Salvatore Bravo – La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica.

Metafisica umanistica compendio bravo
Salvatore Bravo
La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi,
ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica
e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica

Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica.

ISBN 978-88-7588-201-3, 2017

indicepresentazioneautoresintesi

Necessità della metafisica
La necessità della rifondazione della metafisica è un’urgenza non procrastinabile. Il tramonto dell’Occidente coincide con la fine della metafisica.
Ma la metafisica è progettualità onto-assiologica. Una civiltà senza metafisica rinuncia ad ogni progettualità e rinuncia specialmente alla verità. Si configura una civiltà strutturalmente violenta: l’essere umano è solo nuda vita disponibile per il mercato, il quale ha come obiettivo il solo guadagno. L’economicismo diviene l’architrave della violenza che capillarmente si infiltra e si espande con l’effetto di produrre la barbarie tecno-crematistica. Nessuno spazio è lasciato alla libertà processuale umana, nessuna riflessione sui fondamenti ontologici ed etici.
L’abbandono della metafisica implica l’incapacità nel giudicare l’assetto sociale attuale. L’ostilità è specialmente di tipo ideologico, poiché l’essere umano – spogliato della sua capacità significante e metafisica – non è che vita offerta al mercato. Si è, in tal modo, servitori fedeli delle catene che obbligano ad una vita che nega il suo fondamento metafisico. La caverna oscura – con la sua buia ignoranza – è la normalità dell’Occidente senza metafisica.
L’infelicità ed il vuoto assiologico divengono acceleratori del consumo che spingono i popoli verso le passioni tristi. La “solitudine del cittadino globale” dinanzi al mercato è solitudine metafisica:

«Il mercato infatti, da solo, non è per sua natura in grado di mettere in contatto il bisogno insoddisfatto di beni/servizi di milioni di poveri, ed il bisogno insoddisfatto di lavoro, ossia di partecipazione sociale, di milioni di disoccupati. I primi, senza denaro, non possono produrre una domanda di mercato; i secondi, senza quella domanda, non possono produrre una offerta sul mercato del lavoro. Il mercato ragiona solo sul denaro e sul profitto, non sui bisogni e sulla felicità delle persone, che non riesce strutturalmente, ossia per essenza (è il fine che determina l’essenza: ed il suo fine è altro), a realizzare. Per evitare quindi che bisogni sociali importanti (cibo, medicine, ecc.) rimangano insoddisfatti, mentre – con forte stridore – milioni di persone rimangono disoccupate (o impegnate in attività futili, quando non dannose), occorre necessariamente affidarsi a modalità sociali pubbliche e comunitarie, statuali o meglio ancora sovrastatuali, che coordinino quanto è necessario produrre e come produrlo».[1]

 

La metafisica come ricerca
Luca Grecchi nel suo lavoro-ricerca di tipo filosofico ha non solo reso palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma specialmente ne sta rielaborando i fondamenti. La metafisica umanistica di Grecchi riconosce l’anima-razionalità umana quale fondamento onto-assiologico della natura umana. Il riconoscimento della razionalità, quale fondamento metafisico, non implica l’esclusione dall’orizzonte metafisico della trascendenza divina, ma constata che “attualmente” non abbiamo elementi che possano suffragare il fondamento divino, e che all’interno della storia metafisica tale principio primo è rimasto indimostrato.

Non si tratta né di ateismo, né di agnosticismo, ma di una postura aperta al possibile e sempre disponibile a riformulare e ridefinire il fondamento metafisico. Dove vige il dialogo filosofico i problemi non sono mai risolti in modo imperituro, ma sempre possono essere riconfigurati. L’assoluto, pertanto – nella condizione attuale –, non può che essere il logos, il quale non solo mette ordine al caos delle pulsioni, ma definisce i bisogni autentici della natura umana. Quest’ultima per natura è razionale, ovvero ha le potenzialità per calcolare le necessità autentiche dai bisogni indotti, per cui il fondamento giudica i valori, e li definisce; in tal mondo la metafisica si ricongiunge all’asse assiologico:

«Faccio qui riferimento in parte a quanto detto in precedenza circa la distinzione fra Principio e fondamento. Il Principio è quell’insieme di cause materiali, formali, finali ed efficienti, che hanno reso possibile l’essere ed il divenire del tutto. L’Uomo è il fondamento della comprensione di questo essere e divenire, l’unico ente dotato di capacità trascendentale, e pertanto il solo ente in grado di attribuire senso e valore alla realtà: in questo senso, sul piano onto-assiologico, può considerarsi l’Assoluto. Occorre però comprendere bene il significato della proposizione “L’Uomo è, sul piano onto-assiologico, l’Assoluto”, che è la prima proposizione inerente il Fondamento che mi propongo di analizzare».[2]

La realtà storica in cui si esplica la natura, si può modificare, ma non si può annichilire. La natura umana non è infinitamente modificabile, come vorrebbero gli assertori del totalitarismo del capitale. Non a caso il malessere generalizzato indotto dall’attuale sistema, induce verso desideri illimitati e dunque irrazionali non rispondenti alla natura umana:

 

«La realtà naturale, infatti, si può comprendere e – almeno entro certi limiti – modificare, ma non giudicare; la realtà sociale, invece, si può comprendere, modificare – sempre entro certi limiti, e prendendo come riferimento la natura umana –, ma soprattutto si può (e, direi, si deve) valutare. In questo senso più specifico l’Uomo è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere: nel senso che costituisce il solo riferimento valutativo del senso e del valore della realtà, del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto».[3]


Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero

ISBN 978-88-7588-061-3, 2012, pp. 240

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura

Tra ciclopi e lotofagi [4]
Il fondamento metafisico necessita del passaggio dalla potenza all’atto, pertanto tale passaggio dev’essere favorito dall’educazione, in primis, e dalla comunità. In tal modo la metafisica di Aristotele vive in feconda tensione con Platone: l’atto e la potenza è il binomio dinamico che pone le condizioni, affinché il soggetto possa giungere al bene, e dunque alla consapevolezza della natura veritativa. Non a caso Platone pone il bene all’apice della gerarchia delle idee: il bene è razionalità, calcolo e misura. Senza fondamento metafisico, non vi è “bene” né individuale né collettivo; al suo posto si afferma la società dei ciclopi e dei lotofagi, già descritta da Omero, creature che regrediscono a pura ferinità, dominate da appetiti senza misura e senza etica. I ciclopi ci ammoniscono sui pericoli di una civiltà senza metafisica e senza bene. Regnano, senza metafisica e senza bene, il caos e la violenza generalizzata. L’anomia, l’assenza di leggi etiche condivise, comporta il pericolo per tutti, e la condanna a vivere senza identità e senza coscienza di sé, per cui ciascuno è nessuno, ed il niente minaccia la vita di ognuno:

«Il primo incontro “violento” del viaggio di Odisseo, dopo aver lasciato il territorio dei Lotofagi (solo apparentemente però innocui, come mostreremo poco oltre), fu quello coi Ciclopi; si tratta, come noto, di figure mitiche di giganti con un solo occhio, residenti sulle pendici dell’Etna, i quali, “prepotenti e senza leggi, fidando negli dèi immortali, non piantano alberi con le loro mani, né arano la terra” (Odissea, IV, vv. 105-108). La prima caratteristica dei Ciclopi è dunque quella di non essere una comunità, né economica, né sociale, né politica; essi non praticano l’agricoltura, come invece fanno i popoli civili, ma, soprattutto, “non hanno assemblee per deliberare, né leggi, ma abitano la sommità di alti monti, in profonde spelonche; ciascuno comanda ai figli ed alla moglie, e non si curano gli uni degli altri” (Odissea, IX, vv. 112-115). La a-nomia, ossia la assenza di leggi dei Ciclopi, li rese nel tempo simpatici ai Cinici (soprattutto ad Antistene), ma non ad Odisseo che, recatosi nella loro isola in cerca di cibo, scoprì che essi erano “prepotenti e selvaggi, senza giustizia” (Odissea, IX, 174-176), antropofagi e miranti esclusivamente al loro materiale benessere».[5]

Lotofagi e ciclopi sono metafore della negazione della natura umana, la quale è razionalità etica che – per essere tale – necessita di memoria della propria storia personale e collettiva, perché la memoria e l’esperienza permettono di perfezionare la natura umana, la cui realizzazione è sempre in itinere. I lotofagi descritti anch’essi da Omero sono il simbolo della miseria dell’abbondanza: la soddisfazione degli appetiti senza misura ha l’effetto di causare la dimenticanza di sé e dei propri doveri morali.

«Le metafore qui utilizzate – ovvero quella più “contemporanea” della droga, o quella più “omerica” della morte – sono solo due possibili interpretazioni simboliche di questo mito; ve ne possono però essere diverse altre, poiché molti sono i modi con cui ci si può allontanare “volontariamente” (a causa, in realtà, della seduzione e della propria fragilità) dalla propria umanità, specie in un mondo come l’attuale che produce appunto, al contempo, seduzioni e fragilità. Pensiamo a come spesso i consumi mercificati siano simili alle droghe; pensiamo alla dipendenza dal gioco d’azzardo, o anche dai viaggi-vacanze, solo all’interno dei quali molte persone hanno l’impressione di “essere felici”: si tratta, in realtà, di forme compensative di un disagio interiore, che contribuiscono però ad acuire questo disagio e non a risolverlo, in quanto la sola soluzione di questo disagio si trova in un giusto e sensato rapporto con se stessi e con la comunità sociale. L’uomo è infatti un ente sociale che ricerca un senso per la propria vita, dato che è consapevole della propria morte; la vita apparentemente tranquilla metaforizzata dai Lotofagi può accontentare degli animali, ma non certo degli uomini. Per gli uomini, omerici e non, queste forme seduttive costituiscono soltanto delle modalità, in apparenza non violente, con cui però ci si allontana dalla propria vera umanità».[6]


Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi più) filosofia.

ISBN 978-88-7588-116-0, 2013, pp. 48.
In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, tempera su tela, 1568. Museo di Capodimonte, Napoli.

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Filosofia e metafisica
La filosofia nell’attuale contesto sociale non è solo di ausilio, ma imprescindibile per rispondere alla tragedia etica in atto. L’educazione filosofica coniugata con la storia risponde ai bisogni umani. Il ridimensionamento della filosofia classica, la quale ha per oggetto la verità, è la spia evidente della penetrazione del nichilismo mercantile nelle aule universitarie e scolastiche asservite ai bisogni del solo mercato:

«Nell’attuale disastro della società e della scuola, solo la filosofia intesa in senso classico può fornire ai giovani quella necessaria educazione importante per essere insieme, a pieno titolo, uomini e cittadini, non semplici produttori o consumatori. Solo una educazione filosofica in senso classico, che deve essere al contempo storica – come dimostrano le opere di Platone, Aristotele, Hegel e Marx, e come dimostra per converso la pressoché totale decontestualizzazione storico-sociale della filosofia accademica contemporanea, specie anglosassone –, può infatti educare alla cura delle potenzialità onto-assiologiche presenti nella natura umana».[7]

La parcellizzazione dei saperi risponde ai bisogni specialistici del mercato e non dell’essere umano. La specializzazione dei saperi è utile ai bisogni immediati, ma non consente di fondare la progettualità comunitaria a misura di natura umana:

«Le facoltà di filosofia oggi, per come sono strutturate, impediscono la comprensione e la valutazione dell’intero. Di metafisica, ossia del sapere rivolto all’intero, si parla certamente ancora, ed anzi esso è un sapere addirittura “di moda”, dato che se ne occupano la filosofia analitica, la logica formale, la teologia, ecc. Tuttavia, tale metafisica di cui oggi l’università si occupa, concerne appunto temi “analitici”, o “formali”, o “trascendenti”, non certo contenuti onto-assiologici, ossia di senso e di valore, come invece era nella metafisica di Platone e di Aristotele».[8]

La prova più concreta della necessità della metafisica, è il silenzio che è calato su di essa negli ultimi decenni. Tale silenzio dimostra la pervasività del sistema capitale, il quale pur di inibire ogni discorso razionale sulla totalità ha asservito il mondo accademico divenuto complice della conservazione in atto:

«Le facoltà di filosofia, oggi, impediscono nella sostanza la critica ed il dialogo costruttivo, su cui si è invece forgiata la filosofia. Non, certo, che non siano ammesse pacate ed argomentate obiezioni a risultati parziali o generali di studi specialistici. Esse sono sempre benvenute, in quanto la ricerca accademica, non producendo quasi più elaborazioni onto-assiologiche dell’intero, si giustifica principalmente su questo tipo di progressi. Tuttavia, salvo eccezioni, i docenti si rivolgono agli studenti scoraggiandoli dall’affrontare il discorso filosofico nel modo in cui facevano i classici, ossia prendendo di petto il tema della totalità ed affrontandolo in maniera autonoma».[9]

La resistenza propositiva al sistema, in tale condizione storica, non può che avvenire fuori dalle aule universitarie. La filosofia in ogni epoca ha bisogno di eroi, questa è un’epoca in cui la difesa dell’umanità non può che concretizzarsi in atti e comportamenti donativi. La Filosofia è – per sua fondazione – trasgressiva e critica rispetto ai poteri costituiti. Deve pertanto tornare ad essere tale, altrimenti, rischia di perdersi nel nichilismo dei mercanti:

«Nella sua disinteressata ricerca della Verità e del Bene, la filosofia non deve essere al servizio di niente e di nessuno. Questa disinteressata ricerca, tuttavia, è per sua essenza finalizzata alla costituzione della migliore totalità sociale, ossia delle più umane modalità di vita. Questa la sua utilità pubblica, da molti oggi – politici, scienziati, intellettuali – non riconosciuta. È questo anche il problema del “senso”, così mediaticamente irriso da una generazione accademica cinica ed indifferente in larga parte dei suoi membri più influenti. Il “senso della vita”, che i giovani studiosi di filosofia solitamente ricercano, non è la mera consolazione esistenziale che la filosofia sicuramente offre, come già molti secoli fa colse Severino Boezio».[10]

Archiloco

L’umanesimo di Grecchi non si intreccia soltantoo con la metafisica, ma anche con la storia letta attraverso il paradigma veritativo. È un’operazione finalizzata a mostrare il carattere carsico della metafisica, la quale scorre attraverso civiltà e periodi storici differenti. In tal modo si dimostra la sua universalità declinata nella polisemia espressiva della storia. Si tratta di ricongiungere i sentieri interrotti che la furia della specializzazione ha rescisso:

«Per sottolineare, ancora, la continuità dell’etica greca, occorre rimarcare che anche chi sostiene che l’etica omerica fu sostanzialmente di tipo “eroico” può verificare che questo ideale, pur diversamente declinato nei secoli, fu presente quanto meno anche in tutta l’epoca classica; fecero eccezione infatti, nell’opera letteraria greca, solo affermazioni come quella di Archiloco (fr. 6 DK), il quale si vantò di aver gettato via lo scudo in guerra – azione considerata assai poco dignitosa – per fare salva la vita. L’ideale dell’eroismo si trasformò presto nell’ideale dell’aristocrazia dell’anima, rivolto alla difesa della comunità sociale. Questo il trait d’union di Omero con Platone e l’epoca classica, ottenuto coniugando l’eroismo in chiave umanistica. Per concludere, occorre rimarcare come l’etica omerica si incentri, come già rilevato in precedenza parlando dell’umanesimo omerico, sui concetti di “limite” e di “misura” (in rapporto alla potenziale sfrenatezza degli istinti e delle passioni)».[11]

Resistere significa, dunque, interrogare la storia ed i classici per tracciare nuovi percorsi che si ricongiungono con le verità che si sono rivelate nella storia. La resistenza civile ed intellettuale deve radicarsi nella tradizione senza rifiuto del nuovo per poter riportare l’umanità dove imperano la seduzione delle merci e gli automatismi senza concetto.

Salvatore Bravo

 ***

[1] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2017, pag. 35.
[2] Ibidem, pag. 26.
[3] Ibidem, pag. 12.
[4] Lotofagi, dal greco lōtophágos, comp. Di lōtós, ‘loto’, e della radice di phageîn ‘mangiare’.
[5] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia 2012, pag. 151.
[6] Ibidem, pag. 163.
[7] Luca Grecchi, Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pag. 21.
[8] Ibidem, pag. 26.
[9] Ibidem, pag. 26.
[10] Ibidem, pag. 35.
[11] Luca Grecchi, L’umanesimo di Omero, op. cit., pag. 95.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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William Morris (1834-1896) – Impegnamoci a custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. Non rendiamo la terra un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma anche una prigione disperata.

William Morris 01
Book 012

«Ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri.
Non c’è neppure tempo da perdere, lasciando questo problema irrisolto, fino ai nostri ultimi giorni, affinché siano i nostri figli a risolverlo; perché l’umanità è inquieta e avida, e il desiderio di oggi ci fa scordare i proponimenti di ieri; ogni volta che nel perseguire una meta smettiamo di aspirare alla perfezione, ecco che la corruzione, sicura e rapida, uccide ogni speranza e tutto soccombe e cade nell’oblio; abbiamo tempo abbastanza per qualsiasi cosa: per popolare i deserti; per abbattere le frontiere tra nazione e nazione; per scoprire i più reconditi segreti dell’essenza delle nostre anime e dei nostri corpi, dell’aria che respiriamo e della terra che ci sostiene [ … ]: ma se vogliamo rivolgere la nostra attenzione e il nostro curioso desiderio alla bellezza della terra, non c’è un minuto da perdere, nel timore che il continuo flusso delle necessità umane si abbatta su di essa e la renda, non un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma una prigione disperata; nel timore, infine, di scoprire che l’uomo ha penato, ha lottato, ha vinto e piegato tutte le cose terrene sotto i suoi piedi, solo per rendere la propria esistenza più infelice».

William Morris

  • La terra cava (The Hollow Land, 1856)
  • La difesa di Ginevra ed altre opere (The Defence of Guinevere and other Poems, 1858);
  • La vita e la morte di Giasone (The Life and Death of Jason, 1867);
  • Il paradiso terrestre (The Earthly Paradise, 1868–1870);
  • L’amore è abbastanza (Love is Enough, or The Freeing of Pharamond, 1872);
  • La caduta dei nibelunghi (The Story of Sigurd the Volsung and the Fall of the Nibelungs, 1876);
  • Speranze e timori per l’arte (Hopes and Fears For Art, 1882);
  • Un sogno di John Ball (A Dream of John Ball, 1886);
  • The House of the Wolfings (1888);
  • Lavoro utile, fatica inutile. Bisogni e piaceri della vita, oltre il capitalismo (1888-1894)
  • Le radici delle montagne (The Roots of the Mountains, 1889);
  • Notizie da nessun luogo (News from Nowhere, 1890);
  • The Story of the Glittering Plain (1890);
  • La fonte ai confini del mondo (The Well at the World’s End, 1892);
  • Il bosco oltre il mondo (The Wood Beyond the World, 1895);
  • Le acque delle meravigliose isole (The Water of the Wondrous Isles, 1896);
  • The Sundering Flood (1898).
William Morris, ritratto da George Frederic Watts, 1870.

  • Guido Bulla, William Morris fra arte e rivoluzione, Cassino, Garigliano, 1980.
  • (EN) Robert L. M. Coupe, Illustrated Editions of the Works of William Morris in English: A Descriptive Bibliography (PDF), 1ª ed., New Castle, Oak Knoll Press, 2002.
  • Amanda Hodgson, The Romances of William Morris, Cambridge, Cambridge University Press, 1987. 
  • Francesco La Regina, William Morris e l’Anti-Restoration Movement, in “Restauro”, nn. 13-14, maggio-agosto 1974.
  • David Latham (a cura di), Writing on the Image: Reading William Morris, Toronto, Toronto University Press, 2006. 
  • Mario Manieri Elia (a cura di), William Morris: opere, Bari-Roma, Laterza Editore, 1985.
  • Bianca Gioia Marino, William Morris. La tutela dei monumenti come problema sociale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993.
  • Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Design: From William Morris to Walter Gropius, Londra, Penguin Books, 1991. 
  • Tony Pinkney, William Morris in Oxford. The Campaigning Years, 1879-1895, Grosmont, Illuminati, 2007.
  • Eleonora Sasso, William Morris tra utopia e medievalismo, Roma, Aracne Editrice, 2007
  • E. P. Thompson, William Morris. Romantic to Revolutionary, Londra, PM Press, 2011 [1996]
  • Lavoro utile, fatica inutile. Bisogni e piaceri della vita, oltre il capitalismo, con una biografia scritta da E. P. Thompson; tradotto da David Scaffei, Roma, Donzelli Editore, 2009.
Artichoke wallpaper (1897)
La Belle Iseult (1858). La modella è Jane Burden, moglie dello stesso Morris
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Thomas Stearns Eliot (1888-1965) – La curiosità dell’uomo scruta il passato e il futuro, ma comprendere il punto  in cui l’eterno s’interseca col tempo è qualcosa che viene dato e perso in una morte d’amore che è di tutta la vita, ardore ed altruismo e abnegazione.

Thomas Stearns Eliot 001
Margherita Guidacci

Il fuoco e la rosa

I Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot

A cura di Ilaria Rabatti

ISBN 978-88-7588-008-8, 2006, pp. 256, Euro 22 – Collana “Egeria” [8]

indicepresentazioneautoresintesi

Men’s curiosity searches past and future
And clings to that dimension. But to apprehend
The point of intersection of the timeless
With time, is an occupation for the saint –
No occupation either, but something given
And taken, in a lifetime’s death in love,
Ardour and selflessness and self-surrender.

La curiosità dell’uomo scruta il passato e il futuro,
Si aggrappa a quella dimensione. Ma comprendere
Il punto  in cui l’eterno s’interseca col tempo
È occupazione da santi, anzi nemmeno occupazione,
Ma qualcosa che viene dato e preso
In una morte d’amore che è di tutta la vita,
Ardore ed altruismo e abnegazione.

***

Traduzione di Margherita Guidacci

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Disunitevi in nome del capitale. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica: i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine.

Davide Hume 01
Salvatore Bravo
Disunitevi in nome del capitale.
Il neoliberismo ha la propria visione antropologica:
i suoi fondamenti sono basati nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine

 

«Proletari di tutto il mondo unitevi». Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels si concludeva con l’appello all’unità, alla contraddizione dialettica per superare le ingiustizie e le sperequazioni sociali. L’unità e la consapevolezza di classe scorrono carsiche in tutte le opere di Marx: i dati economici, la critica economica, la scoperta del plusvalore e del valore di scambio sono la denuncia di Marx al “sistema capitale”. La prassi esige la denuncia teorica. Questo binomio consente la prassi, ma solo se fondata sulla fiducia, solo se l’altro con cui si condivide destino sociale e consapevolezza non è percepito come una minaccia, ma come compagno di lotta con cui condividere il sudore della passione politica. Il sudore è qui utilizzato nella sua accezione biologica e simbolica. La lotta è vicinanza, è carnalità in relazione, è la singolarità che vive in tensione con il gruppo, essa è contatto visivo, tattile e olfattivo Le idee emergono dal vissuto, dalla condivisione della carne negli spazi vissuti. Senza tale realtà e verità fenomenologica non vi è che il nulla. La dialettica è il fondamento dell’unità e della consapevolezza. L’io deve incontrarsi con il tu, senza tale relazione le idee non emergono, vi è solo timore e tremore, vi è solo la creatura isolata e depotenziata. L’esperienza Covid-19 consente un giusto e razionale sospetto, ovvero che si voglia rendere non eterni i provvedimenti di distanziamento sociale, ma si voglia abituare al distanziamento sociale. Si progetta di inoculare, in modo costante, il sospetto verso l’altro. Si sta strutturando in modo definitivo l’atomismo sociale mediante l’abitudine all’isolamento.

 

L’abitudine all’isolamento
Educato l’essere umano al distanziamento, a percepire l’altro come un pericolo potenziale, il dopo Covid-19 renderà la divisione e l’isolamento un automatismo. Alla competizione agonica del liberismo si sarà aggiunto un altro livello di isolamento più profondo: l’altro è potenzialmente mortale, è portatore non di idee o di amicizia, ma di virus aggressivi da cui è necessario difendersi ponendolo a distanza. Il neoliberismo ha la propria visione antropologica che basa i suoi fondamenti nell’empirismo di Hume, per il quale l’essere umano è abitudine, pertanto la ripetizione del gesto, in questo caso del distanziamento sociale, produce comportamenti automatici duraturi:

Qualcuno forse mi domanderà se sono veramente convinto di ciò che mi affatico tanto a dimostrare, se sono realmente uno di quegli scettici che sostengono che tutto è incerto e che il nostro giudizio non ha alcuna misura del vero e del falso in nessuna cosa. Rispondo che la domanda è del tutto superflua, e che nessuno, né io né altri, è stato mai sinceramente e costantemente di quest’opinione. Per un’assoluta e irresistibile necessità, la natura ci porta a giudicare come a respirare e a sentire; né possiamo trattenerci dal considerare certi oggetti sotto una luce più forte e piena a causa della loro abituale connessione con un’impressione presente, di quel che possiamo impedirci di pensare finché siamo svegli o di vedere i corpi circostanti quando volgiamo gli occhi attorno in pieno mezzogiorno. Chiunque si è preso la pena di confutare i cavilli di questo scetticismo totale, ha in realtà discusso senza avversari e ha cercato di sostenere con argomentazioni una facoltà che la natura ha precedentemente ben radicata nello spirito e resa inevitabile. La mia intenzione nell’esporre con tanta cura gli argomenti di tale setta fantastica, è soltanto di convincere il lettore della verità della mia dottrina: che, cioè, tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivano dall’abitudine, e che la credenza è più propriamente un atto sensitivo che un atto cogitativo della nostra natura. Io ho provato che gli stessi princípi che ci portano a giudicare di un oggetto e a correggere poi questo nostro giudizio con la considerazione delle nostre inclinazioni e capacità, dello stato della mente quando consideriamo quel soggetto: questi stessi princípi, dico, quando sono estesi e applicati ad ogni nuovo giudizio riflesso, con la continuata diminuzione dell’evidenza primitiva, devono da ultimo ridurre questa a niente e sovvertire completamente tutte le nostre credenze e opinioni. Se la credenza [belief] fosse dunque un semplice atto del pensiero, e non un modo speciale di concepire con un aumento di forza e di vivacità, essa dovrebbe infallibilmente distruggere se stessa e riuscire in ogni caso a una totale sospensione del giudizio. Ma l’esperienza convincerà facilmente chiunque volesse farne la prova, che, per quanto possa non trovare nessun errore nei precedenti argomenti, tuttavia egli continua a credere, a pensare e ragionare come al solito; se ne può cosí tranquillamente concludere che il suo ragionamento e la sua credenza sono una certa sensazione, ossia una maniera speciale di concepire, che le semplici idee e riflessioni non possono distruggere[1].

 

Si associa l’altro ad una malattia con il risultato che la passione triste diventa il sentimento che veicola il trionfo della finanza ed il tramonto dell’occidente. L’occidente non potrà creare più nulla, ma solo produrre plusvalore e beni per il mercato. La regressione umana viene istituita per DPCM.

 

Imparare il distanziamento
L’abitudine all’isolamento palesa la verità del sistema capitale, il quale è profondamento antipolitico. La politica è il luogo della comunità in cammino, è la polis alla ricerca di configurazioni comuni. Con la fine della politica muore l’Occidente fondato sull’esperienza della città e del dialogo. Nel Fedro (227a-228e) Socrate afferma che non vuole andare in campagna, ma restare in città, perché solo in città si può imparare a diventare esseri umani con l’arte del logos e della maieutica. Con il distanziamento divenuto struttura emotiva non abbiamo nulla da imparare dagli altri, perché l’altro è veicolo di malattia, di morte, per cui i contatti vengono limitati. Non vi è settore della vita sociale che non sia coinvolta nel distanziamento, ovunque si deve imparare l’abitudine alla distanza.

– In strada il distanziamento avviene con l’uso di mascherine e distanza spaziale.
– In casa l’igiene fino all’ossessione rende la casa molto simile ad un sanatorio che accoglie potenziali malati.
– In chiesa si arriva al ridicolo, non solo i fedeli sono posizionati a debita distanza, all’ingresso ci si disinfetta, al momento di distribuire l’ostia il prete si igienizza le mani, indossa i guanti e la mascherina e passa tra i banche a distribuire l’ostia in mano ai fedeli. Il corpo di Cristo simbolo e sostanza (per i credenti) di unità, è negato nella sua verità.
– Lo smart working isola i lavoratori e specialmente il lavoratore paga i costi della gestione del mezzo di lavoro e dell’ambiente in cui avviene l’uso dal proprio reddito. I contatti con i colleghi sono sostituiti dalla digitalizzazione che verte solo su pratiche lavorative.

– A scuola si ipotizza l’isolamento mediante plexiglass: a scuola si impara la condivisione come in famiglia, per cui l’attacco è palese.

– Si progetta anche la didattica ibrida, come nuova frontiera innovativa della scuola, la DaD diviene organica alla scuola.

– Nei luoghi di lavoro non ci si tocca, non ci si saluta che con un’ incomprensibile emissione di suono a causa della mascherina.

 

Tacere e non ascoltare
La mascherina isola, rende la voce e le comunicazioni incomprensibili, per cui si impara a tacere e a non ascoltare, in alternativa si usano le tecnologie dalle quali si astraggono informazioni per la sorveglianza globale che opera attraverso il controllo concreto dei singoli. L’isolamento vocale, la disabitudine ad esprimersi è, forse, l’elemento più inquietante, che in pochi hanno rilevato. La mascherina è diventata da ausilio sanitario una nuova museruola sociale per colpire il logos e ridurre l’essere umano a pura funzione biologica.
Il dopo Covid-19 dovrà affrontare tali problematiche nel silenzio di partiti e sindacati, mentre in televisione scorrono immagini che educano all’isolamento sociale esaltandone gli effetti benefici. Nessun piano di recupero della socialità è previsto, e ciò dovrebbe indurci collettivamente a riflettere sull’uso strumentale del Covid-19. Un ultimo dubbio, mentre si esalta l’economia green ed i suoi effetti, nessuno ci spiega come verranno smaltite mascherine e plastica annessa. Le industrie della plastica fanno affari e lavorano per un mondo fatto solo di plastica.

Salvatore Bravo

[1] David Hume, Trattato sulla natura umana, Libro primo, Parte quarta, Sez. prima (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 888-889).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Insistere su certi scrittori e nutrirsi di loro, per ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico.

Lucio Anneo Seneca 007

«Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là, e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un’infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e di libri di ogni genere non sia un po’ segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavare un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico».

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, I, 2, 1-2.


Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) – Da quando il denaro ha iniziato a venire in onore, il reale valore delle cose è caduto in discredito. Gli uomini consacrano il denaro come espressione massima delle cose umane.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – Quale è la natura specifica dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Una tale ragione perfetta prende il nome di virtù, e altro non è che la coerenza morale.
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia non è un’arte di cui si possa fare ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. La filosofia forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi.
A. Seneca (4 a.C. – 65) – La filosofia si divide in sapere e disposizione d’animo. chi ha imparato e compreso che cosa si deve fare e che cosa si deve evitare non è ancora saggio, se il suo animo non si è trasformato in base a quanto ha appreso
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Leon Battista Alberti (1404-1472) – Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando. Non a me mancano i filosofi, apresso de’ quali io d’ora in ora me senta divenire più dotto anche e migliore.

Leon Battista Alberti 02

«Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando […]. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti, quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e della educazione de’ figliuoli, e del costumare e reggere la famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione della repubblica, cose ottime e approvatissime. Se m’agrada conoscere le cagioni e principi di quanto io vedo vari effetti prodotti dalla natura, s’io desidero modo a discernere el vero dal falso, el bene dal male, s’io cerco conoscere me stesso e insieme intendere le cose prodotte in vita […] non a me mancano i […] filosofi, apresso de’ quali io d’ora in ora a me stesso satisfacendo me senta divenire più dotto anche e migliore».

Leon Battista Alberti, Theogenius, in ID., Opere volgari, vol. II , Rime e trattati morali, a cura di C. Grayson, Laterza, Bari 1966.


Leon Battista Alberti (1404-1472) – L’animo degli studiosi sia acceso di virtù e di sapienza
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Mauro Peroni – Felicità possibile. Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

Mauro Peroni-Felicità

Mauro Peroni

Felicità possibile

Esercizi filosofici su sofferenza, desiderio e tempo

ISBN 978-88-7588-268-6, 2020, pp. 176, Euro 15 – Collana “Il giogo” [122]

indicepresentazioneautoresintesi

«Solo se pensi alla gente saprai qualcosa».

Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio

 

Questo libro si colloca sulla lunghezza d’onda di quelle che vengono chiamate “pratiche filosofiche”. Esse consistono in modalità di declinazione del filosofare che si prefiggono di integrare, senza volerle sostituire, le tradizionali forme accademiche dell’insegnamento e della ricerca scientifica indirizzata ad un circuito di fruizione prettamente specialistico. A segnare la distanza fra i due orizzonti è, soprattutto, il fatto che le pratiche filosofiche intendono farsi carico delle richieste di senso che circolano diffusamente nell’attuale scenario sociale. Più esattamente, esse provano a fornire possibili risposte a tali richieste: risposte che non esauriscano le domande ma le rendano sostenibili. Ciò significa che mentre la filosofia nella sua configurazione tradizionale tende a limitarsi a studiare il fenomeno contemporaneo della dolorosa mancanza di senso del vivere che molte esistenze vanno sperimentando, le pratiche filosofiche tentano di offrire, ad un’utenza la più vasta possibile, strumenti per ridurre questo spaesamento o almeno limitarne gli effetti più nocivi.

Va evidenziato che esse non costituiscono “applicazioni” della disciplina filosofica (così come, ad esempio, si danno forme di etica applicata all’economia o alla scienza), poiché invece muovono in direzione della promozione di un modo di essere filosofico. Laddove con questa espressione si intende – con chiaro riferimento al tema della saggezza tipico del filosofare antico – anche un modo di vivere, caratterizzato dalla capacità di mettere in discussione se stessi (le proprie idee, i propri criteri di giudizio, la propria maniera di compiere scelte e di relazionarsi agli altri, ecc.), al fine di conseguire un’esistenza coerente, ricca di significato e valore, realmente appagante.

Tali pratiche assumono configurazioni differenti, fra le quali mi limito a segnalare la consulenza rivolta a singoli o a gruppi e la promozione della metodologia dialogico-relazionale all’interno di contesti organizzativi ad alto tasso di complessità gestionale (ad esempio aziende ed ospedali). In tempi recenti esse hanno iniziato a retroagire nella realtà accademica, per cui in alcuni dipartimenti universitari sono stati attivati corsi di pratiche filosofiche. Anche in forza di questo feedback, a mio avviso prezioso, si origina la ricerca concretizzatasi nel presente contributo. Una ricerca in cui l’approccio filosofico essenziale viene affidato al gesto del curare.

Senza dubbio il tema della cura conosce da tempo una vasta diffusione nell’ambito degli studi filosofici, dove viene svolto in una molteplicità di direzioni di indagine che, a seconda dei casi, si rifanno in maniera più o meno esplicita ai due luoghi teorico-concettuali da cui esso proviene: l’epiméleia del pensiero socratico e l’heideggeriana Sorge. Ma si tratta, appunto, del tema della cura. Nel senso che in queste numerose trattazioni la cura rappresenta l’oggetto dei discorsi filosofici, i quali di volta in volta domandano, per esempio, quale sia il significato da attribuire a tale termine, quali siano le pratiche soggettive e collettive che possono essere sussunte sotto di esso, quale sia il suo possibile impiego in sede epistemologica e così via. Questo testo, invece, si caratterizza per un taglio differente, poiché prova a fare della cura lo stile del suo discorso. Esso, cioè, presenta un filosofare che non si occupa di parlare delle pratiche di cura, ma ha l’ambizione di costituire esso stesso una pratica di cura. Nello specifico, presentandosi come serie di esercizi volti a favorire il dispiegamento delle condizioni di possibilità di una vita felice.

Tale intenzione prende corpo, anzitutto, nella scelta preliminare di distanziarsi dall’approccio diffuso che tratta la questione della felicità come se fosse una domanda specifica della filosofia, mentre invece essa è una domanda dell’umano. Una domanda che può essere avvicinata in modo filosofico come anche a partire da altre prospettive, ad esempio psicologiche o teologiche. Facendo della questione della felicità una faccenda di proprietà della filosofia, non di rado si finisce con l’indagarla limitandosi a commentare e confrontare le teorie sulla felicità che la storia del pensiero filosofico ha ampiamente prodotto, smarrendo così il contatto con i mondi di vita storicamente determinati da cui essa continua a scaturire sotto forma, appunto, di domanda di felicità. In questa scelta preliminare è da vedersi la ragione del fatto che nelle pagine che seguono si troveranno rari riferimenti a testi filosofici sulla felicità.

Pertanto, lo stile curante del lavoro si esprime, in primo luogo, nel prendersi cura della domanda di felicità che proviene dal nostro presente e, quindi, nel non impiegare il concetto di felicità come fosse un universale di senso impermeabile al divenire storico.

In secondo luogo, l’assunzione di questo stile ha condotto a non limitarsi a stendere il resoconto delle sciagure del nostro tempo (che pure sono numerose), ma a coniugare la lettura critica dell’oggi con uno sforzo teoretico mirante ad indicare, motivandole, buone pratiche di vita nel presente, ovvero modi di essere che possano rivelarsi capaci di far fiorire l’esistenza anche in un frangente storico che, sotto diversi profili, risulta disumano.

In tal senso, il discorso che segue procede lungo una traiettoria che si distanzia da quelle che mi paiono essere le due prospettive prevalentemente percorse dall’attuale riflessione filosofica intorno alla felicità: da un lato, le indagini che si interrogano sulla plausibilità di un’articolazione interna tra vita felice e vita giusta, distinguendo più o meno nettamente l’aspirazione alla felicità dall’esercizio del dovere; dall’altro lato, gli studi che si propongono di individuare quali siano le istituzioni e le procedure politico-giuridiche capaci di garantire le condizioni sociali dell’esercizio del “diritto alla felicitàˮ. Discostandomi da tali linee di sviluppo – senza tuttavia voler indicare una terza via che le escluda pre­giudizialmente – in questo lavoro indago le condizioni esistenziali, oggi, di una felicità possibile. Come si vedrà, questa indagine ha la natura di un’analisi di carattere etico-antropologico rivolta a tre nuclei fondamentali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Le si accompagna, a mo’ di appendice, una proposta educativa relativa all’intelligenza pratica.

Inoltre, il proposito di formulare un discorso che potesse risultare curante mi ha indotto a scegliere di lavorare in sinergia con altri saperi del campo delle scienze umane, ai quali mi sono rivolto con la cautela indispensabile quando si maneggiano strumenti che non sono i propri. Così facendo non sono andato alla ricerca di una sorta di attestazione di oggettività per le mie speculazioni; al contrario, spesso mi sono trovato a pensare a partire da contenuti di natura psicologica, sociologica, ecc., ossia grazie ad essi. Ciò è significato procedere in controtendenza rispetto a quell’atteg­giamento di orgogliosa autoreferenzialità che talvolta connota le ricerche che si muovono in ambito etico. Un’autoreferenzialità che – va detto – è anche un’autolimitazione del filosofare, che in questo modo rischia di smarrire la capacità di mantenersi in comunicazione diretta con il vissuto dei soggetti, cioè di non comprendere adeguatamente quel che gli abitanti del presente sperimentano e di non farsi comprendere da loro.

Merita precisare, allo scopo di evitare possibili fraintendimenti, che l’intenzione che ha animato la scrittura del libro – farsi carico dell’attuale domanda di felicità – non è coincisa con la volontà di realizzare un testo che presentasse i tratti tipici di quella produzione pseudo-filosofica che da anni sta conoscendo ampia diffusione e con la quale non simpatizzo affatto. In altre parole, non ho nutrito alcun proposito di imbastire una filosofia prêt-à-porter. Al contrario, la sfida (mi auguro vinta) è consistita nel far convivere il rispetto dei canoni di qualità propri del lavoro scientifico con l’esigenza di comporre un pensiero in grado di dar voce alle istanze che provengono da uno scenario collettivo dove circola, ormai stabilmente, un multiforme disagio esistenziale. Il che significa che questo testo non offre ricette di vita, né avanza tesi senza prendersi la briga di provare a dimostrarle e saltando direttamente alle conclusioni. Il libro presenta, invece, delle rigorose argomentazioni filosofiche, che vengono svolte ed intessute in modo da poter essere comprese (almeno nei loro elementi essenziali) anche dai non “addetti ai lavori”, ossia da coloro che non possiedono una specifica preparazione in questo campo. A loro in particolare chiedo attenzione e pazienza nel seguire i numerosi fili del discorso: una fatica che confido troveranno ben ripagata.

A questo punto, forse si sarà già intuito che la felicità di cui qui si tratta non coincide con una tonalità emotiva (gaiezza, allegria) e nemmeno con la gioia, che, per quanto costituisca una potente elevazione dello stato interiore, possiede un carattere di subitaneità. La felicità che il libro mette a tema non è, insomma, la “condizione positiva” che succede di sperimentare più o meno occasionalmente, secondo quanto espresso dall’inglese happiness (da to happen, “accadere”) o dal francese bonheur e dal tedesco Glück (che significano anche “fortuna”). Si tratta, bensì, del senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che la propria esistenza sta riuscendo, ossia sta divenendo ciò che può essere, poiché i semi di vita in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Dunque, non la felicità di momenti di vita, ma la vita felice. L’eudaimonía, nel linguaggio della dottrina etica della filosofia greca.

Per quanto riguarda la distribuzione interna del libro, esso è stato concepito in maniera da presentare quattro capitoli che risultino sia disposti lungo una linea di sviluppo chiaramente percepibile, sia dotati di autonomia argomentativa, tanto da poterli anche leggere separatamente o perfino in un ordine diverso da quello in cui sono collocati.

Nel corposo apparato delle note sono presenti citazioni, riflessioni e proposte di approfondimento che non andrebbero considerate come marginali, poiché sono invece parte integrante del percorso generale. Sono state poste fuori dal testo principale soltanto per evitare di compromettere la fluidità del discorso. Il lettore deciderà se soffermarsi su di esse durante il tragitto o al suo termine.

Mauro Peroni

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giancarlo Paciello – Piccola storia dell’Irlanda

Giancarlo Paciello, Irlanda

Giancarlo Paciello

Piccola storia dell’Irlanda

ISBN 978-88-7588-270-9, 2020, pp. 112, Euro 12, Collana “Divergenze” [63]

indicepresentazioneautoresintesi

Chi leggerà questa introduzione, deve sapere che questo libretto si muove su di un arco di quarant’anni. La quarta di copertina è in realtà la copertina del numero 18/19 di Corrispondenza Internazionale (Gennaio-Giugno 1981) che conteneva un ampio saggio di Roger Faligot sulla resistenza irlandese.

Il primo dei due saggi è uscito sul numero di Koinè, nuova serie (Gennaio-Giugno 2000) e racconta l’epopea della resistenza irlandese che vide il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni determinati fino alla morte in difesa dei loro diritti. Il secondo dei due saggi è un inedito, ma scritto all’incirca ai tempi del primo.
Mi piace ricordare come andarono le cose, ovviamente non con la dovizia di particolari che si scopre leggendo il primo saggio. A novembre del 1980 la mia testa era volta soprattutto al terremoto che aveva colpito duramente l’Irpinia ma anche la Basilicata dove vivevano i miei genitori. La sollecitazione di Carmine Fiorillo ad affrontare di nuovo la situazione irlandese, servì a “distrarmi” non dai mei doveri di figlio ma da un comportamento “unidirezionale”. Raccogliere in un quadro unitario cose altrimenti mai collegate tra loro, mi avrebbe consentito di parlare di un mondo, quello irlandese, per troppo tempo affidato a descrizioni di comodo, di fonte prevalentemente britannica, o in ogni caso influenzate dai canoni interpretativi, vigenti nella perfida Albione.
Se dal punto di vista storico i problemi da risolvere non erano molti (sarebbe bastato chiarire l’estraneità degli irlandesi, gaelici e cattolici dai britannici invasori dell’Irlanda e, all’atto della co­lonizzazione, ormai definitivamente protestanti), non si poteva dire la stessa cosa per quanto riguardava il presente, da intendere comunque in senso lato, dal momento che in questo presente andava incluso un periodo di circa ottant’anni, quanti cioè erano trascorsi dalla divisione dell’Irlanda in due (la spartizione). Messe da parte le remore per la difficoltà del tema affrontato nella sua totalità, riconoscendo nello stesso tempo le potenzialità positive di una simile scelta, mi sono messo al lavoro.Avevo strutturato l’ipotetico articolo in quattro parti:
– un excursus storico di più di settecento anni, dall’invasione dell’Irlanda da parte degli anglo-normanni alla proclamazione della repubblica indipendente d’Irlanda del 1916 e alla successiva spartizione;
– un’analisi della spartizione, con le relative conseguenze discriminatorie, politiche e sociali, per la minoranza cattolica, nell’ultra-artificiale Irlanda del Nord;
– una descrizione degli eventi più significativi, a partire dai disordini (i troubles) del 1969, per arrivare ai giorni nostri;
– un’analisi dell’Accordo del Venerdì santo, come evoluzione del processo di pace, avviato nel 1993.

E ho lavorato sodo! Le difficoltà erano sorte immediatamente per lo spazio limitato dell’articolo che, nella sostanza, avrebbe dovuto riassumere l’intera storia dell’Irlanda. Decisi di lavorare, in un primo momento, senza pensare alle dimensioni e giunsi alla conclusione che, con il materiale raccolto, si sarebbe potuto scrivere un agile libretto sulla storia dell’Irlanda, e non mortificarla in una logica da Bignami. Ecco rivelato l’arcano! La terza e la quarta parte costituirono il primo saggio. La prima e la seconda parte vedono la luce soltanto oggi, vent’anni dopo. Giusto però intitolare il tutto Piccola storia dell’Irlanda.
Che cosa non si fa quando si è empaticamente coinvolti con le sorti di un popolo!
Quanto ad empatia, in realtà i popoli sono due: quello irlandese e quello palestinese.

 

Giancarlo Paciello


The United Irishmen
Corrispondenza Internazionale (Gennaio-Giugno 1981)

Giancarlo Paciello – Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati!”
Giancarlo Paciello – La Costituzione tradita. Intervista a cura di Luigi Tedeschi
Giancarlo Paciello – Ministoria della Rivoluzione cubana
Giancarlo Paciello – Diciamocelo: un po’ di storia non guasta. Dalle “battaglie dell’estate” del 1943 in Europa, all’avvento dell’Italia democristiana nel 1949
Giancarlo Paciello – Oggi 29 novembre! Oggi, ancora, solidarietà per il popolo palestinese.
Giancarlo Paciello – Uno scheletro nell’armadio dello Stato: la morte di Pinelli.
Giancarlo Paciello – Per il popolo palestinese. La trasformazione demografica della Palestina. Cronologia (1882-1950). Ma chi sono i rifugiati palestinesi? Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo: occupazione militare e colonie.
Giancarlo Paciello – Ascesa e caduta del nuovo secolo “americano” (Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?)
Giancarlo Paciello – Considerazioni sul sistema elettorale e dintorni. Da tempo ormai, il campo elettorale non è più un vero e proprio luogo di rappresentanza di interessi economici e sociali, ma è una protesi artificiale di apparente pluralismo.
Giancarlo Paciello – La rivolta o meglio, la rivincita del popolo, o meglio ancora, del demos
Giancarlo Paciello, legge il libro «I bianchi, gli ebrei e noi». L’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja.
Giancarlo Paciello – Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos.
Giancarlo Paciello – 30 Marzo. Yom el-Ard, la “Giornata della terra palestinese”.
Giancarlo Paciello – Si può essere ebrei, senza essere sionisti? Note a margine di un articolo di Moni Ovadia dal titolo “L’ANTISIONISMO NON È ANTISEMITISMO”
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli – Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo

Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli

Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori,
Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli

Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo

ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]

A cura di
Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato

Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo»,
Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019.
Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi

indicepresentazioneautoresintesi

Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.

Si evidenziano i relatori e i temi trattati:

Daniele Guastini
Inattualità e attualità della paideia poetica

***

Angelo Tonelli
«La Sapienza greca tra Oriente e Occidente.
Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”

***

Alberto Jori
Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale

***

Arianna Fermani
”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia

***

Maurizio Migliori
Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo

***

Giulio A. Lucchetta
«Quale rischio corre Dione a Boristene?
Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale

Elena Bartolini – Andrea Ignazio Daddi – Alessandra Filannino Indelicato

Premessa

Il presente volume raccoglie gli interventi proposti nel corso del convegno Il futuro dell’antico, svoltosi il 27 e 28 Marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: due giornate di studio volte ad esplorare, nel passato, potenzialità e insegnamenti ancora da pensare, dunque contemporanei. Studiosi importanti si sono incontrati per offrire agli studenti e alla cittadinanza l’occasione di un incontro con il pensiero antico, troppo spesso trascurato, soprattutto nelle sue connessioni con il presente, nonché nei suoi slanci verso un futuro inesplorato. Dell’antico si sono così messe in luce la densa e ancora contemporanea vitalità, nonché le conseguenti suggestioni e implicazioni sul piano formativo, etico e politico. Coordinatori scientifici del convegno sono stati la Prof.ssa Claudia Baracchi e il Dott. Luca Grecchi, il cui precipuo interesse, insieme al comitato organizzativo rappresentato dagli stessi curatori degli atti (Dott.ssa Elena Bartolini, Dott. Andrea Ignazio Daddi e Dott.ssa Alessandra Filannino Indelicato), è da sempre quello di mantenere vivo e vitale il contributo sapienziale filosofico-antico nel suo nesso con l’analisi della vita quotidiana, in tutti i suoi molteplici aspetti.
Come vedremo, l’antico risulta costantemente carico di “novità”, per cui i contributi qui presentati, pur differenti nell’impianto generale per contenuti e per approcci, hanno questo in comune: l’effervescente afflato, sentito con prioritaria urgenza, di vivere il contemporaneo non indifferenti all’amore per la saggezza che nell’antico trova origini e sviluppi ancora tutti da riscoprire e da esplorare. Quella che, allora, attraversa i vari testi come un filo rosso, potrebbe essere una sola grande domanda: quale futuro per l’antico?

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Il primo saggio è presentato da Daniele Guastini, che offre un’analisi della paideia poetica nei suoi aspetti di inattualità ed attualità. Con l’espressione “paideia poetica” egli intende riferirsi ad una formazione dell’essere umano declinata attraverso gli elementi caratterizzanti dell’epos, delle arti visive, della pittura, della scultura e dell’architettura secondo i canoni dell’antichità classica. Fin da subito l’autore ci avverte di evitare di sovrapporre o equiparare paideia poetica ed educazione estetica, considerando quest’ultima secondo i criteri imposti dal neoclassicismo. Guastini evidenzia che la maggiore distanza tra queste due prospettive si riscontra, più che nella mancanza di centralità dell’arte nel contesto contemporaneo, nel tipo di esperienza che si ha rispetto agli oggetti indicati dalla teoria estetica come “opere d’arte”. Il momento cruciale in cui si avvera la divergenza tra queste due diverse possibilità esperienziali sarebbe da trovare nella proposta estetica di Hegel, convinto sostenitore della storicità del concetto di arte e del necessario superamento di questa da parte di religione e filosofia, e in quella di Kant, secondo cui l’arte viene a identificarsi con la creatività del genio. È con Kant che si sancisce l’inutilità pratica dell’esperienza estetica e dell’arte in genere, così come la contenuta delimitazione gnoseologica a cui questa può aspirare.
Oltre ad esporre le dinamiche di tale divergenza, Guastini ne approfondisce i motivi storico-filosofici, ripercorrendo le vie teoriche che ne hanno permesso lo sviluppo. Infine, nella terza e ultima parte del suo scritto, egli ci fornisce spiegazione circa le ragioni che portavano i greci a considerare la paideia poetica propedeutica non solo alla formazione ma soprattutto al sapere, intravedendone risvolti propositivi per la contemporaneità.

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Con incisività, il saggio di Angelo Tonelli, dal titolo quanto mai esaustivo, conduce il lettore verso l’immediata e provocatoria comprensione del debito contratto da una inesistente – al singolare – “grecità”, nei confronti del tutt’altro-che-occidentale. Grecità bastarda, meticcia, spuria, mostrata nella sua irriducibilità non soltanto al logos che facendo parola già tradisce il mondo, ma anche al duale e al dicotomico. “Grecità” ereditata e rifratta dalle complessità dello sciamanesimo iperboreo mongolico-siberiano e trace, ma anche egiziano, iranico, persiano; riverberata nell’occulto di antichissimi echi di un Oriente taoista e upanishadico e, ancora, in radicale fusione con le inattingibili origini del pensiero. E dunque, la nascita della filosofia, pure nella forma logico-razionale contemporanea, è chiamata a cum-prehendere la vita come pratica quotidiana contemplativa e partecipativa di sat, l’intero-verità, del cosmo-cuore, dell’immanentismo-panico. Dioniso, Eleusi e Parmenide sono tra le più nitide testimonianze di questo immenso movimento di radicamento nel panorama straniero, slancio altro e invito a rieducare lo sguardo all’antico e a riconsiderare il circolo di trasmissione-ricezione del passato. Sicuramente Tonelli ha il coraggio di mostrare il futuro incerto, assieme alla violenta brutalità e all’ostilità perpetrata da un contemporaneo ladro, dimentico – più che altro per brame di potere o per necessità storico-politiche – della forza trasformativa dell’intuito (nòos) e della necessità di una vita nel segno di quest’ultimo praticata. Per quanto oggettificato, strumentalizzato, peraltro morente – un resto, insomma, una scoria non meglio individuata del soma psichico-cosmico – nòos ci attraversa e ci compone, in quanto organo di connessione umano-divino, e ancora ci interroga sul rapporto tra essere e apparire, illuminando la via sapienziale che è occidentale e orientale insieme. E tutto questo soggiace a null’altra legge se non a quella che è protetta dal non dicibile, difesa dal silenzio di un’umanità in cammino nella direzione dello sprofondamento oscuro e totalizzante del tò eón, che è anche rinascita verso un futuro dove sia possibile ereditarsi nella propria interezza s-confinata e con-fusa di mondi, tutti quelli che ci compongono.

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Alberto Jori analizza l’epistemologia ippocratica, prima testimone e promotrice del passaggio fondamentale, e rivoluzionario su più livelli – culturale prima di tutto -, tra il modello essenzialista (o ontologico-strutturale) e il modello funzionale (o storico-evolu­tivo). Il primo, in linea con la mitopoiesi e dominato dalla ricerca delle archai operata soprattutto dalla prima filosofia naturalista, utilizza il metodo genetico come una forma riduzionistica del concetto di storicità – forma caratterizzata da linearità, staticità, reversibilità e perenne ripetizione degli eventi e dunque impli­cante una temporalità intesa nella sua astoricità o antistoricità. Il secondo invece, prevalente nel Corpus Hippocraticum e sviluppatosi inizialmente in stretta opposizione al primo, si impone con il postulato metodologico secondo cui l’uomo è prima di tutto produttore e prodotto storico e culturale, differenziandosi dalle bestie per la produzione dei suoi propri strumenti. Questo modello, che presenta per Jori echi marxisti, non soltanto ruota attorno all’asse temporale diacronico, attribuendo alla storicità il compito di investire integralmente il piano ontologico ed epistemologico, rendendoli perfettamente sintonizzati, ma vuole anche “garantire la condizione di possibilità dell’itinerario storico-culturale che traccia, nel segno del progresso”. Per questo motivo, la iatrikè va salvaguardata da possibili sconfinamenti disciplinari – come per esempio la scienza medica della nutrizione e dell’alimentazione va differenziata dalla cucina, che pure veniva considerata una proto-medicina – e va ribadito fortemente il primato di quella su qualsiasi scienza, anche della natura. In conclusione, Jori mostra come sia proprio nel passaggio dalla vana investigazione archeologica delle essenze all’indagine strutturale delle relazioni – passaggio testimoniato anche da Platone, che nel Fedro supporterà questo nuovo modello – che si gioca la vera grande provocazione di Ippocrate, provocazione che viene lasciata ai posteri in forma di eredità da riscoprire e che non allontana il medico dalla via sapienziale ma, al contrario, ne riconferma il talento di grande filosofo.

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Arianna Fermani conduce il lettore alla ri-scoperta del versante prettamente pedagogico-formativo del filosofare aristotelico, troppo spesso ignorato, sottolineando come la dimensione della paideia sia, per lo Stagirita, un elemento cruciale ai fini della piena “fioritura dell’umano”. Se, infatti, più in generale, la filosofia greca si pone, sin dalle origini, come una “teoria generale dell’educa zione”, è in particolare con Aristotele che formazione ed etica finiscono col fondersi inscindibilmente. Esaminando soprattutto gli scritti etici e politici, allora, la studiosa tratteggia i due diversi scenari che questo rapporto costitutivo assume nel pensiero del filosofo: l’educazione è, da un lato, la “precondizione dell’etica” e in quanto tale ha nell’acquisizione della virtù – cui la stessa prepara attraverso la relazione tra il soggetto in crescita e la figura del maestro e la conseguente imitazione di un modello – il suo esito; d’altro canto, essa al contempo coincide con l’etica quale continua “attività dell’anima secondo virtù”, che sola è “garante di pienezza e felicità” per l’individuo ormai adulto. Questo attento riesame delle posizioni etico-pedagogiche aristoteliche, quindi, ci mostra come già il filosofo avesse inaugurato la prospettiva, oggi diffusa, dell’educazione permanente e ci consente di cogliere l’attualità, tutta inattuale, di un messaggio che ammonisce la contemporaneità a non recidere troppo sbrigativamente i legami tra pratiche formative e ricerca della vita buona. Una particolare attenzione viene, inoltre, attribuita al ruolo che Aristotele riserva alle passioni e al desiderio nell’ambito dello stesso processo edu­cativo attestando, in tal modo, una misurata consapevolezza del coinvolgimento di tutto lo psichismo nell’attività di formazione dell’umano che precede di molto le elaborazioni freudiane. Infine Fermani rileva, con Aristotele, la costitutiva ambivalenza dell’apprendere e dell’educare che molto spesso si danno più come necessaria “correzione dolorosa” che come piacevole esperienza ludica, per quanto lo Stagirita, nuovamente precorrendo i tempi, inviti ad adottare pratiche formative attente a non snaturare le diverse specificità soggettive o, come diremmo oggi, individualizzate.

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Maurizio Migliori si sofferma sulla relazione amicale che intercorre tra Platone e Socrate, “l’uomo più giusto del suo tempo”, portandola ad esempio della filosofia platonica nel suo insieme. Il passaggio su cui l’autore si sofferma è tratto dalla Lettera VII, in cui si fa riferimento anche al processo che ha visto coinvolto Socrate. La figura di Socrate, tuttavia, non viene mai definita con gli stessi termini lusinghieri negli altri testi platonici; anzi, la presenza e la caratterizzazione di Socrate trovano spazio nei dialoghi solo alla luce del “gioco” dialettico cui Platone invita il lettore – un gioco in cui via via la figura socratica va scomparendo. Migliori evidenzia come, in un certo senso, i primi dialoghi platonici siano da considerarsi una genuina derivazione rispetto all’indagine socratica, preminentemente incentrata sul «che cos’è (tì êsti)»: in tali testi, Platone si concentra sulla differenza che intercorre tra l’incertezza propria del mondo diveniente e l’ordine stabile delle idee. Altro è il Socrate del Simposio che, dopo esser stato maestro di Agatone, apprende da Diotima quale sia la vera natura di Eros e quale l’ascesa verso il vero sapere, in un intreccio altalenante di sapienza ed ignoranza. L’autore si sofferma poi sia sul Fedro che sul Fedone, esempi del filosofare giocoso che permettono a Platone di manifestare quelli che lui ritiene essere i limiti della filosofia socratica. In questo modo viene accentuato l’aspetto di ricerca insito nel sapere filosofico, ma viene anche accennato il rimando al mondo altro delle idee. L’amicizia tra i due, perfetto emblema dei rapporti in cui si declina la philia greca, non significa completa sovrapposizione di pensiero, ma coesione nella ricerca, accettando i rischi che questa richiede.

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Il volume si chiude con il contributo di Giulio A. Lucchetta che ci porta sulle tracce di Dione di Prusa, di ritorno dalla lontana Boristene, e offre una reinterpretazione della sua Orazione XXXVI. Se il retore, celebre per abilità e moderazione, narra le difficoltà con cui si è scontrato una volta giunto all’estremità dell’ecumene, e ammette il fallimento della sua strategia comunicativa presso un uditorio apparentemente fuori dal tempo, è per denunciare i limiti del logos ellenistico che, ormai “abusato e rinsecchito” da una “razionalità astratta e inconcludente”, può ben poco di fronte al riemergere di quanto, di una grecità arcaica ancora in dialogo con l’Oriente, sembrava andato perduto: di fronte all’irrompere del numinoso e dell’immaginifico, di fronte all’esperienza del thaumàzein, il dire scientifico-razionale cede il passo al silenzio oppure di metafore atte a ornare il logos”. E il mito può osare l’altrimenti indicibile. L’incontro tra Dione e la comunità boristenita, fieramente greca dai tratti ancora omerici e al contempo profondamente influenzata dalle popolazioni barbariche che la circondano, è, allora, l’esito di un viaggio che il sofista compie tanto nello spazio quanto nel tempo e il suo racconto, lungi dall’essere un mero argomento di interesse storiografico, costituisce per noi, oggi, un monito a restare aperti all’Alterità: a quella che ci circonda e a quella che ci in-forma, ci abita, dice della nostra provenienza non meno che del nostro destino.

Il convegno si è rivelato una preziosa occasione di condivisione e confronto, un vitale momento di dialogo costruttivo all’interno della comunità filosofica. Nel rendervi testimonianza, dando spazio alla pluralità di voci coinvolte così come alla diversità di approcci, questo testo vuole essere un invito a guardare l’antico con occhi nuovi, disincantati, scevri da giudizi precostituiti, per immergersi nel non ancora pensato che lì trova la sua inesauribile sorgente.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Roberto Fumagalli – Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico

Carlo Michelstaedter Fumagalli

Roberto Fumagalli

Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico

ISBN 978-88-7588-232-7, 2020, pp. 344, Euro 30 – Collana “Il giogo” [119]

indicepresentazioneautoresintesi

Un saggio su Michelstaedter è un’impresa destinata inesorabilmente all’incompiutezza: scrivere di colui che con le parole volle fare guerra alle parole, alla ricerca di una pienezza di vita inattaccabile, da trovare, come fondamento stabile, socraticamente solo in se stessi – dando tutto e non chiedendo nulla per sé. Non si potrà mai dire compiutamente l’altezza vertiginosa raggiunta dal suo pensiero, che resta come una cifra inaudita dell’assolutezza dell’Essere e della giustizia da lui cercata. Eppure, col suo pensiero, questo giovane (ma saggio) solitario, che si richiama alla sapienza di Eraclito e di Parmenide e che troverà un’eco, e una parentela postuma, anche in Heidegger, vorrebbe unire il mondo in un unico afflato di fratellanza e d’amore, sull’esempio di Cristo e di Buddha: da lui presi come modello di vita persuasa, sul finire della sua breve esperienza terrena.

In Michelstaedter è risuonata la voce di qualcosa di sovrumano, così lontana dalla sua, e ancor più dalla nostra, epoca del compiuto nichilismo: del sapere scientifico ormai vittorioso e della tecnica dimentica dell’anima.


Roberto Fumagalli è nato a Monza nel 1973. Laureato in Filosofia presso l’Università di Pavia, ha tra i suoi primi interessi il teatro: formandosi a Padova, presso il Teatro Stabile del Veneto, e come uditore di Luca Ronconi, presso il Piccolo Teatro di Milano. Ha insegnato presso istituti universitari privati in Italia e in Corea del Sud. È stato autore e regista radiofonico oltre che regista-documentarista. Occasionalmente ha anche scritto per periodici culturali locali.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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