Claudia Baracchi – «Aristotele. Il pensiero e l’animale». L’appassionata, inedita riflessione, della studiosa che ha saputo «affinare l’ascolto» del pensiero di Aristotele tra “logos” e “nous”. Qui una pagina su “desiderio”, sulla domanda del “desiderio” che è domanda su di sé, su “vera eccellenza” e “mera continenza”.

Claudia Baracchi, Aristotele. Il pensiero e l’animale, Feltrinelli, Milano 2023


Aristotele è l’erede per eccellenza. Nessuno ha valorizzato di più i predecessori, riconoscendo il debito nei loro confronti. La sua è una grande lezione sul pieno e sul vuoto della trasmissione, sulla consapevolezza di appartenere a un tempo e a un luogo in cui riecheggiano altri tempi e altri luoghi.


Cosa può significare, oggi, ereditare Aristotele? È possibile accogliere l’antico senza finire vittime della commemorazione, intrappolati nei tediosi codici del canone? O non è forse tempo di disfarci di figure ingombranti del passato, proprio per emanciparci e far spazio al futuro? Eppure il passato non ha esaurito il suo corso vitale, non è stato compreso a fondo. Potrebbe così accadere che le figure dell’antico ci appaiano meno evidenti del previsto, che a ben vedere non si prestino a sommarie riduzioni. Ereditare, di Aristotele, insieme a dottrine e assiomi anche i dubbi, le aperture, il mutismo, comporta prendere atto che la persistenza dei problemi non indica fallimento o paralisi. È un segnale della gravità delle domande fondamentali e della serietà richiesta nell’affrontarle. Comporta disimparare l’Aristotele ricevuto, sottrarlo dall’edificio della trasmissione tradizionale, riconoscere impasse e difficoltà, affinare l’ascolto. E, così facendo, tentare di cogliere nella parola antica l’alterità, la lontananza, ciò che deve essere ancora udito e che, forse, resta a venire. Nella coscienza che la cristallina elaborazione del pensiero razionale si fonda nella vita, non viceversa; e che la vita, a un tempo vulnerabile e immensa, resta indefinitamente eccedente rispetto al logos che pure la attraversa e le appartiene.



Curriculum vitae della Professoressa Claudia Baracchi

Claudia Baracchi


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Lukáš Houdek – «Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster». «Philosophy with a red nose. Clown labour, trickster birth». Prelude di Rodrigo Morganti: «Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione … il suo linguaggio è il gioco … è la celebrazione della meraviglosa perfezione dell’inperfezione umana». «Clowning the of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnarability while staying open to the point of accepting that people laugh with us. Its language consists of playing games … It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection».

Lukáš Houdek,
Filosofia dal naso rosso. Il travaglio di un clown, la nascita di un trickster.
Clown Labour – Trickster Birth.
Preludio di Rodrigo Morganti.
Traduzione di Alessandra Filannino Indelicato.

ISBN 978-88-7588-337-9, 2023, pp. 120, formato 130×170 mm., Euro 15 – Collana “coralli di vita” [3].

In copertina: Autore ignoto, Disegno di un Court Jester, probabilmente di epoca medievale.


AUTHOR’S NOTE

I finished writing in Piran – a Slovenian town on the border with Italy and Croatia. A peninsula surrounded by the sea, yet another border, this time between the land and the air. I steadily grew weary of the sentences that have until now accompanied us, as they kept washing me up against a very different but always familiar shore. I realise what I have attempted and, inadvertently, failed at. I tried to describe an experience, to incarnate thought, to touch by conjuring up ghosts of words. I made a leap and bounced back, much like a fly that is ignorant of the concept of transparency. Thresholds are impossible to inhabit and even paradox itself will eventually have to invite its opposite if it seeks a meaningful conversation. I will now go out and look for you, my reader, despite all I had said in the beginning. We will meet in the old town, in the filled-up harbour, by the long-since demolished drawbridge, in the dry scent of the sea to utter the afterword together.

Lukáš Houdek

Praha-Padova-Piran, summer 2023

NOTA DELL’AUTORE

Ho finito di scrivere a Piran – una città slovena sul confine tra Italia e Croazia. Una piccola penisola circondata dal mare, l’ennesimo confine, questa volta quello tra terra e cielo. Ho sentito molto fortemente che mi sono venute a noia le parole che ci hanno finora accompagnato, mentre continuavano a farmi rilavare su una costa davvero differente dalla mia, e tuttavia in qualche modo familiare. Mi rendo conto solo ora del mio tentativo, involontariamente fallito. Ho provato a descrivere un’esperienza, a incarnare un pensiero, di allenare il tocco mentre evocavo fantasmi di parole. Ho fatto un salto e poi sono tornato indietro, più o meno come una mosca che ignora il concetto di invisibilità. Le soglie sono dimensioni impossibili da abitare e anche i paradossi, alla fine, richiamano sempre il loro opposto, se si cerca una conversazione di senso. Ora, caro lettore, esco di casa, e andrò cercandoti, nonostante tutto quello che ti ho detto finora. Ci incontreremo in centro storico, in un porto affollatissimo, al ponte levatoio – quello che hanno demolito da tempo –, nel profumo secco e salato del vento di mare. Pronunceremo insieme la postfazione.

Lukáš Houdek

Praga, Padova, Piran; estate 2023



Preludio di Rodrigo Morganti

Clowning is the emanation of joy, sharing, of being allowed to show one’s vulnerability while staying open to the point of accepting that people laugh with us.

Its language consists of playing games.

It’s everything and its opposite.

It’s the celebration of the wonderful perfection of human imperfection.

It’s a difficult subject for a book: difficult but not impossible. And Lukáš, aware of that, succeeded in this task, breaking the fourth wall, and esta-blishing a direct relationship with the reader.

I hope that you will enjoy this book as I did.

 

Il Clown è l’emanazione della gioia, della condivisione, del poter mostrare la propria vulnerabilità in un’apertura tale da accettare che la gente rida con noi senza chiuderci.

Il suo linguaggio è il gioco.

È il tutto e il contrario di tutto.

È la celebrazione della meravigliosa perfezione dell’imperfezione umana.

Difficile farci un libro, e proprio perché è difficile non è impossibile, e Lukáš lo sapeva e ci è riuscito, rompendo la quarta parete e istituendo una relazione diretta col lettore.

Spero che ve lo godiate come me lo sono goduto io.

(Rodrigo Morganti, clown, clown-dottore e formatore. É stato il primo in Italia (1995) a portare il naso rosso in ospedale, ha girato l’Italia e il mondo formando nuovi health-care clowns, e facendo aggiornamento e formazione continua per clown, personale medico, scuola, aziende e privati. Attualmente è direttore artistico della “Fondazione Dottor Sorriso” e dell’ Ong libanese “Ibtissama”.)




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giovanni Casertano – «Morte (e Vita). Viaggio dal concetto all’incantesimo, ovvero dai Presocratici a Platone». Pensare ed agire con bellezza e con amore, con eccellenza e verità. È questa la mortale immortalità degli uomini.

Giovanni Casertano, Morte (e Vita). Viaggio dal concetto all’incantesimo, ovvero dai Presocratici a Platone.

ISBN 978-88-7588-419-2, 2023, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “il giogo” [179].

In copertina: La Tomba del Tuffatore a Paestum (480-470 a.C.), Museo Archeologico Nazionale di Paestum.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luca Grecchi – «Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele». Con una prima recensione di Salvatore Bravo e una intervista su «Letture.org».



Salvatore Bravo

Filosofia/Filosofie

La ricerca filosofica di Luca Grecchi è ricerca dell’umano e del suo senso. In questi nostri tempi di sola ragione strumentale, vi sono autori che ci rammentano – con la loro testimonianza – che la filosofia non è soltanto ricerca teorica, ma anche prassi: teoria e prassi, in armonica unità, con il compito di promuovere lo sviluppo delle molteplici dimensioni dell’essere umano, così che ogni soggetto possa esprimere la propria eccellenza, nella luce che si irradia allora dalla ritrovata essenza della propria natura etica e razionale. Si tratta di una trasgressione all’ordine del discorso vigente, una rara postura, la cui presenza ci è sostegno e di incoraggiamento.

La ricerca filosofica non è da chiudere in un forziere come gioielli e diamanti[1], metafora utilizzata da Platone, ma essa è un seme che per svilupparsi necessita del buon terreno e dunque di uomini e donne disponibili all’ascolto dialettico. La filosofia è dunque un bene comunitario, può nascere in qualsiasi tipo di terreno-comunità, purché vi siano uomini e donne orientati alla verità e al bene.

La filosofia è comunità in cammino che trae da sé l’orizzonte etico e razionale verso cui tendere. Ci si salva assieme, per questo il seme della filosofia necessita di buoni terreni da curare e coltivare, mai singolarmente, ma in una relazione paideutica ed etica. Nel suo percorso di ricerca Luca Grecchi ha chiarito il concetto di “Filosofia”. Non è una banalità. In una realtà accademica dominata dalla frammentazione della Filosofia in specialismi, definire la Filosofia significa trascendere divisioni e dispersioni che inevitabilmente hanno condotto la disciplina verso la sua “crisi”. Senza identità non vi è la razionalità del senso. La Filosofia assimilata a qualsiasi altra scienza specialistica, per piacere al mondo, finisce con annichilirsi in una pletora irrazionale di campi specialistici, in cui è rimosso l’essenziale della prassi filosofica. La filosofia è tale se risponde a tre paradigmi, i quali sono tra di loro in una feconda relazione dialettica:

«Per quanto concerne l’analisi che ho cercato di effettuare del concetto di philosophia nel pensiero greco originario, giunsi già nel 2008, come ricordato, ad elaborare una definizione che ho sostanzialmente mantenuto invariata fino ad oggi. In base ad essa la philosophia, nella sua essenza, costituisce, sin dall’inizio, un sapere caratterizzato da tre elementi essenziali: a) come contenuto la ricerca veritativa sull’intero della realtà; b) come fine la buona vita degli esseri umani; c) come metodo principale la dialettica[2]».

La Filosofia sin dalle origini tratta dell’interalità, essa ha come oggetto l’analisi critica e valutativa della realtà storica per verificarne la sua conformità alla natura umana. L’intero (to holon) non è il “tutto” (to pan)[3], in quanto l’interalità pone le parti in relazione, mentre il tutto è semplice giustapposizione delle parti. Lo sguardo filosofico per poter far emergere la verità storica e valutarla con il paradigma della natura umana deve relazionare le parti, in modo da dimostrare dialetticamente il giudizio valutativo e far emergere le connessioni dinamiche. L’infelicità di molti nell’odierno sistema capitalistico è il risultato delle relazioni competitive e crematistiche che muovono il sistema. La buona vita non è mai solitaria, è pratica che si coltiva in comune, in quanto ogni essere umano per “natura” è parte di un intero con il quale si relaziona. La rimozione della Filosofia, e la messa in campo delle Filosofie, ha la sua ragion d’essere nell’occultamento pianificato della valenza etica e valutativa della Filosofia. Il sistema capitalistico si sottrae al giudizio qualitativo, in modo da neutralizzare l’elaborazione di modelli sociali ed economici alternativi. Pertanto la Filosofia sopravvive solo nella forma depotenziata delle Filosofie, le quali sono la riproduzione delle scienze, che colgono, per loro statuto epistemico, la parte e mai l’intero.

 Sophia

La filosofia nei manuali è definita “amore per la sapienza”. La banalizzazione della Filosofia spesso conduce a non pensare la relazione tra l’amore-desiderio e la sapienza. Anche in questo caso lo sguardo filosofico di Luca Grecchi ci offre non solo una descrizione fenomenologica, ma anche una valutazione critica con notevoli risvolti etici. La philia è il desiderio-amore, ma se il desiderio-amore prevale sulla sophia rischia di essere desiderio-passione del male e dell’irrazionale. Il nostro sistema crematistico spinge l’umanità al desiderio dei consumi, in questo caso il desiderio è dimensione funzionale agli interessi del capitale. Si tratta di desideri anche di “cose cattive” ma percepite come buone. Per questo il termine philosophia implica, in primis, la ricerca (theorein) della sophia, in modo che il soggetto sia sottratto al caos e al tumulto dei desideri indotti o pulsionali e possa orientarsi verso (“il bene”). La felicità è nella pratica del desiderio mediato dalla sapienza: ecco trovata la ragione dell’infelicità nel capitalismo, in esso è il desiderio a prevalere fino a cancellare la sapienza critica e dialettica:

«Quando, in effetti, la philia assume il primato, si può facilmente desiderare di divenire philoi di ogni cosa, anche dannosa. Platone parla infatti, in un noto esempio, dei philotheamones, ossia degli amanti degli spettacoli, i quali, nonostante vi siano molte occupazioni utili, tendono ad appassionarsi a tutti gli intrattenimenti inutili che offre il mondo crematistico, finalizzando male il proprio desiderio, pertanto utilizzando male il proprio tempo, quindi vivendo male la propria vita. Chi attribuisce preminenza alla philia rispetto alla sophia, in effetti, si comporta come i Sofisti, i quali “vanno errando tra le molte realtà che sono in molti modi, e per questo non sono filosofi”[4]».

La Filosofia è un sapere teoretico sempre in relazione con la prassi. La felicità è governo delle passioni, ma queste possono assumere una forma etica solo nella chiarezza della verità-bene. La storia della Filosofia, palesa Luca Grecchi, è caratterizzata dalla relazione teoria-prassi con modalità e gradualità differenti, ma sempre all’interno dello stesso canone:

«La philosophia, infatti, si presenta sin dagli inizi della cultura ellenica come unità di pensiero e azione, in quanto l’anthropos, per realizzare la propria natura razionale e morale, deve insieme pensare e agire. Esso deve, meglio, pensare ricercando sul piano teoretico la verità, ed insieme agire ricercando sul piano pratico il bene. È vero, infatti, che la conoscenza teoretica della verità consente la migliore azione pratica finalizzata alla realizzazione del bene, ma è vero anche che la realizzazione di azioni pratiche finalizzate al bene consente al contempo un migliore rivolgimento teoretico alla conoscenza veritativa. Per questo motivo fra verità e bene, così come fra teoria e prassi, vi è circolarità. Una buona prassi di vita consente di conoscere con maggiore verità, così come conoscere con maggiore verità favorisce una buona prassi di vita[5]».

Thauma

Lo Thauma come condizione del filosofare è presente sia in Platone che in Aristotele. Il terrore-meraviglia (thauma) dinanzi all’incerto e all’aporia conduce all’infelicità. L’incerto e la precarietà in ogni loro aspetto conducono all’instabilità e alla passività. L’essere umano ricerca con la verità-bene la stabilità per poter progettare ed essere soggetto attivo della sua esistenza comunitaria. La sophia risponde a tali esigenze, essa non è un sterile domandare, essa è ricerca delle risposte che scaturiscono dalle domande da porre. Sapere perfettibile in quanto dialettico e comunitario non si arena nelle sabbie mobili delle sole domande, ma è risposta all’angoscia dell’esistenza. La Filosofia è prassi, e ciò è testimoniato dalla costante relazione tra teoria e prassi presente sin dalle origini:

«Se è vero, dunque, che il thauma derivante dalla mancata sophia produce la philia verso la sophia, come tale benefica, è vero però anche che, finché si rimane in una situazione di thauma, ossia di mancanza, ci si trova in una condizione di infelicità. Così è sia per la sofferenza di non conoscere le risposte a problemi importanti, sia per la fatica di doverle ancora cercare, sia per l’incertezza di non sapere se si riuscirà a trovarle. È infatti solo quando il desiderio di sophia risulta compiutamente appagato, nei limiti umanamente possibili, che si può giungere ad una condizione, almeno temporanea, di felicità. Per la natura finita dell’anthropos, in effetti, lo spazio per un appagamento definitivo, ossia per l’estinzione totale del desiderio di sophia, con tutto ciò che ne consegue, non è mai per Platone destinato a verificarsi. Il logos, infatti, per quanto si incrementi, in un ente finito come l’anthropos non può mai conoscere infinitamente, ossia non può mai concludere il proprio compito, come già aveva compreso Eraclito (22 B 45, B 115)[6]”.

Sophia e desiderio

La sophia è desiderio raggiungibile e realizzabile. Non è un vano desiderio adolescenziale che si perde e disperde nel gioco delle domande, ma è risposta che trasforma le esistenze e pone le condizioni per “la buona vita”. La felicità è una relazione tra sapienza, bene e desiderio. Solo la conoscenza della verità e del bene è apportatrice di desideri che nel loro realizzarsi pongono in prassi la felicità:

«Il tema della ricerca del bene risulta dunque strettamente connesso, per Platone, con il tema della felicità. I philosophoi, infatti, desiderano conoscere il bene non per curiosità teoretica, ma per l’efficacia pratica che questa conoscenza porta con sé nel favorire una vita felice. Come ripete in effetti più volte il filosofo ateniese, chi conosce con verità il bene è portato a fare il bene, anche il proprio, dunque ad essere felice. Non a caso l’espressione eu prattein, la quale indica lo svolgimento di una buona prassi, è traducibile sia con “agire bene”, sia con “stare bene”. Una vita in cui si agisce bene è infatti una vita in cui si sta bene, ossia in cui si è felici. Per questo nella Repubblica si afferma che il filosofo, ossia la persona che conosce meglio la felicità, facendone quotidianamente esperienza, è anche colui che sa meglio giudicare in merito a questa tematica[7]».

Lo Stagirita affermerà nel frammento “Sulla Filosofia” che la Filosofia è una luce che pone in chiarezza ciò che è nascosto. Essa non vive tra le ombre, ma le pone in fuga, in modo da mostrare-dimostrare non solo com’è la realtà, ma anche come “dovrebbe essere”. È in questa relazione olistica e dialettica che l’essere umano si ritrova e può realizzare compiutamente la sua natura etica:

«La testimonianza attestata da questo frammento, come noto, assai discussa, riporta che per lo Stagirita ”la sophia fu chiamata così come se fosse una specie di chiarezza (sapheia), in quanto rende chiare tutte le cose”. Essa sarebbe, cioè, «una specie di luce», in grado di illuminare le realtà più nascoste, ossia quelle che stanno alla radice di tutto, ovvero le cause prime. Esse, infatti, pur chiarissime in sé, risultano, almeno inizialmente, oscure per noi, a causa dei limiti della umana conoscenza. La sophia rappresenta dunque, per Aristotele, il sapere più profondo, in grado di mostrare non solo come le cose sono, ma anche come devono essere[8]».

La Filosofia nasce per Aristotele per rispondere ai problemi della vita, e affinché ciò possa essere non è necessaria solo la phronesis, ma essa è tale solo se guidata dalla sophia:

«Così è in quanto la phronesis, ossia la capacità di deliberare in maniera efficiente scegliendo i mezzi più idonei alla realizzazione di un fine buono, risulta attività strumentale al bene dell’anthropos, non attività fine a sé stessa, dunque libera, quale è appunto la sophia. Poiché una attività strumentale risulta sempre inferiore rispetto a una attività libera, così come uno strumento risulta sempre inferiore rispetto al fine cui tende, la phronesis risulta subordinata alla sophia. Aristotele utilizza spesso, in merito, l’analogia fra la phronesis/medicina e la sophia/salute, per indicare che la prima può solo essere un mezzo in funzione della seconda, che è fine105. In particolare, egli afferma che la phronesis “non è signora della sapienza (oude kuria … tes sophias)”, per cui può dare “ordini in vista di quella, ma non a quella”[9]».

Il testo di Luca Grecchi ci guida a trascendere i pregiudizi verso la Filosofia, poiché nel nostro tempo “all’ombra del capitale” si censura il corpo vitale della Filosofia mediante l’occultamento del suo senso e con la produzione pianificata di pregiudizi-chiacchiere su di essa. Il testo di Luca Grecchi è catartico, contribuisce a liberare la Filosofia dalle sovrastrutture che ne inibiscono il volo dialettico verso il bene e ci riconcilia con una disciplina che non è mero esercizio di domande, ma è ricerca della “buona vita” per ogni essere umano.

[1] Luca Grecchi, Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, Scholè Morcelliana 2023, pagg. 162-163.

[2] Ibidem, pag. 12.

[3] Ibidem, pag. 128.

[4] Ibidem, pag. 101.

[5] Ibidem, pag. 39.

[6] Ibidem, pag. 95.

[7] Ibidem, pag. 139.

[8] Ibidem, pag. 181.

[9] Ibidem, pag. 201.



Intervista a Luca Grecchi su «Letture.org»

Prof. Luca Grecchi, Lei è autore del libro Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, edito da Scholé-Morcelliana: innanzitutto, quale definizione è possibile dare della filosofia?

Direi, prima di tutto, che occorre interrogarsi sul fatto se sia o meno possibile dare una definizione della filosofia. In un libro-dialogo di qualche anno fa (Tra teoria e prassi, Petite Plaisance, 2020), composto con l’amico Maurizio Migliori, riflettevamo sul fatto che quasi tutti i manuali di Filosofia, a differenza di quelli delle altre scienze, non definiscono la propria disciplina. Alcuni di essi, addirittura, lasciano intendere che tale definizione è impossibile, in quanto la filosofia, che è un continuo farsi, non potrà mai assumere una forma compiuta, quindi definita. Nel libro esprimo la mia distanza da questa tesi, la quale, oltre che a mio avviso non corretta, ottiene l’indesiderabile effetto di far passare col nome di filosofia ogni contenuto cui si riesce ad applicare questa etichetta, col risultato, a lungo termine, di deformare, nel sentire comune, il nostro amato sapere, il quale ha invece assunto forma compiuta, dunque definita, già con Platone e Aristotele.

Da aristotelico quale penso di essere, ritengo sempre opportuno cercare di favorire, nei limiti del possibile, una univocità del linguaggio che superi l’ambivalenza di cui, già in epoca antica, la retorica sofistica faceva largo uso nel rappresentare la realtà. Ad ogni nome, infatti, è bene che sia associato uno ed un solo significato, per evitare confusione. La filosofia, come ogni altro concetto concepito – appunto – dagli esseri umani, è un ente definito, e pertanto va definita, ossia le va data forma compiuta mediante un significato chiaro, se si desidera comprenderla in maniera chiara. Nella Metafisica (1006 b 6-10), lo Stagirita affermava che “se si dicesse che le parole hanno infiniti significati, non sarebbe più possibile alcun discorso: infatti, il non avere un determinato significato equivale a non avere alcun significato; e, se le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso”, quindi di pensiero.

Perché allora, fino ad oggi, della filosofia non si è quasi mai fornita una definizione esplicita, o comunque non si è mai trovato un accordo su quale sia la definizione più corretta? A mio avviso, per almeno due motivi. Il primo è che la definizione di enti, soprattutto se complessi, è difficile, per cui è facile sbagliare, e nessuno vuole sbagliare, soprattutto oggi. Il secondo motivo è che ogni definizione, una volta formulata, impegna ad essere coerenti, per cui, per fare filosofia, se la si definisce in un certo modo, occorre poi fare quella determinata cosa, non qualunque altra cosa che vagamente le assomigli; ciò riduce molto le possibilità di azione, e pochi nel nostro tempo, anche in campo filosofico, desiderano subire tale riduzione.

In ogni caso, per chi – con la tesi della necessità di definire la filosofia – non concorda, dico subito che può cercare di confutare tale tesi, in quanto il metodo principale della philosophia, sin dal suo nascere, è il metodo dialettico. Esso si basa proprio sul riconoscimento della possibilità dell’errore, ed al contempo della possibilità di correggere, nel dialogo, gli errori, per giungere alla soluzione migliore in rapporto ai temi affrontati. La filosofia non è, infatti, attività adatta per persone narcisiste e permalose, che non accettano di poter sbagliare, e che si pongono dunque in modo dogmatico, ma per persone umili e generose, che si rendono disponibili a porre in comune una idea, anche accettando di essere criticate, pur di giungere più facilmente alla comprensione della verità e alla realizzazione, in questo modo, del bene.

Nel libro scrive: «La philosophia, per come emersa nel primo pensiero greco, risulta strutturalmente in opposizione con le modalità riproduttive della totalità sociale in cui viviamo»: perché è dunque ancora utile studiarla?
Proprio per questo motivo. La totalità sociale in cui viviamo è crematistica (chremata, in greco, sono i beni materiali), ossia è finalizzata alla massima acquisizione di ricchezza privata da parte dei soggetti che detengono la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale. Tutto ciò che è prodotto lo è solo se, in esso, si ravvisa la possibilità di realizzare il massimo profitto privato, altrimenti no. Per questo, ad esempio, vengono prodotti gioielli e auto di lusso, ma non cibo e medicine per i poveri, che pure sarebbero più utili. Miliardi di persone sono condannate, da questo sistema, ad una dolorosa povertà materiale, ed altri miliardi ad una talvolta ancor più dolorosa povertà spirituale.

In una totalità sociale siffatta tutto, ossia gli esseri umani e la natura, viene considerato solo, o prevalentemente, come merce, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Essendo, tuttavia, gli esseri umani non merci, ma enti comunitari – come dimostra il fatto che stiamo bene in contesti amicali, non in contesti conflittuali –, le regole della felicità sono per noi quelle della comunità, non quelle del mercato. Più si dona, infatti, più si ottiene, in termini di felicità. Chi desidera soltanto avere senza mai dare, invece, alla fine primeggerà sicuramente, ma solo in termini di infelicità. Lo aveva già compreso Esiodo in Opere e giorni (vv. 201-212): gli esseri umani si differenziano dagli animali feroci in quanto stanno bene se si aiutano fra loro, non se si divorano l’un l’altro. Il nostro modo di produzione sociale è invece massimamente conflittuale: per questo, per cercare di modificarlo in senso comunitario, serve la filosofia.

Quali sono gli elementi costitutivi della philosophia?
Innanzitutto, devo dire che non vi è, purtroppo, nemmeno nella cultura greca una definizione esplicita, unanimemente condivisa, di philosophia. La parola inizia a comparire in epoca presocratica, almeno a quanto risulta da alcune testimonianze, discusse nel libro, riferite soprattutto a Pitagora ed Eraclito. Fu in ogni caso principalmente con Platone e Aristotele, coi quali non a caso si ritiene – stavolta in maniera pressoché unanime – costituita la filosofia, che il termine philosoph* ha cominciato a registrare centinaia di occorrenze scritte. Queste presenze lessicali, unite ad ulteriori ricorrenze terminologiche anch’esse significative (episteme, dialektike, sophia ed altre), segnalano indubbiamente l’avvenuta formazione della philosophia. Ogni concetto si forma infatti solo dopo che “la cosa” che esso rappresenta ha iniziato ad esistere, e “la cosa” philosophia, almeno in potenza, esisteva già nel mondo ellenico prima dell’epoca classica (mi permetto di rinviare, in merito, agli altri miei due volumi per Morcelliana: Leggere i presocratici, 2020 e La filosofia prima della filosofia, 2022).

Per porsi compiutamente in atto occorreva però che essa divenisse pienamente formata, dunque chiaramente strutturata nella sua essenza, il che accadde solo con la riflessione sul suo concetto realizzata soprattutto da Platone e da Aristotele. Proprio dalle centinaia di occorrenze del termine presenti nella loro opera – che in questo libro ho tentato, nei limiti del possibile, di esaminare – ho tratto infatti quelli che, a mio avviso, sono i tre elementi costitutivi della philosophia. Essi, in estrema sintesi, sono: a) il contenuto, costituito dalla ricerca della verità dell’intero; b) il fine, costituito dalla ricerca della buona vita degli esseri umani; c) il metodo principale di analisi della realtà, costituito dalla dialettica (nel senso in precedenza precisato).

Io penso che questa sia la definizione migliore, ma, appunto dialetticamente, sono consapevole che essa è la mia sintesi di quelli che ritengo essere i tre elementi costitutivi della philosophia. In questo tentativo di definizione potrei avere dimenticato un elemento, o averne aggiunto uno di troppo, o formulato male quelli esposti. La cosa bella è che, proprio per il suo prevalente metodo dialettico, anche le definizioni, in filosofia, non sono da considerare dogmi, bensì possono sempre essere modificate. Come dicevamo prima, la filosofia non è fatta per chi ritiene di non sbagliare mai, in quanto è sempre, anzitutto, esercizio di umiltà, soprattutto quando si esprimono tesi forti, maggiormente a rischio errore. Non è un caso che Socrate – di cui non abbiamo scritti, ma che molti considerano il “primo filosofo” – discutesse spesso di grandi temi con persone arroganti, assolutamente convinte di conoscere un certo contenuto, mostrando loro, appunto, che le cose non stavano proprio in quel modo.

Quale concezione della philosophia emerge dalle opere dei primi pensatori ellenici, i cosiddetti Presocratici?
Come accennavo poco fa, se la definizione corretta di philosophia è quella che ho dato – ossia un sapere caratterizzato dai tre elementi costitutivi poc’anzi menzionati –, tale, se c’era, essa era, almeno implicitamente, anche nelle opere dei Presocratici, naturalmente tenendo conto delle loro specificità rispetto ai classici, oltre che delle diversità presenti fra questi stessi autori.

Mi soffermerei tuttavia un poco, in merito, sul fatto che, se la filosofia deve davvero contenere tutti tre questi elementi essenziali, allora un pensiero che ne escluda anche uno solo non può, a stretto rigore, definirsi compiutamente filosofico. Questo vale per il pensiero dei singoli autori presocratici, ma vale anche per il pensiero dei nostri contemporanei. Siamo infatti sicuri che l’attività denominata filosofia, oggi, per come svolta nelle varie Università mondiali, comprenda sempre tutti tre questi elementi, ovvero sia realmente filosofia? Siamo, cioè, sicuri che Platone e Aristotele riconoscerebbero molti degli attuali testi accademici di filosofia come tali, in base alla loro concezione, costitutiva della disciplina? In fondo, come dicevamo poco fa, la nostra totalità sociale crematistica, che informa anche l’istruzione universitaria, non è affatto favorevole alla diffusione della filosofia, come dimostra il fatto che il termine, ancora oggi, non gode certo di buona stampa (“filosofia” è spesso usato come sinonimo di “discorso inconcludente”). All’attuale totalità sociale, in effetti: a) la verità dell’intero disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni riflessione onto-assiologica complessiva, la quale potrebbe portare ad una progettualità alternativa sulla stessa totalità sociale; b) il fine della buona vita disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni fine differente da quello della massimizzazione del profitto; c) la dialettica disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni democratico confronto comunitario, essendo l’orizzonte crematistico dogmaticamente dato.

Siamo sicuri, dunque, che gli approcci sempre più particolari (non rivolti all’intero), descrittivi (non valutativi), compilativi (non dialettici) degli attuali prevalenti scritti “scientifici” – come nelle facoltà di Filosofia vengono ormai chiamati anche i saggi filosofici – sarebbero riconosciuti, da coloro che hanno originariamente concepito la philosophia, come vera e propria filosofia? Nessuno di noi, naturalmente, è Platone o Aristotele, ma, quando facciamo filosofia, dovremmo sempre cercare di pensare in grande, come facevano appunto Platone e Aristotele. Lo sguardo teoretico non è infatti un orpello superfluo, ma una abilità necessaria anche per lo storico della filosofia antica, come dimostrano appunto i grandi maestri di questa disciplina (pensiamo solo, fra gli italiani, a Enrico Berti, Giovanni Reale, Mario Vegetti). Ho il sospetto che, se fosse vivo oggi Aristotele, di fronte a molti articoli accademici di ambito filosofico, direbbe che essi sono filosofici solo per analogia, così come è medico solo per analogia il medico dipinto, o è occhio solo per analogia l’occhio di vetro, o è piede solo per analogia il piede di marmo di una statua. Noto peraltro che questi esempi aristotelici riguardano tutti una entità artificiale in rapporto ad una entità naturale, viva, quale appunto per lo Stagirita era, in certo senso, la philosophia, intrinsecamente finalizzata alla comprensione dialettica veritativa dell’intero per favorire la buona vita degli esseri umani.

Che significato assume, nei testi di Platone e Aristotele, il concetto di philosophia?
Assume il significato in precedenza sintetizzato. Circa due terzi del libro sono dedicati a Platone e Aristotele, per cui mi è davvero difficile porre in essere, in poco spazio, una sintesi di tutti i molteplici rimandi che mi hanno portato, per ambedue i pensatori, a ritenere adeguata la definizione di philosophia che ho poc’anzi fornito.

Può però essere interessante sostare ancora un poco su questo concetto di philosophia, che Platone e Aristotele, pur senza darne una definizione univoca, hanno ottimamente contribuito a delineare. Ebbene: per i parametri accademici attuali, lo stesso concetto di philosophia in epoca classica, ossia il tema del libro, potrebbe paradossalmente essere ritenuto un contenuto troppo ampio da trattare filosoficamente in maniera “scientifica”. La filosofia oggi, in Università, procede infatti con criteri molto simili a quelli delle scienze particolari (che come tali, appunto, si occupano di descrivere – non di valutare – solo parti – non l’intero – della realtà), ossia, se mi si passa l’immagine, procede, in ogni analisi, cercando di porre un puntino sempre più piccolo sotto il microscopio. Il livello di precisione che si raggiunge in questo modo risulta sicuramente, così facendo, molto elevato. Di questi articoli scientifici è doveroso essere grati ai rispettivi autori. Ciò nonostante, considerando il concetto di philosophia presente in Platone e Aristotele, è possibile anche domandarsi quale sia l’effettivo contributo alla comprensione complessiva del senso e del valore della realtà – l’ambito, appunto, da sempre proprio della filosofia – che molti di questi articoli forniscono.

Non è mia intenzione, come detto, criticare l’attività di tanti giovani studiosi, che semplicemente si adattano, nel loro modo di fare ricerca, alle modalità dominanti, che hanno ormai introiettato essere, anche in campo filosofico, le uniche funzionali al percorso accademico. Ciascuno può fare ricerca nelle forme che ritiene opportune, sui contenuti che ritiene opportuni e con le finalità che ritiene opportune, ma – occorre dirlo – ciò non è senza effetto per i risultati della ricerca. Rimango in ogni caso amareggiato quando mi accorgo, in merito, che la medesima apertura non risulta talvolta essere presente, in alcuni studiosi, nei confronti della legittimità del fare ricerca filosofica anche sui grandi temi, richiedendo necessariamente quest’ultima, come ben sapeva Aristotele, un approccio più generale, a maglie più larghe.

Risulta significativa, a tal proposito, la terminologia utilizzata, in ambiente accademico, per definire i testi filosofici caratterizzati da un argomento molto ampio, spesso qualificati come “divulgativi” (ricordo il disappunto con cui l’amico Enrico Berti accolse una recensione di un importante studioso, in cui il suo splendido In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, edito da Laterza nel 2007, venne definito tale). Bisognerebbe allora, in primo luogo, chiarire che “divulgazione” non è una brutta parola. Se leggiamo, infatti, l’Enciclopedia Treccani, per “divulgazione” si intende la diffusione di teorie “attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, (..) con lo scopo di interessare un sempre più largo strato sociale”. È in effetti possibile essere insieme “scientifici” e “divulgativi” – i due termini non si oppongono –, ossia al contempo accurati ed essenziali, come era appunto il caso del libro di Berti. Vi è anzi grande bisogno, a mio avviso, di opere di questo tipo in filosofia. Esse tuttavia, in vario modo, sono scoraggiate dalle attuali tendenze dominanti, per motivi che di passaggio, nel libro, provo a spiegare, riferibili sempre, in ultima analisi, al fatto che il nostro tempo ha interesse a reprimere la vera attitudine filosofica.

Ritenere a priori “scientifico”, nel senso di accurato, solo uno studio iperspecialistico su una piccolissima parte di realtà, e “non scientifico”, nel senso di poco accurato, un testo monografico su un grande tema della filosofia, mi sembra davvero l’esito di una conformazione del sapere contraria allo stesso concetto di philosophia per come elaborato dai classici. Sostenere questo equivale infatti – mi si conceda una provocatoria analogia zoologica, che assume come implicito riferimento ancora Aristotele, larga parte del cui corpus è dedicata, come noto, alla zoologia – a considerare “scientifico”, ad esempio, lo studio della riproduzione delle formiche rosse del Madagascar orientale nel luglio del 2023, ed a considerare “non scientifico” lo studio del mondo animale nel suo complesso. Per quale motivo chi osserva, pur con grande acribia, la riproduzione di un campione di formiche per un mese dovrebbe compiere uno studio “scientifico”, ossia accurato, e chi, come lo Stagirita, opera un gigantesco sforzo teoretico per anni analizzando le strutture biologiche di oltre 500 specie animali non dovrebbe compierlo? Tutto dipende, ovviamente, da quale significato si vuole attribuire al termine “scientifico”. Faccio peraltro notare che, come sempre Aristotele ha mostrato, l’intero risulta ontologicamente anteriore alle parti – l’esistenza delle parti richiede l’esistenza dell’intero, non viceversa –, per cui chi non si occupa anche dell’intero non può nemmeno dire di avere ben compreso la parte che analizza, mancandogli le strutture generali mediante cui porre in relazione quella stessa parte con le altre parti (la realtà è interconnessa, quindi queste relazioni vi sono, pertanto vanno conosciute).

Tutto questo solo per dire, soprattutto ai giovani studiosi, di essere benevoli – ossia di orientarsi anche loro, nei limiti del possibile – verso i testi filosofici generali, i quali, per quanto sempre migliorabili, risultano spesso utili per inquadrare anche gli studi particolari.

Un’ultima domanda relativa alla dedica del suo libro, “Ai ragazzi con qualche difficoltà, e a chi sta loro accanto”: c’è qualche collegamento con il tema del libro?
La ringrazio molto per questa domanda. Il collegamento, in effetti, c’è. Dicevamo prima che la nostra totalità sociale è molto competitiva. Nel libro, ogni tanto, faccio riferimento alla ideologia del merito che permea – talvolta in maniera poco attenta nei confronti di chi ha invece qualche difficoltà – anche il mondo della scuola. Penso ai campionati di filosofia, alle gare retoriche dei debates, alla eccessiva attenzione ai voti, e a molto altro ancora. La scuola riflette, naturalmente, i processi della nostra totalità sociale conflittuale. La filosofia però, come abbiamo detto, fu sin dal suo inizio comunitaria, in quanto ricerca comune del vero per il fine della realizzazione comune del bene, ossia del bene di tutti, anche di quelli solitamente considerati ultimi, i quali spesso fanno molta più fatica dei “primi” anche solo per arrivare ultimi.

Mi piacerebbe concludere raccontando una piccola storia. La vostra redazione è giovane, ma forse sapete che, negli anni in cui io ero piccolo, quindi molti anni fa, andò in classifica per diverso tempo una simpatica canzone di Enzo Jannacci, Vengo anch’io. No tu no. Con la sua ironia, il cantautore milanese aveva messo in scena, con quel brano, la storia di un ragazzo con qualche difficoltà che, semplicemente, voleva fare le stesse cose che facevano gli altri. Come evidente, in quel brano c’era molto più dell’ironia, ma io allora, essendo piccolo, non lo capivo. Capivo però che a me quella canzone non divertiva. Il perché l’ho compreso bene molti anni dopo, quando ho avuto la fortuna di conoscere, e poi di diventare amico, di uno dei maggiori critici musicali italiani, Andrea Pedrinelli, autore, fra le altre cose, di una bella monografia su Enzo Jannacci (Roba minima, Giunti, 2014). Fu lui, infatti, ad indicarmi una intervista in cui il grande Enzo diceva più o meno queste parole: “Quello lì, quello che chiedeva Vengo anch’io? e a cui gli altri rispondevano sempre no tu no!, ero io. Anche io infatti, quando ero ragazzo, volevo andare, come gli altri, allo zoo comunale, o con la bella sottobraccio a parlare d’amore, ma nessuno mi voleva, perché ero piccolo, brutto e povero”. Ho edulcorato un poco le parole di Jannacci – mentre lui lo faceva raramente quando rappresentava i suoi personaggi esclusi, sempre in parte autobiografici: in questo, anche, la grandezza della sua arte –, ma il segreto del saper voler bene, del saper accogliere, sta tutto lì, ovvero nella capacità di sapersi mettere nei panni degli altri, di vederli un poco come se fossimo noi. Se infatti “quello lì”, escluso dal “bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore”, fossimo noi, o nostro fratello, o nostro figlio, forse saremmo più sensibili nel “vedere di nascosto l’effetto che fa” l’esclusione. La filosofia aiuta a capirlo, mostrando come tutti possono dare il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, anche chi ha qualche difficoltà, in quanto spesso possiede risorse di umanità meravigliose, di cui semplicemente la nostra società ipercompetitiva, purtroppo, non si accorge.




Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.
Luca Grecchi – Intervista sulla «Ricchezza».
 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giovanni Casertano – «Il bene e la linea». In appendice: “Autopresentazione: Prima divenni un noto pianista, e poi cominciai ad imparare la musica”.

Il massimo apprendimento è l’idea del bene, ciò che trasforma e dà verità alle conoscenze, che le immette nella concretezza della nostra esistenza, senza essere esso stesso riducibile all’esistenza, proprio in quanto al di là dell’esistenza: è l’orizzonte aperto del dover essere. Il bene, come il fine, è ciò che solo dà valore alla nostra azione. Se c’è gradualità, un rapporto di minore a maggiore, questo non riguarda affatto il livello ontologico, bensì quello gnoseologico: ogni segmento, inteso come ogni facoltà, possiede una capacità maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, di raggiungere verità e chiarezza. Ogni segmento, inteso come l’oggetto della facoltà, cioè ciò a cui la facoltà si applica, possiede non una realtà maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, bensì una possibilità maggiore di essere oggetto di conoscenza vera e chiara.


[…] «Non è come Lei pensa, mio giovane amico. Le sto dicendo che solo suonando le mie sonate e i miei concerti, solo ascoltando le mie sinfonie, Lei potrà avere un’idea di che cosa sia fare musica. Non che io sia il solo musicista. Perché, vede, c’è una differenza. Una cosa è la musica, una cosa sono i musicisti. Ogni musicista compone ed interpreta. Ma la musica è sempre oltre. Comprende tutti i componimenti e le interpretazioni, ma è sempre oltre. Suonando e interpretando le mie opere, Lei potrà acquisire lo spirito della musica. Non nel senso che io sia la musica, come Lei ingenuamente ha pensato. Ma nel senso che scavando nei miei spartiti Lei potrà trovare forse il sapore della musica».

«Che cos’è il sapore della musica?».

«Quando Lei termina di eseguire una sonata, e gli applausi del pubblico giustamente Le fanno piacere, il sapore della musica è il sapere che Lei non ha terminato qualcosa, ma ha soltanto cominciato. Quando Lei pensa di aver colto lo spirito di un concerto, e di averlo trasferito nella sua interpretazione, il sapore della musica è il rimanerne insoddisfatto, non compiaciuto. Quando Lei pensa di aver raggiunto un punto fermo nella comprensione di uno spartito, il sapore della musica è il sentire che al di là di ogni punto fermo c’è un altro periodo che può, che deve cominciare».
«Credo di cominciare a capire».
«Bene».
«Ma così non si vive in un perenne stato di insoddisfazione? Pensare che si è sempre all’inizio …, di essere
sempre nel parziale …, di non poter mai raggiungere un punto fermo …».

«Vede, mio giovane amico, quando Lei sarà penetrato nello spirito dei miei spartiti; quando Lei avrà assaporatofino in infinito; quando avrà capito che giungere a possedere la tecnica dei discorsi musicali non significa aver ingabbiatola musica in quella tecnica; quando avrà capito che, per quanto importanti possano essere le note che Lei ochiunque altro suonerà, le note della musica sono sempre oltre quelle che vengono suonate: allora, forse, avràassaporato il sapore della musica. Quando avrà capito che tutti i musicisti, anche i più grandi, hanno esploratole più impensabili combinazioni di note ad esprimere quelli che in fondo sono i pochi temi musicali fondamentalidell’animo umano, ma che questi temi rimangono ancora aperti ad infinite altre variazioni; quando avràcapito che non bisogna attaccarsi alle proprie esecuzioni ed interpretazioni, per quanto tecnicamente riuscite eprofonde possano essere, perché esse fanno parte della musica ma non sono la musica: allora, forse, avrà assaporatoil sapore della musica. Questo Lei troverà nei miei spartiti. E quando troverà il sapore della musica, io sarò sparito. Ed anche Lei sparirà, se sarà un buon musicista. Perché quello che resta sempre è appunto il saporedella musica, e non chi l’ha eseguita».




Salvatore Bravo – Hannah Arendt del politicamente corretto.

Costanzo Preve
Hannah Arendt


Salvatore Bravo

Hannah Arendt del politicamente corretto

 

Il totalitarismo del politicamente corretto ha i suoi eroi e le sue eroine. Hannah Arendt è tra le antesignane della filosofia decaffeinata, al punto da essere insapore. La filosofia è per sua fondazione radicale, essa è “contropotere” con la funzione etica e politica di neutralizzare le forze che minacciano la comunità e le singole soggettività. A tal fine il metodo filosofico è dialettico e concreto. Esso risponde ai drammi e alle potenzialità trasformatrice della propria epoca mediante l’approccio olistico: il dato è riportato al contesto, e in tal modo si affinano gli strumenti critici e si smascherano posture ideologiche. La filosofia non abita nelle stanze del potere, vive nella comunità, è concretezza dialettica, ha lo scopo di ricostruire relazioni di giustizia su fondamenta veritative. Il potere teme la giustizia sociale e il suo inevitabile antagonismo, al punto da far scomparire dallo spazio pubblico ogni riferimento ad essa.

Il potere oscura i filosofi non spendibili dal circo mediatico. La filosofia addomesticata regina dei salotti trasforma i concetti in chiacchiere e il concreto in astratto. Lo scopo è l’irrazionale, la comprensione degli eventi storici e il giudizio qualitativo sul sistema è sostituito dagli slogan e dalla chiacchiera colta. Nei luoghi della formazione e nei media si segue l’astratto discorrere, pertanto si selezionano i “filosofi” che rafforzano e consolidano con l’irrazionalità l’ipostatizzazione del presente.

Hannah Arendt è largamente utilizzata in tal senso, al punto da essere una icona del politicamente corretto. Il suo impegno filosofico e i suoi scritti non turbano il liberismo, ma ammiccano ad essi.

Le categorie del liberismo sono proiettate nella storia, i Greci appaiono allo sguardo del lettore della Arendt come gli antenati dei liberisti inglesi. La Arendt proietta categorie del suo tempo nell’interpretazione dei Greci addomesticandoli e rendendoli conformi al “politicamente corretto”, ne disinnesca le potenzialità critiche e divergenti per gli uomini e le donne del nostro tempo. La storia diviene una lunga conferma del presente.

Costanzo Preve filosofo controcorrente e radicale è esplicito nel suo giudizio: per la Arendt i Greci sono gli antenati imperfetti degli anglo-americani, in quanto discriminavano le donne e possedevano gli schiavi. La storia ha dunque due modelli positivi: i Greci e gli inglesi. I Greci sono i precursori degli inglesi. Naturalmente “l’imperfezione greca” non è spiegata razionalmente con la cornice storica ed è risolta dal liberismo, in tal modo si plana “nel migliore dei mondi possibili”. Il paradigma liberista è usato per giudicare i popoli antichi e contemporanei, con questa modalità il liberismo diviene non un modello storicamente situato con le sue contraddizioni, ma il discrimine con cui dividere il bene dal male:

 

«La Arendt, evidentemente, si immagina i greci come dei liberali anglosassoni moderni, sia pure ancora imperfetti perché possedevano ancora degli schiavi e tenevano chiuse in casa le loro donne, i quali effettivamente discutono liberamente di politica presupponendo che la cosiddetta “economia” sia un dato che funziona e si riproduce per conto suo».[1]

 

Logos

Il termine logos è tradito e misconosciuto nella sua verità storica. La filosofia è dispositivo anticrematistico. Lo scandalo per i liberisti di ogni partito è la filosofia, di conseguenza essa dev’essere deformata e mutilata della sua capacità di dare-donare risposte agli effetti distruttivi del liberismo. La Arendt si presta a tale operazione di occultamento della filosofia. Il logos per la Arendt è “semplicemente la parola” da usare all’interno di formalismi giuridici. Il logos, invece, rileva Costanzo Preve è emancipazione dalle forza economiche e crematistiche che vogliono strumentalizzare i cittadini, oscurarne la coscienza e il senso critico. Il logos è attività critica che rende la coscienza individuale luogo di resistenza e attività in opposizione alla manipolazione persuasiva. Il logos ha una valenza politica e veritativa e coincide con il filosofare, è prassi sociale senza la quale guerre e ingiustizie divorano comunità e individui in un fatale destino di dolore:

 

«Per la Arendt il termine logos significa unicamente parola, libera parola che convince, decisione presa in base al convincimento delle sole parole. […] La filosofia, anzi, è nata proprio sulla base della messa in discussione problematica del potere di convincimento della parola in nome di una istanza veritativa esterna al puro potere di convincimento della parola stessa (Socrate contro Gorgia, Platone contro Isocrate, eccetera). La Arendt evidentemente cerca di comprendere la polis combinando idealmente Gorgia e Rorty: il logos si riduce alla parola che convince, e dal momento che la verità non esiste la democrazia prevale sempre sulla filosofia».[2]

 

Il logos è misura delle giuste proporzioni, è il katechon che deve contenere derive dissolvitrici nelle quali popoli e individui sono reificati dai processi economistici. Sfruttamento e indebitamento sono il risultato delle logiche crematistiche, i popoli sono sospinti all’indigenza e sono saccheggiati del loro lavoro e della loro capacità creativa e comunitaria.

 Il pensiero greco è modello eterno da ripensare, in quanto definisce la natura umana e stabilisce la stabilità della comunità sulla giustizia e sulla verità “mostrate e dimostrate”. Non è sufficiente vivere secondo la verità, per il greco il logos è la parola con cui si dimostra la necessità di una vita conforme alla natura umana. La scissione tra pensiero ed essere è trascesa, sicché il logos pensa il proprio tempo storico, lo giudica qualitativamente al fine di porre in essere la prassi trasformatrice. Il logos della Arendt ridotto a espressione vocale astratta non può che contraddire la sua funzione emancipatrice per divenire chiacchiericcio colto che conserva gli equilibri-squilibri sociali in atto:

 

«Il termine logos significa calcolo (loghizomai), e più esattamente, calcolo delle proporzioni delle corrette proprietà ispirato alla misura (metron), alla giustizia (dike), alla concordia fra i cittadini (omonoia), all’equilibrio fra i beni in una comunità (isorropia), all’istituzione di un freno sociale (katechon) per impedire l’accumulazione infinita-indeterminata (apeiron) delle ricchezze private (chremata) potesse portare alla corruzione-dissoluzione del corpo sociale (phthorà)».[3]

 

 

Destoricizzare

La destoricizzazione e la desocializzazione usate come metodo d’indagine finiscono con deformare non solo i Greci ma anche il tempo contemporaneo. La storia finisce con diventare una fiaba aspaziale e atemporale. La storia per la Arendt è una lunga corsa verso il liberismo, i totalitarismi riconosciuti e giudicati come tali sono solo i sistemi politici avversi al liberismo. Quest’ultimo, invece, è giudicato il regno della libertà. Per evitare gli ostacoli storici e la sua dura realtà la Arendt destoricizza l’essere umano in modo da fondare una antropologia organica allo scopo della sua opera, tutto è abilmente neutralizzato, non mette in campo le categorie interpretative che potrebbero destabilizzare la sua “filosofica visione”.

 

«In primo luogo, l’antropologia della Arendt è completamente destoricizzata, in modo quasi incredibile (e per questo piace nell’epoca postmoderna di rifiuto della coscienza storica). Non c’è traccia di Polany, per cui l’antropologia umana del comportamento privato e pubblico non si sviluppa in correlazione con le forme di rapporto comunitario reciproco (reciprocità, ridistribuzione, scambio eccetera). Non c’è traccia naturalmente di Hegel, per cui è proprio attraverso il lavoro (e cioè prima di lavorare, e poi l’operare) che l’uomo prende coscienza prima di se stesso (e cioè la sua coscienza libera), e poi dei suoi rapporti di asservimento (il servo che si rende conto che lo stesso signore dipende dal suo lavoro). Non c’è ovviamente traccia di Marx, per cui lo stesso “metabolismo dell’uomo con la natura” (definizione marxiana) è una pura astrazione del tutto inesistente se non è immediatamente concretizzata con i rapporti sociali di produzione dentro i quali questo metabolismo uomo-natura avviene».[4]

 

L’unica diade individuata dalla Arendt è l’opposizione uomini-donne. La lotta di classe è rimossa dalla storia e dai modi di produzione, su tutto campeggia la storia pacificata dalla vittoria del liberismo anglosassone. Non potrebbe essere altrimenti, poiché il liberismo è per sua costituzione lotta tra le classi, tra le nazioni e tra gli individui, è “guerra perenne”. La diade uomo-donna la rende particolarmente spendibile per il sistema capitale che ha velato i conflitti sociali e di classe con il femminismo e i soli diritti civili, la diade uomo-donna è l’oscuramento della verità storica e catalizzatore del consenso pianificato a livello mediatico:

 

«Insomma, non ci sono tracce di Polany, Hegel e Marx, ma non c’è un briciolo di storia. Abbiamo un Uomo, anzi la diade Uomo-Donna (la sola in cui avviene evidentemente una dialettica biunivoca, il che fa della Arendt, assai più della Simone de Beauvoir, la vera fondatrice del femminismo filosofico, o più esattamente della sostituzione del femminismo al marxismo), che entra in rapporto diretto con la Natura, e che prima lavora per riprodursi, e poi opera per costruire strumenti artificiali».[5]

 

 

Morte e Natalità

Non vi è traccia nelle opere della filosofa della genealogia dei modi di produzione, e in generale, della genetica della divisione in classe con l’evolversi in senso crematistico dell’economia. Le classi sociali sono ipostatizzate, sono tali da sempre, per cui sono intoccabili, non c’è politica che possa intervenire per rigenerare nella giustizia le comunità. La speranza ha il suo succedaneo nel formalismo della parola. La democrazia diviene uso della parola in un sistema formale di regole che compensa il vuoto veritativo. Non a caso la Arendt tratta della “condizione umana” e non della “verità”:

 

«In secondo luogo, l’antropologia della Arendt non è soltanto destoricizzata, ma anche del tutto desocializzata. Non c’è traccia nella Arendt del fatto che all’interno della divisione sociale del lavoro nascono le classi sociali antagonistiche, gli sfruttatori e gli sfruttati».[6]

 

La filosofia al femminile è la frontiera da contrapporre alla filosofia maschile. Non vi sono altre contrapposizioni. Heidegger è simbolo del filosofare maschile. Gli uomini non possono generare la vita, pertanto perseguono la morte. L’Heidegger della Arendt è banale fino al semplicismo. Costanzo Preve dimostra che l’essere per la morte di Heidegger non è finalizzato ad affermare la morte, ma è giudizio sul modello liberista. La reificazione è una forma di morte, mentre si è in vita. La vita inautentica è vita dominata dalla tecnocrazia (Gestell), la tecnica capitalistica si impianta nella carne viva e deforma la natura umana. Il logos è sostituito dal calcolo e dal vuoto ciarlare. L’antitesi della natalità della Arendt alla morte di Heidegger non ha dunque ragion d’essere:

 

«Secondo, la Arendt contrappone la sua teoria della centralità della natalità alla teoria heideggeriana della mortalità, provocando lodi dal concerto del politicamente corretto e del buonismo universale (chi infatti – potendolo fare – non sceglierebbe la natalità alla mortalità?). Ma il Vivere-per-la-Morte di Heidegger non c’entra nulla con una (presunta e inesistente) centralità della cosiddetta Mortalità. Centrale per Heidegger è soltanto l’autenticità, e cioè il vivere autentico (parlo solo del cosiddetto “primo Heidegger”, nel secondo centrale diventa il rapporto degli enti storici con l’Essere».[7]

 

Malgrado i filosofi del politicamente corretto, la natura etica e razionale dell’essere umano non può essere congelata dall’inverno dello spirito sostenuto dagli oratores e dai filosofi di regime. Per poter riportare la storia e la verità dove impera l’astratto è necessario l’esodo dalle Accademie e dai filosofi da salotto. Un concetto radicale e vero può muovere a trasformazioni inaspettate che la pletora dei libri prodotti in serie non potranno mai causare. Il tempo che verrà esattamente come l’attuale momento storico è lavoro dello spirito-concetto da contrapporre all’aggressività della menzogna pianificata. La prassi è innanzitutto verità da definire e tradurre in agire politico, Costanzo Preve ci rammenta con le sue critiche al pensiero della Arendt il senso del filosofare e denuncia le storture e gli occultamenti ideologici del sistema capitale.

 

[1] Costanzo Preve, La Scuola di Francoforte Adorno e lo spirito del Sessantotto, Schibboleth, Roma 2023.

[2] Ibidem, pag. 286.

[3] Ibidem, pag. 287.

[4] Ibidem, pag. 281.

[5] Ibidem, pagg. 281-282.

[6] Ibidem, pag. 282.

[7] Ibidem, pag. 283.

Luka Bogdanić, Ivana Costa, Luca Grecchi, Lidia Pupilli, Marco Severini, Lucia Palpacelli, Emidio Spinelli – Un intellettuale oltre le frontiere Studi su Rodolfo Mondolfo Introduzione e cura di Federica Piangerelli. Atti del Convegno «Oltre le frontiere | Más allá de las fronteras, Giornata di Studi su Rodolfo Mondolfo: l’interesse per la filosofia e l’impegno politico, tra Italia e Argentina», promosso dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata e svoltosi a Senigallia il 6 maggio 2023.


Il vero maestro non è un somministratore di conoscenze,
ma uno svegliatore di spiriti,
il quale nell’atto
stesso di esercitare la sua funzione illuminatrice
ammette anche la reciprocità di tale azione
e accetta la possibilità di essere confutato
non meno che quella di confutare gli altri. […]
La forma necessaria dell’indagine
è pertanto il dialogo: con se stessi e con gli altri
[…]. Nella mutua cooperazione che questa educazione
implica tra maestro e discepolo, e parimenti tra
tutti i membri della comunità umana, questa esigenza
di libertà è altresì un’esigenza di amore […].
Socrate associava alla dotta ignoranza, o coscienza permanente
dei problemi, unica fonte del progresso conoscitivo,
il superamento dell’odio e l’affermazione
dell’amore e della solidarietà umana, che, mediante
il riconoscimento della libertà spirituale di ciascuno,
procurava la cooperazione di tutti nello sforzo di raggiungere
il fine comune.
Fine umano per eccellenza,
cioè l’elevazione intellettuale e morale
che costituisce il vero bene e l’intima soddisfazione di ciascuno e
di tutti, legge di autonomia e fonte della vera felicità.

Rodolfo mondolfo


Luka Bogdanić (1978) è professore associato alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Zagabria, dove insegna Antropologia filosofica e Filosofia della Cultura. Ha scritto di storia del marxismo e dell’Est Europa, di Gramsci e di nazionalismo. Collabora con il manifesto ed è membro dell’International Gramsci Society. Ha pubblicato Praxis. Storia di una rivista eretica nella Jugoslavia di Tito (2009), Nazione e autodeterminazione. Premesse e sviluppi fino a Lenin e Wilson (2009) e Identità inquieta. La questione nazionale nei Balcani occidentali (2020).

 

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Ivana Costa è argentina e vive a Buenos Aires. Insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Buenos Aires e all’Università Cattolica Argentina. I suoi principali temi di interesse sono il pensiero di Platone, il platonismo tardo-antico e moderno e le concezioni di finzione e realtà nella storia della filosofia. È membro del comitato esecutivo della International Plato Society. Ha pubblicato traduzioni commentate di Platone (Liside, Colihue, 2019) e Machiavelli (Il Principe, Colihue, 2013), articoli su Platone e la tradizione platonica e il libro Había una vez algo real. Ensayo sobre filosofía, hechos y ficciones (Mardulce, 2019).

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Luca Grecchi (Filosofia morale, Università degli Studi di Milano-Bicocca), direttore della rivista Koinè, ha recentemente pubblicato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere (petite plaisance, 2023) e La filosofia prima della filosofia (Morcelliana, 2022).

 

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Lucia Palpacelli, Docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Per Bompiani ha curato l’appendice bibliografica e lessicografica del volume di Aristotele, Fisica (2011); la revisione, aggiornamento e saggio bibliografico del volume di Aristotele, La generazione e la corruzione (2013) e il saggio introduttivo, traduzione e note del De interpretatione all’interno dell’Organon aristotelico (2016). Tra i suoi scritti: L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria (Vita e Pensiero 2009); Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo (Morcelliana 2013); Zenone di Elea. Frammenti e testimonianze (Scholé 2022).

 

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Federica Piangerelli, Dottoressa di ricerca in “Umanesimo e Tecnologie” presso l’Università di Macerata (con una tesi dal titolo Alle origini del confronto con l’alterità. Barbaroi e xenoi nel pensiero greco antico. Una indagine storico-filosofica), è cultrice della materia in Storia della filosofia antica presso lo stesso Ateneo, e autrice di diversi contributi scientifici, ospitati in volumi e in riviste di rilevanza nazionale e internazionale; attualmente, sta lavorando ad una nuova traduzione in italiano, con commento, del Sofista di Platone.

 

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Lidia Pupilli, PhD in Storia dell’età contemporanea e cultrice della materia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, è docente di ruolo nella Scuola secondaria di secondo grado e si occupa principalmente di storia politica e storia delle donne. Fra i suoi lavori, la monografia Intellettuale nel regime. L’al­tra vita di Romolo Murri, Marsilio 2019 e le curatele Uomini dalla parte delle donne fra Otto e Novecento, Marsilio 2020 e Pioniere. Storie di italiane che hanno aperto nuove frontiere, Aras 2021. Con Marco Severini ha curato Dodici passi nella storia. Le tappe dell’emancipazione femminile, Marsilio 2016 e il Dizionario biografico delle donne marchigiane (1815-2022), il lavoro editoriale 20225, realizzando, da ultimo, il volume Giuseppe Chiostergi. Vita di un mazziniano nel Novecento, il lavoro editoriale 2022.

 

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Marco Severini, insegna Storia dell’Italia contemporanea e Storia delle Donne nell’Italia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata. È autore di 34 monografie che spaziano dalla storia politica a quella delle donne, dalla storia della storiografia a quella odeporica. Ha tenuto lezioni e conferenze in Spagna, Francia, Portogallo, Stati Uniti e Germania ed è fondatore e presidente dell’Associazione di Storia Contemporanea. Dirige la rivista «il materiale contemporaneo» ed è editorialista della rivista «Democrazia futura». Tra gli ultimi libri, Da Conte a Draghi. Problemi e scenari del biennio pandemico (2022); Public History. Undici anni sul campo (2022); Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni (2023).

 

 

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Emidio Spinelli è Professore Ordinario di Storia della filosofia antica e Prorettore per il Diritto allo Studio e la Qualità della Didattica presso la “Sapienza”/Università di Roma; è anche Presidente della “Società Filosofica Italiana” e, dal gennaio 2021, Presidente dell’Italian Organizing Committee del “XV World Congress of Philosophy”. Oltre ad articoli su Presocratici, Atomisti, Socrate/‘Socratici minori’, Platone, Stoici, Epicurei, papiri filosofici e storiografia filosofica antica, sullo scetticismo antico ha pubblicato: Sesto Empirico. Contro gli etici (Napoli 1995); Sesto Empirico. Contro gli astrologi (Napoli 2000); Questioni scettiche. Letture introduttive al pirronismo antico (Roma 2005). Egli è anche autore di Obiettivo Platone: a lezione da Hans Jonas (Pisa 2019) e ha editato i seguenti testi: H. Jonas, La domanda senza risposta. Alcune riflessioni su scienza, ateismo e la nozione di Dio (Genova 2001); H. Jonas, Problemi di libertà (Torino 2010). Di recente pubblicazione: E. Spinelli, Le radici del passato. Giuseppe Rensi interprete degli scetticismi antichi (Pisa 2021).




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ernst Bloch – La speranza non si lascia liquidare, non si lascia sopprimere, non si lascia banalizzare e ancor meno teologicizzare, ma appartiene all’immanenza del nostro esistere, al «trascendere senza trascendenza»: la filosofia è tenuta a riflettere su questo trascendere, che mette in gioco le domande centrali relative al non-ancora, all’utopia reale, all’utopia concreta.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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La fragilità costitutiva dell’individuo può essere oggetto di cura intersoggettiva, e può perciò significare qualcosa di più di un mero limite del singolo: può significare il suo “valore”.



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Il 19 Ottobre 2023, Francesca Eustacchi parlerà al XIV° Simposio Platonico di Praga su l’«approccio multifocale» della Scuola di Macerata, e degli studi del Prof. Maurizio Migliori sull’anima platonica.




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