Immanuel Kant (1724-1804) – Il melanconico ha dominante il sentimento del sublime.

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«La persona il cui sentire tende al melanconico non viene così definita perché, priva delle gioie della vita, si strugge in una oscura malinconia, ma perché le sue sensazioni, quando si dilatano oltre una certa misura, o imboccano una direzione errata, approdano a questa tristezza dell’anima più facilmente che ad altre condizioni di spirito. Il melanconico ha dominante il sentimento del sublime».

Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, a cura di L. Novati, Fabbri, Milano 2003, p. 95.


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera di Kant a Marcus Herz. «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».
Immanuel Kant (1724-1804)  – Ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità. Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo.

Joaquín Rodrigo, Concierto de Aranjuez (1939)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Dino Formaggio (1914-2008) – La questione della «morte dell’arte» è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.

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V’è una questione al centro dell’estetica hegeliana, ed infine di tutta la cultura contemporanea, che ha assunto da molto tempo ai nostri occhi una dimensione teoreticamente rilevante e di capitale importanza anche culturale. E, questo, non solo per una certa chiave interpretativa dell’essenza dialettica che caratterizza il movimento dell’arte contemporanea: chiave che, come pensiamo di poter dimostrare, essa tiene celata nel suo difficile nodo. Ma, ben più in là di questo, per la possibilità ch’essa offre, nel suo fondo teoretico, di un preciso evidenziarsi, sul piano della cultura contemporanea, di una caratteristica idea d’artisticità: e, quindi, per le basi che in questo processo di evidenza possono essere ritrovate, affinché una nuova consapevolezza eidetica e fenomenologica si fondi di fronte ai mutevoli livelli dell’esperienza artistica ed una più aperta ed insieme più rigorosa teoria generale dell’arte possa sorgere su tale acquisita consapevolezza.

Questa questione fondamentale è quella nota come la questione della «morte dell’arte». Un dibattito sorto da un disagio e dalle inquietudini dell’anima romantica in mezzo al volgere sempre più precipitoso della circostante società e della storia, una disputa venuta in chiaro tra Schiller, Novalis ed Hegel, esplosa nell’estetica hegeliana e poi non mai del tutto sopita, anzi di recente rinfocolata, in diversi strati della riflessione, sotto l’urto degli stessi movimenti artistici più avanzati, in tutte le arti e nella connessa teoria.

Un dubbioso quesito pregiudiziale è bene subito toglier di mezzo. Si tratta della questione terminologica: nella lingua italiana il termine «morte» ha una certa pesantezza o naturalistica o mistica. Per cui mal si adatta a significare quel vivo pensiero dialettico, che porta ben al di là della «fine» o comunque del finire, del morire contrapposto e antitetico al nascere. Tenuto conto di questo, preferiamo, tuttavia, «morte» (anziché «fine», come fa – coerentemente, del resto, con la sua tesi – il Croce); con l’avvertimento, cioè, che intendiamo assumere questo termine dal centro stesso dialettico del pensiero hegeliano, già ben chiaro nei noti scritti giovanili, ad esempio nel frammento sull’Amore. È pur vero, poi, che, in genere, per parlare di «morte dell’arte» Hegel userà in prevalenza il termine Auflösung, (dissoluzione-risoluzione); ma anche questo significato può meglio esser recuperato, mi sembra, in un’assunzione dialettica, almeno per il nostro caso, del termine «morte», con la soprindicata precisazione.

Del resto, proprio la disputa sorta in Italia negli ambienti hegeliani, dal De Sanctis al De Meis, usa ripetutamente le espressioni «morte dell’arte», «morte della poesia» (quest’ultima soprattutto) forse con più ragione di quanto non si sia mai creduto e proprio nei confronti della loro validità interpretativa del pensiero dello Hegel.

La questione della «morte dell’arte», dunque, è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.

Uno dei compiti che mi propongo, a questo punto, consiste propriamente nel far venire in evidenza tutto il rilievo che questa fondamentale ed ancor oggi attualissima questione assume non soltanto per l’interpretazione dei vari movimenti dell’arte contemporanea dal Romanticismo ai giorni nostri, ma per la necessaria e quanto mai urgente analisi preliminare ad ogni fondazione di una teoretica generale dell’arte – o, se si preferisce, di una Estetica generale e speciale –, oggi. Voglio dire che si tratta di un passaggio obbligato, per chi vuol avviarsi nel nostro tempo con qualche sicura consapevolezza a ricerche teoriche sull’arte. Il non averne prese in considerazione tutte le oscure e spesso variamente aggrovigliate implicazioni, l’aver trattato questa questione di volo ed in superficie, ha segnato troppe volte l’indice d’arresto e la dogmatica chiusura di una ricerca in atto.

Com’è avvenuto per Benedetto Croce. Tutti conosciamo la famosa sua tesi, poi strenuamente difesa in polemica col Bosanquet, tendente ad interpretare le affermazioni del pensiero hegeliano a questo proposito come quelle che volevano indicare la definitiva ed avvenuta «fine» dell’arte. E sappiamo come tutto questo possa benissimo rientrare nel grande solco della ermeneutica hegeliana allo stesso titolo e con le stesse polarizzazioni di significato (più o meno metafisica) per cui v’entra la questione – esteriormente analoga – della fine della filosofia.

Ma non è questo il punto: non credo, cioè, che oggi si possa rispondere a quesiti di questo genere con un sì o con un no. La disputa Croce-Bosanquet sul modo di intendere la lezione dei testi hegeliani in proposito, se dunque l’arte si debba dare per storicamente ed effettivamente morta oppure no, direi che non ha più – né può più avere – alcuna seria rilevanza oggi.

Piuttosto è da vedere (e solo in questo modo, a mio avviso, riacquista pieno ed attuale interesse il problema) quale sottile nodo di significati stava sotto quella questione e quali ideali intenzionalizzazioni, quali emergenze di verità, da quel nodo di significati partiva per irradiarsi in tutto il corpo e il corso futuro dell’esperienza artistica e per continuare poi a vibrarvi dentro, come la sua stessa essenza palpitante, fino all’arte dei nostri giorni.

Rimane dunque inteso fin d’ora che, pur nell’obbligo, al quale mi accingo, di ritornare sui testi (spesso anche con ostinata minuzia) per mettere a fuoco filologicamente la vasta questione della «morte dell’arte», non è davvero né l’accertamento né la risposta al quesito se l’arte sia o non sia finita nei tempi fra Hegel e Croce che si dovrà cercare; ma, piuttosto, tutto il senso complesso e fecondo che, da sotto la dura scorza di quei concetti, si veniva aprendo e disseminando nell’oscuro vento dell’esperienza e della storia contemporanea.

È in questa nostra esperienza contemporanea che tutti, in misura diversa e per diverse vie, abbiamo ormai «vissuto» la morte dell’arte. Essa è dentro di noi, irreversibile storia. Ma tutto quello ch’era in sua potenza di significare, forse non è ancora stato interamente significato. Noi non possiamo che avvicinare alcune delle molte direzioni intenzionali di sviluppo che la totalità di verità di un tale insieme intuitivo –folgorato dapprima in senso moderno nei cieli del Romanticismo – cela dentro di sé per la storia dell’uomo. E lo possiamo fare solo partendo dal principio. Un modo di risalire a questo principio può essere la riconsiderazione di quell’occasione italiana che fu la disputa del Croce intorno alla “fine dell’arte” in Hegel.

Dino Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, pp. 25-27.


Dino Formaggio (1914-2008) – Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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María Zambrano (1904-1991) – Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire. La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. È intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce.

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«Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire quello che sentiremmo in ogni caso, ma senza osare, e che resterebbe per questo sospeso a metà nascita, come quasi sempre succede al nostro sentire. È per questo che la vita di tanta gente non va oltre il conato, un conato di vita. E questo è grave, perché la vita deve essere piena in qualche modo, in questo conato di essere che siamo»  (p. 41).

«La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. Se la vita aspira a farsi terrena, chiede ugualmente di rendersi intelleggibile e non ha altra dimora se non la trasparenza; è intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce» (p. 42).

María Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires, 1950. In versione italiana: Verso un sapere dell’anima, a cura di E. Nobili, Cortina, Milano, 1996, p. 41.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.
María Zambrano (1904-1991) – La finalità si sveglia, e quando arriva così è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo facendoci sentire che dobbiamo agire.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto.
María Zambrano (1904-1991) – Persona è colui che nella vita lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carl Gustav Jung (1875-1961) – Solo la coscienza può individuare ciò che è privo di valore. Solo la coscienza può riconoscere questa funzione come pregevole e quella come priva di valore. Dove non vi è coscienza, dove regna ancora sovrano l’elemento istintuale inconscio, non vi è riflessione

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«Alla distinzione cosciente si deve senz’altro la separazione delle coppie di opposti, giacché solo la coscienza può individuare ciò che è conveniente e distinguerlo da ciò che non lo è o che è privo di valore. Solo la coscienza può riconoscere questa funzione come pregevole e quella come priva di valore e perciò fornire alla prima la forza della volontà respingendo in tal modo le pretese della seconda. Dove non vi è coscienza, dove regna ancora sovrano l’elemento istintuale inconscio, non vi è riflessione, non vi è un pro e un contro, e non vi è disaccordo, bensì un semplice succedersi di eventi, ordinata istintualità, proporzione di vita».

Carl Gustav Jung, Tipi psicologici (l921), tr. it. in Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino 1969, p. 120.


Carl Gustav Jung (1875-1965) – Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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