Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università

Luca Grecchi - Aristotele
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Per lo studio di Aristotele si possono consultare i testi dei vari autori che hanno scritto per la Trilogia sullo Stagirita.

Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Si consultino anche gli studi citati dagli stessi autori qui sotto menzionati,
a cominciare dagli studi del Prof. Enrico Berti.

Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti,
Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon,
Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina,
Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta


 

Luca Grecchi

Insegnare Aristotele nell’Università

 

Per riprendere una nota affermazione di Aristotele, ossia che «l’essere si dice in molti modi», si potrebbe iniziare dicendo che anche «l’Università si dice in molti modi». Esiste infatti una pluralità di corsi di laurea, e in molti di essi si insegna la filosofia di Aristotele. Poiché tuttavia le finalità di questi corsi di laurea sono differenti, l’insegnamento di questa filosofia – la quale pure, come ovvio, è e resta una sola – può e deve essere realizzato con modalità differenti, secondo appunto le differenti finalità per cui tale insegnamento è svolto.

F. Hayez, Aristotele, 1811

Una opportuna distinzione
Occorre in effetti, per limitarsi all’essenziale, distinguere quanto meno fra i corsi di laurea in Filosofia, in cui lo studio del pensiero dello Stagirita viene affrontato in termini tradizionali, ossia specialistici e approfonditi (soprattutto nell’esame di Storia della filosofia antica), e i corsi di laurea non in Filosofia – come i corsi di laurea in Scienze della formazione e della educazione, presso cui da alcuni anni insegno alla Università Statale di Milano Bicocca –, nei quali pure il pensiero di Aristotele è trattato, ma in maniera inevitabilmente meno specialistica.
Nei corsi di laurea in Filosofia, per quanto ho potuto appurare da alcuni docenti di Storia della filosofia antica di varie Università, mi pare di poter dire che – se si eccettuano le non piccole modifiche dovute alle recenti riforme della Università e alle nuove tecnologie – l’insegnamento di Aristotele si svolge con modalità non molto differenti, oggi, rispetto a quelle dei decenni passati. Nei corsi di laurea non in Filosofia, in cui è appunto effettuato un insegnamento più “generalista” di Aristotele, vi sono invece alcune notazioni da svolgere, che possono a mio avviso essere di qualche interesse, in primis per la relativa novità di questi corsi di laurea, peraltro spesso assai frequentati.

Luca Giordano, Aristotele, 1653

La specificità dei corsi di laurea non in Filosofia
Innanzitutto, in questi corsi di laurea, occorre tenere presente che – assai più che a Filosofia – vi sono studenti con preparazioni fra loro molto eterogenee. Alcuni di loro (non pochi) si approcciano alla Storia della filosofia per la prima volta, sicché nulla, specie sul piano terminologico, può essere dato per scontato. Sovente, inoltre – salvo per coloro che si appassionano, e che scelgono poi di seguire anche i corsi di Filosofia morale e Filosofia teoretica –, all’interno di corsi di laurea in cui prevalgono esami di impronta “scientifica”, l’esame di Storia della filosofia costituisce l’unica occasione in cui questi studenti possono approcciarsi al pensiero dello Stagirita.
Tale occasione deve pertanto essere colta nella maniera migliore, in quanto le cosiddette scienze umane, o sociali, su cui si impernia la maggior parte degli esami che gli studenti sostengono in questi corsi di laurea, non aiutano molto a sviluppare una visione onto-assiologica (di senso e valore) complessiva della totalità sociale, che invece la filosofia classica favorisce.
Il punto di partenza che, a mio avviso, occorre considerare per l’insegnamento di Aristotele in questi corsi di laurea, è – aristotelicamente – il fine per cui questi giovani si sono iscritti. Si dirà che il loro fine ultimo è quello di trovare lavoro (e anche questo discorso va affrontato), ma, nella fattispecie, il lavoro che questi giovani ricercano è prevalentemente una attività orientata al sociale, o meglio alla educazione dei bambini ed alla cura delle persone in difficoltà. Per orientare in questa direzione, il pensiero di Aristotele ha davvero molto da offrire. È infatti proprio utilizzando i molteplici riferimenti all’uomo che i suoi testi propongono, che si possono maggiormente interessare questi giovani a quei temi. Come lo stesso Aristotele insegna, occorre appunto sempre avere chiaro il fine di quello che si fa; quando si ha chiaro il fine, il come organizzare la materia per realizzare questo fine, almeno nell’essenziale, ne deriva di conseguenza.

La programmazione di un corso
Per scendere più nel concreto, all’interno del corso di Storia della filosofia, di cui posso parlare per esperienza (dal prossimo anno accademico, tuttavia, collaborerò anche al corso di Filosofia morale), va detto subito che, se si desidera lasciare un po’ di spazio agli altri filosofi, non si possono dedicare ad Aristotele più di una quindicina di ore di lezione. Non sono molte, ma sono di solito sufficienti – con l’aiuto di un buon testo di riferimento (l’ideale, per questo tipo di studenti, è tuttora il volumetto di Enrico Berti, Aristotele, La Scuola, 2013) – per trasmettere alcuni contenuti essenziali. Il primo di questi contenuti, a mio avviso, è che Aristotele non si occupò solo di filosofia, ma, come noto a molti (sebbene non a tutti), anche di logica, biologia, fisica, zoologia, cosmologia, etica, politica e altro; tutte materie cui egli ha fornito un apporto considerevole, spesso tuttora valido, contribuendo a costituirle come discipline di studio, e ricercando collegamenti fra le stesse.

 

I contenuti introduttivi
Detto questo, a lezione, dopo aver esposto alcuni dei contributi più importanti della logica (quanto meno il principio di non contraddizione e del terzo escluso) dello Stagirita, e alcuni contenuti fisici e metafisici (di solito argomento il percorso che conduce Aristotele a dimostrare la esistenza del trascendente, ossia del divino, ricco di contenuti e sempre di grande interesse) e scientifici (quanto meno le osservazioni sulla causalità e sul finalismo degli enti), mi soffermo lungamente sul metodo dialettico, tipico del procedere aristotelico e direi, più in generale, proprio della filosofia. Il metodo dialettico, incentrato sulla continua interrogazione delle tesi che si desiderano esaminare, soprattutto in quegli aspetti delle stesse che risultano meno convincenti, consiste infatti non solo, didatticamente, nel miglior modo di esaminare alcune delle principali dottrine dello Stagirita, ma è anzitutto il modo più filosofico di far comprendere agli studenti la necessità di pensare con la propria testa.
Aristotele, infatti, partiva sempre, nelle proprie analisi, dalle tesi più accreditate (quelle più diffuse, o dei filosofi migliori), ma solo per saggiarne la verità, dunque la bontà, verificando in primis se esse non erano logicamente contraddittorie, e se reggevano alla prova della evidenza fenomenologica. Si tratta di un tema molto importante, in quanto purtroppo la riduzione degli spazi dedicati all’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori rischia di consegnare al futuro giovani privi di capacità critica; capacità critica che, per essere realmente tale, non deve affatto coincidere con il ribellismo, ma deve anzi sempre essere anche capacità costruttiva, ossia capacità di fondare, di teorizzare, di progettare.

 

I temi etico-politici
Dopo queste premesse generali, che occupano di solito almeno cinque o sei ore di lezione, ritengo opportuno –per i motivi detti in precedenza – declinare la trattazione di Aristotele soprattutto sui temi etici (in senso aristotelico: dunque anche politici). Quando, infatti, argomento aristotelicamente agli studenti che l’essenziale è sempre scegliere bene il fine di ciò che si fa, e che il fine è ben scelto se consente di realizzare ciò che si è (e noi siamo uomini, ossia, per Aristotele, enti dotati di una natura razionale e morale), poiché questo soltanto consente una vita felice, la partecipazione diventa massima. Si tratta in effetti di un contenuto, come evidente, utile non solo alla loro vita, ma anche alla stessa attività che la scelta del loro corso di studi dimostra che essi desiderano svolgere. Sia infatti per educare dei bambini, sia in generale per occuparsi di tematiche sociali, conoscere che cosa è l’uomo e cosa consente di rendere felice la vita, è un contenuto fondamentale. Nel comprendere in cosa consiste la felicità, ovviamente, lascio largo spazio all’esame critico di quei fini, menzionati appunto da Aristotele, che alla felicità non conducono, come la ricerca di denaro, di piacere e di successo. Troppo spesso in effetti sia gli approcci riduzionistici delle scienze sociali, sia l’ideologia implicita nelle riforme della scuola dell’ultimo ventennio (finalizzate alla mera istruzione – dunque ad ampliare una serie di materie “strumentali” al fine di una migliore ricerca occupazionale, quali l’inglese, l’informatica, l’economia, ecc. –, ma non alla vera educazione), allontanano i giovani talvolta irrimediabilmente da queste tematiche, pure per la loro vita così importanti.
I temi etico-politici, ossia la aristotelica “filosofia delle cose umane”, sono realmente ciò che questi giovani sentono più vicini. Non si può infatti nascondere che la preoccupazione maggiore di questi ragazzi è quella di ricercare una buona occupazione per la loro vita, che gli consenta innanzitutto di mantenersi senza affanni, e che gli permetta poi di fiorire compiutamente come persone. La difficoltà attuale di realizzare anche solo il primo passo è indubbiamente ciò che angoscia di più gli studenti, almeno nella Università statale in cui insegno.
Porre a fuoco questo punto – attraverso vari temi aristotelici – costituisce a mio avviso ciò di cui, del pensiero di Aristotele, questi giovani (che spesso vivono tale problematica anche in famiglia) hanno maggiormente bisogno, ed è dunque ciò che maggiormente cerco di dare loro, basandomi come ovvio sulle opere dello Stagirita, in particolare sulle Etiche e sulla Politica.

 

Distinguere tra crematistica ed economia
Fra i contenuti etico-politici che reputo più importante trattare vi è sicuramente l’economia, che Aristotele distingueva come noto dalla crematistica. Crematistica – se mi si consente di semplificare un po’ – è ogni attività di produzione e distribuzione di beni/servizi finalizzata a massimizzare illimitatamente il profitto di chi produce/distribuisce; economia è invece ogni attività di produzione e distribuzione di beni/servizi finalizzata alla buona vita della comunità. Per Aristotele, se la totalità sociale è condotta (come oggi) in maniera crematistica, essa è condotta in maniera innaturale, poiché non è nella natura dell’uomo, ente finito con bisogni limitati, avere come fine la massimizzazione illimitata del profitto.

Viceversa, se la totalità sociale è condotta in maniera comunitaria, essa è condotta in maniera naturale, poiché è nella natura dell’uomo, ente razionale e morale, organizzare le risorse per il fine di realizzare una buona vita. Il mercato e la comunità, infatti, sono forme sociali opposte: nel primo si dà solo per avere in cambio qualcosa di più, sicché ogni persona è soprattutto uno strumento; nella seconda si dà invece per il semplice piacere di dare, sicché ogni persona è soprattutto un fine. Il fatto che la famiglia sia per l’uomo la forma più naturale di comunità, lascia pensare che il mercato – il quale necessariamente si associa alla proprietà privata (la quale cioè priva, ossia esclude, i non proprietari dall’utilizzo e dai frutti) dei mezzi della produzione sociale – non sia la forma più “famigliare” alla buona vita.
Per gli studenti, che spesso intuiscono di trovarsi all’interno di una totalità sociale non comunitaria, ossia che non ha come fine la loro felicità, ma non capiscono bene perché, comprendere questo punto è fondamentale, in quanto la loro esclusione – o l’esclusione dei loro genitori, o di altre persone care – dal processo della riproduzione sociale complessiva è spesso introiettata come un fallimento, ossia come un loro (o dei loro cari) non valer nulla. Comprendere invece che sono immersi in una totalità sociale che funziona avendo come fine il profitto e non la buona vita, ha quanto meno, in primo luogo, un effetto catartico (secondo la Poetica di Aristotele, la rappresentazione poetica produce catarsi quando la storia narrata produce timore o compassione, se ci si può immedesimare nelle vicende della azione: e chi meglio di questi ragazzi può immedesimarsi nella situazione, insieme preoccupante e penosa, della conflittualità e della precarietà del mondo che li attende?). In secondo luogo, questa comprensione ha anche un effetto educativo, di conoscenza della realtà in cui sono immersi, e di conseguente presa d’atto della necessità di migliorarla, di renderla maggiormente a misura d’uomo. Il motivo per cui molte persone non trovano un lavoro, nonostante i gravi bisogni sociali insoddisfatti del nostro pianeta (cibo e medicine per i poveri, assistenza, ecc.), dipende infatti dalla medesima causa – il fine sistemico del profitto – per cui si soddisfano bisogni futili (gioielli, moda, ecc.), ma non ci si cura dei problemi più importanti.
Comprendere, grazie ad Aristotele, che si può immaginare la totalità sociale in maniera radicalmente alternativa – mutando il fine, muta anche la struttura, dunque l’essenza delle cose – a quella attuale, è molto importante per avvicinare costruttivamente i giovani alla riflessione politica, la quale da sempre nella antica Grecia accompagna la riflessione filosofica.                       

Rembrandt, Aristotele contempla il busto di Omero, 1653.

Conoscenza teoretica e ricerca causale
Un altro tema (mi è possibile, in questa sede, svolgere solo alcuni sintetici esempi), stavolta più teoretico, che appassiona molto gli studenti, e che tende ad avvicinarli anche alla riflessione metafisica di Aristotele, è il tema della ricerca causale. La considerazione, infatti, che di ogni fenomeno, sia esso naturale o sociale, non ci si deve fermare ad analizzare la causa più prossima, ma occorre risalire fino alla causa prima, viene sentita giustamente come fondamentale. Le cause dei fenomeni vanno inoltre indagate in ogni direzione per poterli comprendere nella maniera più completa. Questo in generale, in un’epoca in cui la riflessione teoretica (e in particolare filosofica) viene svalutata, contribuisce a far interiorizzare che per realizzare una buona prassi di vita, individuale e sociale, è sempre necessaria una buona conoscenza teoretica.
La “filosofia pratica” di cui parlava Aristotele, “scienza architettonica”, era del resto a pieno titolo una ricerca veritativa, ossia una ricerca di come stanno le cose (umane), e del perché stanno proprio in quel modo; una ricerca finalizzata peraltro all’azione, ossia anche a modificare un certo stato di cose, qualora esso non sia rivolto al bene, ovvero alla realizzazione della vita per come deve essere.
Detto questo, non pretendo di conoscere, o di avere ben descritto in queste poche pagine, il modo migliore di insegnare Aristotele nell’Università. Avrei forse in merito potuto essere più tecnico, ossia fare qualche citazione o qualche riferimento bibliografico in più. L’esperienza di questi anni, tuttavia, mi ha posto di fronte, soprattutto, giovani bisognosi di un orientamento filosofico generale in grado di ben governare la loro vita. Aristotele a mio avviso, sul piano educativo, fornisce ancora oggi l’orientamento migliore, sicché, nel poco tempo in cui è possibile trattare del suo insegnamento, mi è sempre sembrato opportuno concentrarmi principalmente su quanto esso ha di più importante da dire.

 

                   Luca Grecchi

Università degli Studi, Milano Bicocca

 

Articolo già pubblicato sulla rivista “Nuova Secondaria“, Mensile di cultura, ricerca pedagogica e orientamenti didattici, N. 6, Febbraio 2018, Studium, Editrice La Scuola, pp. 37-39.


Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori,
Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

Teoria e prassi in Aristotele

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Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici.
Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci.
L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli).
Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi.
Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.

Luca Grecchi


 

Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter,
Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani,
Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna,
Marcello Zanatta

Immanenza e trascendenza in Aristotele

indicepresentazioneautoresintesi

 

Questo volume, seguito ideale di Sistema e sistematicità in Aristotele (Petite Plaisance, 2016, a cura di Luca Grecchi), raccoglie i contributi di alcuni fra i maggiori studiosi di Aristotele sul rapporto fra fisica e metafisica nel pensiero dello Stagirita.
Si troveranno esposti, nell’ordine: il tema della dimostrazione della esistenza del trascendente nel pensiero dello Stagirita (Carmelo Vigna, Luca Grecchi ed Enrico Berti); il tema della immanenza e della trascendenza nell’etica di Aristotele (Arianna Fermani); il tema della sostanzialità e trascendenza del bene nella filosofia aristotelica (Marcello Zanatta); il tema della eternità del mondo in Aristotele e nel primo aristotelismo (Andrea Falcon); il tema della finitezza del cosmo in rapporto alla infinità del principio trascendente aristotelico (Alberto Jori); il tema della indicibilità trascendente del nous in Aristotele (Claudia Baracchi); il tema della matematica immanente (e finita) di Aristotele (Monica Ugaglia); il tema degli effetti del Primo motore immobile aristotelico sugli enti naturali (Diana Quarantotto); il tema della nozione non-trascendentale di verità in Aristotele (Matteo Cosci); il tema dei rapporti fra immanenza ontologica e trascendenza epistemologica nel pensiero dello Stagirita (Barbara Botter); il tema della relazione fra immanentismo ed aristotelismo nel pensiero di David Malet Armstrong (Annabella D’Atri); il tema dei rapporti fra finalismo e sillogismo in Aristotele (Giampaolo Abbate).


 

 

Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter,
Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani,
Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

Sistema e sistematicità in Aristotele

indicepresentazioneautoresintesi

L’idea di riunire le riflessioni di alcuni fra i maggiori studiosi di Aristotele sul tema della sistematicità del suo pensiero, è nata dal fatto che, nonostante da più parti lo Stagirita sia considerato l’autore di una vera e propria enciclopedia del sapere, i testi che si occupano di questo tema sono davvero pochi. Questo libro, dunque, nasce principalmente dal desiderio di vedere colmata una lacuna non marginale nella interpretazione di un pensatore importantissimo. Questo desiderio è stato fatto proprio da tutti gli Autori dei saggi qui riuniti, che per questo ringrazio. Il presente volume non fornisce quindi una esposizione del “sistema di Aristotele”, bensì una panoramica dei diversi modi in base a cui il pensiero dello Stagirita può definirsi “sistematico”. Scopo di questa introduzione è solo quello di fornire una breve sintesi dei vari contributi, sottolineandone gli aspetti di maggior interesse.
Il primo saggio, per il suo carattere introduttivo, è una “intervista-dialogo” da me effettuata a Carmelo Vigna. Il Prof. Vigna, cui sono legato da una amicizia pluriennale, ha per vari motivi preferito questa forma di esposizione orale, nella quale è indubbiamente maestro, esponente di quella “antica scuola classica” (so che queste parole non gli saranno sgradite) che, se da un lato annovera ancora, anche in questo volume, diversi esponenti, dall’altro lato trova, in molti giovani studiosi qui presenti, una ammirevole forma di continuità.
La tesi principale che Vigna sostiene, in questo saggio, è che in Aristotele vi fu sicuramente «una qualche veduta sistemica della realtà», ma non «un vero e proprio sistema, cioè una teoria completa che ne rifletta la struttura». Pur nella «relativa elasticità sistemica dei testi aristotelici», a dispetto del clima dominante che tende a concentrarsi sui frammenti senza cogliere l’intero, Vigna pone invece l’accento sul «nucleo speculativo fondamentale» che Aristotele espone tracciando quella «mappatura categoriale e metacategoriale dell’essere» che costituisce ancora, sostanzialmente, il nostro modo di guardare il mondo.
Un secondo contenuto che Vigna pone in evidenza è il particolare approccio metodologico dell’opera aristotelica. Esso parte appunto, come noto, dall’analisi dei fenomeni (in fisica, intesa in senso ampio) e delle opinioni rilevanti (in etica, sempre in senso ampio), ossia da ciò che è primo “per noi”, cercando di raccogliere dialetticamente la molteplicità in unità, giungendo infine a ciò che è primo “per sé”. Questa modalità conoscitiva conduce a strutturare il sistema aristotelico non come un sistema deduttivo, bensì appunto come un sistema «induttivo», in quanto tale strutturalmente «aperto ed articolato».
Un terzo contenuto che Vigna sottolinea è che la «problematicità» del sapere aristotelico, su cui molto si è discusso soprattutto negli ultimi trent’anni, non deve essere eccessivamente enfatizzata: non si deve cioè pensare che, per Aristotele, tutto fosse problema. Ci sono infatti, nell’opera dello Stagirita, parecchi «nuclei solidi» che non fanno problema, ossia che, per la loro conformità al fondamento logico-fenomenologico (in sostanza al principio di non contraddizione), risultano incontrovertibili, e quindi non problematici. Essi costituiscono i nodi forti del sistema aristotelico.
Un quarto contenuto che Vigna rimarca – ancora una volta in opposizione ad alcune analisi recenti, e basandosi su quanto poc’anzi affermato – è la necessità di mantenere un rapporto forte, nel pensiero aristotelico così come in generale, fra la metafisica e l’etica, ovvero fra la teoria e la prassi; per Vigna, infatti, «l’etica aristotelica è certamente caratterizzata da una struttura teorica previa […] orientativa dell’azione in generale». La filosofia aristotelica insomma, grazie alla sua solida struttura teoretica, «presenta un disegno unitario: indica chiaramente il fine ultimo della azione umana e i mezzi con cui arrivarci».
Di particolare originalità, infine, un passaggio sul Motore Immobile. Di fronte infatti alla ipotesi da me esposta che, sul piano strettamente teoretico, il sistema aristotelico possa reggersi anche senza la trascendenza, non ho trovato la rigida opposizione che da un metafisico classico come Vigna mi sarei aspettato. Alla mia esplicita affermazione, cioè, secondo cui il Primo Motore, «questo Principio sempre in atto e dunque immateriale, potrebbe anche essere identificato con le leggi fisiche eterne, anch’esse sempre in atto ed immateriali, che strutturano l’universo», Vigna ha lasciato aperta la porta («può anche essere così») a questa possibile lettura immanentistica del cosmo aristotelico.
Per ragioni di continuità, il secondo saggio inserito è quello di Enrico Berti, che si intitola appunto Esiste un sistema di Aristotele? Commento alla discussione tra Luca Grecchi e Carmelo Vigna. Qui Berti, con la consueta chiarezza ed ampiezza di sguardo, delinea i punti più salienti della trattazione del tema della sistematicità in Aristotele, menzionando peraltro alcuni fra i principali lavori moderni (non molti, come detto) inerenti questo argomento. Egli rimarca anche, in apertura, il proprio accordo «con Vigna e Grecchi nel parlare, a proposito di Aristotele, di sistema induttivo e aperto, che significa non deduttivo, cioè non implicante una connessione necessaria fra tutte le sue parti, e non concluso, cioè non tale da spiegare l’intera realtà in modo esauriente e definitivo».
Tra le varie considerazioni notevoli Berti sottolinea, sul piano storico, come la prima e forse maggiore opera di sistematizzazione del pensiero aristotelico sia stata proprio quella della sua scuola, in particolare con Alessandro di Afrodisia. Quest’ultimo tuttavia aveva erroneamente escluso che la filosofia di Aristotele procedesse con metodo dialettico, ritenendo che essa procedesse con metodo dimostrativo, aprendo la strada, nei secoli, ad una sistematizzazione deduttiva e dogmatica della metafisica in chiave teologica, non rispondente allo spirito originario.
Sul piano più strettamente teoretico, Berti evidenzia ancora di concordare sul fatto «che, alla base dell’intera filosofia di Aristotele ci sono alcune categorie, cioè nozioni generalissime, fondamentali, quali la distinzione tra sostanza e accidenti, tra materia e forma, tra motore e fine, cioè la cosiddetta dottrina delle quattro cause (che non è propriamente una dottrina, ma è essenzialmente uno strumento di ricerca), e la distinzione tra potenza e atto», pur rimarcando che queste categorie non formano propriamente «l’ontologia» di Aristotele, concetto tipicamente moderno. Rimane comunque la teoria delle cause, secondo Berti, il vero nucleo del sistema aristotelico: tesi con la quale concordo pienamente.
Pur confermando il «primato della fisica» in Aristotele, Berti sostiene anche, in maniera dialettica, di non concordare con la ipotesi da me formulata secondo cui «il Primo Motore, in quanto sempre in atto, e quindi non materiale, potrebbe essere identificato con le leggi eterne che strutturano l’universo, le quali sono anch’esse non materiali. Le leggi eterne sono infatti una forma di ordine, e quindi rientrano nel genere di quella che per Aristotele era la causa formale; ma, come Aristotele obietta alle Idee ammesse da Platone, le forme eterne non sono sufficienti a spiegare l’universo, se non c’è un principio capace di produrre mutamento […], cioè un principio attivo, qualcuno insomma che agisca». A tal proposito, per continuare un dialogo amicale che dura anch’esso da anni,1 vorrei aggiungere che, a mio avviso, «le leggi eterne» del cosmo fisico non sono solo forme (come le Idee platoniche), ma anche forze, in quanto agiscono eternamente sulla materia – come ad esempio la legge di gravità –, e producono dunque, proprio in quanto causa efficiente, quell’eterno mutamento del cosmo attivato appunto dal Primo Motore. Esse quindi sono «ciò che agisce», senza che sia necessario «qualcuno che agisca».
Per passare ad un altro punto, oltre a concordare sul rapporto – che anche a suo avviso dovrebbe essere interpretato in modo molto più stretto nel pensiero aristotelico – fra teoria e prassi, Berti rimarca che, «se si vuole trovare un sistema, se pure aperto», nel pensiero dello Stagirita, il luogo migliore in cui cercare è la classificazione aristotelica delle scienze. Così è in quanto essa abbraccia tutte (o quasi) le scienze, stabilendo dei rapporti tra di esse, e dunque ricercando unità nella molteplicità delle medesime. Berti rimarca infine – ed anche su ciò concordo pienamente – che «l’ordine dell’edizione di Bekker, con il primato della logica, l’anteriorità della fisica alla metafisica, delle scienze teoretiche alle scienze pratiche e poietiche, dell’etica alla politica e della retorica alla poetica, è quello che meglio corrisponde al pensiero di Aristotele, e che quindi deve essere conservato nelle esposizioni complessive del suo pensiero», per renderne nel modo migliore l’ordine strutturale.
Il terzo saggio di Arianna Fermani, intitolato Quale “sistema” e quale “sistematicità” in Aristotele?, esamina, con la consueta lucidità ed essenzialità propria di questa Autrice, i punti nodali della questione. Fermani inizia con l’osservare che, nonostante indubbiamente la maggioranza degli studiosi abbia descritto la filosofia di Aristotele come «sistematica» – quando non addirittura come un vero e proprio «sistema» –, vi è stata anche una minoranza di interpreti critici nei confronti di questa visione ermeneutica. Per cercare di sciogliere questo nodo, che come spesso accade, nell’opera aristotelica, deriva dal fatto che «l’essere si dice in molti modi», l’Autrice utilizza come criterio orientativo di partenza quello lessicale, considerando il numero di occorrenze del termine «sistema» all’interno del corpus ed analizzandone i vari significati. Avvalendosi dell’utilissimo Lexicon curato da Roberto Radice, la studiosa mostra che il termine ricorre cinque volte, ma che esso assume, nei vari contesti, significati fra loro anche molto diversi, sebbene tutti accomunati dalla nozione di «unione» o «composizione di più elementi».
Partendo da questo dato, l’Autrice svolge una analisi ricca ed articolata. In questa analisi sottolinea che il termine «sistema», inteso modernamente come «edificio dottrinale», è parola che non si incontra quasi mai prima dell’epoca ellenistica. Pertanto, qualora qualcuno chiedesse ad un redivivo Aristotele di qualificarsi o meno come pensatore “sistematico”, verosimilmente egli non saprebbe cosa rispondere, non intendendo bene la domanda. È necessario infatti – vuole dirci Arianna Fermani –, prima di intraprendere questa analisi filosofica, chiarire bene il significato dei termini «sistema» e «sistematicità», cosa che l’Autrice compie ottimamente offrendo due scenari interpretativi: indicando cioè il concetto di «sistema» in base a cui il pensiero di Aristotele può definirsi «non sistematico», ed il concetto in base a cui invece può definirsi «sistematico».
Nel primo scenario, utilizzando il termine strictu sensu, ovvero considerando “sistematica” solo quella filosofia che «riconduce tutti i propri enunciati ed i loro collegamenti sotto un unico principio», la filosofia di Aristotele, irriducibilmente polivoca, non può essere considerata sistematica. Non vi è infatti, nell’opera dello Stagirita, un simile principio. Nel suo considerare «molte categorie (seppur tutte con riferimento alla sostanza), molti sguardi sulla realtà e, analogamente, molti metodi di indagine, l’approccio aristotelico, in questo senso, si considera come costitutivamente e radicalmente antisistematico».
Nel secondo scenario, utilizzando il termine latu sensu, l’Autrice esamina invece i sensi in cui si può affermare che la filosofia di Aristotele fu sistematica, ossia strutturata come una unità organica le cui parti sono fra loro connesse in maniera multivoca. Si può in merito sostenere, con l’Autrice, che in questo più corretto significato «il sistema, nell’ottica dello Stagirita, è esattamente un holon, ovvero una unità dotata di senso, strutturata secondo una logica flessibile e dinamica in cui le parti sono legate all’intero e viceversa, in cui gli elementi costitutivi dell’intero vengono unificati senza essere ridotti, acquisendo, da questa unificazione, una adeguata collocazione, una funzione e un ordinamento appropriati». In sostanza, la medesima concezione di «sistema aperto» indicata anche da Vigna e da Berti come la “bussola orientativa” in grado di far comprendere il senso della sistematicità in Aristotele.
Il quarto saggio, di Marcello Zanatta, si intitola Sistema e metodi in Aristotele. Con la accuratezza propria dei suoi numerosi studi aristotelici, l’Autore inizia con alcune precisazioni concettuali circa i termini utilizzati nel titolo. In par­ticolare, Zanatta mostra che il termine «metodo» ha avuto molta rilevanza a partire soprattutto dalla filosofia moderna, con Descartes, per il quale esso significa «il criterio, vale a dire l’insieme di regole, che permette di distinguere il vero dal falso e, sul piano pratico, di organizzare l’esistenza». Questa concezione moderna ha però il difetto di allontanare un po’ dalla concezione aristotelica del metodo come “via per”, conducendo ad assimilare il metodo unicamente alla ricerca scientifica in quanto tale.
Zanatta ricorda come anche in Aristotele, come emerge soprattutto nei Topici, «metodo» indica pure «l’organizzazione di un sapere o di una ricerca», e dunque presuppone che chi parla possieda già certe conoscenze. Tuttavia, accanto a questa valenza del termine, Zanatta rimarca giustamente che la principale rimane quella «per la quale esso non indica modi di organizzare delle conoscenze, ma la ricerca di esse e, più determinatamente, queste stesse»: il metodo, appunto, come via per, come «il ricercare stesso». Alla differenza fra queste due concezioni, per non incorrere in ambiguità, lo studioso invita giustamente in via preliminare a porre la dovuta attenzione.
Chiarito questo, Zanatta passa a considerare il concetto di «sistema», rimarcando ancora una volta la differenza fra la concezione moderna e la concezione antica del termine. Anche stavolta la modernità – prima sintetizzata, per quan­to concerne il metodo, con Descartes – è correttamente sintetizzata con la concezione di Hegel, secondo cui «il sapere filosofico si sviluppa nei suoi vari ambiti secondo una concatenazione rigorosa la quale è garantita dal procedimento metodico unitario della dialettica». All’interno di questa concezione moderna, così come all’interno della concezione sistematica del sapere intorno ad un principio unitario di cui parlava Arianna Fermani, il pensiero di Aristotele non può affatto definirsi sistematico. Zanatta precisa infatti che, per lo Stagirita, più che di un concetto di «sistema» occorre parlare di un concetto di «in forma sistematica», in quanto, a suo avviso, «la compattezza e la organicità di una trattazione non sono raggiunte da un unico metodo, ma possono essere il risultato di differenti metodi. In particolare, di quello apodittico e di quello dialettico».

È in particolare sul metodo dialettico, effettivamente il più importante, che Zanatta incentra l’attenzione, soffermandosi sui cosiddetti «dialoghi» di Aristotele, tali come noto latu sensu; essi infatti sono definiti in questo modo poiché il metodo dialettico vi rappresenta il tratto più caratteristico, in quanto la dottrina filosofica dello Stagirita viene esposta per lo più in forma dialogica, con contrapposizione di opinioni ed esame critico delle stesse. In essi, così comunque come nella maggior parte delle opere del corpus, Aristotele utilizza una forma espositiva molto diversa da quella del trattato, «nella quale una dottrina già acquisita ed accertata viene esposta in modo organico e sistematico in sequele di dimostrazioni, in vista dell’insegnamento»: col metodo dialettico si vaglia la consistenza epistemica della conoscenza in base alla sua capacità di resistere ai vari tentativi di confutazione.

A differenza del metodo dimostrativo, il metodo dialettico denota una modalità di procedere nella trattazione della materia che mostra la tipica concezione aristotelica del metodo come via per raggiungere un certo risultato in un certo ambito. Zanatta rimarca giustamente che l’utilizzo dei due differenti metodi era praticato da Aristotele distinguendo i differenti contesti, non i differenti oggetti di trattazione. In alcuni contesti cioè, come quello di scuola, il metodo dimostrativo risultava il più adatto per disporre in modo ordinato i risultati acquisiti nelle ricerche; in tutti gli altri contesti, tuttavia, un metodo come quello dialettico risultava più adatto, ripercorrendo il processo che aveva condotto a determinati risultati.
Zanatta ribadisce dunque nella maniera più chiara che il «sistema aperto» di Aristotele si esprime in modo diverso secondo i contesti, e che quando anche si esprime con la dialettica anziché con la analitica, non per questo si deve ritenere che esso sia esposto in modo meno rigoroso. Nella seconda parte dello scritto il Prof. Zanatta, in maniera altrettanto accurata ma che non è possibile qui esaminare, dimostra la validità della tesi esposta anche per l’ambito particolare delle scienze, limitandosi per motivi di spazio ad analizzare una sola scienza teoretica, la fisica, ed una sola scienza pratica, l’etica.
Il quinto saggio è di Claudia Baracchi, e si intitola I molti sistemi di Aristotele. Si tratta di un testo che presenta non solo una feconda ricchezza teoretica, ma anche una grande ampiezza di riferimenti alla tradizione, in linea con la sensibilità culturale della Autrice. Il testo ricostruisce peraltro inizialmente – per quanto ovvio in maniera sintetica – la storia del corpus aristotelico, soffermandosi in modo particolare sulla fondamentale opera svolta, in tal senso, da Andronico di Rodi, rimarcando come il sistema aristotelico non si sarebbe probabilmente imposto in maniera così evidente, senza la sintesi che presentò Andronico.
Come i precedenti Autori, anche Claudia Baracchi ricorda che, «come quasi tutto in Aristotele, anche sistema può dirsi in molti modi», ponendo giustamente l’accento sulla differenza fra sistema e sistematicità. Per l’Autrice infatti in Aristotele, ferma restando la presenza di una «molteplicità raccordata», di una «articolazione di insieme che compone le differenze», vi è «sistematicità» più che «sistema»; o, il che è pressoché lo stesso, vi è un «sistema aperto», ovvero «articolazioni sistematiche incomplete e in divenire», ben lontane dalle «cristallizzazioni dogmatiche» in cui è caduta una parte della tradizione.
Per l’Autrice, nel sistema aristotelico «il momento culminante coincide con una apertura, ovvero con la volontà di una adesione alle cose stesse: adesione che non può che essere permanente, in corrispondenza alla inesauribilità delle cose in costante rivolgimento e fluttuazione» manifestantesi peraltro in un contesto di «persistenza di condizioni oscuranti e limitative: condizioni che sono ineliminabili perché costitutive dell’essere che noi siamo». L’uomo infatti è ente finito, mortale, e pertanto non in grado di strutturare un sistema razionale onnicomprensivo e compiuto.
Sbaglierebbe, tuttavia, chi ritenesse – magari fuorviato dal titolo della principale opera aristotelica in lingua italiana di Claudia Baracchi, ossia L’architettura dell’umano. Aristotele e l’etica come filosofia prima (Vita e Pensiero, 2014) – prevalere nella Autrice una sorta di subordinazione della metafisica all’etica. La studiosa infatti, pur sottolineando che il pensiero aristotelico, in tutti gli snodi della sua aspirazione sistematica, «ha dato origine a più possibilità di ordinamento, come se l’apertura che lo caratterizza avesse infuso un inarrestabile dinamismo in ogni progetto costruttivo», sul piano teo­retico prende saldamente posizione – con Andronico (per quanto almeno ci è dato sapere) e con Berti – per la sequenza che vede come prioritaria la metafisica sulle scienze pratiche e poietiche. Chiarendo implicitamente la seconda parte del titolo del suo libro poc’anzi citato, l’Autrice sottolinea anche «il nesso vitale tra metafisica e scienza pratica, dove la prima va a dare frutto nella seconda contribuendo a nutrirla, dirigerla e disegnarla», pur anche ricevendo dalla seconda la pienezza della integrazione fra «vita attiva e contemplativa».

In conclusione, cogliendo peraltro la vicinanza fra l’opera aristotelica e l’opera platonica, Claudia Baracchi sottolinea giustamente il ruolo rilevante della dialettica per la costruzione teorica aristotelica. Quest’ultima, letta appunto in stretta connessione con la prassi, si giova della dialettica perché essa presta assistenza nelle valutazioni, nelle analisi e nelle scelte che gli esseri umani, da soli e in comunità, si trovano a dover effettuare. L’Autrice ricorda infatti, con riferimento ad Etica Nicomachea VI, che la stessa sophia «incoraggia il riconoscimento della finitezza e del relativo posizionamento degli esseri umani». Baracchi conclude infine – ed ancora una volta non posso che concordare – sottolineando come «lungi dall’essere una imposizione estranea al pensiero di Aristotele, la indicazione di una metafisica che procede dalla fisica e va a fiorire in guisa di formazione etico-politica, sembra stare nel cuore del suo insegnamento».
Il sesto saggio, di Giovanna R. Giardina, si intitola Il naturalismo immanentista di Aristotele e la questione del Primo Motore Immobile. Non poteva del resto mancare, in un volume sulla sistematicità del pensiero aristotelico, una trattazione sul Primo Motore, che costituisce per lo Stagirita, indipendentemente da come lo si interpreti (causa efficiente o causa finale), la causa prima del movimento del mondo. La lettura di Giovanna R. Giardina è molto interessante in quanto, conformemente agli interessi della Autrice – che sta da alcuni anni portando avanti un ricco ed articolato commentario alla Fisica di Aristotele –, in rapporto ad una tradizione che analizza il tema del Primo Motore con taglio prettamente metafisico, si rapporta al tema partendo appunto dalla Fisica.
La peculiarità di questo saggio, svolto con la competenza e la chiarezza che caratterizzano l’opera di questa studiosa, sta nel fatto che l’Autrice vuole mostrare che la lettura di un Aristotele filosofo della natura costretto a dover ammettere quasi controvoglia l’esistenza della metafisica, non è corretta. Aristotele, infatti, è un filosofo che rigorosamente utilizza la ragione, e, sia nella Fisica che nella Metafisica, essa lo induce ad accettare, nonostante le evidenti tendenze immanentistiche dello Stagirita, il Primo Motore Immobile come causa del movimento.
In particolare, Giovanna R. Giardina si pone una domanda “di importanza primaria in ordine alla fisica e ai suoi rapporti con la filosofia prima”, e cioè si chiede se la fisica di Aristotele possa essere considerata perfettamente coerente con se stessa ponendo un principio non fisico di tutto il mondo fisico. L’Autrice giunge, dopo adeguata argomentazione, e con gli opportuni riferimenti testuali, ad una risposta positiva, rifiutando quindi una lettura totalmente immanentistica di Aristotele. Tuttavia, Giardina rifiuta anche una lettura trascendentistica, interpretando il Primo Motore come «limite». Il «limite», come noto, non è infatti né parte di ciò di cui è limite, né è al di là di ciò di cui è limite, sicché la studiosa imbocca una sorta di originale “terza via”, superando la vincolante distinzione duale fra immanenza e trascendenza.
Fra le ulteriori parti rilevanti del testo vi è, in merito, la lunga trattazione, ricca anche di riferimenti ai predecessori di Aristotele, circa quelle che sono le due caratteristiche peculiari dell’universo aristotelico, ossia di essere continuo e determinato. L’Autrice pone inoltre in evidenza – riprendendo una considerazione di Enrico Berti di qualche anno fa – che più che «una fisica che è insieme anche metafisica», quella di Aristotele è «una metafisica che è piuttosto fisica», in quanto il Primo Motore trascendente viene epistemicamente giustificato a partire dalla struttura e dal funzionamento dell’universo fisico.
Un altro passaggio interessante, fra i molti, è quello in cui l’Autrice rimarca – evitando intelligentemente di schiacciare la metafisica sulla trascendenza – che «quando si parla di metafisica in Aristotele, si potrebbe intendere questo termine secondo un significato analogo a quello di metamatematica, perché come la metamatematica indaga le strutture stesse della matematica, in quanto assume come suo oggetto di indagine intere teorie matematiche con il fine di chiarirne i fondamenti e di evitarne i paradossi, la metafisica aristotelica indaga le stesse strutture della fisica, assumendo a suo oggetto di ricerca le stesse nozioni e gli stessi enti del mondo naturale, fornendo ad essi gli aspetti più fondamentali e principali che ne giustificano la realtà».
Non è qui possibile, ovviamente, riprendere tutti gli spunti che questo ricchissimo saggio offre. Mi limito pertanto, consigliandone – come per gli altri – una attenta lettura, a citare la conclusione della Autrice, la quale sottolinea che «Aristotele appare in ultima istanza coerente con se stesso. L’obbedienza al logos lo conduce fino ad un principio estremo per il quale non fa problema alcuno che vi sia un principio metafisico di un universo fisico, se è vero che entrambe queste scienze sono, sotto diversi rispetti, due scienze che in forte accordo ed in perfetta alleanza indagano l’esistente, cioè l’essere».
Il settimo saggio di Barbara Botter, intitolato Un unico sistema vs la dispersione dei metodi scientifici. Una lettura a favore della unità delle scienze in Aristotele, riprendendo un dibattito internazionale sviluppatosi sul finire del secolo scorso, si pone come obiettivo di analizzare le cosiddette opere biologiche di Aristotele (in particolare De partibus animalium e De generatione animalium) alla luce del metodo stabilito dallo Stagirita negli Analitici Primi e Secondi. Il fine del saggio di Barbara Botter, in particolare, è scoprire – indagando i testi aristotelici ed il relativo dibattito ermeneutico – se la scienza biologica di Aristotele si conformi o meno ai modelli normativi descritti soprattutto negli Analitici Secondi, in cui come noto lo Stagirita stabilisce i criteri che una disciplina deve possedere per poter essere annoverata fra le scienze. Il risultato cui la studiosa giunge, che peraltro condivido, confuta la tesi della incompatibilità fra metodi utilizzati nelle indagini biologiche dello Stagirita ed i criteri scientifici proposti negli Analitici. Botter argomenta infatti, assumendo una posizione di “mediazione” nel dibattito in corso, che il metodo dimostrativo illustrato negli Analitici non è così rigido e monolitico come solitamente si ritiene, e può pertanto essere applicato come metodo volto «ad accogliere la dimostrazione dei processi che si sviluppano nel mondo sensibile».
Non è possibile qui, ovviamente, entrare nei dettagli dello studio di Barbara Botter. Utile comunque rimarcare le molteplici prove fornite, dalla Autrice, sia dei vari tentativi di dimostrazione presenti nei trattati naturali (riguardanti come noto eventi che si producono non sempre, ma «il più delle volte»), sia per converso della presenza, negli Analitici secondi, di esempi tratti dalla meteorologia, dalla zoologia e dalla botanica. Alla luce delle sue analisi, sembra davvero desueto l’atteggiamento scettico che alcuni studiosi hanno dimostrato, soprattutto nei decenni passati, verso la scientificità dei trattati biologici aristotelici. Il concetto di razionalità «più malleabile» che caratterizza i trattati biologici rispetto agli Analitici, non deve dunque essere scambiato per mancanza di carattere epistemico. Ciò anche in quanto, come noto, «l’idea che la scienza, secondo Aristotele, sia un tipo di conoscenza dimostrativa costruita attraverso una sistematica catena di sillogismi, non sembra riflettere una postura aristotelica», nel senso che questa modalità non è praticamente mai esemplificata nei suoi scritti. Il “paradigma” di Jonathan Barnes, secondo il quale gli Analitici dovrebbero essere considerati come un modello perfetto di una scienza compiuta e definitiva, priva di relazione con gli scritti fisici, non regge quindi più. Riprendendo peraltro alcuni scritti di Lucas Angioni, Botter afferma anzi che Aristotele offre «i maggiori contributi di carattere propriamente scientifico nelle sue ricerche naturali, piuttosto che in quelle più astrattamente filosofiche».

Il saggio di Matteo Cosci si incentra invece su Il divieto aristotelico di transgenericità dimostrativa, ovvero su quel principio epistemologico, enunciato all’inizio del settimo paragrafo degli Analitici Secondi, il quale vieta che dimostrazioni scientifiche proprie di una determinata scienza possano essere fatte valere per una diversa scienza. Più precisamente, col divieto di transgenericità dimostrativa “si sancisce la proibizione secondo la quale, eccettuati alcuni casi particolari, i principi propri di una scienza possano essere adottati come premesse per deduzioni valide e pertinenti nell’ambito di una diversa scienza, che come tale detiene altri e diversi suoi principi propri”.

Questo principio parrebbe porsi come fortemente antisistematico, in quanto sembrerebbe impedire gli scambi fra una scienza e l’altra, compartimentalizzando in modo stagno il sapere dimostrativo. In realtà invece, come lo studioso chiarisce ottimamente, questo divieto aristotelico non costituisce un «vetusto protocollo epistemologico da abbandonare», in quanto, oltre a chiarire la impossibilità di un’unica scienza del tutto, si mostra come un principio che «semmai consolida l’unità delle scienze particolari, sia in riferimento all’autonomia dei rispettivi principi propri, sia nel quadro di una più generale architettura del sapere». Anche in Aristotele dunque, come opportunamente sottolinea Cosci, la interdisciplinarietà ed il dialogo tra le scienze particolari continuano ad essere possibili, poiché i saperi specialistici sono “ramificati”, ma fanno comunque parte – diciamo così – di un unico albero, ossia condividono i medesimi principi comuni (le medesime radici, che tuttavia, da sole, non esauriscono la materia peculiare di ogni scienza).
La argomentazione di Cosci è molto articolata, e non è dunque possibile, anche in questo caso, ripercorrerla interamente. È tuttavia importante rilevare, come motivo di particolare interesse, il fatto di come originalmente lo studioso si sia concentrato su tutta una serie di preventive distinzioni operative e concettuali sottostanti il divieto aristotelico, e presenti sempre negli Analitici Secondi, che consentono di consolidarne il valore epistemologico. In particolare, descrivendo i rapporti fra generi nel pensiero dello Stagirita, l’Autore dimostra come per Aristotele ogni scienza particolare si strutturi su uno ed un solo genere, che costituisce il suo ambito di studio omogeneo, “ed ha come fine di conoscere l’esplicazione dimostrativa e causale delle proprietà che necessariamente appartengono a ciò che sta in esso”.
Verso la fine del saggio, Cosci rimarca anche come, da un punto di vista argomentativo, il divieto aristotelico di transgenericità dimostrativa serva anche ad evitare un particolare tipo di fallacie, definite «fallacie contestuali» (quelle fallacie che, se riscontrate, non impediscono ad un argomento di essere valido, ma gli impediscono di riuscire a provare la sua tesi, data la sua non-contestualità), che, in quanto errori del ragionamento, devono essere evitate nel discorso scientifico – e per essere evitate devono giustamente essere conosciute. In conclusione, lo studioso esplicita come, mediante il divieto di transgenericità dimostrativa, sempre da lui rispettato, Aristotele abbia voluto «dare dignità al sapere scientifico nelle sue articolazioni, garantendo un dominio di studio per ciascuna scienza a partire proprio dai diversi principi peculiari di ciascun ambito, e non altrimenti sovrapponibili se non in qualche caso di dipendenza».
Chiude il volume un accurato saggio di Silvia Fazzo, la quale, sempre nell’ottica di ricercare i legami unificativi fra le varie parti dell’opera aristotelica, offre un testo dal titolo Esordi, raccordi e ‘titoli’ in Aristotele, in cui si domanda in sostanza se lo Stagirita volle o meno istituire, vuoi mediante i titoli, se originali, vuoi mediante il sistema costituito dai vari altri ordini di indicazioni reperibili nei suoi esordi, un sistema stabile di riferimenti e raccordi fra le sue diverse opere, per porre in relazione le diverse ricerche che andava esponendo. La studiosa, con la consueta incisività, si domanda ancora prima se Aristotele volle realmente distinguere e contrassegnare i diversi suoi trattati indicandoli per mezzo di titoli, ossia se esiste un sistema di titoli tipicamente aristotelico; se esiste una tipologia ricorrente negli esordi introduttivi aristotelici (e quale essa sia); ed, infine, se esiste una motivazione comune nel sistema dei raccordi utilizzato dallo Stagirita.
Vi è in effetti sempre stato un grande interesse di fronte alle liste antiche dei titoli di opere di Aristotele, che spesso discordano sia fra loro, sia dai titoli del corpus che conosciamo. Ebbene: per Silvia Fazzo, contrariamente a quanto rite­nevano – ma senza basi testuali – alcuni neoplatonici, l’analisi del corpus non consente di affermare che esiste un sistema di titoli propriamente aristotelico. Ciò nonostante, attento al disegno complessivo del suo lavoro, lo Stagirita fu prodigo di riferimenti fra l’una e l’altra delle sue ricerche. Per quanto possibile, infatti, egli «le volle non isolare, ma connettere quasi fossero tutt’una. Così collegò opere e parti di opere in una rete di raccordi, distintamente articolata in trattati […]. Ottenne anche così che i libri non andassero perduti o dispersi, nonostante non esistesse ancora al suo tempo un’organizzazione bibliotecaria che ponesse capo perlomeno a quel tipo di pinakes, ovvero liste di opere, spesso accompagnati dall’indicazione degli incipit, che diverranno pratica corrente in età ellenistica».
Oltre che un fine classificatorio, la rete di raccordi e la presenza diffusa di esordi nelle opere di Aristotele esprime evidentemente un fine di tipo educativo per il pubblico dei suoi uditori e lettori. Egli si preoccupò infatti sempre di coinvolgerli, sia riguardo agli argomenti scelti, sia riguardo all’ordine ed al metodo della esposizione. Per l’Autrice si può parlare di un vero e proprio «sistema» costituito dalla rete di raccordi presenti nelle opere dello Stagirita, sia altrove, sia negli esordi, come quello, celebre, dei Meteorologica. È comunque soprattutto nella Metafisica – come nota Silvia Fazzo nella seconda originale parte dello studio –, che i raccordi «hanno non solo una funzione pedagogica, ma anche il ruolo di collegare i libri in un’architettura complessiva […] – così da costituire e al tempo stesso articolare quella filosofia pri­ma che Aristotele stesso paragona all’arte degli architetti». Si assolvono in questo modo, con i raccordi della Metafisica, due funzioni: una consiste nella organizzazione di un sapere sistematico in materia di filosofia prima; l’altra consiste nel collegamento di un corrispettivo corpo di trattazioni, ciascuna dedicata ad un singolo aspetto ma in correlazione costante con tutti gli altri, in modo da non lasciarne scoperto – almeno virtualmente – nessuno.
L’Autrice pone poi in essere una elaborata classificazione degli esordi dei trattati in Aristotele, con alcune preziose osservazioni generali, che non è possibile però qui nemmeno sintetizzare, così come non è possibile riprendere le molte dotte affermazioni che meriterebbero ciascuna un commento articolato. Ricordo soltanto, con particolare riferimento alla Metafisica, la sua conclusione, ossia che per Aristotele «nell’esistenza – postulata in esordio nei libri Gamma ed Epsilon – di una scienza che studia l’ente in quanto ente, è inscritto un progetto da integrare e coordinare in tutti suoi aspetti: ogni parte che viene a riempire potenziali articolazioni trova il suo posto in un universo di conoscenza e di riflessione perfettamente costituito e ordinato. In questo senso, senza ombra di dubbio, Aristotele è un pensatore sistematico»: degna conclusione, questa, dell’intero nostro volume.
Qualche breve parola, infine, sulla mia opera di coordinamento. Ebbene: posso tranquillamente affermare che essa è stata davvero ben poca cosa, dato il valore degli studiosi interpellati, essendosi limitata a qualche semplice indicazione generale per evitare di creare ripetizioni o di lasciare aree scoperte. Devo pertanto davvero ringraziare tutti gli Autori che hanno partecipato a questo volume, ben più importanti e qualificati di me, per la disponibilità e la gentilezza che hanno costantemente dimostrato nei miei confronti.
Un grazie particolare, per concludere – oltre che ad Enrico Berti, per la consueta vicinanza –, a Carmine Fiorillo ed a Petite Plaisance. Dietro un volume come questo, infatti, non vi è soltanto la meritoria opera degli Autori che vi hanno partecipato, ma anche l’impegno e la passione, nella fattispecie, di una persona che, nei suoi oramai molti anni di attività, ha davvero dato tanto alla cultura italiana.

Luca Grecchi

 

 

 

1 Per limitarmi ad alcuni testi pubblicati, cito solo E. Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, con postfazione di L. Grecchi; E. Berti-L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi, Il Prato, Saonara, 2008, con introduzione di C. Vigna; C. Vigna-L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, con introduzione di E. Berti; L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, con introduzione di C. Vigna e postfazione di E. Berti.


L’uomo è il solo ente immanente
in grado di attribuire
senso e valore alla realtà
e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.

Unicopli, Milano – pagine 499 – Euro 35

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QUESTIONI DI FILOSOFIA ANTICA

Collana diretta da Marcello Zanatta (Università della Calabria) – Comitato scientifico: Michel Bastit (Université de Bourgogne) / Enrico Berti (Accademia dei Lincei) / Jean Baptiste Gourinat (CNRS, Sorbonne, Paris) / Maurizio Migliori (Università di Macerata) / Cristina Rossitto (Università di Padova)

 

Questo volume raccoglie oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sull’uomo. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti saranno non solo al pensiero filosofico, ma anche, sebbene in misura minore, al pensiero scientifico e letterario. L’uomo, insieme alla natura, rappresenta uno dei due temi portanti della cultura antica. La natura costituisce lo sfondo all’interno del quale tutto, compreso l’uomo, prende forma. L’uomo tuttavia, essendo il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà, nonché di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura, è sempre stato considerato un ente fondamentale. In questa completa ricostruzione della cultura umanistica antica assumeranno grande importanza anche i contenuti etici e politici, che mostreranno, insieme alla loro genesi, la loro perenne attualità.


Luca Grecchi, Uomo, Introduzione

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Natura (2018) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sulla natura, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero che ogni mancanza di rispetto e di cura nei confronti della natura – attività che solo l’uomo, fra gli enti naturali, è in grado di porre in essere – costituisce una mancanza di rispetto e di cura nei confronti della vita tutta.

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Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.


I suoi libri

L’anima umana come fondamento della verità (2002) delinea, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati molti suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema costituisce la base per una analisi critica della totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze razionali e morali della natura umana. [ indicepresentazionesintesi]


Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dall’autore compiuti negli anni Novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale. [ indicepresentazionesintesi]


Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx (2003) costituisce una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi comparata, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, l’autore propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico (in senso hegeliano). Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007. [indicepresentazione]


La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004), con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana. [indicepresentazione]


Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005), con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano. [indicepresentazione]


Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche nella valutazione di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura razionale e morale dell’uomo. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista. [indicepresentazione]


Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore. [indicepresentazione]


Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimenti imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro “una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo” in esame. [indicepresentazione]


Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla attuale totalità sociale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità degli uomini. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa sia la felicità. Il testo è caratterizzato da una analisi delle strutture della personalità oggi più diffuse, per l’autore “prodotte” dai processi di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Scrive Vegetti, nella introduzione, che Grecchi è “pensatore a suo modo classico”, per il suo “andar diritto verso il cuore dei problemi”. [indicepresentazione]


Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale. [indicepresentazione ]


Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale “risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa”.


Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, sul piano politico, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo


La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “scorporare” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.


Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico. [indicepresentazione ]


Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. [indicepresentazione sintesi ]





L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è il primo libro in cui Grecchi effettua la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi centrali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione razionale e morale. [indicepresentazione ]




L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone. Ponendo in essere una analisi delle principali interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indicepresentazione ]






L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la rilevanza della posizione anti-crematistica. [indicepresentazione ]



Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) l’essere ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero; b) l’assumere come riferimento, insieme descrittivo e valutativo (la filosofia si occupa non solo della verità, ma anche del bene), l’Uomo. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta per vari motivi essere Socrate.


Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.


Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2008), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in c ui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore. [indicepresentazione ]


Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.


L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese. [indicepresentazione ]


L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la cultura orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano. [indicepresentazione ]


L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che la filosofia orientale risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. In base tuttavia alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico. [indicepresentazione ]


A partire dai filosofi antichi (2009), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che “questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana”.


L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore cerca di colmare la distanza storico-culturale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico e postellenistico. Il testo si divide in due parti. Nella prima, considerando che ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso “produce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello ellenistico, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica/postellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino. [indicepresentazione ]


La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita di pressoché tutte le discipline filosofiche, ad eccezione della filosofia della storia, tuttora ritenuta di genesi moderna. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa. [indicepresentazione ]



Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata. [indicepresentazione ]


Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di “una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa”. [indicepresentazione ]


Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali, mostra come, sin dall’epoca omerica, gli antichi Greci furono aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”. Esso possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”. [indicepresentazione]



Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare. [indicepresentazione ]


Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso (2011) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di alcuni discorsi tenuti dall’antico pensatore cinese. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero di Confucio, già delineata ne L’umanesimo della antica filosofia cinese.




L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza la sua opera. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si caratterizza anche per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità. [indicepresentazione]



L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori esclusivamente come “naturalisti”, che li separano in maniera eccessiva sia dalla poesia epica precedente, sia dalla filosofia classica successiva. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure anticipatrici di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora. [indicepresentazione]



Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica e di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, elaborata oramai, in maniera teoreticamente originale, solo da un numero limitato di studiosi. [indicepresentazione]


Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi descrive il pensiero dell’autore quasi sempre concordando con lui, tranne che nella opposizione – su cui si sofferma anche Berti nella postfazione – fra metafisica classica e metafisica umanistica. [indicepresentazione]


Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti largamente insufficiente. Assumendo come base di riferimento il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori ancora definiscono – per mancanza di validi termini alternativi, ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”. [indicepresentazione]


Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico. [indicepresentazione]




La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. [indicepresentazione]




Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. [indicepresentazione]



Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”. [indicepresentazione]


Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul bene tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del bene.    [indicepresentazione]



Discorsi sulla morte (2016) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla Università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo. [indicepresentazione]




L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento della tradizione cristiana, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo solitamente poco considerati, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’Aristotelismo che ebbero il loro momento culminante nel 1277.


L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che pone in essere una critica costruttiva della tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale in esso la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.



Compendio di metafisica umanistica (2017) è un libro che espone in sintesi la struttura onto-assiologica della verità dell’essere per come in vari luoghi delineata dall’autore col nome di “metafisica umanistica”. Il testo fornisce alcuni capisaldi del futuro Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere (cui l’autore sta lavorando dal 2003), distinguendo le nozioni di Cominciamento, Principio e Fondamento, nonché elaborando la tematica dell’essere e della sua sistematicità. Il volume si sofferma anche sulla tematica del trascendente, e sul nesso descrittivo-normativo necessario alla progettualità sociale. [indicepresentazione]



Natura (2018) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sulla natura, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero che ogni mancanza di rispetto e di cura nei confronti della natura – attività che solo l’uomo, fra gli enti naturali, è in grado di porre in essere – costituisce una mancanza di rispetto e di cura nei confronti della vita tutta



Scritti brevi su politica, scuola e società (2019) costituisce una raccolta di articoli pubblicati dall’autore negli anni 2015 e 2016 su vari quotidiani, settimanali e riviste su tematiche di particolare attualità. Il filo conduttore di questi scritti è costituito da una critica progettuale al nostro tempo alla luce del pensiero greco classico, soprattutto di Aristotele. Per l’importanza delle tematiche trattate, e per l’approccio classico utilizzato, si tratta di riflessioni che forniscono un orientamento in grado di trascendere l’orizzonte del momento storico in cui sono state effettuate. [indicepresentazione]



Uomo (2019) è un libro che si colloca nella collana Questioni di filosofia antica della casa editrice Unicopli. Il testo analizza in maniera specialistica oltre dieci secoli di riflessioni del pensiero antico sull’uomo, da Omero a Plotino. Trattandosi di un tema vastissimo, i riferimenti sono di tipo sia filosofico, sia scientifico, sia letterario. Il tema riveste particolare importanza in quanto gli antichi, per primi, compresero la centralità dell’uomo nella natura, ovvero il suo essere il solo ente in grado di fornire un senso ed un valore alla realtà, nonché di avere rispetto e cura della realtà stessa .


L’umanesimo greco classico di Spinoza (2019) costituisce una analisi della filosofia di Spinoza alla luce del pensiero greco classico. Nonostante il filosofo olandese citi pochissimo Platone ed Aristotele, Grecchi mostra come forti siano i legami coi due più grandi pensatori antichi. Le tematiche esaminate sono alcune fra le principali del pensiero filosofico, quali la verità, il bene, la conoscenza, la sistematicità, la religione, la libertà, la crematistica, la politica. Frequenti sono anche i riferimenti ed i paralleli con il nostro tempo.


Curatele


È veramente noiosa la storia della filosofia antica? (2008, con Diego Fusaro), con scritti di E. Berti, G. Casertano, D. Fusaro, G. Girgenti, L. Grecchi, C. Preve e M. Vegetti .



Sistema e sistematicità in Aristotele (2016), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, S. Fazzo, A. Fermani, G.R. Giardina, L. Grecchi, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi].


Immanenza e trascendenza in Aristotele (2017), con scritti di G. Abbate, C. Baracchi, E. Berti, B. Botter, M. Cosci, A. D’Atri, A. Falcon, A. Fermani, L. Grecchi, A. Jori, D. Quarantotto, M. Ugaglia, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi ]


Teoria e prassi in Aristotele (2018), con scritti di C. Baracchi, E. Berti, A. Fermani, S. Gastaldi, L. Grecchi, S. Gullino, A. Jori, G. Lucchetta, L. Palpacelli, L. Ruggiu, M. Vegetti, C. Vigna, M. Zanatta. [indicepresentazionesintesi ]



Libri in preparazione


Metafisica umanistica.
La struttura sistematica della verità dell’essere


Presocratici


Ricchezza e povertà nella filosofia antica


Altro ancora ….

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Emiliy Dickinson (1830-1886) – Questo era un poeta: distilla straordinari sensi da significati ordinari e Essenze così immense dalle specie familiari che davanti alla porta perirono e ci meravigliamo che non fummo noi ad afferrarle, prima.

Emiliy Dickinson 115

Questo era un poeta: distilla
straordinari sensi
da signifIcati ordinari
e Essenze così immense

dalle specie familiari
che davanti alla porta perirono
e ci meravigliamo che non fummo noi
ad afferrarle, prima.

È lo scopritore di immagini,
è lui che, per contrasto
c’investe di disperata povertà

così ignaro del suo possesso
il furto non può turbarlo
lui per se stesso un tesoro
fuori dal tempo.

Emlly Dlcklnson, Questo era un poeta,  in Emlly Dlckinson, Sarà estate e altre poesie, traduzione e cura di Plera Mattei, Via del vento edizioni, Pistoia 2004.


 

Emily Dickinson nasce a Amherst, Massachussetts, il 10 dicembre 1830, nella casa costruita dal nonno paterno. In quella stessa casa morirà, il 15 maggio 1886, dopo avervi trascorso la maggior parte della vita. Il fratello William Austin è nato un anno prima e due anni dopo nascerà la sorella Lavinia (Vinnie). Quando, nel ’56, Austin si sposa, il padre gli fa costruire una casa accanto alla propria. La moglie di Austin è Sue Gilbert, con la quale Emily intratteneva un’appassionata amicizia (cfr.liriche 14 e 156). Nel 1858 inizia l’amicizia di Austin e Sue con i coniugi Bowels. Emily si lega molto a loro e a un’altra amica di Sue, Kate Anton Scott. Da quell’anno la produzione poetica diventa molto fluente, e raggiunge il suo massimo nel 1862. In quello stesso anno Emily apre una fitta corrispondenza con Thomas Wentworth Higginson, giornalista e scrittore, al cui giudizio sottoporrà una serie di cento poesie che egli le sconsiglia di pubblicare. Dal 1864 si confina nella propria stanza. Rifiuta di vedere estranei,veste solo di bianco, tutta chiusa in una sua avventura interiore registrata nelle liriche e nelle lettere. Alla morte di Emily,Vinnie che ha vissuto con lei fino all’ultimo, troverà nella camera, accuratamente raccolte in fascicoli, un’enorme quantità di liriche. Delle 1770 che l’edizione critica di Thomas H. Johnson ne ha ordinate nel 1955, solo sette erano state pubblicate in vita.

Emily Dickinson – Un’anima al cospetto di se stessa
Emily Dickinson (1830-1886) – La parola comincia a vivere soltanto quando vien detta.
Emiliy Dickinson (1830-1886) – Ciò che è lontano e ciò che è vicino
Emily Dickinson (1830-1866) – Semi che germogliano nel buio
Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo
Emily Dickinson (1830-1866) – Distilla un senso sorprendente da ordinari significati
Emily Dickinson (1830-1886) – La bellezza e la verità sono una cosa sola. Bellezza è verità, verità è bellezza.
Emiliy Dickinson (1830-1886) – Molta follia è saggezza divina, per chi è in grado di capire. Molta saggezza, pura follia. Ma è la maggioranza in questo, in tutto, che prevale. Conformati: sarai sano di mente. Obietta: sarai pazzo da legare, immediatamente pericoloso e presto incatenato.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.

María Zambrano 70

«La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla. A questa è perfettamente estraneo il volere; le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico. E, ciò nonostante, la violenza viene a romperla e rompendola invece di distruggerla fa nascere qualcosa di nuovo, un figlio di entrambe: il pensiero, l’instancabile pensiero filosofico».

María Zambrano,  in: Armando Savignano, María Zambrano. La ragione poetica, Marietti, Bologna 2004, pp. 82-83.

Descrizione
In questa monografia si prende le mosse dall’esame delle suggestioni mutuate dal maestro Ortega, dal sentimento tragico di Unamuno, dalla metafisica poetica di Machado e dal sistema filosofico di  Zubiri per poi esaminare gli scritti giovanili che furono caratterizzati da un forte impegno etico-politico e dall’attiva militanza in favore della causa repubblicana nella tragica guerra civile spagnola. Si affronta quindi la  teoria della ragione poetica che rappresenta forse il suo contributo più originale durante l’immenso esilio durato  circa mezzo secolo. La terza tappa è pervasa da un’attitudine mistica, dal momento che la Zambrano volge le spalle alla storia per far appello al sogno creatore, e decifrare attraverso la scrittura quel segreto, onde comunicarlo nel segno della pietà, che equivale a  saper trattare adeguatamente con l’altro. La maggior parte delle opere di Zambrano sono state tradotte nel nostro paese anche se manca una monografia completa sul suo pensiero per  procedere finalmente ad una analisi storico-critica. Finora, sostanzialmente con poche eccezioni, sono state prodotte solo  esegesi e glosse. Questo libro intende colmare proprio tale lacuna in occasione del centenario della nascita della famosa allieva di Ortega, nella consapevolezza delle difficoltà, ma anche degli innegabili esiti positivi, dinanzi ad un pensiero che tenta una via nuova in opposizione alla violenza del razionalismo,  mediante la ragione poetica e attraverso una scrittura affatto originale.
 

Armando Savignano, ordinario di Filosofia Morale presso l’Università di Trieste, ha dedicato numerosi saggi all’ispanismo filosofico. tra cui: Introduzione a Ortega y Gasset (Laterza, Bari 1996), Introduzione a Unamuno (Laterza, Bari 2001). Per Marietti ha curato l’edizione italiana di Ortega y Gasset, Cos’è filosofia, e di Zubiri, L’uomo e Dio.

Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Kabīr (1440–1518) – Nessun uomo è concepito o nasce in modo diverso dagli altri, quindi nessuno è nobile o plebeo. Soltanto lo stampo delle sue azioni individuali lo rende differente dai suoi simili.

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«Nessun uomo è concepito o nasce in modo diverso dagli altri, quindi nessuno è nobile o plebeo. Soltanto lo stampo delle sue azioni individuali lo rende differente dai suoi simili».

Kabīr, Granthāvali: Pada, 41; traduzione di Laxman Prasad Mishra

Poeta, filosofo e mistico del XV secolo, Kabir visse a stretto contatto prima dell’islam e poi dell’induismo, in un periodo di lotte sanguinose che li opponevano e li dilaniavano anche al loro interno. Scelse di imboccare un cammino radicalmente diverso: rigettando gli sterili formalismi, gli inutili riti e i digiuni mortificanti prescritti ai fedeli dei due credi, propose una nuova concezione unitaria e gioiosa di Dio e del mondo. È l’amore universale da cui tutto nasce quello celebrato nelle “Canzoni dell’amore infinito”: in esso non c’è separazione tra vita e morte e ha finalmente termine ogni inquietudine umana, perché l’Amore non ha principio né fine, è il Senza Forma, e «per la sua misericordia» insegna a «camminare senza piedi, a vedere senza occhi, a udire senza orecchi, a bere senza labbra e a volare senza ali». Paradossalmente Kabir divenne un punto di riferimento tanto per i credenti dell’islam quanto per gli induisti e quando morì, pare alla veneranda età di 119 anni, gli uni e gli altri si disputarono il corpo del Maestro. La leggenda vuole che al suo posto sia stato trovato un enorme fascio di gladioli selvatici che i due schieramenti si divisero: così una parte di quei fiori fu bruciata e gettata nel Gange, mentre l’altra venne sepolta.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.

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«Ora, bisogna dire che ogni virtù ha l’effetto di portare alla piena realizzazione ciò di cui è virtù e far sì che eserciti bene la sua funzione […]. Dunque, in tutto ciò che è divisibile è possibile cogliere il più, il meno e l’uguale, e, questo, sia in relazione alla cosa stessa sia in relazione a noi; d’altra parte l’uguale è una sorta di intermedio tra eccesso e difetto. Intendo dire che l’intermedio in relazione alla cosa, intermedio che è uno solo per tutti, è ciò che dista in modo uguale da ciascuno degli estremi, mentre l’intermedio rispetto a noi è ciò che non eccede né difetta; e questo non è uno solo né è lo stesso per tutti. Ad esempio: se dieci sono molti e due sono pochi, come giusto mezzo rispetto alla cosa si prende sei; infatti supera ed è superato in misura uguale: questo è il giusto mezzo in base alla proporzione aritmetica. Quello relativo a noi, invece, non deve essere còlto in questo modo[…]. Così, allora, ogni esperto rifugge dall’eccesso e dal difetto, mentre va alla ricerca del giusto mezzo e lo sceglie, ma non il giusto mezzo rispetto alla cosa, ma quello rispetto a noi. Se, quindi, ogni scienza realizza la sua funzione specifica, guardando al giusto mezzo e rivolgendo a ciò le sue opere […] e se la virtù, come la natura, è più precisa di ogni tecnica, ed è anche migliore, la virtù verrà ad essere ciò che mira al giusto mezzo. Mi riferisco alla virtù morale: essa, infatti, riguarda le passioni e le azioni, ed è in queste che si danno eccesso, difetto e giusto mezzo; per esempio del provare paura, dell’essere coraggiosi, del desiderare, dell’arrabbiarsi, del provare pietà e, in genere, del provare sensazioni di piacere e di dolore, vi è un troppo e un poco, ed entrambi non sono buoni; al contrario il provarli nel momento opportuno, riguardo alle cose e alle persone adatte, per il fine e nel modo adeguato, è il giusto mezzo e l’ottimo, e questa è la caratteristica della virtù. Allo stesso modo, anche nelle azioni vi è un eccesso, un difetto e un medio.
La virtù, d’altro canto, riguarda le passioni e le azioni, nelle quali l’eccesso rappresenta un errore e il difetto viene biasimato, mentre il giusto mezzo è lodato e rappresenta la correttezza; e entrambi questi elementi caratterizzano la virtù. La virtù, pertanto, si configura come una certa medietà, dato che è ciò che tende al giusto mezzo. Inoltre, si può sbagliare in molti modi (infatti il male ha la caratteristica dell’illimitato, come avevano intuito i Pitagorici, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato), mentre la correttezza si dà in un modo solo (perciò accade anche che una cosa è facile e una è difficile: facile, da un lato, è fallire il bersaglio, mentre difficile è coglierlo). Per queste ragioni l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è la caratteristica della virtù:

«nobili in un modo solo, ignobili in tanti modi».

La virtù, quindi, è uno stato abituale che orienta la scelta, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente e come verrebbe a determinarlo l’individuo saggio. Medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto. Inoltre, per il fatto che alcuni stati abituali, sia nelle passioni sia nelle azioni, sono alcuni in difetto e altri in eccesso rispetto a ciò che si deve, la virtù individua il giusto mezzo e lo sceglie. Perciò, da un lato, se si prende come punto di riferimento la sostanza e la definizione che ne esprime l’essenza, la virtù si configura come una medietà, mentre dall’altro, se il punto di riferimento è l’ottimo e il bene, la virtù si configura come un estremo».

 

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro II, 1106 a – 1107 a 9, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 497-501.

 

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l'”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Raoul Vaneigem – «Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni», prefazione e traduzione di Sergio Ghirardi. Imparare a diventare umani è la sola radicalità.

Vaneigem Raoul_Sergio Ghirardi

Raoul Vaneigem, Trattato sul saper vivere. Ad uso delle giovani generazioni, prefazione e traduzione di Sergio Ghirardi, Castelvecchi, Roma 2006. L’edizione Castelvecchi  include anche l’interessante e attuale introduzione scritta da Raoul Vaneigem per la riedizione francese del 1992, oltre che l’aggiunta finale voluta da Raoul già nella seconda edizione Gallimard del 1972 [Toast aux ouvriers révolutionnaires], ignorata nell’edizione Vallecchi del 1973 e nei suoi cloni successivi.

Raoul Vaneigem incarna il tipo di uomo che preferisce il desiderio al dovere e all’ideologia, la gioia di vivere alle imposizioni e ai programmi. Il tentativo di un saper vivere al di fuori degli schemi e delle imposizioni dogmatiche, con un pensiero insieme «libertario» e «umano» fanno di questo trattato un testo ancora attuale.


Le Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations marque l’émergence, au sein d’un monde en déclin, d’une ère radicalement nouvelle. Au cours accéléré qui emporte depuis peu les êtres et les choses, sa limpidité n’a pas laissé de s’accroître. Je tiens pour contraire à la volonté d’autonomie individuelle le sentiment, nécessairement désespéré, d’être en proie à une conjuration universelle de circonstances hostiles. Le négatif est l’alibi d’une résignation à n’être jamais soi, à ne saisir jamais sa propre richesse de vie. J’ai préféré fonder sur les désirs une lucidité qui, éclairant à chaque instant le combat du vivant contre la mort, révoque le plus sûrement la logique de dépérissement de la marchandise. Le fléchissement d’un profit tiré de l’exploitation et de la destruction de la nature a déterminé, à la fin du XIXe siècle, le développement d’un néocapitalisme écologique et de nouveaux modes de production. La rentabilité du vivant ne mise plus sur son épuisement mais sur sa reconstruction. La conscience de la vie à créer progresse parce que le sens des choses y contribue. Jamais les désirs, rendus à leur enfance, n’ont disposé en chacun d’une telle puissance de briser ce qui les inverse, les nie, les réifie en objets marchands. Il arrive aujourd’hui ce qu’aucune imagination n’avait osé soutenir : le processus d’alchimie individuelle n’aboutit à rien de moins qu’à la transmutation de l’histoire inhumaine en réalisation de l’humain.

Raoul Vaneigem



 



Tra i libri di Sergio Ghirardi

Sergio Ghirardi


Raoul Vaneigem

Raoul Vaneigem

«Imparare a diventare umani è la sola radicalità».

Raoul Vanegeim

  1. Un autore dimenticato: Raoul Vaneigem

 

 «[…] il Traité rimane uno scossone, un urlo
[…] a fare un bilancio rispetto a ciò che rimane
della soggettività come desiderio,
come piacere, come relazione solidale».

Pasquale Stanziale

In questo breve contributo critico ci proponiamo di analizzare il pensiero di Raoul Vaneigem, nato a Lessines, in Belgio, nel 1934 e tuttora vivente; intendiamo soprattutto comprendere quanto della sua opera resti più che mai vivo ed urgente nell’odierna attualità.
Vaneigem, insieme a Guy Debord (1931-1994), fu uno dei membri principali dell’Internazionale Situazionista, che lascerà nel 1970, ed il suo testo di capitale importanza è senz’altro Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni (1967) [1]. È un libro, questo, che – ha scritto giustamente Pasquale Stanziale – rimane ancora uno scossone, un richiamo a cambiare prospettiva, un urlo contro ogni forma di soggettività negata.
Tuttavia, se negli ultimi anni v’è stato un interesse esponenziale verso gli scritti di Debord [2], è come se Vaneigem fosse invece passato inosservato, rimosso tanto dall’ambiente dell’accademia quanto dall’“opinione pubblica” tout court. Proprio per questa ragione desideriamo oggi regalare al lettore un’analisi in grado di restituire il giusto peso, il significativo spessore del pensatore belga. Di più: riteniamo, con una certa cognizione di causa, che le riflessioni vaneigemiane possano aiutarci a penetrare all’interno del «nuovo spirito del capitalismo»[3], a recepire fino in fondo le implicazioni strutturali della controrivoluzione neoliberista.
Procederemo, inoltre, inserendo qui e lì delle “intermittenze” musicali, parole di due cantautori, Claudio Lolli e Gianfranco Manfredi [4], che hanno espresso artisticamente le esigenze situazioniste, la tensione libertaria ivi presente, e che, come tali, costituiscono un valido ed inusuale supporto per una maggiore comprensione. È, forse, inevitabile il riferimento al mondo musicale, poiché – in quell’«orda d’oro» [5] rappresentata dal decennio ʻ68-ʻ77 – esso ha davvero dato voce ai sogni giovanili, allo «sciamare d’energie»[6] – per dirla con Capanna – che si liberava in tutte le direzioni, al bisogno incontenibile di essere irriducibili e di non sottostare al fatalismo della storia. [7]
L’orizzonte del ʻ68-ʻ77 segna dunque una grandiosa rivoluzione dell’immaginazione, «un’incruenta rivolta per affermare il diritto alla felicità» [8]. Esattamente quest’ultimo aspetto, la volontà cioè di far «retrocedere dappertutto l’infelicità» [9], è quanto caratterizza l’Internazionale Situazionista (1957-1972), formatasi a Cosio d’Arroscia (Imperia) nel 1957. Essa nasce come contestazione artistica, influenzata dal lettrismo e dal surrealismo, e s’allarga poi al terreno politico, s’afferma quale critica serrata nei confronti dell’alienazione e della passività esistenziale, mira ad una rivoluzione permanente della vita quotidiana e ad una costruzione di situazioni [10]. I suoi testi fondamentali di riferimento sono quello già citato di Vaneigem e La società dello spettacolo di Debord, entrambi del 1967. Noi ci confronteremo in particolare con il primo e con la sua pars destruens: il morbo della sopravvivenza.

 

 

  1. Il morbo della sopravvivenza

 

«Lo sai che siamo tutti morti e non ce ne
siamo neanche accorti, e continuiamo a dire
e così sia». 

Claudio Lolli      

 

Il Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni si caratterizza, in primis, per una «fenomenologia della soggettività negata» [11], vale a dire per l’amara comprensione della riduzione della ragione a mera e squallida esecutrice di ordini.
Questa fase storica – scrive Vaneigem – non è né quella legata al principio di dominio della società feudale, né quella propria del principio di sfruttamento della società borghese, bensì essa reca il trionfo del principio d’organizzazione tipico di una società cibernetica, ove la ragione si svuota di senso, oblia del tutto l’idea di una qualche normatività morale e d’una finalità delle proprie scelte individuali e sociali. Essere ragionevoli – per dirla con il Max Horkheimer di Eclisse della ragione – significa infatti non essere ostinati, adattarsi alla realtà così com’è, diventare una semplice cellula di risposta funzionale. [12] Ma vuol dire anche divenire grotteschi personaggi che assomigliano, schopenhauerianamente, a burattini caricati come orologi [13], senza sapere il perché di quello che fanno; vuol dire trasformarsi in automi lobotomizzati da una insulsa «cascata di gadgets» [14]. Così il proprio io non si sente più e sembra alla fine rivolgerci queste desolanti parole: «Sono merce che un estraneo/scambia in me/tra me e me» [15], sono un feticcio che non ha più sogni, che si bea nell’ accettazione rassegnata dell’esistente.
Il tempo stesso si svalorizza, si frantuma in istanti seriali, equivalenti, intercambiabili. È il tempo-merce, del lavoro, del consumo, del potere, che congela l’orizzonte storico nella stagnazione di un presente perennemente indaffarato: «Istante per istante, il tempo scava il suo pozzo, tutto si perde, niente si crea…» [16], ciascuno si insegue senza mai raggiungersi, cambia di continuo status, pelle, ruolo, ma non la sua alienazione, non la sua dormiente sopravvivenza.
Dimenticare la propria coscienza storica implica, ipso facto, scordare l’identità finita di cui siamo intrisi, comporta essere impossibilitati ad aprirsi all’incontro con l’alterità, significa diventare potenzialmente manipolabili e strumentalizzabili da chi è al governo. Non resta se non «l’illusione di essere insieme» [17], poiché non riusciamo più a guardare il volto dei nostri fratelli e risultiamo sospesi in un limbo d’indifferenza generalizzata, ex-tranei a noi stessi ed al prossimo [18]. Siamo corrosi dentro da orride “tonalità emotive”: l’invidia, l’acredine, il rancore, che non ci danno pace e misurano il grado della nostra umiliazione. [19] Ci si scopre accomunati solo da questa espropriante lacerazione, solo dal consumo alienato, da un’apatia disarmante nei confronti del “senso”. Commenta, a questo proposito, in maniera molto lucida il giovane filosofo Giacomo Pisani: «Si afferma in questo modo un individualismo assolutamente particolare, in cui l’individuo risulta isolato non solo dagli altri, ma dalla sua stessa storia, perdendo qualsiasi occasione di ricerca di un senso. La sua vita è un continuo errare per sfuggire a questo vuoto, per mantenersi in un terreno neutro, in cui possa vivere chiunque, in cui possa essere un “chiunque”». [20]
Vale la pena soffermarsi su queste parole, perché svelano amaramente il modo in cui si vivono i rapporti interpersonali nel morbo della sopravvivenza: non già attraverso una condivisione (seppur, a volte, conflittuale) di pensieri, di sogni, di speranze, bensì nella modalità della scissione e dell’isolamento. Si è sì tutti insieme, «ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco/o nudo tra il letame/solo come un pulcino,/bagnato come un cane.» [21]
Questa dissociazione dall’alterità, denunciata da Vaneigem nel 1967, costituisce la base dell’odierno ʻnarcinismoʼ[22], pervaso da un’ipersoggettivazione individualista fatta di logorante competitività, prestazione, sfruttamento.
Invero tutta l’analisi di Raoul Vaneigem – come possiamo ora meglio comprendere – è un potente mezzo ermeneutico che ci permette di cogliere – per utilizzare un’acuta espressione di Mauro Magatti – l’attuale «capitalismo tecno-nichilista» [23], che ha risucchiato l’intera sfera del legein nel teukein, nel fare ansioso della propria ristretta competenza. Ed è un capitalismo che, tanto secondo il filosofo belga quanto secondo Magatti, si riflette in un preciso spazio urbano. Difatti, per Vaneigem, le nostre esistenze vengono stipate in angusti uffici o in sporche fabbriche, nel grigio di città che respinge le sue ʻvite di scartoʼ nelle «tristi balere di periferie» [24] ed accalca disperati su disperati negli angoli bui delle sue stazioni[25]. È un grigio che immalinconisce, in cui «la luna ha una faccia da strega/e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina» [26], è un grigio che purtroppo ci sembra riproporre l’attuale dicotomia fra il perbenismo del centro cittadino e le banlieues parigine [27], ove ciascuno patisce un’opprimente sensazione di emarginazione e cova dentro di sé risentimento, livore, invidia. Ma la città – potremmo aggiungere con Magatti – è pure lo spazio estetico deterritorializzato (SED) [28], che distrugge luoghi antropologicamente sociali/relazionali/“spirituali”, per far posto alla neutralità ed al disimpegno di grandi centri commerciali, nei quali si è “avviluppati” da un vortice consumistico, dall’«economia libidica del plusgodere» [29]. Ciò che si perde – sia nelle banlieues sia in questo centro deterritorializzato [30] – è la propria umanità, il senso di essere una comunità. A tal riguardo, Vaneigem descrive la riduzione dell’uomo allo stato di cosa ricordando i quadri di De Chirico o Ulisse di Malevič [31], dipinti di estremo pregio e valore. Troviamo, però, interessante affiancare oggigiorno a questi (soprattutto in virtù di quello che s’è detto poc’anzi a proposito dello spazio urbano) i quadri di Dino Di Bonito [32], perché essi ben rappresentano le «folle solitarie» della post-modernità, disperse in seriali metropoli e ridotte a fantasmi, ad anonimi esseri scarnificati.
Il morbo della sopravvivenza, adesso analizzato in tutte le sue sfaccettature, è quindi più che mai vivo e vegeto; quel che resta della pars destruens di Vaneigem è ancora tanto, troppo. Eppure anche la sua pars construens, che avverte l’assoluto bisogno di salvare “l’umanità dell’umano”, acquista oggi una notevole importanza. Ha scritto infatti Enea Bianchi: «[…] uno degli obiettivi più nobili dell’I.S. è stato quello di ridare dignità al termine “sociale”, distorto dalla propaganda neoliberista, la quale intende il sociale principalmente come avvicinamento delle distanze e come facilitazione delle interazione fra le persone». [33]
Da questo senso nobile del “sociale” dovremo ora muovere per comprendere il rovesciamento di prospettiva (détournement) operato dal Nostro.

 

 

  1. Il valore sovversivo dell’eros

 

«[…] quando due persone si amano, sottraggono
terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla».

Ernst Jünger

 

Il détournement dobbiamo immaginarlo come uno stadio radicalmente antitetico rispetto al morbo della sopravvivenza, uno stadio che comincia a partire da una profonda insoddisfazione nei confronti dell’esistenza rinunciataria e parassitaria. È come una scossa che ci risveglia dal nostro torpore, le cui parole iniziali urlano questo: «Sono vivo/fammi uscire/dal cadavere,/dal cadavere di me» [34], e reclamano, altresì, lo squartamento di quel limbo d’indifferenza, dove ogni cosa ci scivola via senza toccarci mai.
Si tratta, in altri termini, di recuperare la nostra volontà di vivere in grado di infilzare la sua lama nella materia molle dell’inerzia; si tratta di rivendicare l’attività ludica contro il travaglio di un irrequieto teukein. È inscritta nella natura del gioco una venatura sovversiva, poiché essa risponde alla libera creatività che disfa il livellante principio di prestazione/organizzazione della società cibernetica. Del resto, in quegli stessi anni, anche Herbert Marcuse esprimeva concetti analoghi: «Gioco e libera espansività, come principi di civiltà, non implicano una trasformazione del lavoro, ma la sua assoluta subordinazione al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e della natura. Ora si comincia a intravvedere la vera distanza tra i concetti di gioco e di libera espansività, e i valori di produttività e di prestazione: il gioco è improduttivo e inutile proprio perché esso cancella i tratti repressivi e sfruttatori del lavoro e dell’agio». [35]
C’è nel gioco uno «stormire di spontaneità» [36], che ingloba i caratteri della gioiosità, della partecipazione, della gratuità. La temporalità dell’homo ludens è, dunque, tutt’altra cosa rispetto a quella quantitativa dell’heautontimorumenos [37]: è gonfiata di passione, di innocenza, di amore. Ed all’amore Vaneigem guarda quale decisivo punto di svolta per sottrarsi a questo mondo voyeuristico ed inautentico. Amare vuol dire, infatti, aprirsi alla sfera dell’intersoggettività, voler incontrare il prossimo, lasciare un pezzo di sé nell’altro. L’eros implica intensità, illuminazione del presente, uscita dal guscio economicista dei ruoli, per cogliere così la propria insostituibilità ed unicità.
Per Vaneigem, quando si ama davvero, lo si fa incondizionatamente e senza poter eludere il corpo (Leib): è come se si fosse dentro la fiamma di un fuoco che reca in sé il brivido della morte, la dissipazione delle «paure di sempre» [38], il trionfo su «tutte le costruzioni titaniche» [39]. Da questo punto di vista, l’amore non è un semplice modo per soddisfare i propri pruriti pubici, bensì è forza propulsiva al cambiamento, è «condivisione di un piacere che ci porti, insieme, al di là di quest’oggi meschino, almeno per un momento, un sogno di libertà, di infinitezza, di gioventù» [40].
Ecco quindi nascere la triade unitaria dell’autenticità: realizzazione-comunicazione-partecipazione [41], con cui le nozioni di castigo e di supplizio vengono liquidate e subentra una nuova innocenza, una nuova grazia di vivere [42]. Aspetti, questi, che intendono sconfiggere – per dirla con Franco Berardi (Bifo) – il «totalitarismo senza totalità» [43], il quale sottomette il singolo ad una regola fredda ed esige da lui solo un’alienata (ma efficiente) prestazione.
L’innocenza non è ignoranza né tantomeno riproposizione del narcinismo, ma indica una riappropriazione del divenire e del proprio essere, una capacità di danzare sugli abissi e di sottrarsi ad ogni greve fatalismo. [44] Occorre abbandonare la pesantezza degli stolti ʻpredicatori di morteʼ [45], che si cullano in frasi stereotipate e nihilistiche del tipo “è la vita”, “va come deve andare”, “bisogna farsene una ragione”, per far sorgere un’etica dell’impegno e della partecipazione, in cui ci si “sporca le mani” in prima persona a favore della comunità (parola quanto mai dimenticata) di riferimento, si dice di sì ad uno «stato di dono e di disponibilità» [46].
In tempi come il nostro, nei quali troppo spesso si cavalca l’onda dell’antipolitica per chiudersi in se stessi e credere che nulla possa essere cambiato, Vaneigem può dunque rappresentare un pungolo a tentare, a rischiare un «colpo di mondo» [47], a non adagiarsi nell’alibi della rassegnazione. Ed il «valore sovversivo dei sentimenti» [48], l’effetto sregolante, al di là del bene e del male, dell’amore costituisce il primo passo per incominciare ad intaccare la corruzione delle istituzioni stesse.

Gabriella Putignano

Bibliografia

Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014;
Aa.Vv.,
Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998;
N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997;
F. Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997;
L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014;
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998;
J. Giustini, Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003;
M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000;
E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998;
C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013;
M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009;
H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001;
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004;
G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012;
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010;
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008;
P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
Id., Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

 

Discografia

C. Lolli, Aspettando Godot, EMI Italiana, 1972;
Id., Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, EMI Italiana, 1973;
Id., Canzoni di rabbia, EMI Italiana, 1975;
Id., Disoccupate le strade dai sogni, Ultima Spiaggia, 1977;
Id., Extranei, EMI Italiana, 1980;
G. Manfredi, Ma non è una malattia, Ultima Spiaggia, 1976;
Id., Zombie di tutto il mondo unitevi, Ultima Spiaggia, 1977.

 

Sitografia

N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015;
G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

 

 

 

Note

[1] Sarà tradotto in Italia per la prima volta nel 1973.

[2] Questo si deve anche all’apertura dei sui archivi. Nondimeno tale interesse non sempre si è tradotto in una dispiegata comprensione del pensiero debordiano, spesso ridotto ad una mera critica mediatica.

[3] Cfr. L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014.

[4] C. Lolli e G. Manfredi sono, infatti, due cantautori “simbolo” del decennio ’68-’77.

[5] Cfr. N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997.

[6] M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998, p. 39.

[7] Ha scritto F. Berardi (Bifo): «Io credo che ’68 si debba ancora apprendere la lezione più profonda. E che il ’77 sia il punto di vista migliore per comprendere quella lezione. Penso alla consapevolezza della irriducibilità dell’esistenza alla storia, penso all’autonomia intesa come carattere asimmetrico della traiettoria singolare rispetto al destino sociale e di genere. Penso alla libertà come attivo sottrarsi al divenire necessario del mondo.», Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997, pp. 34-35.

[8] M. Bellocchio, citiamo da M. Capanna, op. cit., p. 137. Corsivo nostro.

[9] È il titolo di un ciclo d’incontri, curato da Stefano Taccone nel 2013, presso il BAD Bunker Art Division di Casandrino (NA). Gli Atti sono oggi disponibili con il titolo Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014.

[10] Difatti nel numero 9 (agosto 1964) dell’ IS – alla domanda su che cosa significhi essere «situazionisti» – si legge: «Definisce un’attività che vuole creare le situazioni, non riconoscerle, come valore esplicativo o altro. Questo a tutti i livelli della pratica sociale e della storia individuale. Noi sostituiamo alla passività esistenziale la costruzione di momenti di vita, al dubbio l’affermazione ludica.», oggi in Aa.Vv., Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998, p. 219.

[11] P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004, p. 11.

[12] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000, p. 16.

[13] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008, p. 352.

[14] R. Vaneigem, op. cit., p. 25.

[15] G. Manfredi, Puoi sentirmi?, in Ma non è una malattia (1976).

[16] R. Vaneigem, op. cit., p. 105.

[17] Ivi, p. 43. Corsivo nostro. Si veda su questo anche E. Bianchi, L’illusione di essere insieme, in Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, pp. 34-43.

[18] Il termine ʻextraneiʼ allude ad un album di C. Lolli pubblicato nel 1980, che sancisce non solo il crollo degli ideali politici, ma anche lo sfacelo dei rapporti umani. Cfr. J. Giustini: «Anche i legami tra gli stessi uomini sono spariti. Si diventa inesorabilmente ex. Ma più che altro estranei a se stessi, incapaci di legarsi a niente.», Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003, p. 14.

[19] Cfr. R. Vaneigem: «Invidio, dunque esisto. Cogliersi a partire dagli altri è cogliersi altro. E l’altro è l’oggetto, sempre. Sicché la vita si misura dal grado di umiliazione vissuta.», op. cit., p. 36.

[20] G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012, pp. 35-36.

[21] G. Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura, in Zombie di tutto il mondo unitevi (1977).

[22] Narcinismo è neologismo formato dalle parole “narcisismo” e “cinismo”. Si veda su questo M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, ma si veda anche e soprattutto N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015.

[23] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

[24] C. Lolli, Hai mai visto una città, in Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973).

[25] Si ascolti C. Lolli, Angoscia metropolitana, in Aspettando Godot (1972).

[26] C. Lolli, Incubo numero zero, in Disoccupate le strade dei sogni (1977).

[27] Si veda su questo, problema quanto mai attuale, G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

[28] M. Magatti, op. cit., pp. 80-88. Si veda anche G. Pisani, op. cit., pp. 30-32.

[29] Cfr. M. Magatti, op. cit., pp. 130-138.

[30] Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia.

[31] Scrive Vaneigem: «Il movimento Dada, il quadrato bianco di Malevič, Ulisse, le tele di de Chirico fecondano, con la presenza dell’uomo totale, l’assenza dell’uomo ridotto a stato di cosa», op. cit., pp. 167-168.

[32] D. Di Bonito è un artista tuttora vivente, nato a Pozzuoli e residente a Roma. Facciamo riferiamo, in particolare, alla sua prima personale intitolata “Metropolis”.

[33] E. Bianchi, art. cit., p. 43.

[34] G. Manfredi, Puoi sentirmi?

[35] H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001, p. 213.

[36] R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 246.

[37] Vaneigem utilizza questo termine, che riecheggia una commedia di Terenzio, per indicare il “punitore di se stesso”, ovvero l’uomo della sopravvivenza.

[38] C. Lolli, Donna di fiume, in Canzoni di rabbia (1975).

[39] E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998, p. 97.

[40] C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013, p. 97. Corsivo nostro.

[41] Cfr. R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, p. 212.

[42] Ivi, p. 310.

[43] F. Berardi (Bifo), op. cit., p. 105.

[44] Il tema dell’innocenza è, chiaramente, nietzscheano. Si ricordi su tutto il concetto di innocenza del divenire.

[45] Nel lessico nietzscheano ʻpredicatori di morteʼ sono coloro per i quali niente vale la pena, sono «i tisici dell’anima: non sono ancora nati che già cominciano a morire, e sono avidi di dottrine della stanchezza e della rinuncia.», Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004, p. 45.

[46] R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 117.

[47] A. Trocchi, Tecnica del colpo di mondo, in “Internationale Situationniste”, 8, janvier 1963, pp. 53.62; trad. it in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino, 1994.

[48] P. Stanziale, art. cit., p. 12.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Brice Bonfanti – Lo scrittore Arno Bertina in dialogo con il poeta Brice Bonfanti. una triade di epopee popolari, una triade di civiltà, una triade di popoli […] una triade d’amore.

Brice Bonfanti 03

[…] una triade di epopee popolari (Palestina, Messico zapatista, Argentina nel 2001), una triade di conoscenze […], una triade di civiltà […], una triade di popoli […] una triade d’amore […].

B.  Bonfanti

 

Entretien avec Brice Bonfanti

Dans ses Chants d’utopie, dits en public, Brice Bonfanti invente une multiplicité d’épopées à travers les époques et les lieux, avec pour matière les catastrophes et les espérances de notre temps, et où interviennent les poètes et les mythes. Pour En attendant Nadeau, l’écrivain Arno Bertina (Des châteaux qui brûlent, Verticales, 2018) s’entretient avec le poète né en 1978.

Nel suo Chants d’utopie, letto in pubblico, Brice Bonfanti crea una molteplicità di epopee attraverso epoche e luoghi, che hanno come soggetto le catastrofi e le speranze del nostro tempo e in cui intervengono poeti e miti. Per En attendant Nadeau, lo scrittore Arno Bertina (Des châteaux qui brûlent, Verticales, 2018) parla con il poeta nato nel 1978.



Brice Bonfanti, Chants d’utopie, premier cycle. Sens & Tonka, 172 p., 16,50 €

Brice Bonfanti, Chants d’utopie, deuxième cycle. Sens & Tonka, 320 p., 19,50 €


Vos deux premiers volumes de poésie sont divisés en livres comportant trois chants. La chose est donc structurée. Mais ces chants semblent provenir d’un ensemble bien plus vaste puisque le livre 1, par exemple, est constitué des chants XI, XVIII et V. Est-ce le signe d’une fragmentation chaotique que le sommaire ne parvient pas, en fait, à empêcher ? Est-ce le signe d’un réagencement souverain, qui se moque de la chronologie officielle (Dante devrait venir avant Essenine) ?

Il s’agit, oui, d’un réagencement souverain, mais d’une souveraineté d’enfant, qui se moque de la chronologie officielle autant que personnelle, mais qui se moque avec tendresse, et sans mauvais esprit, plutôt avec un bon esprit, un esprit bon enfant, qui même ne se moque pas, mais joue, comme au lego. C’est un agencement bonenfantin.

Comme si l’ordre du temps était désordonné, ou insatisfaisant, et comme s’il fallait après coup l’ordonner autrement. Tous les chants jusqu’au XXVII, terminé récemment, existent déjà. Certains ont pris leur place, d’autres l’attendent. Le sommaire reflète la fidélité à l’ordre du temps où s’écrivent les chants, depuis 2008, puisqu’il maintient la numérotation chronologique – et il reflète en même temps le jeu sérieux qui réordonne cet ordre du temps, pour un nouvel ordre cordial : a posteriori, se forment des triades par affinité, par amitié entre les chants écrits.

Par exemple, le livre 3 est une triade de la religion, de l’espérance religieuse comme ferment révolutionnaire (Israël messianique, Égypte hésychaste, Turquie soufie). Mais je ne les ai pas écrits à la suite, puisqu’il s’agit respectivement des chants XIII, XV et X.

De la même manière, sont apparues : une triade d’épopées populaires (Palestine, Mexique zapatiste, Argentine en 2001), une triade de la connaissance (du cerveau divisé à la mystique unifiée, jusqu’au théâtre utopien), une triade de la civilisation (de Sumer à l’après transhominidisme), une triade des peuples ayant fait l’objet d’un palimpseste, devenus utopiques, sans lieu (Occitans, Imazighen…), une triade des aborigènes, à l’origine d’un peuplement (depuis les bactéries jusqu’aux aborigènes d’Inde et du Japon), une triade de l’amour (de l’amour minuscule à l’Amour majuscule).

L’ensemble est plus vaste d’emblée : mes éditeurs Sens & Tonka ont vite vu mon obsession pour le Neuf (dans les deux sens du terme), mon rituel de l’écriture avec un œuf et trois cafés, Un Neuf et Trois, et ils ont annoncé neuf cycles de neuf chants, autrement dit quatre-vingt-un chants. Un seul ensemble formé de Neuf cycles chacun découpé en Trois livres chacun contenant ses Trois chants soit Neuf chants.

L’ensemble est vaste, parce que je veux n’écrire qu’une chose, sauf accident. Jusqu’ici, les accidents ont toujours fini par intégrer la chose une. Moi qui m’ennuie très vite, je sais que je ne m’ennuierai pas. Comme l’Un du néoplatonisme qui seul garantit la liberté des êtres, sans engendrement, sans intervention, sans domination, l’Un des Chants d’utopie garantit la naissance de multiples passés et à venir, et les protège comme une Arche.

Il est des chants que je rêve de faire, et que je fais des années après. J’ai rêvé ma Voltairine en 2004, alors que je n’avais écrit que le chant I, et je ne l’ai écrite qu’en 2015 avec le chant XIV. Depuis 2008, je sais que mon chant de Suisse sera le chant de la prostitution, avec pour figure Grisélidis Réal – mais je ne l’ai toujours pas écrit. Pareillement, le chant de Rojava, du Kurdistan syrien, couve depuis plusieurs années.

À l’inverse, il est des chants que je n’avais pas prévus, qui surgissent soudain. Par exemple, le chant XXIII de Stig Dagerman. Je n’avais jamais songé à écrire un chant de Suède. C’est le thème du suicide qui est venu en premier : je voulais explorer le suicide en tant qu’utopie, en tant que recherche d’un sans-lieu. J’ai choisi la figure de Stig parce qu’avant d’être un suicidé il était anarchiste, et que cela redoublait l’utopie, avec une dimension politique. La mystique est venue comme un troisième terme. Et comme en utopie tous les temps sont présents, c’est Emanuel Swedenborg, venu du XVIIIe siècle, qui vient initier Stig dans son XXe siècle à la mystique. Ce chant XXIII est le dernier que j’ai écrit – après coup – pour le deuxième cycle, alors que j’en avais déjà transmis le manuscrit à mes éditeurs. Il a fallu, pour l’intégrer, tout réorganiser. Mais il était trop important car il donnait à l’Utopie majuscule sa dimension métaphysique, quasiment synonyme de Dieu, ou plutôt : de l’Un, et je l’ai mis au centre du deuxième cycle, comme un point de bascule, entre un avant et un après.

Brice Bonfanti, Chants d’utopie

Pour chaque « chant », une figure tutélaire et une région du monde (le chant VII du livre 4 est ainsi placé sous le signe de Roberto Juarroz et Laura Cerrato, Argentine, etc.). Comment définir ce dialogue avec les œuvres citées ? À lire vos chants, on écarte l’hypothèse d’une variation comme il en existe beaucoup en musique, et peu en littérature (Jean-Louis Giovannoni a écrit « Variations Hölderlin », et « Variations Juarroz », mais je ne connais pas d’autre exemple).

Ces figures sont des types, des emblèmes, des symboles. Certains types m’attirent, comme autant de facettes d’un hypertype, utopien : paysans, poètes, mystiques, anarchistes, autodidactes, inventeurs, alchimistes, Amérindiens, aborigènes, pirates…

Ces figures m’inspirent comme des tremplins. Je ne fais pas de petits romans historiques : le point de départ, c’est l’histoire, ou plutôt la préhistoire, où nous les animaux hominidés nous souvivons, sauf par éclair ; mais le point infini d’arrivée est utopique, une autre histoire, la vraie histoire, où les humains vivent enfin, tendus vers l’outrevie. Chaque figure, issue de notre préhistoire, se trouve donc utopisée.

Comme dans le sommaire où l’ordre (le désordre) temporel de l’écriture est réordonné (ordonné) en un autre ordre, chaque chant réordonne notre préhistoire, pour déployer les germes du meilleur qui n’ont pas pu aller au bout, empêchés par une préhistoire arriérée et subie.

L’anarchiste américaine Voltairine de Cleyre n’a pas connu autrement qu’en l’espérant l’utopie – le rêve réel –, mais seulement la préhistoire – le cauchemar illusoire. Je rêvais qu’elle vive un autre monde, monde enfin nôtre. Et je n’ai pourtant pas suivi ses doctrines à elle pour l’esquisse utopique.

L’écart est plus ou moins grand entre les faits préhistoriques et le récit utopique : les adorateurs de Roberto Juarroz, dont je suis, ne retrouveront pas grand-chose, voire rien, dans le chant VII qui est placé sous sa figure et celle de son épouse. Ce qui me nourrissait alors était l’Argentine en 2001 et l’expérience psychédélique, qui ont ici été mariées.

À l’inverse, il y a quelquefois peu d’écart : le chant XIII de Debôrâh s’est appuyé sur le livre V des Juges de la Torah. Je l’ai seulement complété par, entre autres, ce que m’inspirait le nombre de Debôrâh, défini par le rhéologue israëlien Markus Reiner pour désigner la fluidité d’un matériau, et qui dépend de la chaleur – en référence à ces mots du Cantique de Debôrâh : « Devant Yahvé, les montagnes coulèrent ». Dans le chant, la chaleur est devenue celle de l’espérance (informée, agissante, informante) qui modifie la matière du monde.

En règle générale, moins j’en sais, plus je suis libre. Quand je me documente trop, comme par exemple pour le chant du Mexique zapatiste, je suis accablé et je dois lutter pour me délivrer du savoir. L’écriture du chant XI de Sergueï ou, récemment, du chant XXVII de Dihya (nommée la Kahina par ses envahisseurs) a été fluide, jubilatoire et libre, car j’ai volontairement réduit la documentation.

Préciser l’aire géographique est une façon aussi discrète de dire beaucoup, me semble-t-il. Tout d’abord ceci : le poète n’est pas hors sol ; il est d’une culture qu’il féconde à son tour. Mais ces noms disent également l’ampleur de l’entreprise poétique inaugurée par ces deux volumes : vous brassez les époques, les cultures et les œuvres. Ce serait donc le signe d’une ambition superbe, d’un souffle ou d’un appétit.

Nommer et situer un lieu comme support, parfois source, du chant, me pousse à explorer chant après chant un nouveau monde, à me dépayser comme est censé dépayser l’œil utopique, changer de culture, de langage pour dire le monde, chercher à traduire en respectant l’intraduisible, et chercher le commun, le comme un, dans l’autre, et l’autre dans le commun.

D’autre part, c’est une dialectique, parfois successive, parfois simultanée, entre l’utopie (le sans-lieu) et la topie (le lieu), comme si chaque topie portait en soi son utopie, sa source de possibles ; et comme si, réciproquement, une utopie cherchait à devenir une topie, à se faire topie, comme si un sans-lieu cherchait à s’incarner, à entrer dans un lieu, à se faire enfin lieu.

Nommer un lieu est parfois, aussi, un exercice de potacherie géopolitique, pour créer, d’abord en moi-même, un inattendu. Pour l’Égypte, plutôt que les pyramides et les pharaons, j’ai chanté une sainte chrétienne du IVe siècle, Synclétique, et plutôt une « Mère du désert » parmi les Pères du désert. Pour l’Inde, j’ai chanté des aborigènes, les Warlis, autrement dit un peuple d’avant le nom de l’Inde. Potacherie agressive, aussi, quand je nomme l’Occitanie, qui a fait l’objet d’un palimpseste par Rome et la France ; ou Tamazgha pour chanter le peuple Amazigh (dit « berbère » par ses envahisseurs).

Brice Bonfanti, Chants d’utopie

À lire ces deux premiers volumes et vos réponses ci-dessus, il semble impossible d’écarter la question de l’érudition. Dans le paysage littéraire, cette érudition distingue votre poésie car, s’il a presque toujours existé des poètes érudits ou proches des philosophes (en vrac, et en m’en tenant au XXe siècle : René Char, Yves Bonnefoy, Jean-Patrice Courtois, Philippe Beck, Dominique Meens…), il est fréquent de voir cette érudition absorbée par le poème jusqu’à faire énigme. C’est l’inverse dans vos chants, tout comme dans le « Cycle des exils » de Patrick Beurard-Valdoye, mais je ne connais pas beaucoup d’autres exemples. Cette singularité fait de vous un contemporain étrange. Quel rapport entretenez-vous à la poésie qui s’écrit aujourd’hui, à celle des quarante dernières années ?

C’est depuis que la vie me bouscule – l’adolescence – que je lis pour tenter de comprendre. L’érudition est un effet collatéral de mon désir. C’est le désir qui est premier et me conduit vers des lectures. Et je ne fais aucun effort pour retenir quoi que ce soit : je laisse Kalliópê, ma seule Muse, retenir ce qui lui chante, la fait chanter, et que sa volonté soit faite. C’est une érudition d’autodidacte, avec des îles, peuplées ou non, de grands déserts, des jungles riches, des jardins – à l’anglaise, jamais à la française. Je ne suis spécialiste de rien en particulier, pour ne pas m’ennuyer. Toute lecture contrainte – même par moi –, pas soutenue par le désir, la libido sciendi, m’est impossible.

J’ai des périodes d’enthousiasme obsessionnel pour un thème, un domaine, un maître, pendant des semaines, des mois. Puis l’obsession me lasse, j’en change. Je suis fidèle à tous mes maîtres, mais je les multiplie. Mes maîtres me servent, mes maîtres me servent à déployer ce que je porte en moi : mes maîtres me libèrent. Pour être libre, asymptotiquement, je veux, non pas ne pas avoir de maître, mais les multiplier, tout en gardant mon propre cap qui, lui, provient d’on ne sait où.

Mes lectures sont des nourritures secondaires qui à leur tour deviennent les enzymes digestives pour assimiler la nourriture première qu’est le vivre. Elles sont des morceaux de vie et de savoir humains à rassembler comme les membres d’Osiris éparpillés. Je veux tout mettre dans mes chants qui sont une Arche, ou un ogre affamé.

Je lis pour rechercher mon utopie, ce qui n’est pas dans mon lieu, pour changer mon regard, le bonifier ou l’agrandir. Je crois que l’essentiel se joue dans le regard. Si je  change mon regard, je change alors mes actes, et puis mon monde proche, événements comme rencontres. Mais c’est d’abord sur mon regard que je peux agir.

J’ai trouvé pour l’instant plusieurs sources livresques de transformation du regard : l’histoire la plus ancienne possible, l’anthropologie anarchiste, la biologie, la métaphysique, l’alchimie, entre autres. Et je ne parle pas du livre du monde, qui est hors des livres : la nature, l’amour, la souffrance, la joie, l’angoisse, la méditation, la prière, la psychédélie, et j’en passe. Tout cela me déroute, et met à mal les habitudes des sillons toujours creusés, les circuits neuronaux toujours empruntés.

Par exemple, je suis très ignorant de l’histoire, et souvent même je la calomnie, lui opposant le mythe, véridique, quand l’histoire des faits ne prouve rien. Mais c’est justement parce que je suis ignorant de l’histoire que j’en lis. Mon ignorance est mon moteur. Et c’est justement à l’inverse de ma calomnie qu’en vérité la lecture de l’histoire a sur moi l’effet d’un mythe. Quand j’ai écrit le chant XXI de Sumer, j’ai vécu des vertiges grâce à des livres sur les civilisations sumérienne, akkadienne, babylonienne, assyrienne : je voyais des civilisations immenses, des puissances, des religions, des pensées, naître, grandir, disparaître pour reparaître autrement, changer de forme, passer de main en main, et tout ceci, en l’espace de 1 000 ans, 2 000 ans.

Tout cela m’aide à me décoller de notre temps, à ne plus m’intéresser du tout aux actualités, même intellectuelles, aux faux débats qui tournent en boucle, qui m’ennuient, où je ressens le retour du même lassant masqué derrière des milliards de détails recombinés. Je ne me réveille de mon sommeil médiatique qu’à l’occasion de certains événements : printemps arabe, commune de Rojava, découverte d’une exoplanète, Gilets jaunes, etc. À l’inverse, j’adore voir le tour du même pluriel dans l’histoire, les ponts entre les textes sumériens depuis la fin du IVe millénaire av. J.-C. et les textes judéo-chrétiens jusqu’à nos jours ; ou le même autre entre l’Un néoplatonicien et le Tao chinois ; ou une idée sur l’origine du langage que Dante formule dans son De vulgari eloquentia, que je retrouve dans le Pop Wuh, la bible (le Livre) des Mayas.

Quant à la poésie, après en avoir beaucoup lu, j’ai cessé peu à peu, et même si je suis ouvert aux découvertes, je cultive les maîtres, dont le premier divin : Dante Alighieri. J’ai parfois des périodes de 100 jours où je lis un chant de la Divina Commedia chaque matin, comme une méditation, avant d’écrire. Je préfère avoir dans mon corps animé le rythme de ma deuxième langue maternelle – l’italien – avant d’écrire dans ma première langue maternelle – le français.

Et en effet, je lis peu de poésie contemporaine, mais j’en lis. Comme je lis un peu de tout, je lis peu de tout – le tout est infini. Univerciel de Christophe Manon est un livre chéri, qui m’a enthousiasmé à la première lecture, où j’ai senti l’auteur comme un frère, que je relis encore, avec son pendant mélancolique, Au Nord du Futur. Hölderlin au mirador d’Ivar Ch’Vavar a été un puissant choc joyeux, libérateur, qui a eu sur moi un effet qu’un seul avant lui avait eu : François Rabelais, mon Dante français. Sa liberté est contaminatrice. Lire ou entendre Anne-Claire Hello me fait frémir, dans un état d’hypnose hallucinée. La lecture d’Explication de la lumière par Laurent Albarracin m’a délecté par sa rumination combinatoire délicate et lumineuse. Denis Ferdinande m’étourdit, me rend à peu près fou, me fait écarquiller les yeux, avec des vagues de sourire éberlué. Ou encore Nicolas Rozier, comme un volcan à la limite extrême de l’éruption, juste avant l’éruption, à la plus haute pression. Je pourrais en nommer d’autres, en vérité. Et parmi ceux que vous citez, je sais que je serai amené à découvrir Philippe Beck et Patrick Beurard-Valdoye.

Ça n’est pas que je néglige la poésie contemporaine, que je m’en désintéresse. C’est que j’ai le désir de me nourrir le plus possible de temps et de lieux. Et comme en utopie tous les temps sont contemporains, je n’ai pas l’impression de lire moins de poésie contemporaine que de poésie sumérienne. Pour amplifier mon moi restreint comme un moi – jusqu’à le faire éclater comme une bulle de savon –, je cherche la vision la plus ample et la plus exaltée possible. La littérature mésopotamienne date de la fin du IVe millénaire av. J.-C. J’ai donc 6 000 ans de textes à explorer, ou 300 000 de traces, que je ne peux pas sacrifier pour le seul demi-siècle dernier.

En tout cas, ce n’est pas pour cela que je n’ai consacré aucun chant à un poète contemporain. C’est que j’évite définitivement les figures contemporaines, depuis une expérience désagréable et amusante : pour le chant X de Turquie, j’avais pris la figure contemporaine de la romancière Elif Shafak, pour marier féminisme, anarchisme et soufisme. Mais, quelques mois après avoir fini mon chant, je l’ai trouvée, elle, dans une publicité pour une carte de crédit. J’étais bien embêté. Depuis, j’attends que les personnes meurent, pour être certain qu’elles ne vont pas faire de bêtises – même si tout le monde en fait, je préfère savoir lesquelles ont été faites. Enfin, il y aura peut-être des exceptions : pour le chant d’Uruguay, je n’ai pas renoncé encore à prendre pour figure José Mujica. Mais d’ici-là, même si je lui souhaite longue vie, il sera mort peut-être.

Enfin, les figures qui deviennent personnages et les figures qui me nourrissent sont deux choses distinctes. Les figures qui me nourrissent ont tendance à ne pas apparaître dans mes chants. Elles ont tendance à devenir des petits dieux absents, mais infusant, laissant des traces ici ou là. Par exemple, mon chéri William Morris a laissé des traces dans mon chant de Voltairine, mais je n’imagine pas un jour lui consacrer un chant. Idem pour Ernst Bloch, René Daumal, tant d’autres. Il m’a été très difficile de faire un chant avec Dante – cela m’a pris trois ans, non seulement parce qu’il a été entrecoupé par d’autres chants qui surgissaient sans crier gare, mais surtout parce que j’étais intimidé à l’idée de prendre mon maître divin pour personnage. Je ne me vois pas non plus consacrer un chant au facteur Cheval, qui pourtant forme en moi un binôme avec Dante.

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CHANT XVIII. SYRIE / FRANCE. Laylâ (Nuit Debout)

La nuit migrante, de Syrie réfugiée à Paris, souvit pour travailler, travaille pour souvivre. Comme tous ses semblables – hominidés invertébrés – elle rampe. Dans sa cave, athanor, où elle dort, elle traverse un œuvre au noir qui la conduit à voir : la substance automatique régnant sur le monde. La nuit accouche, par son travail, de sa colonne vertébrale – et debout, devient Laylâ, sort de sa cave, et retrouve au dehors une foule hors des caves.

chant 18

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

IV

Il giorno dopo, la mattina, fece notte. La minuscola finestra a feritoia era otturata da calcinacci. La notte percepì, per strada, dei fracassi – di distruzione? di costruzione? di barricata? Si sarebbe detto: alla peggio degli scontri, alla meglio l’insurrezione, oppure una rivoluzione.

Un incendio si dichiarò nel suo edificio, scivolò nel suo scantinato, sprofondò l’edificio, la notte divenne totale, più nera del nero. E il suo luogo di sottovita si fece luogo della sua morte, la sua tomba, athanor, ermeticamente chiuso, illuminato soltanto, totalmente, dall’incendio. Potendo muoversi appena, la notte si carbonizzò, e divenne massa nera.

Ed è come morta la notte, e si sente come morta la notte, ma il suo fisico e il suo psichico sono vivi, persino in suspense. Si annienta l’attività della coscienza del fuori, alla coscienza non giunge nessuna immagine del fuori.

Dopo un po’, dalla minuscola feritoia, attraverso i calcinacci, colarono all’improvviso due acidi, nitrico e cloridrico, che inondarono l’athanor: quella massa nera che era fu tormentata e umiliata, si dissolse, divenne liquido nero.

La notte trova e secerne il segreto di tenere la sua coscienza sveglia nel processo dissolutivo: vive una morte ermetica – morte volontaria e morte vissuta, salvezza gratuita.

Dopo un po’, una volta espulso il doppio acido, quella pozza nera che era coagulò, ridivenne massa nera. Ma l’acido rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse; e lei, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse coagulò. E gli acidi non rivennero più.

Ora, la morte volitiva e attiva è l’unico mezzo, per un’anima, di trasformarsi, cambiare forma. Questi stati dello spirito modificano le relazioni tra le parti dell’anima unita.

Dopo un po’, si intenebrò, si imputridì e si addensò, attraversò gli inferi, vi appagò i suoi appetiti, avidità di vanità, soddisfò i vizi suoi tutti, e fu punita per i vizi suoi tutti, in se stessa, per se stessa, per processo naturale, castigo e giustizia immanenti, annientò i suoi appetiti, avidità di vanità, vomitò i suoi vizi, il suo esser nero, ritrovò dei colori, colore dopo colore: e con il viola, divenne unicolore, con il blu, bicolore, con il verde, tricolore, il giallo, quadricolore, l’arancione, quinticolore, il rosso, esacolore.

Dopo un po’, si congelò, si essiccò e sbiancò. E allora, alla fine, avendo raggiunto l’oro della fine, avendo raggiunto la fine dell’oro… gli occhi della notte si aprono. Gli occhi della notte si aprono, un istante, e per l’eterno. E la notte, immobile, non fu mai così mobile.

Gli occhi della notte si aprono, per la prima volta nella sua sottovita che abbandona in questo istante, la notte adocchia là, là nello scantinato e nel mondo, ovunque in alto ovunque in basso, a sinistra a destra, la notte adocchia là, decidendo tutto e contro tutto, disorientando ogni minimo gesto e opinione ominidi, disaccordando tutte le città, le società, le produzioni, degenerando i terrorismi e le guerre, la notte adocchia tutto quello che i filopseudosofi ignavi non vogliono vedere, ma che i filosofi sanno vedere, la notte adocchia là, in questo mondo dove la legge vertebrale vale poco, il falso idolo invertebrato vale su tutto, la notte adocchia là, avvolgendo il mondo, invadendo il mondo, dominandolo, avvilendolo, e dominando tutti quei – molto pochi – dominanti, non sapendosi dominare, e distruggendo tutti quei – ben troppi – dominati, non sapendosi dominare, la notte adocchia là, non qui, perché il qui è così raro, ed eccola la notte adocchia là:

la sostanza automatica.

Sostanza automatica, cieca e meccanica, diventata pulsionale, che libera senza misura il peggio, pulsionale, negli ominidi invertebrati, divenuti pulsionali. Sostanza automatica, lasciar-stare autoritario di un ciclone d’arbitrari e d’astratti flussi monetari, che sacrifica l’ominide nella sua tendenza verso l’umano. Sostanza automatica, processo senza alcun soggetto che sottomette il mondo intero, oggetto inetto in un processo che riduce ogni soggetto in oggetto, falso destino che, spiritualmente e materialmente, sopprime – in massa –, sostiene – a pezzi – l’ominide secondo il suo posto.

La notte adocchia e vede la sostanza del mondo, sa di non potervi scappare, perché lei è il suo ambiente in cui si vive e non la si vede, ma sa, anche, di poter agire su di lei. La notte agisce e modifica quello che vede: e con un colpetto, fa crollare una banca, con un altro un basso stato, con un altro un’industria, e due piccioni con un colpetto, due media finanziati da una banca, un basso stato, un’industria: un giornale, che riporta il solo male del giorno; e un canale – sia incanalante sia incanalato – di telececità, telefissione. Tra l’altro, altrove, altri uguali a lei stessa agiscono, da sé, allo stesso modo.

E la notte si vede doppia, si vive doppia, e la notte vede un doppio, vive un doppio che dice: “Mi si concedeva: una realtà, realtà senza verità, come quella del mondo, reale senza verità; e una verità, una verità irreale, come quella del mondo, vero senza realtà.”

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

La notte si vede, si riconosce, in colui che dice tutto ciò; dice tutto ciò che dice lui; allora il doppio si fa notte, e la notte, da ominidea, diventa generica umana. Ha appena partorito, con il suo lavoro, con la sua colonna vertebrale. Laylâ è in piedi.

E lo scantinato in carbone nero e pesante, tutto in carbonio caotico, diventa diamante, il più puro e il più trasparente, tutto in carbonio rettificato.

Nella notte fuori tutto è notte luminosa: la luna piena si è alzata, e illumina la terra, ricoperta dei cactus i cui fiori, Regine di Notte, si schiudono, tutto è bianco sulla terra.

Brice Bonfanti

http://www.bricebonfanti.com/


CANTO DI LAYLÂ

siamo quello che ancora non siamo

SIRIA – FRANCIA

(Canti d’utopia, XVIII)

Traduzione italiana di Paolo Taccardo.


Premier cycle

Réunis en neuf chants, les Chants d’utopie réfèrent à de courtes épopées reliant étroitement l’historique au mythique. Ils y évoquent l’émancipation universelle au travers de nombre de pensées qui ont traversé les âges. Les champs de l’espérance, du paradis, et du meilleur, s’y associent à celui de la catastrophe, du cataclysme, et du pire, enrobant le tout et son contraire.

Des lieux pour chacun d’eux : France, Grèce, Allemagne, Italie, Argentine, Turquie, Russie, Espagne, Israël, États-Unis d’Amérique, Égypte, Brésil, Hollande, Pologne…

Des personnages tirés de notre histoire : Dante Alighieri, Johann Gutenberg, Antônio Conselheiro, Sergueï Essenine, Voltairine de Cleyre, Elif Shafak…

 

Collection:
Date de parution:
19/04/2017

ISBN : 978-2-35729-103-4 * PVP 16.50 euros * 176 p. * 15x20cm

Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau»
Brice Bonfanti – «Canti d’utopia». L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! Finito l’ominide, l’umano è infinito.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Jules Vallés (1835-1885) – «L’insorto». Libro “della” Comune e “nella” Comune di Parigi. La passione durevole di Vallès per una prassi di emancipazione comunitaria.

Jules Vallès, L'insorto
Jules Vallès

L’insorto

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi

Nei giorni eroici e tragici della Comune un giornalista squattrinato ed insofferente all’ordine costituito fa sua la causa degli insorti, condividendone speranze, battaglie, sofferenze, entusiasmi ed errori fino alla sanguinosa sconfitta. Storia collettiva e destino individuale si incontrano, si confondono e si alimentano reciprocamente in una narrazione serrata dal ritmo incalzante, capace di restituire lo spirito di un tempo grande e terribile e l’umana verità di quanti, vittime dell’ingiustizia sociale, osarono sperare e progettare un mondo diverso.

Libro della Comune e nella Comune, espressione di una profonda fedeltà alle sue ragioni, e per questo relegato ai margini della letteratura, L’insurgé trova nella sua apparente inattualità il punto di forza del suo incontro con il lettore di oggi, costringendolo ad uscire dal perimetro del “migliore dei mondi possibili” tracciato dal pensiero dominante per confrontarsi con la passione durevole per una prassi di emancipazione comunitaria. «Rendere coscienti le tendenze incoscienti della Comune» (F. Engels) è opera di cui non si è detta l’ultima parola.


 

Introduzione

 

Perché proporre al lettore italiano, a più di sessant’anni dall’ultima traduzione nella nostra lingua,[1] questo testo di Jules Vallès, scrittore che anche il suo Paese ha messo all’indice già quando era in vita e, in seguito, ben volentieri relegato nella semioscurità di quegli autori di cui si possono salvare alcune pagine – la testimonianza sulla bohème parigina, per esempio – per meglio rimuovere il fondo che anima e sostiene l’insieme dell’opera e che proprio ne L’insurgé trova la sua espressione più compiuta?

Non certo per un recupero di tipo filologico (considerate le traversie del manoscritto che fu pubblicato postumo), o per offrire una rarità da bouquiniste alla curiosità di un lettore alla ricerca di qualcosa di originale.

Il punto è che L’insurgé continua ad interpellarci al di là del silenzio che lo ha avvolto, della sufficienza dei critici che l’han­no espulso dalle storie della letteratura, del crollo decretato dal pensiero unico liberista delle grandi istanze ideali che nutrirono la rivolta della Comune di Parigi, la quale alimentò, a sua volta, i successivi movimenti per l’emancipazione del XX secolo.

Ci parla di qualcosa di essenziale, di uomini e di storia e di libri e di come un uomo diventa quello che è, passando attraverso l’esperienza della storia e della scrittura. Di uomini che, non riconoscendosi in «un mondo malfatto», si misero all’opera – con serietà, semplicità e generosità – per rivoltarlo dalle fondamenta, e dare alla vita – la loro e quella collettiva – un respiro più grande, restituendole dignità e libertà; di storia che è la presenza costante che infonde senso a questo tentativo, stendendo un ponte – più accidentato che lineare – tra il passato ricco di reminiscenze rivoluzionarie dall’89 al ’48 e un futuro ancora da inventare, ma che comincia faticosamente a maturare nel travaglio del presente; di libri dove sia l’autore, sia il lettore si ritrovano e mangiano lo stesso pane, impastato di sofferenza, disgusto, miseria, speranza, rivolta.

Libro del riconoscimento, L’insurgé, e di un duplice riconoscimento: l’autore riconosce i suoi compagni, e loro riconoscono se stessi – la propria vita e la propria ansia di riscatto – nelle sue pagine. Libro partigiano, dunque: Vallès ha scelto la sua parte – i refrattari che rifiutano l’inquadramento nei ranghi della società del Secondo Impero, il minuto popolo di operai e artigiani che abita i sobborghi parigini, gli insoumis, eredi delle rivolte sociali del 1848, brutalmente represse nel sangue dagli stessi repubblicani.

Il libro contiene in sé un altro libro, quello che Jacques Vingtras – alter ego di Vallès protagonista di una trilogia che si apre con L’enfant, prosegue con Le bachelier e si conclude con L’insurgé – riesce finalmente a pubblicare dopo avere ingaggiato una personale battaglia contro la fame e il freddo che rischiano di avere la meglio sulla sua volontà di scrivere e contro gli editori piuttosto sospettosi nei confronti di un giovanotto in fama di irregolare e sovversivo.

Il libro ha successo, i critici riconoscono che l’autore ha stile, ma questo riconoscimento del nemico di ieri, pronto oggi ad incensarlo, Vallès-Vingtras non può che rifiutarlo, proprio perché negherebbe quella possibilità di riconoscersi che si è appena dischiusa e che si dispiega all’interno di una comunità, di un vincolo più forte di quelli del sangue, stretto dalla sofferenza, dalla miseria, dall’ingiustizia, dal rifiuto di un ordine sociale iniquo. Non intende venire meno alla promessa fatta pubblicamente, nei caffè popolari che frequenta, che il giorno in cui sarebbe riuscito a sfuggire all’oscurità della sua condizione, sarebbe saltato al collo del nemico.

Una scelta di campo definitiva, dunque, fino all’impegno nella Comune, dai suoi primi passi alla semaine sanglante, malgrado le divergenze anche profonde che lo separano dalla maggioranza “giacobina” e che ne L’Insurgé non nasconde. Il ricorrere della metafora dell’oscurità da cui il suo lavoro di scrittore e di giornalista lo ha strappato, per lanciarlo nel vivo dei conflitti sociali e politici dove la sua voce può finalmente risuonare, farsi ascoltare e dare voce ad altre voci condannate, altrimenti, al silenzio invita ad andare oltre l’interpretazione della letteratura come arma nella lotta politica, pure presente in Vallès (conformemente, del resto, ad una tradizione ben radicata nelle lettere francesi), che coglie solamente l’aspetto superficiale della sua scrittura.

Sarebbe fargli l’ultimo torto, quello di attribuirgli la concezione di una funzione strumentale dell’opera letteraria: essa è piuttosto il grembo fecondo in cui un groviglio contraddittorio, lacerato e dolorante di sentimenti, aspirazioni, ripulse, collere, paure, speranze si dischiude per mettere al mondo uno scrittore che si riconosce tale per avere saputo domare questa materia ribollente – senza rinnegarla – e sublimarla fino a farne la sua forza, una forza messa a disposizione di coloro che continuano a dibattersi nell’oscurità e a cercare faticosamente di allargare le pareti anguste delle miserabili case in cui sono stati confinati, per scorgere un lembo di cielo e ritrovare il gusto di respirare un poco di aria pura. Dunque, la scrittura come incisivo travaglio di riconoscimento di sé che, per realizzarsi pienamente, passa attraverso il riconoscimento della propria gente.[2]

D’altra parte, il Libro – l’esperienza libro, l’oggetto libro – si è imposto presto e con forza alla riflessione di Jules Vallès, ne ha guidato il modo di rapportarsi con la condizione umana. Già nel 1862, una ventina d’anni prima che la sua trilogia lo consacrasse romanziere, ne proclama la presenza, ovunque. Dove crediamo di vedere emozioni, passioni, amori, felicità, angosce, in realtà è nel libro che inciampiamo, o meglio, affondiamo, ci invischiamo. È inchiostro quello che galleggia su «questo mare di sangue e di lacrime» che è l’esistenza degli uomini.[3] Basterebbe questa consapevolezza della partita disseminata di trappole, sorprese e invasioni di campo che si gioca tra realtà e finzione romanzesca per risparmiare a Vallès l’infausto destino di essere annoverato tra i cultori di un ingenuo realismo sociale.

L’Insurgé è un testo che si legge d’un fiato, spinti dal vento di libertà e di passione che lo ispira, ma non è un testo semplice, quanto a collocazione negli scaffali di una biblioteca attenta alle classificazioni per generi. Non è un romanzo nel senso tradizionale, per quanto sia costruito sull’io narrante di un personaggio di cui il lettore viene a conoscere alcune peripezie che sono, tuttavia, riconducibili quasi esclusivamente alla sua dimensione pubblica. Non conosciamo nulla, per esempio, della sua vita sentimentale, tranne un breve e più che pudico accenno ad una vicina di pianerottolo con la quale Vingtras è in amichevole relazione.

Lo stesso si può dire per i personaggi che lo affiancano: sono colti, e con una profondità psicologica sorprendente affidata a qualche pennellata talmente efficace da avere un’evidenza pittorica, sempre sulla scena della Storia che costituisce la trama profonda di un romanzo senza trama.

Tuttavia, non ci troviamo davanti ad un romanzo storico: mancano i grandi quadri d’insieme, all’interno dei quali si dipanano i destini individuali di personaggi ben caratterizzati. D’altra parte, chi cercasse di ricostruire la complessa vicenda della Comune parigina su queste pagine, se ne farebbe un’impressione certamente molto parziale, anche se, probabilmente, riuscirebbe a catturare lo spirito che la animò più che attraverso i tanti saggi ad essa dedicati. E nemmeno a un romanzo corale od epico, per la robusta presenza di un io, quello del narratore, che tutto filtra – personaggi e situazioni – e per il frequente procedimento della messa a distanza attraverso il registro ironico.

Non è una cronaca puntuale degli eventi succedutisi, malgrado l’inserzione di interi pezzi tratti da Le cri du peuple, il giornale fondato da Vallès e che conobbe una grande diffusione nei mesi convulsi, tragici ed eroici della Comune, se non altro per la presenza di numerosi capitoli che precedono la sua proclamazione e per l’onnipresenza dell’io narrante, che toglie ogni pretesa di oggettività a quanto raccontato.

Non è nemmeno un’autobiografia, dietro la finzione di Jacques Vingtras, alter ego di Jules Vallès, perché, come già si è sottolineato, il materiale narrativo è stato sottoposto ad una drastica selezione che, della vicenda del narratore-autore, coglie solo determinati aspetti.

Ci sono sicuramente elementi appartenenti a tutti questi generi, ma è più la loro sottrazione che la loro somma a dare L’Insurgé. Che può ambire a rappresentare il testo nella sua primitiva accezione: è trama, intreccio, fili o legnetti messi assieme con sapienza, perché essi perdano nell’insieme colore e forma originari e costruiscano un tessuto unitario che non lascia facilmente scorgere i materiali di partenza. Lo scenario perfetto per la storia di un uomo che della propria avventura esistenziale ritiene valga la pena di trasmettere solo ciò che è in rapporto con la Storia.

È, in un certo senso, un romanzo di formazione di un giovane uomo che diventa se stesso, approdando dall’istintivo rifiuto dellasocietà – «cette gueuse» [4] maturato nel corso di un’infanzia infelice e di una giovinezza di stenti ed umiliazioni, minacciata dal rischio di perdersi in una bohème distruttiva per i suoi accoliti ed innocua per il potere, ad una consapevole e convinta adesione alle ragioni della rivolta sociale, culminate nella Comune.[5]

Il che non significa che il nostro insorto sia un dottrinario: a più riprese Vingtras confessa la propria ignoranza delle teorie sociali che ormai da anni infiammavano le discussioni nei circoli democratici e repubblicani. Troppo preso dall’esigenza di guadagnarsi il pane con una serie di lavori saltuari – compilatore di voci per i dizionari, ripetitore, collaboratore di giornali che lo mettono alla porta, o vengono soppressi dalla censura dell’Impero – il tempo gli è mancato per affinare una coscienza teorica che vada oltre l’adesione ad un socialismo con qualche eco di Proudhon, grande simpatia per l’Internazionale salutata come il nuovo Parlamento in abiti da lavoro e molta inclinazione anarchica, più per predisposizione personale che per meditata rielaborazione intellettuale.

Pagina dopo pagina, Jacques Vingtras, ex baccelliere che ha cercato di arringare la folla il 2 dicembre e che ha preso parte ad una cospirazione studentesca contro Napoleone III, matura un distacco sempre più forte rispetto alla tradizione rivoluzionaria di impronta giacobina, sostanzialmente sorda alla questione sociale, contro la quale rivolge i suoi ironici strali, per buttarsi a capofitto nei circoli della democrazia socialista che si rifa alle sommosse operaie del 1848. Certo, gli mancò una teoria della rivoluzione, come osserva Gaston Monmousseau nella sua prefazione a L’enfant,[6] ma è altrettanto vero che Vallès non ha minimamente aspirato, con la sua trilogia, a costruirne una da offrire ai suoi compagni di lotta e non è sotto questa lente che la sua opera va avvicinata. Non nutrì mai pretese di teorico e nemmeno di politico; pur avendo scelto di impegnarsi a fondo nella vita pubblica, fu sempre consapevole che il meglio di sé lo poteva dare come scrittore.

Ed è attraverso la sua scrittura che egli cerca di dare corpo, voce e gesti a questa rivolta divenuta rivoluzione: la voce e i gesti di Jacques Vingtras e dei suoi compagni. Alcuni dei loro ritratti sono indimenticabili: Briosne, un Cristo strabico; Blanqui, freddo matematico della rivolta; Vermorel, prete rosso; Rouiller che calza la gente e scalza i selciati; Ranvier che, nella magrezza e nel pallore, porta già il segno della sua fine tragica. È la loro verità umana – non la giustezza delle loro teorie – che lo scrittore cerca di penetrare e di restituire, per offrire loro un’altra possibilità di vita, perché la morte sulle barricate o lungo il Muro dei Federati, la deportazione, il carcere e l’esilio non li seppelliscano definitivamente e, con loro, lo spettro della rivoluzione che tentarono, con disperazione, con coraggio, con entusiasmo, con freddezza, con imperizia, con generosità, con determinazione, con ingenuità, con rabbia, con amore.

Romanzo di formazione sui generis, L’insurgé, focalizzato com’è su una dimensione pubblica, dove ardore politico ed indignazione sociale catalizzano ed assorbono tutte le altre passioni. La Bildung di Vingtras ha come perno – fulcro, ma anche passaggio fondante – il momento della scelta che funziona pure da ressort narrativo. Da un lato, una certa sicurezza economica garantita da modesti impieghi statali comportanti la rinuncia a manifestare le proprie idee, il successo nell’attività giornalistica e letteraria, cui lo destina l’indubbio talento, le occasioni di carriera politica socchiuse dalla stessa militanza fra le fila dell’opposizione e di cui molti racco­glieranno il frutto alla caduta del Secondo impero, la possibilità di sottrarsi al tragico destino cui sa destinati i suoi compagni di barricata, tanto più che non condivide alcune delle posizioni prese dalla Comune in materia di repressione dei fiancheggiatori del governo di Versailles; dall’altro, la necessità di restare fedeli non solo alle proprie convinzioni sociali e politiche, ma ad un’idea molto severa, che confina con l’intransigenza, di cosa siano dignità ed onore personali, tanto più notevole in un uomo sempre pronto a prendersi gioco dell’inflessibilità dottrinaria di molti suoi compagni. La scelta è fatta, sin dalle prime pagine de L’insurgé, in cui Jacques Vingtras, lasciatosi per un momento tentare dall’inaspettata tranquillità offertagli da un posto di istitutore in un collegio di provincia, si ritrova per le strade di Parigi più povero e disperato di prima, per non avere saputo e voluto continuare a giocare la commedia dell’ipocrisia a cui avrebbe dovuto piegarsi per non morire di fame.

Due sono i momenti culminanti in cui il suo destino si gioca irrevocabilmente e lo scrittore li affida a scarne, taglienti frasi che disegnano con precisione geometrica tutta la portata della scelta. Licenziato da un giornale per i suoi articoli oltraggiosi per il gusto di un pubblico in cerca di distrazioni, il narratore rifiuta il consiglio del direttore che vorrebbe continuare a garantirsi la collaborazione di una penna di prim’ordine. «“Se voleste, tuttavia, con il vostro colpo di pennello!”. “Se volessi … Sì, ma ecco, non voglio! Ci siamo sbagliati entrambi. Voi volete un intrattenitore, io sono un ribelle. Ribelle resto, e riprendo il mio posto nel battaglione dei poveri”» (cap. VII). E qualche anno più tardi, nel corso dell’ultima settimana della Comune, quando i Versagliesi sono ormai entrati in città e panico e disperazione stanno spingendo alcuni alla fuga, altri a propositi di resa ed altri ancora ad azioni sconsiderate che Vallès-Vingtras non approva, il ribelle divenuto comunardo prende la sua decisione. «Resto con quelli che sparano – e che saranno fucilati!» (cap. XXXII).

Inutile nasconderlo: le passioni che trovano spazio in queste pagine – orgoglio, fierezza, senso dell’onore, della dignità e dell’integrità personali, coerenza e coraggio fino all’abnegazione, rifiuto dei compromessi, intransigenza morale di fronte alle seduzioni del potere e del denaro, bisogno di identificare amici e nemici – sono fortemente inattuali in un mondo come il nostro che esalta come principale qualità individuale la capacità di adattamento e come massimo orizzonte collettivo l’inclusione. Vingtras-Vallès è un disadatto che rivendica fieramente la propria inadattabilità e che rinvia al mittente ogni invito – che sia vergato con l’inchiostro solenne della retorica repubblicana classica o con quello allusivo dell’apprezzamento delle sue doti intellettuali – ad includersi nel sistema.

Un réfractaire irriducibile, insomma, che, a differenza di molti confratelli caduti nella trappola della bohème che lui si incaricherà di smascherare,[7] invece di consumare una rivolta solitaria, intraprese il cammino della Storia. E un antidoto salutare contro il mito di una pretesa pacificazione che nega ed esorcizza il conflitto sociale, nel tentativo di attribuire caratteri di inevitabilità, naturalità ed universalità al dominio del capitale e agli assetti politici che lo garantiscono. C’è chi non esita, fra i suoi avversari, ad ascrivere i suoi incitamenti alla ribellione ad istinti banditeschi; oggi, qualcuno potrebbe additarlo alla pubblica esecrazione come “odiatore”, hater armato d’inchiostro, e come tale emarginarlo nella “spirale del silenzio” auspicata nei confronti di questa nuova colpa sociale. Che è, poi, quanto già fecero gli ambienti letterari dell’epoca, prima espellendolo dalla Société des gens de lettres (1874), poi relegando la sua opera nelle soffitte della letteratura, fra gli abiti fuori moda, buoni a suscitare qualche curiosità fra i cultori delle stranezze e i nostalgici dei moti di piazza.

Jules Vallès, dunque, si impone come una voce tanto più ur­gente, quanto più inattuale: di fronte ad una conclamata “fine della storia” che è solo assolutizzazione e naturalizzazione del presente, nel congelamento di ogni altra possibilità, e ad un ripiego minimale sulla quotidianità, L’insurgé ci proietta in un paesaggio completamente diverso, occupato a tutto tondo dalla Storia, la cui presenza fisica si impone al lettore lungo l’intero testo, con l’odore della polvere da sparo, il profumo delle mattine di rivolta, l’affollamento delle sale dei club rivoluzionari, il risuonare delle parole degli oratori, il fremito di bandiere cucite in fretta, o recuperate da vecchi nascondigli, il sussurro dei cospiratori, le grida della folla esasperata, il fumo degli incendi, il contorno irregolare delle barricate. E sopra tutto ciò, «il mormorio di questa rivoluzione che passa, tranquilla e bella come un torrente limpido» (cap. XXVI): la rivoluzione degli straccioni ha allure da regina, disegna uno spazio rinnovato dove si lava la vergogna dell’impero e si prepara la gestazione di un mondo nuovo.

Proiezione quasi mitica, sicuramente, dell’ansia di riscatto di chi non ha collezionato che disfatte, sullo sfondo di una palingenesi collettiva, ma a cui fa da contrappunto, qualche pagina più avanti, la lucidità del narratore che non distoglie lo sguardo dalle ombre della sua rivoluzione, o che non rinuncia all’ironia sulle sue scarse capacità militari o su certa retorica della grandezza e dell’eroismo professata da alcuni compagni. E non perché egli sia estraneo alle sue suggestioni, ma preferisce declinarle nei termini della semplicità, della parola efficace e del gesto preciso, come il tiro del giovane artigliere dell’ultima barricata che resiste a Belleville.

Ed è questo gusto per la semplicità che lo spinge a legarsi di fraterna amicizia con diversi operai dei sobborghi di Parigi, decisi a resistere ad oltranza ed indifferenti alla spartizione degli incarichi. È quel popolo che dal ’48 si fa massacrare nei moti di strada, con il risultato di aprire con il proprio sangue generosamente versato la via agli abili politicanti dell’opposizione borghese – liberali e repubblicani moderati, ai quali Vallès-Vingtras riserva tutto il suo sarcasmo e tutto il suo disprezzo – e che ora, con la Comune, ha preso in mano il proprio destino. E con lui il nostro scrittore, doppiamente scrittore, portando in grembo L’insurgé di Jules Val­lès – storia di un uomo che trova se stesso nella temperie di una rivolta collettiva in cui le ragioni del cuore si saldano con quelle dell’intelligenza – il libro di Jacques Vingtras, proiettile lanciato contro l’ipocrisia, la stupidità, la meschinità e la ferocia di una società che costringe a fame, disperazione ed oscurità chiunque non sappia o non voglia conformarsi all’ordine stabilito.

Certo, la narrazione si sviluppa intorno ad un unico io, ma questo io diventa tale solo attraverso l’incontro con loro, riconosciuti come i propri.

Se L’insurgé partorisce un libro, esso è, a sua volta, figlio dei due libri della trilogia che lo precedono, anche se il rapporto è molto più indiretto di quello che stabilirebbe una lineare successione cronologica, un ordinato succedersi di vicende. Il legame è più sottile: qui giungono a scioglimento una serie di nodi – psicologici, morali, politici, esistenziali ed estetici – rimasti irrisolti nei due precedenti.

Così, la conquista di una duplice, matura dimensione letteraria e politica – d’altronde strettamente intrecciate – riscatta l’enfant poco amato e per niente capito e il bachelier sconfitto, confuso e disperato all’indomani della disfatta del 2 Dicembre. Né é casuale – e non è solo espediente narrativo – che L’insurgé si apra sulle ultime battute del romanzo precedente che vedono un Vingtras costretto a cercarsi un lavoro per vivere incorrere nell’accusa di viltà da parte di alcuni compagni. Come nota giustamente Roger Bellet, che all’autore ha consacrato studi illuminanti, L’insurgé diventa allora una risposta al Bachelier.[8]

D’altronde, il futuro insorto ha ben intuito che la libertà della bohème cela le sabbie mobili pronte ad inghiottire – dopo un’agonia più o meno lunga – energie creative e determinazione a lottare. Una trappola mortale, contro la quale il libro faticosamente venuto alla luce in una cameretta fredda e lugubre mette in guardia quei giovani generosi, ingenui e idealisti, pronti a scambiare per libertà la caduta nell’abisso della miseria senza ritorno, della follia, dell’insignificanza.

L’ex studente ribelle ad ogni sistemazione scopre la libertà offertagli da un modesto posticino in un municipio di periferia che gli lascia la possibilità di dedicare alcune ore del suo tempo alla scrittura, senza doversi porre il problema assillante di cosa mettere sotto i denti o quale tetto mettersi sopra la testa. E scopre anche la complessità del mondo che ha deciso di sfidare e intanto incammina la sua libertà dalla negazione individuale di ogni vincolo sociale imposto verso l’istanza di un comune operare in quell’atelier delle guerre sociali che lo vedrà operaio – e non dei più fannulloni –[9] in mezzo ai suoi amici operai. Allo stesso tempo, avvia irrevocabilmente il giovane scrittore che, secondo il giudizio dei critici all’indomani dell’uscita del suo travagliato libro, «andrà lontano», su una strada che lo porterà davvero lontano da quel successo profetizzatogli, per condurlo diritto verso il muro delle fucilazioni – evitato per una fortunosa combinazione –, l’esilio, durato nove anni, e la solita miseria che gli è compagna, a Parigi, come a Londra.

E l’espulsione dalla società letteraria, disposta a perdonare gli scarti di percorso di una giovinezza bohémienne, se non ad acclamarli come espressione di uno spirito orginale che da essi trae ispirazione per scavarsi il proprio posto all’interno di quella stessa società, ma non l’adesione incondizionata alla Comune.

È proprio essa a segnare il punto d’approdo della Bildung di Jacques Vingtras che, costretto a nascondersi nei mesi successivi alla semaine sanglante, in attesa di un’occasione propizia per varcare la frontiera, solo di fronte a se stesso, ripercorre la propria esperienza in quei mesi decisivi e riconosce di avere avuto la sua ora, di avere vendicato l’infelicità dell’infanzia e la fame della giovinezza. La sua sofferenza non gli appartiene più, è uno dei tanti rivoli confluiti nella «grande federazione dei dolori» che fu la rivolta della Comune.

Morti i rancori personali nell’azione collettiva, la maturità raggiunta, lontano dal rappresentare il porto sicuro di un’esistenza pacificata, è condizione per continuare quella battaglia che la repressione dei Versagliesi non ha certo stroncato, ma solo costretto a muoversi sottotraccia. È quanto fa scrivere a Roger Billet[10] che L’insurgé è il libro di come una lunga rivolta si trasformi in Rivoluzione, là dove il salto è dato dal passaggio dal rifiuto individuale dell’ordine sociale e della sofferenza su cui si fonda alla sua messa in discussione collettiva.

La dedica iniziale ai morti del ’71 e a tutti coloro che si riconobbero nella Comune, oltre a segnare senza possibilità di equivoci quella scelta di campo di cui già si è detto, si rovescia dialetticamente nella chiusa, dove i vinti di ieri sono coloro che porteranno di nuovo domani la loro battaglia nelle strade di Parigi.

Si istituisce così una simmetria in un testo fortemente asim­metrico sotto il profilo temporale. I due mesi della Comune – per quanto centrali per raccogliere le fila di tutta la narrazione – occupano non più di un terzo del libro e si concentrano in particolare sull’ultima settimana. I capitoli precedenti si dispiegano nell’arco temporale di una decina d’anni in cui si consuma la parabola discendente del Secondo Impero, dalla rinascita di una prudente opposizione liberale alla disfatta di Sedan, seguita dalla proclamazione di una “repubblica” talmente timida da non osare proclamarsi tale e desiderosa innanzitutto di firmare una resa incondizionata con i Prussiani, giunti alle porte della capitale.

Il punto è che è proprio in questo lungo periodo che il ribelle affina le sue armi e la sua coscienza, matura la propria forza espressiva e le proprie convinzioni politiche, sperimenta la censura sui suoi articoli, il licenziamento dai giornali su cui ha osato toni troppo forti e la prigione per le opinioni pubblicamente espresse, denuncia la finta opposizione e la sostanziale connivenza nella difesa dell’assetto sociale dei «galli della sinistra», frequenta i circoli socialisti e i sopravvissuti della rivolta del giugno ’48, conosce coloro che gli saranno compagni nei due intensi mesi in cui si riassumerà tutta la sua vita.

Non libro “della” Comune, L’insurgé, quanto libro “nella” Comune, proteso verso la Comune, orizzonte in cui confluisce la materia narrativa antecedente, tempo qualitativamente diverso, concentrato di conoscenze e di esperienze che vengono alla luce dopo un travaglio ventennale. Non è casuale che il presente sia il tempo verbale dominante, a sancire il presente storico dell’evento. Ad esso il testo deve un suo ritmo particolare, dettato dall’urgenza di imporre la presenza della Comune, affinché non corra il rischio di restare congelata nei magazzini della storia. Né è casuale che Vallès scriva i suoi veri libri dopo il 1871 – le sue prime pubbli­cazioni essendo costituite da una serie di articoli intorno ad un tema di fondo –, a confermare che maturità artistica e maturità politica procedono di pari passo, innervandosi vicendevolmente e finiscono per incontrarsi nelle opere scritte nell’esilio londinese, dopo che si è conclusa l’esperienza fondamentale della sua vita.

Scrittura dell’urgenza, dunque, alle prese con il tempo e con la materia. Cè un gusto molto pronunciato di Vallès per la fisicità della parola e per la materialità dell’atto dello scrivere. È il manoscritto sporco di macchie d’inchiostro, disseminato di aggiunte e cancellature, ferito da colpi di forbici e spilli che l’aspirante scrittore Jacques Vingtras riesce a confezionare dopo avere lottato per giorni e giorni contro il freddo della sua tetra stanza che gli congela l’ispirazione e il caldo della biblioteca dove si è rifugiato che gli ammollisce e scolora il pensiero.

Ne esce un testo che morde, alla lettera: un istrice che punge a causa degli spilli che lo tengono assieme e pronto a scagliare i suoi aculei nel bel mezzo della società letteraria. È l’opera di un sarto che ha cucito pezzi della sua vita ai pezzi della vita degli altri e questa materia ribollente e tagliente gli è entrata nel corpo, gli ha graffiato le ossa, lo ha scorticato, fino a farlo sanguinare (cap. III).

Quel sangue si è fatto inchiostro, ma l’inchiostro non sfugge alla metamorfosi e può ritrovarsi sangue: sangue che scorre sotto la penna dello scrittore lungo tutta l’opera sino all’immagine finale, la nuvola rossa, simile ad un camiciotto da operaio insanguinato, che corre nel cielo limpido sopra Parigi, mentre Vingtras varca la frontiera belga.[11]

Non creda il lettore di trovarsi davanti a un gusto pulp per il truculento: invano cercherebbe in Vallès il compiacimento appena mascherato esibito da romanzi e film di vario genere, nemmeno nella scena della corsa in calesse del narratore in mezzo ad una Parigi trasformata in macello, dopo l’entrata dei Versagliesi (cap. XXXIV).

Il discrimine sta innanzitutto proprio nel carattere metamorfico del sangue, oltre che nel suo valore simbolico che richiama la vita, più forte della sua negazione di cui si faranno carico le truppe governative durante la semaine sangalnte: esso è anche pianto, l’enorme sofferenza umana, e vino che riscalda i cuori e acqua che scorre limpida nell’alveo del torrente e passa attraverso i campi come la rivoluzione di marzo attraverso la città risvegliatasi alla libertà. E inchiostro, naturalmente: tutto quel fluire si trasforma in una materia più densa e più scura, decisa a fissarsi sul bianco della pagina. Ma con una certa riserva: Vallès doveva davvero diffidare dell’inchiostro, quello dei manoscritti e quello della stampa,[12] in ragione del suo carattere artificiale e della sua pretesa a essere definitivo.

Come spiegare gli spazi bianchi che tagliano la narrazione, interrompono le descrizioni, rinviano le considerazioni, frammen­tando il corpo de L’insurgé? Ha voluto, forse, lasciare respirare la pagina e, con essa, il lettore, obbligato a correre dietro il suo stile rapido, a saltare in lungo tra un evento e il successivo, a incontrare una moltitudine di personaggi, resi attraverso qualche magistrale tocco? O è l’abitudine contratta dal giornalista al testo breve e conchiuso? E la punteggiatura, con la sua profusione di punti e di virgole, che, incidendo solchi profondi nel periodare, ne alimenta il ritmo discontinuo? C’è una punteggiatura che raccorda, costruendo un edificio che assicura l’agevole passaggio da una stanza all’altra e ce n’è una che erige muri, per isolare e sottolineare una parola, un’espressione, una frase.[13] La punteggiatura de L’insurgé appartiene sicuramente a questo secondo tipo. Pause e tagli forniscono, forse, allo scrittore la possibilità di districarsi da una materia oggettivamente pesante – lacrime e sangue – e dalla pretesa dell’inchiostro di domarla e sublimarla?

Come il libro-istrice di Jacques Vingtras, anche il testo che lo partorisce ha conosciuto le forbici e gli spilli, è passato attraverso rimaneggiamenti e correzioni, dalla prima versione, maturata negli anni dell’esilio londinese e pubblicata in parte sulla Nouvelle Revue nel 1882 (due anni dopo l’amnistia per i comunardi), fino alla definitiva, uscita postuma nel 1886, grazie alla disponibilità della collaboratrice di Jules Vallès, Séverine, e rivista, comunque, dall’autore.

Una gestazione sicuramente tormentata, a riprova che una certa impressione di spontaneità e immediatezza che può cogliere il lettore de L’insurgé è, in realtà, il frutto di scelte stilistiche e lessicali molto meditate. Vivacità della lingua e ricchezza delle immagini rappresentano gli esiti più riusciti di questa ricerca. Alla prima concorre in modo determinante la capacità dello scrittore di giocare con registri linguistici diversi, da quello popolare che non indietreggia di fronte a certa crudezza a quello colto, con echi di reminiscenze classiche dagli sbocchi imprevisti che operano inversioni di significato rispetto a quello consolidato dalla tradizione. Locuzioni gergali, ripresa di espressioni del compagnonnage – le antiche associazioni di mestieri – calembours che riconducono la generalità di una situazione alla concretezza degli elementi che la definiscono, neologismi dalla connotazione sovente ironica, termini della vita quotidiana, ma anche attinenti alla sfera pubblica si inseriscono con naturalezza nel quadro di un periodare ora conciso, ora movimentato, caratterizzato dal gusto per la precisione dell’aggettivo e l’incalzare dei verbi che sovente si snodano uno dopo l’altro, quasi a spingere il lettore nel bel mezzo dell’azione.

È, ancora una volta, lo stile di Jacques Vingtras, fatto di «pezzi e bocconi che si direbbero raccolti, a colpi di uncino,[14] in angoli sporchi e desolati. Eppure, lo vogliono, questo stile!» (cap. VII). L’esito dell’operazione alchemica tentata da Vallès è di avere ottenuto con questa materia sporca una frase pulita, che scorre spesso impetuosa, talora grave e calma, limpida sempre. La drammaticità stessa di alcuni snodi narrativi è costretta entro il quadro di una voluta essenzialità linguistica che esalta la serietà dell’evento, proprio nel rifiuto della teatralità e della declamazione, oppure è stemperata nel liquido benefico dell’ironia che salva dalla tentazione del solenne e dell’eroico, sempre in agguato in momenti decisivi, in cui vive la consapevolezza di muoversi sotto i riflettori della Storia. Unico cedimento, l’abbondanza dei punti esclamativi che se, da un lato, sottolineano l’urgenza del dire, dall’altro pagano un debito d’enfasi ad una tradizione tribunizia non priva di implicazioni romantiche cui la formazione dello scrittore non poteva essere del tutto estranea.

Lingua che scorre, dunque, e che scende in profondità, scavando il suo alveo, per attingere la verità di fondo di uomini ed eventi, di convinzioni ed azioni. Sono le immagini a perforare la crosta, a rompere l’opacità del reale, a forzare la parola al limite delle sue possibilità. Se alcune sono di evidente segno politico (come quella su cui si conclude il romanzo), molte – e non fra le meno efficaci – sono radicate nel terreno aspro di un quotidiano fatto di stenti, lavoro, fatica, umiliazione, dolore, violenza.

Che sia la selvaggina da camera ammobiliata (cap. I), o la miseria dalle mani di mammana (cap. II), o il flutto umano che ha trascinato un uomo come fosse una briciola di carne (cap. XXX), Vallès-Vingtras non si rifugia nei cieli del simbolismo, ma resta ancorato alla fisicità di quel fardello che la sua esperienza esistenziale gli ha posto sulle spalle. Il fatto è che questo insorto parigino, questo giornalista pronto a salire sulle barricate ha dietro di sé generazioni di contadini e ama calcar bene i suoi piedi per terra, come se dovesse piantare un albero (cap. XXVIII). E le sue immagini mantengono un legame carnale con il fondo esperienziale, dove si intrecciano e talora si scontrano natura e cultura, che le nutre.

La scrittura di Vallès è di quelle che fanno grande uno scrittore, ma ho motivo di ritenere che il nostro si rivolterebbe nella tomba a sentirsi definire un grande scrittore. La vita non gliene lasciò né il tempo (morì relativamente giovane, a cinquantatre anni), né l’opportunità, avendolo messo alle strette, a districarsi fra povertà, persecuzioni, sommosse, fughe, esilio. E poi gli mancò l’aura del grande scrittore, lo sguardo superiore che si eleva sulle miserie del mondo e tutto comprende e sublima e riporta all’universale. Fu uomo di parte, volle prendersi il suo carico di infelicità e portarlo fino in fondo assieme agli altri infelici.

Amò e coltivò il libro, ma con la consapevolezza che un vasto continente si stendeva tutt’attorno e che venti molto forti ne sfogliavano le pagine, né lui aveva alcuna intenzione di chiudere le finestre della sua casa. Questo soffio porta nella sua opera un ritmo ineguale – accelerazioni e rallentamenti – che se da un lato le conferisce un tono tutto peculiare, dall’altro rischia di minarne l’impianto unitario.

Al di là della morte prematura, che lo colse mentre rivedeva il manoscritto de L’insurgé, la sua opera trasmette un senso di incompiutezza, per un piccolo tarlo che la rode dall’interno, per una tensione irrisolta – non poté o non volle mettervi mano – fra il presente dell’azione e la durata della scrittura. Uno scarto che custodisce il segreto ultimo di questo anomalo romanzo, un’incrinatura feconda in cui il lettore può introdurre il suo sguardo per intravedere il luogo nascosto da cui muove il libro.

Un libro imperfetto è un libro che si può continuare a scrivere, che ne custodisce un altro, proprio come L’insurgé di Jules Vallès racchiude il libro di Jacques Vingtras.

 

Fernanda Mazzoli

 

 

 

[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.

[1] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edizione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.

[1] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.

[1] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».

[1] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.

[1] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.

[1] Cfr. J. Vallès, I refrattari, op. cit.

[1] Cfr. il commento a J. Vallès, L’insurgé, Le Livre de Poche, Paris 1986, p. 344.

[1] Cfr., infra, cap. XXXV.

[1] J. Vallès, L’insurgé, op. cit., p. 345.

[1] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.

[1] Cfr. ivi, p. 58.

[1] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.

[1] Strumento usato all’epoca dagli spazzini.

[1] È quella pubblicata nel 1953 dall’Universale Economica di Milano, a cura di Giacomo Cantoni. Essa era stata preceduta nel 1927 da una traduzione di A.G. Blanche per i tipi della Sonzogno e nel 1945 da quella proposta dalle Edizioni Sociali Internazionali di Roma. Da tempo fuori catalogo, queste edizioni sono rinvenibili nelle biblioteche.

[2] Risuona davvero ingiusta l’accusa di individualismo piccolo-borghese mossagli da Giacomo Cantoni nella sua, peraltro pregevolissima, introduzione all’edi­zione del 1953 e che è, evidentemente, debitrice dell’ortodossia ideologica di stampo marxista imperante in quegli anni. Confonde, a mio giudizio, i limiti della consapevolezza teorica di Vallès, di cui l’autore per primo era conscio, e il suo accentuato spontaneismo con la rivendicazione della propria centralità di unico rivoluzionario puro, dimenticando che contro tale pretesa, qualora anche si affacciasse occasionalmente, Vallès disponeva dell’arma profusa a piene mani dell’ironia, contro se stesso innanzitutto. In realtà, ci sembra che Cantoni, pur contestualizzando correttamente l’esperienza politica di Vallès all’interno di un nascente movimento socialista ancora fortemente influenzato da blanquismo e proudhonismo, non riesca, comunque, a perdonargli il fatto di non essere stato marxista, come, d’altra parte, la stragrande maggioranza degli uomini della Comune, ciò che non impedì a Marx – il quale, come è noto, non si riteneva un marxista – di rendere un omaggio vibrante all’esperienza comunarda e al suo significato, nel suo La guerra civile in Francia che resta, ad oggi, un testo insuperabile di analisi storica delle vicende che culminarono nella proclamazione della Comune.

[3] Cfr. l’articolo Les victimes du livre, uscito sul Figaro il 9 ottobre 1862, e che verrà ripreso in J. Vallès, I refrattari, Sugarco, Milano 1980, pp. 133-151.

[4] «questa miserabile», ma anche «furfante, disgraziata e prostituta».

[5] Per le vicende biografiche, rimando a http://blog.petiteplaisance.it/fernanda-mazzoli-jules-valles-1832-1885-jules-linsurge-aveva-scelto-di-essere-un-refractaire-e-tale-rimase-per-tutto-il-corso-della-sua-vita-prima-durante-e-dopo-la-comune-di-par/, all’introduzione di Raffaele Fragola a J. Vallès, I refrattari, op. cit. e all’articolo di Giuseppe Scaraffia, Vallès, un provocatore, pubblicato l’8 settembre 2019 su Il Sole 24 Ore.

[6] Citato da G. Cantoni nell’introduzione a L’insorto, op. cit., p. 15.

[7] Cfr. J. Vallès, I refrattari, op. cit.

[8] Cfr. il commento a J. Vallès, L’insurgé, Le Livre de Poche, Paris 1986, p. 344.

[9] Cfr., infra, cap. XXXV.

[10] J. Vallès, L’insurgé, op. cit., p. 345.

[11] Roger Bellet ha analizzato l’importanza, tematica e stilistica, dell’elemento liquido – inchiostro e sangue, innanzitutto, ma anche acqua, latte, vino – nell’opera di Vallès nel suo saggio, Jules Vallès et le Livre: l’encre et le sang, in Romantisme. Revue du dix-neuvième siècle, 1984, n. 44, Le livre et ses mythes, pp.57-63.

[12] Cfr. ivi, p. 58.

[13] In questo senso, la traduzione ha rappresentato per il traduttore, piuttosto incline alla prima possibilità, una vera e propria sfida, nel corso della quale ha inferto al testo originario qualche colpo a tradimento, soprattutto nella soppressione della virgola prima della congiunzione e, costante in Vallès.

[14] Strumento usato all’epoca dagli spazzini.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.

Karl Marx_Uomo totale

Nei Manoscritti economici-filosofici del 1844, poco prima di formulare la contrapposizione tra «assoluta povertà» e «ricchezza interiore» e criticare esplicitamente l’unilateralità e ottusità prodotte nell’uomo dal «senso dell’avere», K. Marx sostiene che, con la soppressione della proprietà privata, «l’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale e quindi come uomo totale» (K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 116). L’uomo «totale», dunque, è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale, che supera le unilateralità effetto della proprietà privata e del dominio del senso dell’avere ed è capace di dare attuazione alla «realtà umana», composta da una pluralità di sensi fisici e spirituali (ibidem, p. 116) .

Scriveva, infatti:

«La proprietà privata ci ha resi così ottusi ed unilaterali che un oggetto è considerato nostro soltanto quando lo abbiamo […]. Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso dell’avere. L’essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore» (ibidem, pp. 116 e ss.).

«Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l’economia politica, subentri l’uomo ricco e la ricchezza dei bisogni umani. L’uomo ricco è ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno» (ibidem, , pp. 123) .

 

Dobbiamo produrre la nostra totalità:

«Ma in fact, una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale?
Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative […], che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè lo sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità?» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie], 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 19773, vol. II, p. 112).

E perfezionarci in qualsiasi ramo a piacere:

«Appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore. o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina di andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (K. Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 20005, p. 24) 78 .


 

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
 
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Stefania Massari – Pensiero è essenzializzazione. Il «Menone». L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica.

Stefania Massari 001
Stefania Massari

Pensiero è essenzializzazione[1].

Il Menone.

L’aporeticità dell’eristica e la risolvibilità della dialettica


 

Abstract: Nel Menone, attraverso il vivace canovaccio narrativo, si evidenzia il dinamismo del pensare platonico, che può essere interpretato, senza intendere effettuare forzature ermeneutiche, bensì semplicemente valorizzando i risultati della Wirkungsgeschichte, come un dinamismo di riconduzione a essenza (analogo a quello della fenomenologia husserliana) che dischiude in sé l’esigenza di un’ulteriorità dialogica, all’interno della concettualizzazione dej temi principali del dialogo, o un dinamismo di pensiero speculativo (a modo della fenomenologia hegeliana), invitando al pensiero l’intera comunità ermeneutica delle opere platoniche, e infine sottendendo la centralità della teoria sui principi supremi o protologia in Platone, che informa di sé la teoria delle idee. Il presente articolo intende mostrare non solo l’autoevidenza di una esigenza di dialogicità all’interno della suddetta ermeneutica ma evidenziare un confronto attualizzante, con sguardo filosofico della storia, tra Platone, Husserl ed Hegel. Quest’ultimo, in particolare, con il suo considerare l’essenza, nella dottrina dell’essenza della sua fenomenologia come fondamento dell’esistenza (das Wesen als Grund der Existenz ), si rivela come un autentico interprete del pensiero platonico essenziale.


 

Wie gründer sich Gott? Gott gründt sich ohne Grund und mißt sich ohne Maß: Bist du ein Geist mit ihm,
Mensch, so verstehst du das.
Angelus Silesius, Cherubinischer Wandersmann

 

Lo scopo di questo articolo non è dimostrativo in senso razional-strumentale, bensì strettamente filosofico. L’articolo vuole essere un invito al pensiero, e, utilizzando come guida la posizione di Erich Przywara sulla “filosofia dell’essenza”, intende mostrare che sia possibile un confronto attualizzante (ossia oltre che storico-filosofico, filosofico-storico[2]), tra Platone, Husserl ed Hegel, osservando in tali autori una profondità speculativa, reciprocamente analoga. Presentando inoltre esso stesso un dinamismo speculativo, che rischia di apparire criptico ai più, il presente scritto ha l’intento di rendere autoevidente l’esigenza, all’interno della concettualizzazione[3] di alcuni temi del Menone platonico, di un’ulteriorità del pensare stesso, che produca a sua volta pensiero, e di una dialogicità intrinseca ai concetti stessi utilizzati da Platone, non tanto dunque per evidenziare “diaireticamente” il ventaglio delle possibilità esegetiche dell’opera platonica ma per rendere autenticamente scientifica, cioè pensante, la sua ermeneutica. Ma che significa pensare se non, platonicamente, ma anche husserlianamente ed hegelianamente, (e questa è la posizione specifica della scrivente posta all’attenzione del lettore) spingere i concetti attraverso il dinamismo essenzializzante, fino a preludere a un cominciamento (noetico), che abbia a che fare con una libera asserzione iniziale, analoga a un assenso di fede? Dire (affermare, assentire) infatti che la speculazione sia dialogica in sé, e tale lo sia il pensiero, al di là dei vincoli della catalogazione dossografica, non significa, a mio parere, porsi apoditticamente e dogmaticanente nel circuito della comunità pensante, ma invitare i componenti attuali di questa stessa comunità, alla profondità della meditazione e della riflessione, oltre ogni chiusura. L’intento è pensare insieme al Platone del Menone, soffermandosi sui suoi stessi contenuti essenziali e con la medesima apertura problematica e il medesimo stupore caratterizzanti il Platone stesso del suo tempo. Considerando altrimenti l’approccio al testo, la deriva manualistica sarebbe sempre una possibilità, e ciò, all’interno della ricerca, non gioverebbe certamente all’ermeneutica platonica. Dire teoreticismo manualistico è a mio parere dire anche irresolutività sofistica in senso platonico. L’aporeticità del dire eristico appare infatti ben evidente nelle argomentazioni del personaggio platonico intitolato a Menone, l’intellettuale ateniese dalla parlantina sicura e da una forte determinazione d’intenti, che incontriamo nell’omonimo dialogo. Essa deriva dal fatto che egli non possiede i requisiti adeguati a soddisfare i criteri di un’“intellezione[4]” che sia capace di “iniziare” un processo autenticamente ideativo (o di essenzializzazione). Essenzializzazione è termine che desumiamo dalla fenomenologia husserliana e dalla speculazione hegeliana, orientati dalla trattazione dell’analogia entis di Erich Przywara[5]. Per Husserl, la riduzione fenomenologica, che conduce alla coscienza intenzionale è “essenzialmente” (eideticamente) un processo di riconduzione a essenza dell’esperienza fenomenologica[6], che è, husserlianamente, fondativa dell’esperienza conoscitiva e dunque epistemologia. Coscienza intenzionale è coscienza dell’apertura della coscienza stessa a una intenzionalità primigenia, ovvero a una interna ed esterna dialogicità tra un mondo soggettivo e un mondo oggettivo. Una essenzializzazione è a mio parere, e significativamente, ben rintracciabile nel canovaccio delle opere platoniche, desumibile dal rimando continuo a un’esigenza fondazionale (protologica[7]) di tutto il processo di pensiero che si sviluppa attraverso i dialoghi. Ciò che non si conosce autenticamente è ciò di cui non si intuisce l’essenziale, e ciò di cui non si intuisce l’essenziale (v. intellezione) non si può indagare, perché l’approccio meramente teoretico o logico in senso astratto produce contraddizioni insanabili (eristikos logos). Chi già conosce in senso meramente gnoseologico (della conoscenza come nozione) non è necessario che aggiunga nozione a nozione, perché il criterio sarebbe qui meramente quantitativo, chi invece non conosce, come tabula rasa o mero recipiente da riempire, non saprebbe che cosa varrebbe la pena conoscere, non possedendo l’attitudine valutante di un sapere noetico. Il discorso eristico non ha rilevanza filosofica, poiché si trova al di fuori dell’essenza come causa formale a cui accedere con l’aitias logismos[8]. Esso è aporetico, teoreticistico, ossia inutile. La stessa sofistica lo disvela. L’aporia appare come un’esigenza del discorso, intesa in senso hegeliano, di senso ulteriore (essenzializzazione nella fenomenologia hegeliana[9]). Riconoscere tale problematicità inerente all’aporia significa trovarsi già nello “speculativo”. La mancanza di significatività del dire aporetico allude all’esigenza di un’apertura a livello originario. Mancando tale apertura, vengono a mancare le basi della pensabilità. Ma dove si rinviene, e se così si può dire, agostinianamente, tale apertura originaria, dove essa si deve ricercare? Platone è chiarissimo. La via deve essere anamnestica. Lo schiavo di Menone accede nell’immediato a una “orthe doxa”, guidato sapientemente da Socrate partendo dal suo interiore ricordare. Ma dapprima va detto in mythologein ciò che si riferisce a un’ulteriorità che supera ogni concezione riduttivistica del sapere. Che l’anima sia immortale e che abbia a che fare con quell’ulteriorità, i poeti e i sacerdoti, familiari ai racconti sugli dèi, già da sempre lo dicono. Ma occorre giungervi filosoficamente, ovvero dialetticamente (per aitias logismos). Se rimanesse solo nell’alveo di una divina mania non sarebbe condivisibile, comunicabile[10]. Occorre invece farne oggetto di pensiero, di quella ratio-relatio che converte integralmente (speculativamente) a una vita virtuosa. Il racconto di un’anima immortale diviene racconto di una intuizione originaria. L’anima ha già visto tutte le cose di questo mondo e dell’Ade, nascendo più volte (pollakis gegonouia), come occorre rinascere a quell’origine di divina significanza, per poter riformulare, ripensare l’ordine delle cose e del mondo, a partire da una iniziale “syngeneia”, congenericità e consentaneità[11]. Syngeneia è quell’affinità della natura con se stessa e con l’anima dell’uomo (a motivo dell’iniziale conoscenza), affinché essa stessa congenere e consentanea intuisca l’imprescindibilità di un pensiero che debba riguardare la totalità delle cose e dell’uomo (che in termini hegeliani può tradursi come quel vero che sia l’intero, ovvero che lo riguardi dall’inizio e come risultato). La syngeneia, di chiara ascendenza pitagorica, risulta essere “uno dei filosofemi più importanti dell’epistemolgià platonica”[12]. Esso rappresenta l’inizio del pensiero speculativo che non può che riferirsi a una dimensione protologica, all’interno di una disposizione volta a una costante unificazione delle cose del mondo e del divenire[13]. Cosicché non ci riferiamo a una collocazione provvisoria dell’oggetto del pensiero ma a una integrazione vitale, come vera e propria “condizione” dell’anima. Essa esprime l’ordine speculativo, come scaturigine dell’esperienza pensante a partire dall’intuizione iniziale di una integralità e totalità mai pienamente e compiutamente esauribili razionalmente. L’anima immortale rappresenta ovvero l’anima pensante, sintonizzata con la condizione del pensare, cioè l’archè anypotheton[14]. La mitologica dimenticanza di ciò che si è visto nella pianura della verità, di quel cominciamento che vada continuamente riconquistato e riattualizzato per essere riaffermato, rappresenta l’esigenza del pensare come riposizionamento rispetto all’epoca del soggetto pensante[15]. La syngeneia è intuizione ontologica, poiché è affermazione dell’affinità di tutti i generi nel pensiero sull’essere, ovvero la massima realtà di tutto l’esistente. Il mito qui, in tanto è utilizzato, in quanto riconduce a un cambiamento di ordine morale. Il mito è ancora una volta ordinato alla prassi. Lo schiavo è guidato da Socrate a effettuare un’inferenza geometrica laddove il risultato del problema postogli non sia commensurabile numericamente. Il giovane, non consono al sapere epistemico, privo dell’attitudine integrale ad acquisirlo, ma dotato di quella sincerità immediata che lo porta a intraprendere il sentiero contingente dell‘orthe doxa, della quale si sente naturalmente congenere, viene guidato a quell’intuizione geometrica capace di superare e contenere, come una specie di unità eraclitea, l’uno in se stesso distinto, l’aporeticità e il riduttivismo di una matematica considerata secondo un aspetto meramente gnoseologico e privata di quell’essenziale ampliamento che solo una visione noetica in senso protologico avrebbe potuto fornire. Che cos’è quell’irrazionalità all’interno della misurazione che se considerata fine a se stessa può decettivamente essere scambiata per irrapportabilità? È “realmente” irrapportabile il valore numerico della diagonale con il lato del quadrato? Ovvero cosa ci suggerisce l’ontologia platonica a riguardo? È come se Platone volesse indicarci un’estensione significativa all’interno della misurazione. La misurazione esige una forma significativa che rimandi al di là della misurazione stessa, ovvero rimandi a una figurazione geometrica al fine di un’attuazione pragmatica di essa. Quale pensiero poté inquietare i pitagorici quando estromisero dalla loro cerchia il tale Ippaso di Metaponto? L’irrapportabilità all’interno della numerazione può intaccare fino a squalificare la valenza universale dei numero nella gerarchia dei livelli di realtà? Eppure numero è misura e la misura è il meglio (metron ariston). Forse i pitagorici temevano che si confondesse la criticità all’interno della mera misurazione con la vera finalità della scuola pitagorica che probabilmente era la stessa di tutta quanta la grecità nel suo complesso. La stessa dedizione dei greci allo studio della proporzione denota un interesse che va al di là della mera metodologia, che si poteva invece osservare in popoli ad essi coevi[16]. Il loro interesse era di ordine etico-religioso, oltre che gnoseologico e ontologico. Ma qual è la via per giungere a tale obbiettivo? Una umile ricerca, come quella che intraprendono coloro che non sanno (ὄμοιος εἶ οὐκ εἰδότι, simile a uno che non sa)[17], come Socrate stesso usa autodefinirsi. Egli dopo aver domandato maieuticamente a Menone intorno alla virtù, che cosa essa sia nella sua totalità, dopo aver accompagnato l’interlocutore sulla via diairetica, e averlo indotto nell’aporia, e dopo averlo intorpidito, come una “piatta torpedine marina” , conviene che occorre ancora una volta una comune indagine (ἐθέλω μετὰ σοῦ σκέψασθαι καὶ συζητῆσαι ὄτι ποτέ ἐστιν, voglio cercare e indagare con te cosa essa sia), sempre e di nuovo (πάλιν ἐξ ἀρχῆς, di nuovo , dall’inizio) su ciò che fino a ora si era maieuticamente domandato. Ma il dire di Socrate diventa opportunità per delle trovate eristiche da parte del suo interlocutore. Se ignori qualcosa, come farai a cercarla? Chiede Menone. E se la trovassi, come la riconosceresti? Il filosofo ateniese comprende l’antinomia sottesa a tale discorso. Egli intendeva sicuramente giungere a dire, che sia nel caso si affermi di sapere, sia nel caso contrario, l’indagine non possa avere alcun utile risultato. L’eristica, infatti, è il domandare fine a se stesso. ἐριστικὸν λόγον è quell’argomento secondo il quale non si ritiene possibile ricercare sia ciò che si sa, sia ciò che non si sa, perché nella prima istanza è inutile, già conoscendo l’oggetto della ricerca, nella seconda si ignora persino ciò che si dovrebbe cercare. Qui c’è un uso improprio della logica, e ciò può essere valutato solo a partire da un’apertura protologica dei principi supremi. Quale risvolto pragmatico può avere il gusto della confutazione senza via possibile di risoluzione argomentativa? Lo zelo socratico per il bene della città degli uomini non può trovare soddisfazione vitale nella mera argomentazione di ordine descrittivo. Egli allora si rivolge al mythos, per trovare la base ideale adeguata a fondare un’argomentazione che soddisfi i criteri di quei principi ai quali abbiamo accennato. Ai sacerdoti, alle sacerdotesse e ai poeti preme dare ragione (logon didonai) del loro ministero che pratica col divino. Essi dicono che occorre trascorrere la vita più santamente possibile (ὡς ὁσιώτατα διαβιῶναι τὸν βἰον·)[18]. Essi parlano di un’anima immortale sottoposta a processi di purificazione nel mondo dell’Ade, che gli fa guadagnare lo status di sapienza e di eroicità nel bene quando rinasce fra i mortali. Ma soprattutto di ciò che l’anima apprende in tutte le vite, e nei mondi nei quali è vissuta, e che può ricordare. Perché “ cercare e apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]”, (τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν). Occorre infatti un ragionamento che renda operosi e non pigri[19]. Esso riguarda la questione della postulazione necessaria al darsi della conoscenza autentica e dell’epistemologia. Quando nel “dioti” si possono includere la questione dell’incommensurabilità numerica e della commensurabilità geometrica, ci si può incamminarsi sul sentiero dell’epistemologia. Dal “che è”, luogo del discreto e della descrizione, al “perché”, procedurale, istorico, causale, continuo, archetipico. Occorre postulare un continuo sulla infinitudine del discreto: l’unità della primigenia apertura generatrice della possibilità duale. L’uno, come il punto, che si estende ai molti, si continua, offrendosi alla propria negazione come discreto, generando la linea. Ecco il geometrico. La questione dell’incommensurabilità è quel “salto” protologico verso l’intero assiologico che valorizza l’ontologico e lo gnoseologico: la conoscenza in libertà, ovvero di un libero pensiero “ex autou”, dall’interiorità di sé, ciò che è l’anima (cfr. 85 d): libertà da libertà, come affermazione iniziale. È possibile, con Erich Przywara, che scorge una “presenza fondativa della dimensione religiosa nella conoscenza filosofica”, rimanendo però sempre al di fuori di ogni assolutizzazione del “dato creaturale”, accostare la postulazione “anipotetica” che si evince dai dialoghi in generale ma rappresenta un implicito rimando soprattutto nel tessuto dialogante e pensante del Menone stesso con la questione della dimensione della fede religiosa, e della necessità in relazione a essa di un assenso iniziale del soggetto[20]; cosicché risulta possibile rintracciare tale esigenza, inerente a una postulazione iniziale,  effettuando uno studio sulla metodologia della ricerca umana e veritativa, oltre che teologica, all’interno del testo biblico, il quale, seppur appartenente alla tradizione ebraico-cristiana, rimane una delle grandi radici, sia nella recezione positiva sia negativa del suo messaggio, che ha inciso maggiormente nella configurazione della civiltà occidentale. Anche il testo biblico è scritto in mythologein, proprio come tentativo fondazionale e come sapere kerigmatico, ovvero prefigurativo di un mondo, a partire dalla grande cosmogenesi del primo capitolo del suo primo libro, come racconto fondazionale cosmogonico; cosicché risulta possibile scorgere un intento analogo, (proprio come analogia nel senso di discorso sulla somiglianza e sulla proporzionalità di Erich Przywara), nel mythos descritto nel Menone. Il mythos esprime il limite di una conoscenza intellettiva in senso hegeliano, che diventa, descrivendo puramente il metodo, senza utilizzarlo consapevolmente in relazione a un intero speculativo, mera gnoseologia, “Il difetto fondamentale del conoscere finito”[21]. Esso non è consapevole del suo metodo: a orientarlo è la “necessità” delle determinazioni concettuali (der Notwendigkeit der Begriffsbestimmungen). Per Hegel la geometria possiede il perfetto metodo sintetico del conoscere finito (die Geometrie hat deswegen allein die synthetische Methode des endlichen Erkennens in ihrer Vollkommenheit). Essa ha a che fare con l’intuizione sensibile, ma astratta. Nel suo procedimento si scontra con entità incommensurabili e dunque irrazionali che esigono che essa si spinga oltre il principio meramente intellettivo, cosicché tale “irrazionale” divenga “inizio” o prima traccia di Razionalità (concettuale e ideale)[22]. Laddove la necessità del mero intelletto (casualità seriale ed efficiente) è esteriore e “deve” essere considerata in vista di una “intellezione soggettiva” (subjektive Einsicht). Tale necessità esteriore, come mero intelletto gnoseologico, esige un soggetto che gli restituisca senso ulteriore e metaintellettuale, pensante ed essenziale. Hegel in questo passo dell’ Enzyklopädie rivela la sua vicinanza al dinamismo del pensare platonico. Ecco che l’ermeneutica può cogliere dei segnavia, all’interno del pensiero di alcuni autori della Wirkungsgeschichte, per andare oltre il mero posizionamento della contrapposizione manualistica, che esprime una mentalità, come usava dire Giovanni Reale, da “deuteragonista”, e la quale, come Platone insegna, è propria della sofistica, e così entrare finalmente e in modo “autoriale” a un convito del pensiero che costruisca il nuovo e una prassi possibile e concreta.

Stefania Massari

[1] V. “Essenzializzazione” in Erich Przywara, come atto formale della filosofia dell’essenza, nel mondo antico; Id., Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, introd. e trad. di Paolo Volonté, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 210. In tale concetto, a partire dalla sua trattazione della metafisica come “essenza dentro–fuori l’esistenza”, Przywara trova l’apertura necessaria per accostare la metafisica dell’essenza dell’essere, nel triplice irradiamento “vero-buono-bello” in relazione al problema dell’uno e del molteplice, in Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Kant ed Hegel; cfr. pp. 24. 33-34-35, e infine in Husserl, distinguendo il criterio metaontico degli antichi da quello metanoetico dei moderni.

[2] Per sguardo filosofico-storico si vuole intendere, proprio nel senso filosofico canonico, una valorizzazione dei canoni storiografici mediante un uso pensante della Wirkungsgeschichte, alla maniera del dinamismo speculativo presente all’interno del sistema storico-filosofico in Hegel.

[3] Per concettualizzazione di temi platonici s’intende l’evidenziazione della dinamica “essenzializzante” degli stessi, oltre che la loro pensabilità dalla parte del lettore e dell’interprete.

[4] Cfr. Maurizio Migliori, Il recupero della trascendenza platonica e il nuovo paradigma, Rivista di Filosofia Neo-scolastica, Vol. 79, No. 3 (luglio-settembre 1987), p. 363 – v. nota n. 59, nella quale Migliori cita K. Gaiser. La paideia platonica, destinata ai filosofi, che è di tipo matematico-dialettico, e di lunga durata, è tesa a un’assimilazione interiore che culmina con la pura “intellezione” del Bene stesso, ma l’elaborazione dialettica, sostiene Gaiser, «doveva essere accompagnata e verificata da un’esperienza di certezza immediata ed evidente, da una dischiusura della verità tramite intuizione intellettuale (noesis)». Per un confronto col senso comune di tale concetto, e ai fini di una più proficua attualizzazione, si potrebbe considerare il significato della parola “intellezione”, presente in uno dei dizionari in uso più diffuso (es. v. la voce “intellezione” in vocabolario Treccani: – Il processo dell’intendere mediante la facoltà dell’intelletto, concepito in filosofia come sintesi di due elementi opposti: quello intelligente o «soggetto» [principio attivo dell’intendere] e quello che è inteso o «oggetto» [termine dell’azione del soggetto]).

[5] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., II, Il ritmo cosmico.

[6] Cfr. Edmund Husserl , Aufsätze und Vorträge (1911-1921), Martinus Nijhoff Publishers, 1987, pp. 3-62: Id. Philosophie als strenge Wissenschaft, Traduzione italiana di Corrado Sinigaglia. Filosofia come scienza rigorosa, con prefazione di Giuseppe Semeraro, Economica Laterza, Bari 2010, p. 55: “Fin dove arriva l’intuizione, l’aver coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità della corrispondente ideazione”.

[7] Si possono vedere, sul senso essenziale della “protologia”: Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002; M. I. Parente, Platone e il problema degli agrapha, inMéthexis, 6, 1993.

[8] Cfr. Richard Kraut, The Cambridge Companion to Plato, Cambridge University Press, Chicago 1992, p. 221.

[9] Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia della Spirito, Introduzione, Traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2013, p. 1005: “Lo Spirito, rappresentato inizialmente come sostanza dell’elemento del pensiero puro, è con ciò immediatamente l’essenza semplice, uguale a se stessa ed eterna, la quale però non ha questo significato astratto dell’assenza, bensì il significato dello Spirito assoluto. Lo Spirito però non è semplicemente un significato, non è l’interno, ma è il reale. L’essenza semplice ed eterna, perciò se restasse nell’ambito della rappresentazione e dell’enunciazione di tale semplicità ed eternità, sarebbe Spirito solo nella vacuità di questa parola. Per il fatto di essere l’astrazione, invece, l’essenza semplice è di fatto il negativo in se stesso, e precisamente la negatività del pensiero, la negatività così com’è, in sé, nell’essenza: è la differenza assoluta da sé, cioè il suo puro divenire-altro.”

[10] Cfr. ciò che riferisce Cristina Ionescu, in The mythical introduction of recollection in the Meno (81 a 5 – e 1), Journal of philosophical research, Volume 31, 2006, sulla valenza pedagogica e comunicativa del mito in riferimento ai destinatari del messaggio “The main reason why recollection is introduced by appeal to myth is to facilitate our access to truth in direct correspondence to our specific pedagogical needs, and in this sense the myth has a substantial role complementing logical arguments. At one level, Socrates’ appeal to myth is motivated by his intention to persuade Meno to continue the investigation of virtue. Since Meno’s intellectual resources are scarce, introducing recollection by means of a story which appeals to his emotions and whose content is, even if only at the superficial level, attractive to him has the desired effect.”

[11] Cfr. Platone, Menone 81c9-d5 : ἅτε γὰρ τῆς φύσεος ἁπάσης συγγενοῦς οὐσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα οὐδὲν κωλύλει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μὰθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ἦ καὶ μὴ ἀποκάμνη ζητῶν· (Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non resiste dal conoscere). “Syngeneia” è il termine che usano i Greci, da Omero in poi per definire l’affinità nei rapporti fra Dio e la natura dell’uomo e che solo in Platone (presente prevalentemente nel Timeo) viene giustificato. Cfr. Giovanni Reale, Storia della Filosofia greca e romana, a c. di Vincenzo Cicero, premessa di Maria Bettetini, Bompiani, Milano 2018, p. 2366.

[12] Cfr. Platone, Menone, a c. di Franco Ferrari, Rizzoli, Milano 2016, pag. 47.

[13] “Protologia” ed “henologia” sono, com’è noto, termini introdotti dalla speculazione della scuola interpretativa di Tubinga e di Milano. Essi sono, all’interno di tale scuola, considerati condizione essenziale nel dinamismo del pensare. Sull’henologia come attributo preminente e imprescindibile del “Principio” in Platone, Plotino, Porfirio e Proclo, in una dialettica con l’ontologia aristotelica e nella sua recezione tomista, e ancora, come criterio imprescindibile per l’intelligibilità della storia della filosofia antica e moderna, si può vedere: Giuseppe Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio, Mediazione fra henologia platonica e ontologia aristotelica, Vita e Pensiero, Milano 1996. Si veda inoltre, Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Bompiani, Milano 2002

[14] Άρχή Άνυπόθετον è, per Hans Krämer, quel bene (άγαθόν) che è al di sopra delle idee e dell’ούσία , e che, come principio che non è più solo postulato, costituisce il fine della dialettica. Cfr. H. Krämer, Dialettica è definizione del bene in Platone, introduzione di G. Reale e traduzione di Enrico Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1996, pag. 37.

[15] Cfr. Platone, Phaedr. 246 – 247.

[16] Simone Weil, nelle lettere che scrive al fratello André sulla matematica dei greci, distingue tra la metodologia dei calcoli babilonesi, per i quali non si presentava la preoccupazione dell’approssimazione numerica, applicandosi a risolvere problemi a partire da risoluzioni note, facendo dunque intendere di prediligere l’analisi delle metodologie, piuttosto che altri interessi, e l’interesse dei greci di ordine religioso ed estetico. Non fu un dramma, secondo la Weil, il dover distinguere la geometria dalla misurazione numerica da parte dei pitagorici, a motivo dell’incommensurabilità di alcune grandezze matematiche, anzi il fatto che avessero assunto come simbolo dei loro circoli il pentagono stellato, figura significativa riguardo al rapporto fra incommensurabili, denota quanto la loro preoccupazione fosse altra. Propriamente, dai circoli pitagorici scaturiscono l’estensione degli insiemi numerici (Eudosso, allievo di Archita) e le nozioni di limite ed integrazione. È noto che Platone apponeva sulla porta dell’Accademia la frase: “Non entri chi non sia geometra”, e che diceva frequentemente: “Dio è un perpetuo geometra”, frase attribuitagli da Plutarco (Questiones Conviviales). La preoccupazione unica di tutti i greci, continua la Weil, era la purezza dell’anima, e il loro segreto, imitare Dio. La matematica era per loro un’arte, per esplicitare l’affinità fra la mente umana e l’universo”. Cfr. Simone Weil e André Weil, Correspondance familiale, a c. di Robert Chenavier e André Devaux, Éditions Gallimard, Paris 2012. Ed. italiana: “L’arte della matematica”, a c. di Maria Concetta Sala, Adelphi Edizioni, Milano, 2018.

[17] Cfr. Menone 80 d. Trad. Francesco Adorno.

[18] Cfr. Menone 81 b 5.

[19] Cfr. Menone 81 e.

[20] Cfr. Erich Przywara, Analogia entis, La struttura originaria e il ritmo cosmico, op. cit., Introduzione, xxxiii

[21] Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Dritte Ausgabe, Heidelberg 1830, Verwaltung des Oswaldschen Verlags, trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di Vincenzo Cicero, Introduzione, traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2017., Sottotitolo del par. 23.

[22] Cfr. Ibidem, p. 407: “Altre scienze se la cavano facilmente quando giungono al limite del loro procedimento intellettivo. Esse infrangono la coerenza di quel procedimento e prendono dall’esterno tutto quanto serve loro. Lo prendono dalla rappresentazione, dall’opinione, dalla percezione o altri ambiti ancora”.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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