminentemente instabile e quindi aperta a soluzioni opposte, e cioè il rinsaldarsi del monocentrismo statunitense, questa volta a livello mondiale complessivo, o l’entrata progressiva nella fase pienamente policentrica, cioè imperialistica, dando tuttavia aperta preferenza alla previsione dell’attuarsi di questa seconda situazione. Questo è però esattamente il percorso della scienza, differente da quello delle profezie fondate su dogmi intoccabili o su confuse, indefinibili, aspirazioni moralistiche. Non inutili queste ultime, sia chiaro (a differenza dei dogmi), quando spingono comunque ad opporsi alla prepotenza dei dominanti.
Proviamo a riassumere:
Imprese, (e cioè un sistema di unità produttive (e finanziarie), fra loro “autonome” e separate, in reciproco conflitto) e Stato (e cioè l’insieme dei gruppi di agenti dominanti che si combattono nell’ambito dell’unità politica così denominata, unità che va preservata onde mantenere l’egemonia capitalistica fondata sull’apparente perseguimento di fini “pubblici”, di interesse generale), sono gli elementi costitutivi e fondanti del capitalismo imperialistico. Quest’ultimo non è, come pensava Lenin, uno stadio (quello monopolistico, sicuramente irreversibile) del modo di produzione capitalistico. Si tratta invece di una fase (ricorsiva) dello sviluppo di quest’ultimo, in cui sistema di imprese e Stato agiscono insieme, ma con modalità differenti e compiti parzialmente separati, pur se fra loro intrecciati, perseguendo scopi di ampliamento di quote di mercato (per quanto riguarda la competizione tra imprese) e di sfere di influenza (per quanto riguarda il conflitto tra Stati). Come si vede, si tratta della quarta e della quinta caratteristica dell’imperialismo secondo la definizione di Lenin, che diventano perciò, secondo la concezione proposta da La Grassa, le vere caratteristiche decisive dell’imperialismo. Una simile impostazione del problema sembra non discostarsi molto dalle tesi leniniane. In realtà, lo spostamento è piuttosto netto. Come abbiamo già detto, Lenin, una volta elencate le cinque caratteristiche dello stadio imperialistico, affermava che una definizione sintetica di quest’ultimo poteva limitarsi ad indicare come decisiva la prima caratteristica, quella relativa al carattere monopolistico del capitalismo. In questo modo, veniva enfatizzato il lato economico di tale modo di produzione, ponendo inoltre in luce il presunto limite costituito dalla centralizzazione monopolistica dei capitali, che acuiva fino al punto di rottura la contraddizione tra rapporti fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e socializzazione delle forze produttive. E’ altrettanto vero che Lenin pensava ad un’acutizzazione della concorrenza talmente forte che avrebbe portato fino al coinvolgimento degli Stati nell’ambito di uno scontro che avrebbe assunto caratteri bellici di portata mondiale. Ma tali Stati venivano però considerati fondamentalmente quali semplici strumenti delle classi dominanti capitalistiche (di tipo economico) in reciproco conflitto (inter-monopolistico). Centrando la definizione di imperialismo sulla quarta e sulla quinta caratteristica, La Grassa provoca uno spostamento non indifferente del punto di vista secondo cui osservare tale problema. Intanto, come già rilevato, si tratterebbe di una fase ricorsiva della struttura dei rapporti interni alla formazione sociale mondiale capitalistica; non di un ultimo stadio, di una fase suprema, ecc. Inoltre, pur se “in ultima istanza” la sfera economica è dominante nel capitalismo, quella politica, (in quanto campo sociale attraversato da rapporti conflittuali tra agenti dominanti di un certo tipo, pur quando esso si configuri quale entità unitaria nello Stato) gode di una “relativa autonomia”, non è mero strumento al servizio, diretto e immediato, degli agenti dominanti di tipo economico. Questi ultimi devono per necessità intrinseche alla riproduzione degli specifici rapporti sociali capitalistici, concentrarsi sulla competizione tra quegli organismi particolari, le imprese, che si assumono i compiti produttivi nell’attuale forma di società. D’altra parte, è tale competizione ad attribuire al capitalismo le sue modalità altamente dinamiche, la sua capacità di autotrasformazione mediante la distruzione creatrice. il suo spirito propulsivo in tema di innovazioni, con particolare riguardo a quelle di prodotto, quelle che aprono nuove direttrici di sviluppo, che ampliano spesso le frontiere della conoscenza scientifica. E’ evidente che il concentrarsi sulla competizione di tipo economico, in presenza di una creazione di ricchezza che appare in tutto il suo sfavillio soprattutto nella forma di moneta, impedisce agli agenti dominanti della sfera produttiva (dominante a sua volta nella società) di ampliare la loro visione alla formazione sociale nel suo complesso, all’insieme dei rapporti sociali che la costituiscono e che in certi casi potrebbero creare ostacoli all’ordinato riprodursi dei predominanti rapporti del modo di produzione capitalistico. Negli spazi aperti dalla competizione economica, dalla carenza di visione complessiva degli agenti strategico-imprenditoriali, si situano, interponendosi tra questi ultimi, gruppi di agenti che ascendono, pur sempre in reciproco conflitto, alla dominanza mediante la visione d’insieme della riproduzione sociale, visione che esige, pur nella lotta, unitarietà di indirizzo e capacità di sintesi, onde sussumere il molteplice atteggiarsi dei valori e scopi, relativi alla collocazione di diversi raggruppamenti nella struttura complessiva dei rapporti societari, sotto la riproduzione dei rapporti capitalistici. Infine, va sottolineato sia la concezione leniniana relativa all’intreccio ineliminabile tra capitale produttivo e capitale finanziario, sia l’ampliarsi di quest’ultimo nelle epoche policentriche di acutizzazione del conflitto inter-capitalistico (e inter-imperialistico). Che su tale ampliamento si inseriscano le manovre speculative dei “profittatori” è caratteristica ineludibile della riproduzione capitalistica. Essa non contraddistingue però uno stadio di semplice decadenza e putrescenza del capitalismo (imperialistico), non indica la trasformazione tendenziale dei funzionari del capitale in puri rentier. L’aspetto finanziario – legato al mantenimento della ricchezza in forma liquida o facilmente liquidabile – è essenziale per la competizione tra agenti dominanti strategico-imprenditoriali; è necessario all’incorporazione delle imprese sconfitte, alle alleanze tra imprese, alle innovazioni, al coinvolgimento delle sfere politica e ideologica nella competizione inter-imprenditoriale. Esso è inoltre indispensabile all’attività dello Stato, al mantenimento di quello spazio sociale unitario, di sintesi, aperto tuttavia allo scontro tra particolari agenti dominanti capitalistici cui è affidata una visione più complessiva, cioè relativa a interi sistemi capitalistici, a vaste aree geografico-socio-culturali (“nazionali” in senso lato) della formazione sociale capitalistica complessiva. Con il corollario, dunque, che gli Stati questi campi di rapporti conflittuali tra agenti dominanti di tipo politico – si scontrano fra loro per la supremazia di alcune di queste “aree” (paesi) su altre. In questo scontro, che si avvale di mezzi particolari fra cui sono ancor oggi decisivi quelli di tipo bellico, è pur sempre indispensabile il reperimento e l’utilizzo di risorse finanziarie.
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.
Epoche monocentriche versus epoche policentriche E’ ovvio che il conflitto – sia che si consideri un solo settore produttivo o il sistema nel suo complesso; sia che si guardi ad un sistema “nazionale” o al complesso della formazione sociale capitalistica – termina, ad un certo punto, con la vittoria, mai definitiva, di una data impresa o gruppo di imprese, di un dato sistema “nazionale” o di gruppi collegati di questi, ecc. Si configura così una struttura piramidale d’insieme, con gruppi di imprese o di sistemi “nazionali” delle stesse (o uno solo di questi sistemi) al suo vertice. Non per questo il conflitto cessa. Esso continua nella forma della “guerra di posizione”, che sostituisce quella “di movimento” condotta fino a quel momento. Nel frattempo, altri gruppi di imprese vengono via via costituendosi e/o rafforzandosi, nelle viscere del sistema controllato dal vertice della piramide (il “centro” del sistema stesso), avvalendosi di forme giuridico-finanziarie, di varie manovre attinenti alla diversa modalità dei mezzi di controllo imprenditoriale (ponendo al centro la proprietà azionaria o invece l’assegnazione ai manager del potere supremo), ma si sviluppano soprattutto attraverso i processi di innovazione e con il coinvolgimento nel conflitto della sfera politica e della sfera ideologica. Fino a quando il precedente ordine relativamente piramidale non viene completamente sconvolto e rimesso pienamente in discussione tramite lo scatenamento di una nuova guerra di movimento che dovrà, alla fine di un lungo periodo, riassegnare la vittoria, cioè la supremazia, a “qualcuno”. Posta così la questione, appare evidente che non ha senso immaginare una tendenza lineare alla centralizzazione monopolistica dei capitali. Non bisogna mai confondere il gigantismo imprenditoriale, che tendenzialmente appare sempre in crescita, con l’effettivo potere di monopolio di un’impresa o di un gruppo delle stesse o addirittura di un sistema “nazionale” nell’ambito della formazione sociale capitalistica mondiale. La relativa prevalenza monopolistica si ha nelle epoche, che La Grassa denomina per questo monocentriche, con struttura grosso modo piramidale, e presenza di un conflitto sordo manifestantesi come guerra di posizione, ecc. E’ chiaro che tale conflitto, in continua evoluzione, rimette sempre in discussione la supremazia esercitata in quella data epoca, con lo scardinamento della situazione monopolistica e con l’esplosione della guerra di movimento, caratterizzata da innovazioni (di processo ma soprattutto di prodotto) e da un ampio coinvolgimento del potere politico-ideologico. Nelle fasi monocentriche, è probabile che la relativa tranquillità (monopolistica) favorisca l’ascesa di gruppi manageriali – senza (o con scarsa) proprietà azionaria – alla direzione strategica delle imprese. Nelle fasi policentriche, che fanno saltare la situazione monopolistica, i vari gruppi di agenti strategico-imprenditoriali in reciproco conflitto hanno bisogno di proteggersi più adeguatamente dagli avversari, e dunque “blindare” la proprietà può essere a volte un buon mezzo di difesa, così come il lanciare operazioni di acquisto azionario quanto meno coadiuva l’offensiva e l’aggressività. Attività che, da sole, non sono sufficienti. Sono molto appariscenti sul davanti della scena, ma decisamente più importanti sono i processi innovativi e, forse ancora di più, i coinvolgimenti politici, ecc. La conclusione di tutto questo discorso sta nell’affermare che la centralizzazione monopolistica non è uno stadio dello sviluppo capitalistico – non è né irreversibile né supremo o ultimo – ma più semplicemente una caratteristica delle situazioni monocentriche, di momentanea vittoria di una impresa o gruppo di imprese (in uno o più settori produttivi) o di interi sistemi “nazionali” nell’ambito dell’insieme della società capitalistica. Ed è proprio in questo secondo caso, che si può parlare di epoca monocentrica. Nelle situazioni (o meglio ancora nelle epoche policentriche), malgrado il gigantismo delle imprese, si verifica precisamente la rimessa in discussione della struttura monopolistica.
Alcune considerazioni Le ragioni di queste righe sono praticamente due e, in un certo senso entrambe di ordine personale, e cioè il mio bisogno di misurarmi con il pensiero di Gianfranco La Grassa per poi appropriarmene e, attraverso una corretta volgarizzazione, trasformarlo in strumento di battaglia teorica, inserendomi così nel dibattito in corso sul blog di “Ripensare Marx” con alcuni elementi di propositività. Tutto questo, dopo aver contribuito a “demolire” quelle argomentazioni che vedono le posizioni di La Grassa cinicamente proiettate in uno spazio soltanto geopolitico e del tutto estranee alla “lotta di classe”, e aver fatto alcune considerazioni “critiche” su l’elaborazione di Gianfranco! L’intento dunque è chiaro. Il desiderio di portare il mio modesto contributo alla discussione e non la giusta linea tanto meno proletaria! Visto però che, sia pure ironicamente, ho fatto riferimento ad un linguaggio assai in voga oltre una cinquantina di anni fa, farò un salto ad un anno fatidico per il movimento comunista internazionale, il 1963, anno in cui si consumò la rottura tra l’U.R.S.S. e la Cina popolare, un evento drammatico per chi, come me, si affacciava al comunismo e credo anche per i comunisti di tutto il mondo.
Riassumo per i più giovani, i tempi della rottura. Il 30 marzo 1963 il Comitato centrale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) scrisse una lettera al Comitato centrale del PCC (Partito Comunista Cinese). La risposta del PCC (nota successivamente come i venticinque punti) il 14 giugno 1963. Ai venticinque punti il Comitato centrale del PCUS risponderà, con una lettera aperta sulla Pravda, il 14 luglio 1963. I cinesi risponderanno a loro volta con un articolo “Le origini e lo sviluppo delle divergenze tra i dirigenti del PCUS e noi”, sul Quotidiano del popolo il 6 settembre 1963 e sarà la rottura definitiva. Anche se espressa in termini di “divergenze”. L’attenzione all’unità c’è stata sempre, anche se spesso soltanto formalmente, nel movimento comunista internazionale! Ma le ragioni della rottura erano già tutte contenute nei venticinque punti. Penso ai lettori, soprattutto ai più giovani, che si staranno chiedendo: ma tutto questo cosa c’entra con La Grassa e, soprattutto con l’oggi? Ebbene, la ragione di questo tuffo nel passato è legata al mio bisogno di inguaribile maoista di ricordare che il movimento comunista internazionale ha di continuo (e giustamente) inteso l’imperialismo come una teoria che interpretava la realtà capitalistica senza più ricondurla alla sola contraddizione capitale-lavoro. Il quarto dei venticinque punti rappresenta la realtà del mondo del 1963 in quattro contraddizioni fondamentali. In realtà non si tratta affatto di nostalgia, quanto piuttosto della necessità anche per noi, oggi, di fare i conti con il mondo che abbiamo di fronte e non con i nostri sogni! Ed ecco qui di seguito, riportati per intero, i punti quattro e cinque. Mentre il punto quattro rappresenta la teoria, il punto cinque rappresenta invece i rischi che si corrono nell’allontanarsene.
“4. La linea generale del movimento comunista internazionale ha per punto di partenza l’analisi di classe concreta della politica e dell’economia mondiale nel loro complesso e delle attuali condizioni mondiali, ossia delle fondamentali contraddizioni nel mondo contemporaneo. Se si evita l’analisi di classe concreta, ci si sofferma a caso su alcuni fenomeni superficiali, e si traggono conclusioni soggettive e infondate non sarà mai possibile giungere a conclusioni corrette riguardo alla linea generale del movimento comunista internazionale, ma si scivolerà inevitabilmente su una via del tutto diversa da quella del marxismo-leninismo. Quali sono le contraddizioni fondamentali del mondo contemporaneo? I marxisti-leninisti sostengono coerentemente che sono le seguenti: – la contraddizione tra il campo socialista e il campo imperialista; – la contraddizione tra il proletariato e la borghesia nei paesi capitalisti; – la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’imperialismo; – le contraddizioni dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolistico-capitalistici tra loro.
La contraddizione tra il campo socialista e il campo imperialista è una contraddizione tra due sistemi sociali fondamentalmente diversi: socialismo e capitalismo. Essa è senza dubbio acutissima. Ma i marxisti-leninisti non devono considerare le contraddizioni nel mondo come se si riducessero alla contraddizione pura e semplice tra il campo socialista e il campo imperialista. L’equilibrio internazionale delle forze è mutato e si è sempre più spostato a favore del socialismo e di tutti i popoli e le nazioni oppresse del mondo, diventando cosìestremamente sfavorevole per l’imperialismo e i reazionari di tutti i paesi. Ciononostante, le contraddizioni enumerate sopra esistono ancora oggettivamente. Queste contraddizioni, e le lotte alle quali danno adito, sono interdipendenti e si influenzano l’una con l’altra. Nessuno può dimenticare alcuna di queste contraddizioni fondamentali o sostituirne soggettivamente una a tutte le altre. È inevitabile che queste contraddizioni diano adito a rivoluzioni popolari, che sono le sole a poterle risolvere.
Le seguenti opinioni erronee dovrebbero essere respinte in merito alla questione delle contraddizioni fondamentali nel mondo contemporaneo:
a) il cancellare il contenuto di classe nella contraddizione tra i campi socialista e imperialista e il non riuscire a vedere questa contraddizione come una contraddizione tra Stati sotto la dittatura del proletariato e Stati sotto la dittatura dei monopolisti;
b) il riconoscere soltanto la contraddizione tra i campi socialista e imperialista, respingendo e sottovalutando invece le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia nel mondo capitalistico, tra le nazioni oppresse e l’imperialismo, dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolisti tra loro, e le lotte alle quali queste contraddizioni danno adito;
c) l’affermare riguardo al mondo capitalistico che la contraddizione tra il proletariato e la borghesia può essere risolta senza una rivoluzione proletaria in ciascun paese e che la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’imperialismo può essere risolta senza la rivoluzione da parte delle nazioni oppresse;
d) il negare che lo sviluppo delle contraddizioni inerenti al mondo capitalistico contemporaneo conduca inevitabilmente a una nuova situazione in cui i paesi imperialisti sono impegnati in una lotta intensa e l’affermare che le contraddizioni tra i paesi imperialisti possano essere conciliate o persino eliminate da “accordi internazionali tra i grossi monopoli”;
e) l’affermare che la contraddizione tra i due sistemi mondiali del socialismo e del capitalismo scomparirà automaticamente nel corso della “competizione economica”, che le altre contraddizioni mondiali fondamentali faranno automaticamente altrettanto con la scomparsa della contraddizione tra i due sistemi e che apparirà un “mondo senza guerre”, un nuovo mondo di “cooperazione generale”.
È naturale che queste opinioni erronee conducano inevitabilmente a scelte politiche erronee e dannose e quindi a fallimenti e a perdite di questo o quel genere per la causa dei popoli e del socialismo”.
Oggi, la situazione che abbiamo di fronte non assomiglia nemmeno lontanamente alla situazione descritta dal punto quattro e sono venute alla ribalta altre contraddizioni a caratterizzare il mondo attuale. A mio parere, l’elaborazione del concetto di Imperialismo di Gianfranco La Grassa (che non voglio assimilare alla teoria delle quattro contraddizioni), ripercorre però un’identica esigenza, più libera però in termini di ricerca e, ovviamente meno efficace in termini politici, non avendo dietro di sé, il colosso cinese. Cosa è che rende alcuni, sospettosi rispetto alle tesi di La Grassa? Ho usato l’aggettivo “sospettosi” e non “critici” a ragion veduta, nel senso che la critica è legittima per definizione, mentre il sospetto… Quasi alla fine del penultimo paragrafo dello scritto appena presentato, ho citato una frase di La Grassa che mi trova totalmente d’accordo!
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.
Proverò ora ad analizzarla passo passo, e strada facendo, cercherò di evidenziare quello che speravo si trovasse già bello e pronto in La Grassa e che ora penso invece debba essere il risultato di una elaborazione a più mani.
“Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, …”.
Dunque, senza un’appropriata teoria, niente rivoluzione. Sostanzialmente: è assai improbabile che si riesca a cambiare qualcosa che non si conosca bene e, aggiungo io, soprattutto senza che esista il soggetto rivoluzionario, più semplicemente chi sia interessato ad una trasformazione anticapitalistica della società, non sul piano del puro desiderio. Per poi fare cosa?
“… significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmentecosa siaquesta società ecome può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui”.
L’invito a non rassegnarsi è chiaramente rivolto ai dominati oltre che a tutti coloro che hanno subito una grave sconfitta storica (la fine del comunismo storico novecentesco, rappresentato emblematicamente dall’implosione dell’U.R.S.S.). Si tratta comunque di una chiara indicazione di classe! La Grassa, che nella sua elaborazione teorica pone in secondo piano il conflitto (la contraddizione, dicevano i cinesi), capitale-lavoro, sa bene che le lotte vanno fatte e che, in ogni caso, lo sfruttamento dei dominati è continuo, figuriamoci in una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo! Sa anche però, è questo è quello che gli si rimprovera, da parte dei duri a capire, che la prospettiva del sole dell’avvenire non ha alcun fondamento scientifico e dunque occorre liberarsi di idealità ossificate (prima fra tutte l’opposizione destra-sinistra) che favoriscono soltanto le vecchie oligarchie di partito e che impediscono invece alle masse una comprensione del mondo reale. Un dato è certo però e cioè che i dominati non fanno parte di nessuno dei gruppi di dominanti variamente descritti in precedenza e la loro esperienza di lotta essi la maturano sostanzialmente nella contrapposizione tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro forza o capacità lavorativa e cioè nel conflittocapitale-lavoro, in uno spazio dominato dall’economicismo. Occorrerebbe dunque un’organizzazione (non trade-unionistica, puramente sindacale) che sapesse trasformare esigenze contingenti in esigenze strategiche, che sapesse passare “dalla fabbrica allo Stato”, come si diceva una volta. Un terreno di lotta specificamente nazionale, sostengo io. Ma in particolare, in un contesto policentrico, per misurarsi dunque in un contesto internazionale, i dominati potranno far questo, soltanto se forti di una sovranità nazionale indiscussa. Altrimenti si ridurranno ad essere tifosi di questa o quella geopolitica. Se sono vere queste mie considerazioni, del resto mutuate da una tradizione di lotta antimperialistica di più di un secolo, bisogna rendersi conto che, sul piano pratico siamo praticamente all’anno zero. Dal momento che non esiste alcuna organizzazione dei dominati e anche questi non si sa bene come individuarli! Nel senso che non si dispone di una conoscenza dell’attuale stratificazione sociale e di una teoria più puntuale che vada oltre l’utilissima ma anche troppo generica categoria “i dominati”.
Io penso perciò che il momento storico che viviamo, un momento in cui lo spazio teorico è ancora occupato in piccola parte dalle vecchie ortodossie e per la più gran parte da teorie di comodo, di subordinazione, offra per ora, ad infime minoranze non rassegnate, soltanto la possibilità di adoperarsi a capire cosa sia questa società e non sul come possa essere trasformata. Questo voglio significare quando sostengo che si tratta di combattere una battaglia culturale e non politica tout court. Quanto all’ultima frase della citazione di La Grassa: “Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”. Il testo presentato lo spiega ampiamente!
Mi avvio alla conclusione di queste mie considerazioni. Poche righe per mantenere la promessa circa alcuni elementi di propositività. Il “policentrismo” che si sta facendo strada, offre maggiori possibilità rispetto al “monocentrismo”, sul piano delle prospettive, (vedi Russia versus Georgia, Obama che manda lettere a Putin per patteggiare, ecc.) visto che fino ad ora il terreno importante, ma unico, era quello della resistenza, con tutte le confusioni sull’antiamericanismo, ecc., ecc. La rivendicazione di una reale sovranità nazionale non credo possa disturbare chi, da sempre, considera l’Italia una colonia statunitense! Mentre completo queste righe, il glabro Frattini ha ritirato l’Italia dalla conferenza di Ginevra (Durban 2) dell’ONU, per la presenza nel testo di convocazione di un attacco antisionista! Se si parla di ENI da potenziare, subito ci si scandalizza circa una politica di potenza dell’Italia? La rivendicazione del ruolo delle nazioni in quanto tali riporterebbe in auge il diritto delle nazioni, in un’epoca in cui l’ingerenza umanitaria è stata lo strumento principale dell’imperialismo statunitense per bombardare chiunque, sull’onda del rispetto dei diritti umani, ovviamente a geometria variabile! I soggetti da coinvolgere sono a mio parere, le ultime due generazioni (da 20 a 40 anni). Io credo che oggi si sia in grado di prospettare qualcosa di ragionevole anche per coloro che vivono una vita assai diversa da quella che abbiamo vissuto noi alla loro età. Il problema non è, per me, stravincere a livello teorico, quanto piuttosto, servendosi di una teoria nuova, riuscire a dare indicazioni di ordine culturale prima ancora che politico, su come stare al mondo, oggi, e scusate se è poco!
Vogliamo ricordare l’uomoe il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.
Il 23 novembre del 2013, cinque anni fa moriva Costanzo Preve.
Vogliamo ricordare un uomo, un filosofo che ha testimoniato la resistenza ai poteri, e specialmente al capitalismo speculativo, come Preve definiva l’attuale fase del capitalismo. Nei suoi innumerevoli scritti ha denunciato il nichilismo, l’alienazione della natura umana; la quale, da essere per sua natura di ordine simbolico, è ridotta ad essere ad una funzione dell’immenso organismo cannibalico del capitalismo assoluto.
La Bestimmung, la resistenza attiva e propositiva, come vocazione duratura, è stata la stella polare di un’esistenza che ha vissuto in pienezza la sua resistenza.
La Filosofia è sempre Filosofia del presente, affermava Preve, ovvero è risposta alle contingenze storiche nell’alveo della tradizione veritativa della Filosofia.
La passione durevole per la Filosofia e per la politica sono state la sua catabasi, la discesa nell’agorà, sempre con l’intento di guardare in pieno viso il nichilismo del capitalismo speculativo/capitalismo assoluto,sciolto da ogni legame, curvato sull’illimitatezza, sul saccheggio ordinario non tanto delle finanze, ma della natura umana (Gattungswesen). Per Costanzo Preve il mondo accademico della Filosofia aveva rinunciato alla Filosofia così come al suo fondamento veritativo.
Il nichilismo del capitalismo speculativo è stato l’oggetto dei suoi studi, ma non secondaria è stata la denuncia dell’asservimento dello specialismo accademico al capitalismo assoluto: in nome di una falsa libertà deregolamentata, perché senza fondamento, il mondo accademico è diventato lo sgabello del capitale, così come le “sinistre” dei soli diritti individuali.
Costanzo Preve si è sottratto a tali logiche. Ha vissuto la marginalità cui veniva sospinto il suo pensiero e la sua ricerca, in modo eticamente alto e forte (accettandone consapevolmente la sofferenza). Anzi, ha scelto l’isolamento, che gli ha consentito di guardare in profondità le menzogne spacciate per verità dai complici del nichilismo. Ha filosofato con il vomere come direbbe Nietzsche o con lo scandaglio secondo la definizione del filosofare di Hegel. È sceso nella profondità della nostra epoca per ricostruirne la genesi dell’economicismo nichilistico ed attraverso di essa, ha visto, ha ascoltato i suoi sommovimenti, per proporre un’uscita dalla «gabbia d’acciaio», dalla caverna che ci fa vivere nel continuo abbaglio dell’errore non pensato. All’immediatezza della caverna, alla furia del dileguare, ha proposto in alternativa il dialogo socratico, la razionalità dell’ascolto contro la ragione strumentale, per ridefinire in modo corale, logico ed argomentato il fondamento della natura umana.
Per poter far resistenza, condizione imprescindibile è la chiarezza concettuale della contingenza ipostatizzata in cui siamo caduti, della trappola dell’illimitato, ed a ciò contrapporre il pensiero concreto della verità, delle persone, della qualità relazionale. La sua esperienza nei decenni che verranno – a partire da questi giorni difficili –, ci inviterà ad un confronto responsabile con la verità della globalizzazione/glebalizzazione.
Nel ricordare la sua testimonianza di vita, la sua resistenza spesso solitaria, non possiamo che continuare a pensare in modo libero, a trarre forza veritativa da chi è assente nello spazio del nostro presente, ma le cui idee sono dialetticamente poste nel tempo della coscienza dinanzi a noi. Sta a noi ora decidere se guardare in pieno volto il nichilismo e dare i nostro contributo in questa resistenza nel limite di quello che siamo, delle nostre identità e delle nostre storie.
La memoria è una delle componenti della resistenza. Non l’unica: ogni resistenza necessita anche di una casa, ma non del tutto arredata e completa, perché si muove all’interno di spazi da reinterpretare responsabilmente assumendosi il rischio del nuovo. Costanzo Preve si è assunto il rischio del nuovo in un momento storico lasco e fondato sulle passioni tristi secondo la bella accezione di Spinoza.
Non resta che dare il proprio contributo, perché il finale non è stato scritto, riposa anche in noi, nell’agere di ogni giorno. Ricordare ha oggi una valenza polisemica di resistenza. Non è solo giusto in sé, ma dobbiamo anche rammentarci che il capitalismo speculativo ci vuole senza memoria, senza volto, non come liberi individui nella dimensione comunitaria, in modo da spingerci verso il cammino del consumo belante.
Senza memoria è l’ultimo uomo, figura idiomatica dello Zarathustra dei Nietzsche, perché nichilisticamente perso nel mercato, senza dio, senza verità.
Costanzo Preve giudicava l’ultimo uomo la figura più vera e rappresentativa dello Zarathustra.
Ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dall’ultimo uomo.
La memoria dei legami spezza lo spazio angusto dei piccoli mercanteggiamenti per restituirci la dimensione temporale e spaziale sempre orientata verso il possibile, verso la potenzialità creativa. Sta a noi, nel tempo che ci è dato vivere, scegliere. Ma ogni scelta complessa e consapevole, per aprire un nuovo tempo, deve mediare il presente con la memoria.
Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.
Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:
Venturi non immemor aevi
Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.
Carmine Fiorillo
*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].
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«Siamo nell’epoca in cui un signore [l’artista Piero Manzoni] ha potuto inscatolare la sua merda e venderla col nome di Merda d’Artista. Ora: una società che quota in borsa la merda d’artista, pagandola migliaia di Euro, anziché prendere a calci nel sedere questo signore per uno scalone, è una società chiaramente malata».
Sono parole di Costanzo Preve, filosofo e politologo di origini valenzane di cui pochi giorni fa, esattamente il 23 novembre, ricorreva il quinto anniversario della morte.
E già da qui, da queste poche righe, s’intuisce il genuino spirito anticonformista di Preve, di un uomo che ha vissuto praticando con coerenza la lezione dei filosofi greci dell’antichità, il loro richiamo a farci interpreti di una critica feconda e quotidiana dell’esistente per giungere alla verità, e che di tale coerenza ha pagato il prezzo.
Se infatti di questo grande pensatore, umile come tutti i veri grandi, si parla ancora troppo poco – e magari con un po’ di sufficienza –, è perché la sua voce è stata sistematicamente silenziata per decenni. Lui, autore di tanti saggi importanti che le maggiori case editrici si rifiutavano di pubblicare, e che le riviste specializzate evitavano accuratamente di recensire, nei salotti buoni dell’intellighenzia del Belpaese non ci è mai entrato, poiché scomodo, indisponibile al compromesso, e di un’onestà intellettuale che mal si combina al conformismo culturale di un’Italia che, da questo punto di vista, non è mai stata tanto “italietta” quanto negli ultimi quindici anni.
“Rossobruno”, gli gridavano da sinistra; “comunista”, facevano eco a destra. Ma la realtà è che Preve non era uomo da potersi tirare in ballo nello squallido gioco delle etichette oggi tanto in voga, ed è proprio questa sua libertà, questa sua indifferenza alle mode intellettuali e ai diktat del politicamente corretto, che proprio non poteva essere tollerata là dove si decide chi debba assurgere al rango d’intellettuale e chi no. Ovviamente a prescindere dai meriti.
E così Preve è rimasto in disparte. Uno dei più attenti studiosi ed originali interpreti di Marx e del marxismo a livello internazionale, nonché analista politico raffinato e autore di saggi di carattere filosofico profondamente ispirati come Lettera sull’umanesimo e Una nuova storia alternativa della filosofia, ai quali il tempo renderà giusto merito, ha patito l’emarginazione e l’ostracismo di coloro i quali, una volta egemonizzati i circoli intellettuali più influenti, hanno sterilizzato quasi completamente il dibattito culturale italiano producendo mediocrità a tonnellate.
Costanzo Preve, invece, era tutto tranne che un mediocre. E se oggi ci si comincia finalmente ad accorgere di lui, se si discutono tesi di laurea sulla sua opera, e se in generale è cominciata una riscoperta del pensiero previano quantomeno all’interno degli ambienti più sensibili alla voce di chi ha sempre cantato fuori dal coro, è soprattutto grazie all’attività divulgativa di chi, allievo e amico, ha beneficiato in prima persona dell’opportunità di un confronto di idee con un uomo che ha fatto del logos socratico il proprio stile di vita.
Ed era proprio qui, in uno dei bar del centro di Alessandria, che Preve trascorreva talvolta i suoi sabati mattina da quando, insieme all’amico ed ex allievo Alessandro Monchietto (oggi coordinatore didattico all’Università degli Studi di Torino), aveva preso a frequentare quello che sarebbe diventato uno dei confidenti più cari del filosofo, oltre che un collaboratore stimato la cui opinione era presa in attenta considerazione nonostante il grosso divario di età fra i due. Mi riferisco a Luca Grecchi, docente all’Università di Milano Bicocca (ecco perché Alessandria, città a metà strada fra Torino, dove abitava Preve, e Milano), saggista, nonché direttore della rivista filosofica Koinè e coautore con Preve d’una pubblicazione del 2005 dal titolo Marx e gli antichi Greci.
È lui che abbiamo voluto raggiungere telefonicamente per avere viva testimonianza di quelle mattinate alessandrine spese a “praticare la filosofia”, oltre al breve ritratto inedito di un maestro che ha lasciato un vuoto pesante nel cuore di coloro che come Grecchi, Monchietto e Diego Fusaro, oggi noto ai più grazie alla ribalta mediatica di cui è oggetto da alcuni anni a questa parte, hanno saputo apprezzarlo tanto come studioso quanto per le sue qualità umane.
Il professor Grecchi ci dice di quando lo conobbe nel 2002. Fu lui, allora neodirettore di Koiné, a rivolerlo a tutti i costi come collaboratore della rivista, dalla quale Preve si era allontanato in seguito ai dissidi con il filosofo Massimo Bontempelli; e sempre lui a curarne la pubblicazione dei testi più recenti nella collana di cui è tuttora responsabile, «il Giogo», della casa editrice Petite Plaisance di Pistoia.
Grecchi ci dà poi un’idea del Preve insegnante, dal momento che Costanzo parlava spesso della sua quarantennale esperienza di professore di liceo, restituendoci l’immagine di un uomo profondamente consapevole dell’importanza del ruolo di educatore, pieno di energia, di entusiasmo, e coinvolgente come solo chi ha forte passione per ciò che insegna sa essere.
Del resto, Preve viveva la filosofia come prassi quotidiana, con l’atteggiamento di chi preferisce l’agorà all’accademia, poiché è lì che si fa davvero filosofia.
Su questo, forse anche grazie a quelle mattinate alessandrine spese a fare esperienza filosofica insieme a Costanzo, sarà lo stesso Grecchi a scrivere un libro che già nel titolo – Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia – allude alle difficoltà che si riscontrano oggi a praticare autenticamente la filosofia all’interno delle facoltà universitarie, dove spesso e volentieri è la conoscenza specialistica e non la ricerca della verità e del bene a finire al centro.
Fra l’altro, questo breve saggio uscirà in libreria proprio nel 2013, anno della morte di Preve.
In quegli ultimi mesi, i contatti fra i due filosofi erano soprattutto telefonici a causa delle condizioni di salute di Costanzo, come chiarisce Grecchi già nel bellissimo ricordo pubblicato sul sito di Petite Plaisance, alcuni giorni dopo la morte dell’amico.
Alle chiacchierate qui nella nostra città, dove era quasi sempre Preve a tener banco attraverso aneddoti e preziosi spunti di riflessione, si sostituiva così la dimensione del colloquio, lungo i fili che collegano Torino e Milano. Tuttavia, la memoria di quelle ore trascorse insieme è ancora assai viva in chi rimane oggi a testimoniare ciò che Costanzo Preve era nel profondo: uno strenuo e appassionato cercatore della verità, oltre che una persona buona e un caro amico.
Ma qual è l’eredità di Costanzo Preve? Grecchi non ha dubbi circa l’importante lascito di questo pensatore nato proprio qui nella nostra provincia. Un’eredità data dagli spunti disseminati un po’ ovunque nei suoi numerosi libri, ancora tutti da approfondire, e in modo particolare dall’originalissima interpretazione di Marx e di Hegel che il filosofo valenzano (ci piace pensarlo valenzano, anche se crescerà a Torino) ha elaborato nel corso di una vita votata alla filosofia.
Frequentatore e amico di tanti fini intellettuali come Norberto Bobbio, Gianfranco La Grassa e Alain De Benoist, solo per citarne alcuni, questo signore laureato in scienze politiche a Torino, perfezionatosi in filosofia a Parigi – dove studiò con filosofi del calibro di Sartre e Althusser – e in ellenistica ad Atene, che si esprimeva correttamente in sei lingue e che ha scritto più di cinquanta libri, nondimeno possedeva l’umiltà indispensabile a sottoporre a critica severa per primo se stesso e le proprie idee. Non era raro sentirlo ammettere i propri sbagli, come quando si definì un “ragazzo presuntuoso” ricordando il giorno in cui durante un confronto a casa di Jean-Paul Sartre, insieme ad altri studenti della Sorbona, Preve lo contraddisse bruscamente e quasi lo insultò, salvo poi rendersi conto tempo dopo di aver detto delle sciocchezze dettate dall’inesperienza e dalla foga della gioventù. «Non posso ricordare con piacere questo colloquio, poiché mostrai semplicemente la mia arroganza di giovane estremista ventenne». Così il Preve maturo si esprimerà riguardo quella giornata, dandoci una lezione preziosa con l’implicito invito a vivere autenticamente, e quindi a riconoscere i nostri errori per migliorarci e per sgombrare il campo dagli ostacoli sulla via della verità.
Virtù che Grecchi sembra riconoscergli fino in fondo al di là delle parole che utilizza, poiché già dal tono di voce con cui si esprime sull’onda dei ricordi è molto chiaro ciò che prova: gratitudine.
Questa è stata quantomeno la mia impressione. Tanto che solo quando prendiamo a parlare di ciò che sta germogliando dai semi che Preve ha lasciato cadere lungo il suo percorso, Luca – così il professor Grecchi m’invita a rivolgermi a lui fin da subito, considerando anche me in qualche modo un amico di Costanzo – si rabbuia un poco. Ad oggi, di germogli ancora non se ne vedono sbucare. Ma Grecchi è convinto sia solo questione di tempo, poiché le grandi intuizioni necessitano talvolta di molti anni per venir colte ed elaborate.
Il tempo di Costanzo Preve deve dunque ancora venire. Questo il destino di tutti coloro che hanno rappresentato l’avanguardia del pensiero. E questa la convinzione di tutti noi che i suoi libri li abbiamo letti, amati, e anche criticati come lui per primo avrebbe voluto.
Nel pensiero di Costanzo che vivendo ci fu caro,
pensiamo la sua memoria, ma… Venturi non immemor aevi.
Il cartiglio sullo stemma di uno del martiri della Rivoluzione napoletana del 1799, Gennaro Serra di Cassano, reca una scritta che, per la sua espressione incipitale (Venturi), sollecita a proporne la lettura (o la rilettura) anche a tutti gli estimatori e amici di Costanzo:
Venturi non immemor aevi
Vi si esprime l’esigenza di saldare il passato al futuro e il futuro al passato. Il futuro che si riverbera così nel passato, come il passato – quasi transitando per il presente – attende, a sua volta, la sua ventura rammemorazione, orientando il futuro stesso. Come se il futuro svernasse nel passato, raccogliendo le aspettative e le speranze sinora inascoltate in vista della loro realizzazione. E dunque, caro Costanzo, “ad multos annos” per i semi che hai lasciato: questo l’augurio, per una nuova “avventura” che occorre desiderare (avventura, l’andare verso le cose future, ad ventura), aspirando e impegnandosi sempre a dare un senso alla propria vita proiettandola nell’altrove della “buona utopia”, che è assoluta negazione dell’indeterminato capitalistico, una concreta “utopia comunitaria” perseguita secondo itinerari da inventare, progettare, non immemor aevi venturi. È questa la sostanza della “passione durevole” che a partire da Lukács hai trasmesso a molti.
Carmine Fiorillo
*[Non immemor, Non immemore / Aevi (genitivo di aevus, aevi; età, vita, epoca, periodo della storia passata, esistenza, speranza o durata della vita umana) / Venturi (genitivo di venturus, venturi; venturo, futuro; come sostantivo neutro venturum, venturi: il futuro)].
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