Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.

Marcuse 002
Giovanni-Battista-Piranesi-The-Prisons

Giovanni Battista Piranesi, The-Prisons.

«Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori. Tuttavia […] dobbiamo per lo meno sapere che al posto della prigione vogliamo costruire una casa di abitazione. È proprio quello che crediamo di sapere. Non è necessario avere già pronto un piano preciso della casa per cominciare a demolire la prigione; purché si sappia che si vuole e si può sostituire a quest’ultima una casa di abitazione, e purché si abbiano le idee chiare su come deve essere una casa decente (questo costituisce, secondo me, l’aspetto decisivo)».

Herbert Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Roma-Bari, 1968, pag. 107.

 

La fine dell'utopia

La fine dell’utopia


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Peter Bichsel (1935) – Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla. Progettiamo dunque una società narrante.

lettore+narrare

«Raccontare storie significa occuparsi del tempo, e esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine, e che la vita dei nostri amici ne ha pure uno.
L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada. […] Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata.
Il raccontare storie ha qualcosa a che fare con il fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie. Senza alcuna comprensione del tempo non ci sarebbe nessuna storia. Chi non ha alcuna inclinazione alla tristezza è perduto per la letteratura […].
Non so che aspetto avrebbe una società pacifica, senza aggressioni e senza competizioni […]. Di una cosa però sono convinto: sarebbe una società narrante e non storicizzante. Gli abitanti di Bali, pacifici, non aggressivi ed entusiasti di raccontare, hanno rafforzato questa mia convinzione.
Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla […].
Continuare a scrivere ha senso perché continuando a scrivere diventa possibile narrare altre vite».

Peter Bichsel, Il lettore, il narrare, traduzione a.c. di Giorgio Messori, Ælia Lælia, Reggio Emilia, 1985. Titolo originale: Der Leser, das Erzählen. Frankfurter Poetik-Vorlesungen, 1982.

 

 


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Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Le scarpe di Aristotele

 

Politica, di Aristotele

Aristotele è stato anche il fondatore della “filosofia dell’economia”,
e dicendo “fondatore” intendo proprio dire il fondatore.
Questo fatto basilare è ampiamente noto agli specialisti
(Henry Denis, Karl Polanyi, Geoffrey de S. Croix, Moses Finley, ecc.),
era già ampiamente noto a Marx,
mentre è sistematicamente ignorato
dai manuali liceali ed universitari di storia della filosofia,
che arrivano al massimo (ma neppure tutti)
a riportare distrattamente che Aristotele
 nella Politica avrebbe distinto fra “economia” e “crematistica”,
senza peraltro neppure immaginare le conseguenze dirompenti di questa distinzione,
sulla quale poi indirettamente Marx costruì la sua critica dell’economia politica.

Costanzo Preve,
Una nuova storia alternativa della filosofia

 

Il formidabile excursus che Aristotele, nella Politica, dedica alla chrematistiké («arte che produce beni», chremata), costituisce una lucida diagnosi dei meccanismi che vanno erodendo l'economia della polis e, in pari tempo, un drastico rifiuto della logica che ad essi presiede; essa conduce dall'idealizzata «autosufficienza» (autarkeia) dell'economia domestica – attraverso le prime forme di baratto – sino alla nascita della «moneta» (nomisma, cioè quanto vale solo per nomos, per «convenzione») e al diffondersi di una vera e propria techne tesa alla produzione di «profitto» (kerdos). Agli occhi di Aristotele, tale processo allontana gli uomini dall'unico fondamento reale della ricchezza e dell'economia: il "valore d'uso", e cioè la concreta utilità di un bene secondo le necessità vitali di una koinonia («comunità») domestica o statale. In base a quell'uso innaturale dei beni che è il "valore di scambio", la chrematistiké innesta un circuito interminabile di permute il cui solo fine è il vuoto e convenzionale nomisma. Una ricchezza solo apparente, conclude Aristotele, che ad altro non può ricorrere se non a uno scontato exemplum mitico, la leggenda del re Mida.

 

[1256b] Fra le arti d’acquisizione patrimoniale, solo una specie è parte naturale dell’ economia, perché bisogna che si abbiano a disposizione – o che tale arte metta a disposizione – una riserva di beni utili alla comunità cittadina o domestica.
Ed è plausibile che in tali beni consista la ricchezza autentica. Quanto, di tale possesso, basta a una vita ben vissuta, non è senza limiti, come dice Solone in quel suo verso: «per la ricchezza umana, / nessun termine chiaro è decretato».
Un termine invece esiste, come per le altre arti: non si dà mezzo senza un termine, in numero o in grandezza, per nessuna arte; e la ricchezza altro non è che la somma dei mezzi economici e politici. È evidente, dunque, che esiste un’arte d’acquisizione patrimoniale che appartiene per natura a chi si occupa di economia e di politica. E perché ci sia, è altrettanto evidente.
Ma c’è un’altra arte d’acquisizione patrimoniale che si definisce precisamente – e a giusto titolo – «crematistica», «arte che produce i beni». È a causa di tale arte che non si dà [1257a] alcun apparente limite alla ricchezza e all’acquisizione. Molti credono che essa sia uguale e identica all’arte di cui abbiamo appena parlato, data l’affinità fra le due: ma essa non è né identica, né troppo lontana. Solo che la prima è naturale, la seconda no, ma deriva piuttosto da qualche esperienza e dall’ arte acquisita.
Iniziamo da questo punto. Dato un bene, due sono gli usi che se ne possono fare: entrambi conformi alla natura del bene, ma non allo stesso modo, dal momento che il primo è proprio dell’oggetto, l’altro no. Esempio: una scarpa. Essa può essere calzata, o essere oggetto di scambio. Ed entrambi sono modi di usare la scarpa. Chi scambia una scarpa con chi ne ha bisogno, e ne ricava denaro o nutrimento, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non ne fa l’uso che le è proprio: la scarpa non è fatta per essere barattata! E così vale per tutti i beni.
[…] Nella comunità primaria – che è la comunità domestica – evidentemente non si dà alcuna pratica di scambio; essa si dà invece nelle comunità più estese. I membri della comunità domestica avevano in comune, tutti quanti, gli stessi beni, mentre chi si trova a vivere in comunità separate ha accesso a molti beni diversi, dei quali si dà necessariamente un reciproco scambio, secondo i concreti bisogni, come avviene tuttora fra molti popoli barbari, tramite il baratto. E così sono oggetto di scambio i meri beni utili: un bene per un bene equivalente, ma nulla di più; per esempio, danno o prendono vino o grano, e così per ogni altro bene analogo. Una simile forma di scambio non è contro natura, né rientra in alcun modo nella «crematistica», perché tende a completare la naturale autosufficienza.
Eppure è proprio da questa forma di scambio che derivò, secondo logica, la crematistica.
Quando divenne più sistematico il ricorso all’estero per importare ciò di cui si mancava e per esportare i beni in eccedenza, si ricorse di necessità all’uso della moneta. Non tutti i beni naturalmente necessari sono facili da trasportare: e così, per realizzare gli scambi, si convenne di dare e d’accettare un bene di un certo tipo; un bene che fosse utile in se stesso, ma più facile a maneggiarsi per le esigenze quotidiane: per esempio il ferro, o l’argento, o altro materiale analogo, che sulle prime era definito semplicemente dalla sua grandezza e dal suo peso; in séguito, però, presero a imprimervi un marchio, così da poter evitare la misurazione: il marchio valeva da segno della quantità.
[1257b] Dopo l’invenzione della moneta, dallo scambio praticato per pura necessità sorse un’altra specie di crematistica: il commercio. Esso, sulle prime, fu forse un commercio rudimentale; ma poi, con l’aumentare dell’esperienza, divenne un’arte più scaltrita: e si seppe bene dove e come effettuare gli scambi per realizzare un profitto maggiore.
Perciò, a quanto pare, la crematistica ha per oggetto il denaro, e la sua specifica funzione è sapere da quali fonti ricavare il maggior numero di beni, perché la crematistica è un’arte tesa alla produzione di ricchezza e di beni. Non a caso, è idea comune che la ricchezza coincida con l’abbondanza di denaro, perché è il denaro l’oggetto del commercio e della crematistica.
A volte, però, il denaro sembra una sciocchezza, e una mera convenzione, priva di valore naturale: basta che i soggetti dello scambio ne mutino il valore convenzionale, ed ecco che il denaro non vale più nulla e non riesce più a soddisfare alcun bisogno vitale; sicché, chi è ricco di denaro, spesso non avrà di che mangiare. E davvero è una ricchezza ben curiosa, quella che farà morire di fame chi ne è ricco: come quel Mida della leggenda, che volle troppo, e pregò che tutto diventasse oro ciò che gli si presentava. Ed è per questo che si va alla ricerca di un altro tipo di ricchezza, o di crematistica: e non a torto. C’è un altro tipo di ricchezza, un altro tipo di crematistica, ed è l’economia in senso autentico. Quella fondata sul commercio, invece, produce beni, sì, ma non in senso assoluto: produce beni solo attraverso lo scambio di beni. E ha per oggetto il denaro, perché il denaro è elemento e fine dello scambio. E quella che deriva dalla crematistica è una ricchezza che non ha alcun limite.

Aristotele, Politica, 1, 1256b 26-1257b 24; trad. di F. Condello.

 


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Alberto Giovanni Biuso – Recensione del libro “Discorsi sulla morte” di Luca Grecchi.

Discorsi sulla morte

Discorsi sulla morte

di Luca Grecchi
Editrice Petite Plaisance, 2015

indicepresentazioneautoresintesi

grecchi_sulla_morteI quattro capitoli di cui si compone il volume sono costituiti da altrettante lezioni che Grecchi ha tenuto a degli studenti di psicologia. Circostanza che dà un taglio didattico e divulgativo al libro. L’attenzione si concentra sulla filosofia greca, dai pensatori delle origini all’ellenismo. Della riflessione successiva viene analizzata l’opera di Leopardi, con veloci accenni conclusivi a filosofi del Novecento.
Il risultato di questa ricognizione è che mentre il pensiero e la società greco-romana hanno dedicato molta attenzione alla morte, essa nel mondo contemporaneo è invece quasi del tutto rimossa, con conseguenti gravi angosce individuali e disturbi collettivi.
I Greci sapevano che «siamo una unità psicofisica, una unità che ha sempre presente la propria limitatezza, la propria finitudine, e che per vivere bene deve cercare di valorizzarla» (p. 12); che la materia è una costante trasformazione degli enti singoli, la quale non tocca la stabilità ed eternità dell’intero; che la condizione dei viventi -umano compreso- è intrisa di un metabolismo «che conduce irreversibilmente alla morte, senza ritorni né recuperi» (p. 26). Comprendere teoreticamente e accettare nella prassi tale condizione significa conciliarsi con il tempo e la necessità, e dunque poter attingere almeno un poco di serenità. Il rigetto della finitudine conduce invece all’ansia, al panico, alla depressione.
Tutto ciò conferma che siamo fatti di tempo, che «l’uomo non riesce ad accontentarsi di vivere solo il proprio presente, poiché ha dei ricordi, delle radici, un passato; al contempo ha un futuro, un progetto di vita, vuole dare senso e valore alla propria esistenza, e dunque non può limitarsi al presente» (p. 45).
Il plesso inseparabile di finitudine, materia e tempo suggerisce che la morte non è un ente, non è una sostanza ma costituisce un evento che porta al culmine e insieme a conclusione il processo più o meno duraturo della vita. Non si dovrebbe dunque parlare di morte ma del morire, vale a dire di qualcosa che accade sin dal concepimento e definisce lo stesso vivente.

Alberto Giovanni Biuso

DIpartimento di Scienze UManistiche – DISUM
www.biuso.eu

 

Recensione già pubblicata sul sito dell’autore: Finitudine.

 


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Albert Camus (1913-1960) – Invece di uccidere e morire per diventare quello che “non” siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo.

Camus 006
Riflessioni sulla pena di morte

A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte

"Invece di uccidere e morire per diventare quello che non siamo,
dovremo vivere e lasciare vivere
per creare quello che realmente siamo".

A. Camus

Riflessioni sulla pena di morte (Réflexions sur la guillotine) è un saggio scritto da Albert Camus nel 1957. I brani che seguono sono tratti dall’ed. SE, Milano 1993, nella traduzione di Giulio Coppi.

«Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso in una sorta di delirio omicida, ma con l’aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l’opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall’eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all’esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all’altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno. Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d’improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull’asse dove l’avevano gettato per tagliargli il collo.
Bisogna dunque ritenere che quest’atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo, e se un castigo da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all’uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l’ordine in seno allo Stato. È invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l’offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. […] È invece mia intenzione parlarne crudamente. Non per il gusto dello scandalo, né, ritengo, per una malsana tendenza naturale. Ho sempre avuto orrore, come scrittore, di certi compiacimenti; come uomo, ritengo che gli aspetti ripugnanti della nostra condizione debbano, se inevitabili, essere affrontate in silenzio. Ma quando il silenzio, o le astuzie del linguaggio, contribuiscono a perpetuare un abuso che deve essere riformato, o una sventura che può essere alleviata, non esiste altra soluzione che parlar chiaro, e svelare l’oscenità che si cela sotto il manto delle parole. […] L’argomento principe dei partigiani della pena di morte è, lo sappiamo, l’esemplarità del castigo. Non si recidono teste soltanto per punire coloro che le portano, ma anche per intimidire, con un esempio terrificante, quelli che sarebbero tentati di imitarle. La società non si vendica, vuole solo prevenire. Brandisce una testa perché i candidati all’omicidio vi leggano il proprio futuro e indietreggino.
Questo argomento sarebbe decisivo se non si fosse costretti a constatare:
1. che neppure la società stessa crede all’esemplarità di cui parla;
2. che non è affatto dimostrato che la pena di morte abbia fatto indietreggiare un solo omicida deciso ad esserlo, mentre è evidente che essa ha esercitato un effetto fascinoso su migliaia di criminali;
3. che costituisce, per altri aspetti, un esempio ripugnante le cui conseguenze sono imprevedibili.
La società, in primo luogo, non crede a quel che dice. Se realmente vi credesse, esporrebbe le teste. Accorderebbe alle esecuzioni il beneficio del lancio pubblicitario che solitamente riserva ai prestiti nazionali o alle nuove marche di aperitivi. Sappiamo invece che le esecuzioni, in Francia, non avvengono più pubblicamente, ma si perpetrano nei cortili delle prigioni davanti a un ristretto numero di esperti.
[…]
Se infatti si vuole che la pena sia esemplare, non soltanto si devono moltiplicare le fotografie, ma bisogna anche collocare la ghigliottina su un palco in Place de la Concorde, alle due del pomeriggio, invitando l’intera popolazione e teletrasmettere la cerimonia per gli assenti. […]
Bisogna far questo, oppure smettere di parlare di esemplarità.
[…]
Potrei produrre ulteriori testimonianze altrettanto allucinanti. Ma, per quanto mi riguarda, non saprei andare oltre. Dopo tutto, io non sostengo che la pena di morte sia esemplare, e questo supplizio mi appare per quello che è, un grossolano atto chirurgico eseguito in condizioni che lo privano di qualsiasi carattere edificante. Invece la società e lo Stato, che hanno visto ben altro, possono tollerare perfettamente questi particolari, e poiché predicano l’esemplarità, dovrebbero cercare di renderli tollerabili a tutti, affinché nessuno possa ignorarli e l’intera popolazione, terrorizzata, diventi francescana. Diversamente, chi sperano di intimidire con questo esempio tenuto sempre nascosto, con la minaccia di un castigo presentato come mite e immediato, in definitiva più tollerabile di un cancro, con questo supplizio coronato dei fiori della retorica. Certamente non quelli che vengono considerati onesti – e alcuni lo sono – poiché a quell’ora dormono, poiché il grande esempio non è stato loro comunicato, poiché mangeranno il loro pane imburrato nell’ora del seppellimento prematuro, e poiché verranno informati dell’opera della giustizia, a patto che leggano i giornali, da un comunicato dolciastro che si scioglierà come zucchero nella loro memoria. Eppure sono proprio queste pacifiche creature a fornire la più alta percentuale di omicidi. Molte di queste oneste persone sono criminali che ignorano di esserlo. Secondo un magistrato, la stragrande maggioranza degli assassini da lui conosciuti non sapeva, radendosi al mattino, che la sera avrebbe ucciso. Per l’esemplarità e per la sicurezza, converrebbe dunque brandire, invece di truccarlo, il volto nudo del giustiziato davanti a tutti quelli che al mattino si radono.
[…]
In effetti, bisogna uccidere pubblicamente, oppure confessare di non sentirsi autorizzati ad uccidere. Se la società giustifica la pena di morte con la necessità dell’esempio, dovrà giustificare se stessa rendendo la pubblicità necessaria. Deve, ogni volta, mostrare le mani del boia, e costringere a guardarle i cittadini troppo delicati, e anche tutti coloro che, direttamente o indirettamente , hanno fatto esistere quel boia. Diversamente confessa di uccidere senza sapere quello che dice né quello che fa, oppure sapendo che, lungi dall’intimidire l’opinione pubblica, queste cerimonie rivoltanti non possono che ridestare in essa il crimine, o precipitarla nello smarrimento. Chi potrebbe chiarirlo meglio di un magistrato, il consigliere Falco, ormai giunto alla fine della carriera, la cui coraggiosa confessione merita diessere meditata: “… L’unica volta che nella mia carriera ho deciso contro una commutazione di pena e per l’esecuzione dell’imputato, ritenevo che, malgrado la mia posizione, avrei assistito perfettamente impassibile all’esecuzione. L’individuo, del resto, era poco interessante: aveva martirizzato la figlioletta, gettandola infine in un pozzo. Ebbene! Dopo la sua esecuzione, per settimane, per mesi, le mie notti furono ossessionate da quel ricordo… Ho fatto la guerra, come tutti, e ho visto morire una gioventù innocente, ma posso dire che quell’orribile spettacolo non mi ha mai procurato quella sorta di cattiva coscienza provata assistendo a questa specie di omicidio amministrativo che chiamiamo pena capitale”.
Ma, in definitiva, perché la società dovrebbe credere a questo esempio, che non impedisce il delitto, e i cui effetti, se esistono, sono invisibili? La pena capitale non può intimidire chi non sa che sta per uccidere, chi lo decide all’improvviso, e prepara quell’atto in preda alla febbre o a un’idea fissa, e neppure chi, recandosi ad un appuntamento chiarificatore, si porta appresso un’arma per impaurire l’infedele, o l’avversario, e poi se ne serve pur non volendolo, o non ritenendo di volerlo. La pena capitale non può, per dirla in breve, intimidire l’uomo gettato nel delitto come si può esser gettati nella sventura. Significa allora dire che nella maggioranza dei casi è impotente. È giusto riconoscere che raramente in Francia viene applicata nei casi appena citati. Ma questo stesso «raramente» fa fremere.
Impaurisce almeno quella razza di criminali su cui pretende di agire, e che vivono di crimine?
Nulla è meno certo. Si può leggere in Koestler che in Inghilterra, all’epoca in cui i borsaioli venivano giustiziati, altri borsaioli esercitavano il proprio talento tra la folla che circondava la forca da cui pendeva il collega. Una statistica degli inizi del secolo, in Inghilterra, afferma che su duecentocinquanta impiccati, centosettanta avevano in precedenza assistito personalmente a uno o due esecuzioni capitali. Ancora nel 1886, su centosessantasette condannati a morte passati per le carceri di Bristol, centosessantaquattro avevano assistito almeno a una esecuzione. Tali sondaggi non possono più essere condotti in Francia, a causa della segretezza che circonda le esecuzioni. Ma autorizzano a ritenere che attorno a mio padre, il giorno dell’esecuzione, doveva esserci un nutrito numero di futuri criminali che, loro, non hanno certo vomitato. La potenza dell’intimidazione agisce unicamente sui timidi non destinati al delitto e cede di fronte agli irriducibili sui quali vorrebbe precisamente agire.
[…]
Anche se questo accadesse, bisognerebbe poi fare i conti con un altro paradosso della natura umana. L’istinto di vita, se è fondamentale, non lo è più di un altro istinto, di cui non parlano gli psicologi accademici: l’istinto di morte, che esige in certe ore particolari la distruzione di se stessi e degli altri. È probabile che il desiderio di uccidere spesso coincida con il desiderio di morire o di annientarsi. L’istinto di conservazione si trova in tal modo abbinato, in proporzioni variabili, all’istinto di distruzione. Solo quest’ultimo riesce a spiegare totalmente le numerose perversioni che, dall’alcolismo alla droga, conducono coscientemente l’uomo alla propria rovina. L’uomo desidera vivere, ma è vano sperare che un tale desiderio regni sulla totalità delle sue azioni. Desidera anche non essere, vuole l’irreparabile, e la morte per la morte. Accade così che il criminale non desideri soltanto il delitto, ma anche la sventura che l’accompagna, persino e soprattutto se è una sventura smisurata. Quando questo strano desiderio cresce e domina, non solo la prospettiva di una condanna a morte non potrebbe fermare il criminale, ma è persino probabile che accresca ulteriormente la vertigine in cui si perde. Si uccide allora per morire, in un certo modo.
Queste anomalie bastano a spiegare come una pena che sembra calcolata per impaurire animi normali, sia in realtà totalmente priva di effetto sulla psicologia media. Tutte le statistiche senza eccezione, quelle riguardanti i paesi abolizionisti oppure gli altri, dimostrano che non esiste rapporto tral’abolizione della pena di morte e la criminalità. Quest’ultima non aumenta né regredisce. La ghigliottina esiste, come esiste il delitto; tra di essi non c’è altro vincolo apparente all’infuori della legge. E quanto ci è dato dedurre dalle cifre che le statistiche ci offrono in abbondanza, è questo: per secoli si sono puniti con la morte reati diversi dall’omicidio e il castigo supremo, applicato così a lungo, non è riuscito a far sparire nessuno di questi reati. Da secoli tali reati non si puniscono più con la morte. Eppure non sono cresciuti di numero, e alcuni di essi sono persino diminuiti. Ugualmente, per secoli si è punito l’omicidio con la pena capitale, eppure la razza di Caino non è scomparsa. Infine, nelle trentatrè nazioni che hanno abolito la pena di morte, o in cui non viene più applicata, il numero degli omicidi non è aumentato. Chi potrebbe dedurre da tutto questo che la pena di morte ha un potere intimidatorio?
[…]
Se dunque si vuol conservare la pena di morte, che ci venga almeno risparmiata l’ipocrisia di giustificarla con la sua esemplarità. Chiamiamo con il suo vero nome questa pena a cui ogni pubblicità è rifiutata, questa intimidazione che non agisce sulle persone oneste, finché lo sono, che affascina quelle che non lo sono più, e che degrada, o corrompe, coloro che vi pongono mano. È una pena certo, uno spaventoso supplizio, fisico e morale, ma non offre alcun esempio sicuro, se non demoralizzante. Sanziona, ma non previene, quando addirittura non suscita l’istinto omicida. È come se non esistesse, salvo per colui che la subisce, nell’anima, per mesi o per anni, e nel corpo, in quell’ora disperata e violenta in cui lo tagliano in due, senza privarlo della vita. Chiamiamola col suo nome che, in mancanza di una qualsiasi altra nobiltà, le restituirà almeno quella della verità, e riconosciamola per quel che essenzialmente è: una vendetta.
Infatti, il castigo che sanziona senza prevenire si chiama vendetta. È una risposta quasi aritmetica che la società fornisce a chi infrange la sua legge primordiale. Questa risposta è antica come l’uomo: si chiama taglione. Chi mi ha fatto del male, deve averne; chi mi ha strappato un occhio, deve perderne uno dei suoi; chi ha ucciso, deve morire. Si tratta di un sentimento, e particolarmente brutale, non di un principio. Il taglione rientra nell’ordine della natura, dell’istinto, non rientra nell’ordine della legge. La legge, per definizione, non può obbedire alle stesse regole della natura. Se l’assassinio è nella natura umana, la legge non è fatta per imitare o riprodurre questa natura. È fatta per correggerla. Ora, il taglione si limita a ratificare e a dar forza di legge a un puro movimento naturale. Noi tutti abbiamo conosciuto questo impulso, spesso a nostra vergogna, e conosciamo la sua potenza: ci viene dalle foreste originarie. A questo riguardo, noi francesi, che giustamente ci indigniamo vedendo il re del petrolio, in Arabia Saudita, predicare la democrazia internazionale mentre affida a un macellaio il compito di recidere con un coltello la mano del ladro, anche noi viviamo in una sorta di medioevo che non ha nemmeno la consolazione della fede. Definiamo ancora la giustizia secondo le regole di una rozza aritmetica. Possiamo almeno dire che questa aritmetica è esatta, e che la giustizia, sia pur elementare e limitata alla vendetta legale, è salvaguardata dalla pena di morte? Si è costretti a rispondere in modo negativo.
Lasciamo da parte il fatto che la legge del taglione è inapplicabile, e che sembrerebbe tanto eccessivo punire l’incendiario appiccando il fuoco alla suacasa quanto insufficiente castigare il ladro prelevando dal suo conto in banca una somma equivalente. Ammettiamo pure che sia giusto e necessario compensarel’assassinio della vittima con la morte dell’assassino. Ma l’esecuzionecapitale non è semplicemente la morte. È tanto diversa, nella propria essenza, dalla privazione della vita quanto lo è il campo di concentramento dal carcere. È un assassinio, senza dubbio, che ripaga in forma aritmetica l’assassinio commesso. Ma aggiunge alla morte un regolamento, una premeditazione pubblica e conosciuta dalla futura vittima, un’organizzazione infine, che di per se stessa è fonte di sofferenze morali più atroci della morte. Non c’è dunque equivalenza.
[…]
È questa, si dirà, la giustizia umana, sempre preferibile all’arbitrio, nonostante le sue imperfezioni. Ma questo malinconico apprezzamento è tollerabile soltanto per le pene ordinarie. È scandaloso riguardo alle sentenze di morte. Un’opera classica di diritto francese, per giustificare l’impossibilità della pena di morte di essere suscettibile di gradazioni, così scrive: «La giustizia umana non ha affatto l’ambizione di garantire questa proporzione. Perché? Perché sa di essere inadeguata». Dobbiamo dunque concludere che questa inadeguatezza ci autorizza a pronunciare un giudizio assoluto e che, nel dubbio di poter realizzare la pura giustizia, la società deve precipitarsi, con i più gravi rischi, verso la suprema ingiustizia? Se la giustizia sa di essere inadeguata, non le converrebbe mostrarsi moderata, e lasciare alle sue sentenze margini sufficienti affinché l’eventuale errore possa essere rimediato? Questa debolezza in cui la giustizia trova per se stessa, in maniera permanente una circostanza attenuante, non dovrebbe concederla sempre anche al criminale? Una giuria può forse dire in coscienza: «Se la faccio morire per errore, lei mi perdonerà considerando la debolezza della nostra comune natura. Ma io lac ondanno a morte senza tener conto né di questa debolezza, né di questa natura»? Esiste una solidarietà di tutti gli uomini nell’errore e nello smarrimento. Questa solidarietà dovrebbe forse agire in favore dei tribunali e venir sottratta all’accusato? No, e se la giustizia ha un senso in questo mondo, null’altro significa se non il riconoscimento di questa solidarietà, che non può, per la sua stessa essenza, essere disgiunta dalla compassione. La compassione, s’intende, può esser qui solo il sentimento di una sofferenza comune, non una frivola indulgenza che non tenga in alcun conto né le sofferenze né i diritti della vittima. Non esclude il castigo, ma sospende l’estrema condanna. Le ripugna il provvedimento definitivo, irreparabile che, non contemplando la miseria della condizione comune, si dimostra ingiusto verso l’umanità intera.
[…]
Di fronte al delitto, come si definisce effettivamente la nostra civiltà? La risposta è semplice: da trent’anni a questa parte i delitti di Stato superano di gran lunga i delitti individuali. Non parlo neppure delle guerre, mondiali o locali che siano, benché il sangue sia un alcol che, a lungo andare intossica come il più generoso dei vini. Ma il numero degli individui uccisi direttamente dallo Stato ha assunto proporzioni astronomiche e supera infinitamente quello dei delitti individuali. Continuano a diminuire i condannati per reati comuni e ad aumentare i condannati politici. Lo dimostra il fatto che ognuno di noi, per quanto rispettabile, può contemplare l’eventualità di essere un giorno condannato a morte, eventualità che all’inizio del secolo sarebbe apparsa ridicola. […]
Quelli che fanno versare la maggiore quantità di sangue sono gli stessi che credono di avere dalla loro parte il diritto, la logica, e la storia.
Non è dall’individuo ma dallo Stato che oggi la società deve difendersi. È possibile che tra trent’anni le proporzioni siano rovesciate. Ma, per il momento, la legittima difesa deve opporsi soprattutto allo Stato. La giustizia e la convenienza più realistica esigono che la legge protegga l’individuo contro uno Stato in preda alle follie del settarismo o dell’orgoglio. “Che cominci lo Stato abolendo la pena di morte” dovrebbe essere, oggi, il grido che ci unisce».

Albert Camus

 

L’immagine in evidenza:

Omaggio a Camus del pittore messicano Eduardo Pola (1998)


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Johannes Baptist Lotz (1903-1992) – La solitudine è esperienza dell’uomo in quanto uomo

solitudine

 

«Lungo la sua storia, l’uomo è accompagnato da alcune esperienze fondamentali, entro le quali si svolgono le linee della sua esistenza […]. Tra queste esperienze fondamentali la solitudine occupa un posto di primo piano, perché non è estranea ad alcuna epoca, e insorge in tutti i tempi, per quanto questi possano differire tra di loro in tutto il resto […]. Ma perché l’esperienza della solitudine è così indissolubilmente legata con l’esistenza umana? Perché tale esperienza scaturisce da quel centro esistenziale dell’uomo, che sopravvive a tutte le vicende storiche e costituisce il nucleo più intimo e l’estrema profondità del proprio essere. Perciò la percezione della solitudine mette in piena luce l’intera grandezza e quindi anche il tremendo pericolo, in definitiva il mistero imperscrutabile, dell’uomo in tutta la sua portata. Sotto questo punto di vista la solitudine rientra tra quei temi eterni, che sono inesauribili quanto l’uomo».

Johannes Baptist LotzDella solitudine dell’uomo: la situazione spirituale dell’epoca della tecnica, Edizioni paoline, 1964.

 


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Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.

Spinoza 005
Spinoza, Etica

Spinoza, Etica

«[…] noi non possiamo mai fare in modo da non aver bisogno di niente fuori di noi per conservarci nel nostro essere, e da vivere senza alcun commercio con le cose esterne; e se, inoltre, consideriamo la nostra Mente, il nostro intelletto sarebbe certamente più imperfetto se la Mente fosse sola e non comprendesse null’altro se non se stessa. Vi sono dunque molte cose fuori di noi che ci sono utili e che perciò dobbiamo desiderare. Fra queste, non se ne possono pensare altre più eccellenti di quelle che concordano interamente con la nostra natura. […]

All’uomo, quindi, niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino quasi una sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».

Baruch Spinoza, Etica [Parte IV, Proposizione XVIII, Scolio], a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, 1972, p. 282.

 


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Ronald D. Laing (1927-1989) – Fuori formazione o … fuori rotta? Il criterio di “fuori formazione” è quello positivistico. Il criterio di “fuori rotta” è quello ontologico.

Laing004

L'io diviso

«Da un punto di osservazione ideale si può osservare da terra una formazione di areoplani.

Può darsi che un aeroplano sia fuori formazione; ma l’intera formazione può essere fuori rotta. L’aeroplano che è “fuori formazione” può essere normale, in errore o “impazzito” dal punto di vista della formazione; ma la formazione stessa può essere in errore o “impazzita” dal punto di vista dell’osservatore ideale. Inoltre, l’aereo che è fuori formazione può essere più o meno “fuori rotta” di quanto lo sia la formazione stessa.

Il criterio di “fuori formazione” è quello positivistico. Il criterio di “fuori rotta” è quello ontologico.

Si rendono, quindi, necessari due giudizi distinti in base a questi differenti parametri. In particolare, è di fondamentale importanza il non confondere una persona che sia “fuori formazione” con il dirle che si trova “fuori rotta” se ciò non è vero; ed è di fondamentale importanza non commettere l’errore positivistico di dedurre che un gruppo, per il fatto di essere “in formazione”, debba essere necessariamente “in rotta” … Non è nemmeno il caso di ritenere che chi sia “fuori formazione” sia più “in rotta” della formazione stessa: non c’è bisogno di idealizzare qualcuno solo perché gli è stata applicata l’etichetta di “fuori formazione”. Né è il caso di convincere chi si trova “fuori formazione” che la cura consiste nel rientrare nella formazione. Chi è “fuori formazione” spesso nutre una profonda avversione per la formazione … Se la formazione si trova “fuori rotta”, l’uomo che sa veramente rimettersi “in rotta” deve lasciare la formazione».

Ronald D. Laing

 

Nodi


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Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa

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Il tempo vissuto

Il tempo vissuto

«La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa. Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso daventi a me […] Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me».

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.


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Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.


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Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

Preve_ritorno del clero

«La ricerca della visibilità a tutti i costi, che molti sinceramente ritengono essere la precondizione per una vera esistenza, è fortemente illusoria. […] La sola via realistica è quella che nel Seicento seguì il filosofo olandese Spinoza: testimonianza di assoluta libertà di spirito e resistenza ad ogni forma di coinvolgimento esterno manipolato. […] Viviamo in un momento storico in cui l’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente, senza passare per la mediazione di gruppi intellettuali organizzati e riconosciuti. Si tratta di intellettualizzare direttamente la propria prassi culturale e sociale, non si tratta più di essere riconosciuti da una casta degli illuminati o da una corporazione dei colti.
Saremo giudicati dai presenti e dai posteri solo per le nostre opere, non per le chiacchiere di identità e di appartenenza che avremo prodotto, conformisticamente, in coro.

C. Preve

 

 

Il ritorno del clero

Costanzo Preve

Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi

indicepresentazioneautoresintesi

 

1. L’immaginazione sociologica.
 La nuova Nobiltà, il nuovo Clero ed il nuovo Terzo Stato
 dell’attuale globalizzazione ipercapitalistica

2. Dalla Cultura Mc World alla Iperborghesia.
 Sui lentissimi movimenti della immaginazione sociologica

3. I preti non sono più il clero della globalizzazione.
 Una proposta terminologica esplicita

4. Il clero giornalistico secolare, settore primario
 della nuova mediazione simbolica

5. Il clero universitario regolare, settore secondario
 della nuova mediazione simbolica

6. Nascita, sviluppo e declino dell’intellettuale 
 “impegnato” dal caso Dreyfus ad oggi

7. Il modello di Antonio Gramsci
 ed il ruolo sciagurato del blocco identitario

8. Dall’ideologia proletaria ai diritti umani.
 L’interventismo democratico nell’epoca della globalizzazione

9. Testimonianza e resistenza.
 Una strategia intellettuale sensata
 per l’individuo contemporaneo

10. Pensare e agire senza gruppi intellettuali.
 Sull’identità collettiva
 della comprensione del mondo oggi

Nota critica e bibliografica

In questo passaggio d’epoca la vecchia questione degli intellettuali ha bisogno di essere ridiscussa e ridefinita. Nato a fine Ottocento con il caso Dreyfus, l’impegno collettivo degli intellettuali sembra ora esaurirsi nelle insistite richieste di interventismo militare americano per tutelare “diritti umani” a corrente alternata ed a geometria variabile. Nello stesso tempo, la proposta di Antonio Gramsci di scegliere la via della “organicità” ad una classe o ad un partito ha dato luogo ad un ormai evidente blocco identitario che in nome di una cultura di appartenenza ha reso impossibile ogni indispensabile innovazione teorica adatta a comprendere le nuove caratteristiche del moderno capitalismo finanziario transnazionale. Questo nuovo capitalismo presenta caratteri neofeudali evidenti. Questa sua natura neofeudale si sta dotando di un nuovo Clero, prevalentemente giornalistico e mediatico, che organizza lo spettacolo della sua infinita potenza militare, tecnologica e culturale. Al vecchio clero religioso vengono riservate mansioni secondarie di carattere assistenziale. Questa cultura di tipo postborghese (da alcuni definita iperborghese) è stata connotata argutamente come Cultura Mc World, un nuovo tipo di totalitarismo flessibile che non si limita più a manipolare la vecchia opinione pubblica, ma tende a costruirla artificialmente fin dall’inizio. In queste condizioni storiche inedite, la vecchia questione degli intellettuali assume dimensioni nuove ed impensate. Il moderno Terzo Stato globalizzato che si sta costituendo non è ancora in grado di esprimere un’opposizione minimamente coerente alla Nuova Nobiltà finanziaria, ultracapitalistica e postborghese. Siamo dunque in una fase di passaggio nella storia dei gruppi intellettuali di opposizione, che deve essere compresa nei suoi termini esatti.

 

 


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