Salvatore Bravo – Lo sfacelo del sistema-scuola in Italia. Mediocrazia e autonomia scolastica. Difendere la scuola pubblica significa schierarsi filosoficamente e politicamente per la comunità, e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni. La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini.


Salvatore Bravo

Lo sfacelo del sistema-scuola in Italia. Mediocrazia e autonomia scolastica.

Difendere la scuola pubblica significa schierarsi filosoficamente e politicamente per la comunità,
e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni.

La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità
l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini.

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Filosofia e metafisica critica

Vi sono autori trattati come “cani morti”, poiché le loro analisi permettono di svelare le contraddizioni cariche di potenzialità rivoluzionaria del proprio tempo storico. La filosofia è attività teoretica e politica mai conclusa. La riflessione sulla totalità storica in cui si è implicati consente di valutarne non solo la qualità, ma anche le contraddizioni ma anche i processi strutturali in atto. Filosofare è operazione metodologica e logica, è metodo d’indagine in quanto capacità di tessere assieme le parti ideologicamente separate dal potere, è logica in quanto il tessere le parti ideologicamente separate comporta la comprensione razionale del proprio tempo concettualizzato nella sua verità. L’ostilità e l’ostracismo colpiscono solo i veri filosofi, gli accademici e gli eruditi che si limitano alla specializzazione filosofica sono favorevolmente accolti dal potere, in quanto alla coscienza critica del proprio tempo hanno sostituito l’adattamento opportunistico e carrieristico. Massimo Bontempelli1 è stato filosofo del nostro tempo, attraverso le analisi sulla condizione della scuola dopo la caduta dell’Unione Sovietica pone in evidenza la decadenza dell’intero tessuto sociale privatizzato e saccheggiato dalle logiche privatistiche comuni alla destra e alla sinistra. L’annichilimento di un’istituzione non si può astrarre dal suo contesto storico. Massimo Bontempelli fu un pensatore hegelo-marxiano, la sua metodologia di indagine è stata concreta, ovvero metafisica nel senso alto della parola. La metafisica non è un trascendere oltre lo spazio e il tempo, ma un oltre che ricongiunge la complessità storica costituita da dati, istituzioni e modi di produzione. Per poter concettualizzare è necessario ricongiungere ciò che appare diviso per ricostruirlo nei suoi nessi storici e strutturali, sono in tal modo “l’oltre” si rivela nel “con” per dare senso alla totalità. Lo sfacelo del nostro tempo storico è comprensibile, se lo si riporta al disastro delle istituzioni pubbliche sotto la spinta del neoliberismo. L’analisi critica sulle patologie che ammorbano l’istituzione scolastica permette di capire il presente nella sua totalità, in quanto l’approccio di Massimo Bontempelli è olistico:

Lo sfacelo del sistema-scuola, dunque, è nello stesso tempo espressione e concausa dello sfacelo della nazione2”.

La privatizzazione del patrimonio pubblico ha comportato la privatizzazione della scuola pubblica, essa è formalmente pubblica, ma gestita secondo criteri aziendalistici e, specialmente, deve formare sudditi che perseguono la sola logica del profitto. Nel disastro della scuola è riflessa la controrivoluzione neoliberista che ipostatizza se stessa con l’eliminazione veloce di ogni residuo comunitario, pertanto la scuola, luogo dove si dovrebbero formare cittadini dallo spirito critico, è stata pesantemente travolta dal ciclo di controriforme che hanno interessato globalmente l’intero asse sociale:

È la storia del disastro sociale provocato dal grande ciclo delle privatizzazioni che tra il 1993 e il 1999 ha smantellato l’economia pubblica italiana. Le pressioni più forti ad avviare tale ciclo non sono state nazionali, ma estere, provenendo dalle nuove regole iperliberiste dell’Unione economica e monetaria europea nata da Maastricht nel 1992, e dalla grande finanza anglosassone, desiderosa di prendersi a buon mercato i pezzi più produttivi e profittevoli della nostra industria nazionale3”.

Per poter smantellare velocemente ogni resistenza la testa d’ariete che ha fatto “il lavoro sporco” è stata la sinistra parlamentare, la quale si è immediatamente venduta e adattata, dopo il 1989, per non perdere i privilegi acquisiti. In tal modo ha mostrato il nichilismo ideologico che ne ha eroso gradualmente le fondamenta. Senza idee e senza verità metafisiche ha puntato unicamente a conservare il potere, l’assenza di ideali e di progetti politici ha favorito la salita alla ribalta di personaggi mediocri.

 

Mediocrazia e autonomia scolastica

La mediocrità è l’espressione del nichilismo neoliberista: la realtà storica non è compresa nella sua complessità e nei suoi pericoli, si adattano ad essa ricette miracolose con cui sfuggire allo sfacelo che avanza. Sullo sfondo restano calcoli politici dalla gittata limitata ed irresponsabilità verso gli elettori e la nazione tutta. La mediocrità non ha progettualità, in politica è ripiegamento trasformistico verso la difesa di interessi personali o lobbistici, per cui non si ha la tempra morale e politica per porre un limite ai condizionamenti che provengono dall’esterno. In questo clima si introduce l’autonomia scolastica. Il nichilismo è svuotamento dei significati linguistici. La lingua smette di essere punto di contatto, in quanto le parole sono un mezzo per dominare e manipolare l’opinione pubblica. La parola autonomia è resa innocua e traviata, non più indipendenza dalla burocrazia e dall’economia, ma diviene il cavallo di Troia, il grande inganno con cui far entrare il neoliberismo a scuola e renderla dipendente dal mercato. La scuola quale istituzione principe della formazione si eclissa, è solo l’obbediente serva del mercato. Perde ogni specificità e senso per essere “azienda tra le aziende”:

Berlinguer, così, già nel 1997, disarticola il sistema nazionale della pubblica istruzione, assimilando i singoli istituti scolastici ad aziende che producono ciascuna una propria offerta formativa, ma credendo di compiere una riforma progressista nel nome della cosiddetta autonomia delle scuole. Autonomia è una parola seducente, che evoca una prassi democratica e una libertà da pastoie burocratiche. La realtà che si nasconde dietro quella parola è però il diminuito impegno dello Stato nel finanziare il sistema scuola, la consegna data ai singoli istituti scolastici, sia pure per un futuro non immediato, a cercarsi finanziamenti privati, e l’abbandono di ogni progetto educativo nazionale con contenuti culturali vincolanti per l’insegnamento nelle singole scuole, tutti elementi che discendono dal contesto storico e ideologico, proprio dell’epoca, di privatizzazione del pubblico”.

Lo scopo finale per lo Stato assimilato dalle potenze della finanza è abbandonare la scuola al suo destino, limitare i finanziamenti, renderla economicamente autonoma. La scuola deve reperire i fondi per la sua sussistenza, è parte della guerra perenne del mercato all’interno del quale l’unico scopo è reperire risorse. Il cittadino non è più tale è suddito del mercato: il docente deve adoperarsi per il marketing, il preside dev’essere un manager e in ultimo lo studente non è più persona che si apre al mondo conoscendosi nella concretezza della classe, ma è solo consumatore e produttore. Massimo Bontempelli è venuto a mancare nel 2011, non ha visto, ma ha profetizzato con lo sguardo della civetta la “Buona scuola” di Renzi e la lunga e inesorabile discesa e scomparsa dell’istituzione nel nichilismo del mercato.

 

Scuola e senso

Il filosofo e storico pisano evidenziava che la scuola non è il luogo dove si impara il lavoro, quest’ultimo si impara nei luoghi deputati a ciò, la scuola deve formare la persona alla vita comunitaria sviluppando senso critico e politico. La scuola formatrice di lavoratori sarà sempre in affanno nell’inseguire il mercato, è negata nella sua finalità ontologica e assiologica, e ciò non potrà che comportare la frustrazione di coloro che vi operano e un senso di impotenza depressiva che non può che contribuire a realizzare i processi di derealizzzazione. Non a caso il risultato di tale meccanismo posto in essere è il trionfo della mediocrità con cui il potere può saldamente conservarsi. Docenti attenti alla carriera, e non ai contenuti e all’educazione, e formule didattiche finalizzate a presentare il niente come innovazione hanno prodotto la ricetta della mediocrità. I peggiori nelle istituzioni sono diventati il “punto di riferimento”, l’insegnamento ha realizzato il nichilismo didattico: si tengono in ordine le carte, si valorizza la quantità burocratizzata. I contenuti disciplinari e i processi educativi con annessi ostacoli da superare con lo sviluppo del concetto sono declassati ad attività secondarie e moleste, in quanto non attraggono iscritti:

Formulari vuoti, e divoratori di tempo, si sostituiscono alla serietà dei contenuti dell’insegnamento, progetti parcellari interrompono la continuità dei percorsi disciplinari, la demenziale esaltazione della flessibilità organizzativa corrode forme di omogeneità indispensabili alla scuola, persino l’unità del gruppo-classe alle elementari. Scocca, in quegli anni, l’ora degli insegnanti mediocri, che sono finalmente legittimati a disinteressarsi alla loro preparazione culturale e di ogni vincolo di contenuto ai loro insegnamenti, e possono ritagliarsi un’immagine positiva indaffarandosi nel nulla di scartoffie, griglie, funzioni promozionali, formule valutative (come il demenziale giudizio tripartito su capacità conoscenze e competenze)4”.

L’analisi impietosa e senza infingimenti di Massimo Bontempelli non può limitarsi alla sola critica, ma deve intraprendere e inerpicarsi per il sentiero che porta all’uscita da tale condizione. Per poter ricostruire il senso della formazione bisogna prendere atto che la scuola ha la sua genesi all’interno della formazione dello Stato-nazione. Solo una nuova consapevolezza nazionale e comunitaria senza nazionalismo può indurre la comunità a prendere consapevolezza che la scuola svuotata di ogni senso e umanità corrisponde all’annichilimento della cultura nazionale. Senza cultura nazionale non vi è progetto politico, ma dipendenza linguistica, politica ed economica dalle forze capitalistiche globali:

Non si può dunque ricomporre un sistema-scuola, contrastando l’analfabetismo culturale, e l’impoverimento mentale di massa diffusi dal suo sfacelo, senza ricomporre uno Stato-nazione, finalità generali ben distinte dagli interessi particolari, funzioni pubbliche ben distinte dalle attività private. Solo una tale dimensione statale, infatti, ha bisogno di una cultura della cittadinanza e di una scuola che la promuova, mentre una società di mercato ha bisogno di ottusità consumistica, non di scuola5”.

 

Capitalismo reale

La scuola non è un’agenzia lavorativa, non si può assegnare alla scuola tale compito che spetta allo Stato come la Costituzione recita. La scuola forma persone e non lavoratori, l’istituzione scolastica è prassi di umanesimo integrale. La comunità è viva e sana se riconquista politicamente il “senso metafisico” delle istituzioni. Il capitalismo reale, parafrasando la definizione di comunismo reale utilizzata per denigrare i paesi al di là del muro, nella sua verità storica è forza assimilatrice e intrinsecamente nichilista, nega la natura umana che si materializza nelle istituzioni. La propaganda del “capitalismo reale” struttura il consenso su temi a cui i popoli sono naturalmente sensibili come il lavoro per far deflagrare le istituzioni che dovrebbero formare alla cittadinanza critica. L’utile e il lavoro divengono grimaldelli per attaccare frontalmente le istituzioni formative, le quali se formano non producono, pertanto sono inutili e non preparano all’attività lavorativa:

La soluzione del problema drammatico della mancanza di lavoro (e soprattutto dei diritti del lavoro riconosciuti dalla nostra Costituzione) è compito di un esteso intervento statale nell’economia, da ricostituire secondo il dettato costituzionale e in nome dell’integrità della nazione, e non rientra nella possibilità della scuola6”.

Dinanzi ad un capitalismo incapace di autocorreggere i suoi postulati i resistenti devono palesare le contraddizioni del “capitalismo reale” e difendere le culture nazionali dalla globalizzazione del mercato. Difendere la comunità e la pratica del pubblico è possibile mediante la graduale processualità che deve condurre l’individuo a partecipare attivamente alla vita dello Stato, tale passaggio non può realizzarsi con “la furia del dileguare”, per cui la scuola è uno dei luoghi etici dove coltivare il concetto e la pratica comunitaria.

 

Ontologia in costruzione

Difendere la scuola pubblica significa schierarsi politicamente e filosoficamente per la comunità, e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni e la sussunzione. Massimo Bontempelli rileva che coloro che affermano ripetendo quanto ossessivamente si dichiara nei media di regime che il pubblico è inefficiente “approfittano” della cultura dell’astratto. In un contesto governato dalla violenza dei soli interessi privati, in cui il pubblico è additato quale causa del debito pubblico è inevitabile l’inefficienza del pubblico. In realtà si occulta con tale manovra la corruzione e l’alienazione che producono le attività private. Per rendere il reale razionale bisogna riportare l’astratto nella storia, diviene non rimandabile una cultura storica, non come vuota erudizione, ma come capacità filosofica di relazionare i dati e gli eventi per astrarre il concetto. In tal modo l’attività critica non può che condurre alla consapevolezza e alla prassi. La lingua e la storia umanizzano l’essere umano, sono veicolo di senso, sono ontologia in costruzione:

C’è poi un’altra area di scuole, prevalentemente insediate in zone socialmente più fortunate e costituite per lo più, ma non solo, da licei classici e scientifici, in cui gli allievi sono sufficientemente scolarizzati. In quest’area l’asse culturale dell’insegnamento dovrebbe essere di tipo storico, per almeno tre motivi. In primo luogo la formazione di una consapevolezza storica è oggi indispensabile per il semplice fatto che le menti sono state totalmente destoricizzate7.

La storia svela la verità dei processi di naturalizzazione del presente e dei paradigmi sociali, e specialmente ci offre la possibilità di raffrontare modelli sociali ed economici con cui capire il presente ed elaborare percorsi di emancipazione:

Per poter pensare al cambiamento non di questa o quella cosa particolare, ma di un cosmo sociale, occorre infatti che esso non sia naturalizzato dalla nostra mente, ma sia relativizzato sulla scala del tempo. La storia è la grande tastiera di comparazione attraverso la quale un cosmo sociale viene relativizzato dal confronto con altri cosmi sociali di altri tempi e di altri luoghi. Chi conosce la storia delle pòleis greche può comparare il dominio dell’economia sulla politica del nostro tempo con il dominio della politica sull’economia nel tempo greco, e quindi relativizzarlo e pensarlo di conseguenza modificabile8”.

In un momento oscuro della nostro tempo la lettura di autori che fortemente hanno pensato il nostro presente è attività non antiquaria ma plastica con la quale far lievitare la consapevolezza critica, la quale è impegno e responsabilità nel presente. Il concreto è lo storicizzarsi, per capire il reale storico contro «l’esclusione assoluta di ogni problema di realtà» come György Lukács sentenziava nell’Ontologia dell’essere sociale. Ad una tale nichilistica esclusione bisogna opporre la razionalità metafisica dell’impegno quotidiano (che può iniziare con la lettura di autori e filosofi autenticamente veritativi). Massimo Bontempelli ha tematizzato la razionalità irrazionale del nostro tempo e la tecnica che trionfa con la rimozione dei fini dall’orizzonte umano. La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini così da far volgere lo sguardo (naturalizzato) unicamente ai profitti. La tecnica diviene, in tal modo, “arte nichilistica del profitto”, e la scuola l’istituzione che forma all’automatismo ideologico. È in tale dramma della contemporaneità che Massimo Bontempelli ha pensato con le categorie hegelo-marxiane l’urgenza della metafisica:

«Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro [e ciò, si è visto, riveste una decisiva importanza al fine di definire la specifica fisionomia storicamente acquisita dallo stesso sviluppo tecnico], che è un altro mezzo (il denaro) senza alcun altro intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo».9

Nella scuola, come nell’intera società, agiscono forze che vorrebbero mercificarla e che, specialmente, vorrebbero deformare la natura umana. Il compito che ci spetta è quello di denunciare le contraddizioni e le manipolazioni mercificanti. Occorre dunque promuovere una educazione capace di rimettere al centro i fini e, dunque, la metafisica con la quale riportare la razionalità olistica e assiologica dove oggi regna la sola razionalità strumentale (in quanto tale irrazionale).

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Note

1 Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio1946– Pisa, 31 luglio 2011) è stato uno storico, filosofo, saggista e insegnante italiano, autore del saggio L’agonia della scuola italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2000.

2 Fabio Bentivoglio, Massimo Bontempelli, Storia di uno sfascio epocale, 2009 in Dossier Scuola, pag. 20

3 Ibidem,  pag. 20.

4 Ibidem,  pag. 23.

5 Ibidem,  pag. 25.

6 Ibidem,  pag. 28.

7 Ibidem,  pag. 30.

8 Ibidem,  pag. 31.

9 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, pag. 123



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Hans Urs von Balthasar (1905-1988) – La nostra parola iniziale si chiama bellezza. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica.

La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. […]

In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto più eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più.

[…] Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello.

 

Hans Urs von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. I, pagg. 10-12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Paul Ricoeur (1913-2005) – Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare della situazione di cura, e innanzitutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie a essere curata, ma ogni volta un essere unico del genere umano

«Mentre la scienza, secondo Aristotele, verte sul generale, la techne verte sul particolare e questo vale in special modo per la situazione nella quale l’arte medica interviene: la sofferenza umana.
[…] Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare della situazione di cura, e innanzitutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie a essere curata, ma ogni volta un essere unico del genere umano».

Paul RICOEUR, Il giudizio medico, a cura di Domenico Jervolino, tr. di Ilario Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2006, pp. pp. 29, 31, 35 (titolo originale: Les trois niveaux du jugement médical, «Esprit», 12 (1996), poi in Le Juste 2, Éd. Esprit, Paris 2001).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alice Bigli – Per Gianni Rodari la scintilla dell’Utopia è il passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.


Il grande nucleo tematico attraverso cui rileggere Rodari da adulti per poi riportarlo con pienezza e senza banalizzarlo ai bambini, è quello dell’utopia.

Questa è infatti una vera parola chiave per l’opera di Rodari che chi vorrà approfondirne la conoscenza critica troverà utilizzata da tutti i suoi più importanti studiosi.

Rodari vuole raccontare storie in cui realtà e fantasia siano sempre fuse in modo virtuoso. Nella sua opera, non solo non esiste contrapposizione tra questi due generi, ma l’una sembra indispensabile all’altra.

[…] Anche nei racconti più stravaganti e buffi, l’autore trasfigura spesso temi della realtà o stimola riflessioni su di essa. Contemporaneamente, come si vedrà ben esplicitato nella Grammatica della fantasia, nella ricerca di qualcosa che stimoli la fantasia e l’invenzione si parte sempre da oggetti, fatti, elementi comuni e del quotidiano.

Fantasia e osservazione del reale, critica al presente e sogno sul futuro si mescolano sempre.

Rodari propone ai bambini una spinta continua all’utopia, intesa come passaggio obbligato dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo.

Alice Bigli, La scintilla dell’utopia. Rileggere Gianni Rodari con i bambini, Edizioni San Paolo, Cinesello Balsamo 2020, p. 49-52.

Alice Bigli
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Monica Quirico – Resistenza, Anpi e intellettuali minuscoli: dieci spunti di riflessione

Molta gente
prende la parola
per non dire niente.

[…]

E c’è chi rifiuta la parola
agli altri (non a sé)
per timore che gli altri vedano
dentro la sua che cosa c’è.

Franco Antonicelli



Monica Quirico

Resistenza, Anpi e intellettuali (minuscoli):

dieci spunti di riflessione

 

I. Nemico pubblico numero unoII. Maiuscole e minuscoleIII. Solidarietà a senso unicoIV. Quale Resistenza?

V. Strategie complementari di manipolazione della storia  – VI. La resa degli intellettuali

VII. Acribia filologica a corrente alternata – VIII. Il capro espiatorio – IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia

X. La Resistenza come promessa

I. Nemico pubblico numero uno. Il linciaggio, personale oltre che politico, cui è sottoposto da settimane il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ha pochi precedenti nella storia repubblicana; che a compierlo siano per lo più giornalisti, intellettuali e politici “progressisti” (alcuni con trascorsi rivoluzionari), a cui la destra ben volentieri delega il lavoro sporco, rende la vicenda paradigmatica dell’imbarbarimento del sistema mediatico e dell’irreversibile declino di un intero ceto intellettuale.

II. Maiuscole e minuscole. La nostra Resistenza (ma anche quella francese, norvegese, jugoslava…) si fregia dell’iniziale maiuscola perché costituisce uno specifico fenomeno storico (la guerra partigiana contro l’occupazione nazifascista); allo stesso modo, si scrive Rinascimento per distinguere, nella storia della cultura, una determinata epoca da usi generici, talvolta impropri, del termine – come ad esempio il luminoso avvenire che Renzi preconizza per l’Arabia Saudita. Che le altre resistenze, a partire da quella ucraina, si scrivano con la minuscola non comporta una loro deminutio capitis, ma semplicemente il riconoscimento di diverse condizioni storiche.

III. Solidarietà a senso unico. Giornalisti e intellettuali con l’elmetto (indossato sulla poltrona) vedono nell’invio di armi all’Ucraina un discrimine morale: la solidarietà (dei veri democratici) contro l’inerzia (delle anime belle). Vano sarebbe cercare, nei loro interventi passati, tracce di un appoggio altrettanto incondizionato ad altre resistenze, che pure ci sono state, negli ultimi decenni: quella irachena (non riducibile ai sostenitori di Saddam Hussein), quella afghana (non identificabile coi soli talebani), per tacere di quella curda (scomoda, con il suo confederalismo democratico) e, ça va sans dire, quella palestinese. Tutti popoli che hanno subito l’aggressione di uno o più paesi stranieri (dagli Stati Uniti alla Turchia) e che però, anche quando non sono mancate espressioni di condanna dell’occupante, non sono stati considerati meritevoli, da parte del “Corriere” o di “Repubblica” o di “Micromega”, di un sostegno armato da parte dell’Occidente e dell’Italia. Forse perché gli aggressori erano gli Stati Uniti o qualche loro irrinunciabile (per quanto impresentabile) alleato. E meno che mai si è rispolverata la nostra Resistenza. Quanto ai civili siriani bombardati implacabilmente dalla Russia, hanno agonizzato nell’indifferenza generale. Certo non hanno chiesto di inviare armi a movimenti per cui pure simpatizzano (come quello curdo o palestinese) l’Anpi o altre organizzazioni pacifiste, ritenendo che in qualsiasi caso rispondere alla guerra con più guerra conduca solo alla catastrofe, come ha ben visto Emergency in questi anni. Piuttosto, hanno insistito per una soluzione diplomatica dei conflitti. Inascoltati, come oggi. Chi è di parte, dunque? Chi è “passivo”?

IV. Quale Resistenza? Polemizzando con Luigi Salvatorelli, che equiparava la lotta partigiana a quella dei caduti del Grappa e del Piave, Franco Antonicelli, fulgido intellettuale che per fare il suo dovere aveva assunto la presidenza del CLN Piemonte, puntualizzava: “Il definire meglio le due «resistenze» non significa opporle fra loro per farne risultare vincitrice una: significa fare una più perspicua opera di storia e trarne le naturali conseguenze. Nasce il sospetto che nell’equiparazione si voglia a bella posta togliere i caratteri distintivi, annullarli in una superiore ma arbitraria identità”. In alcuni paesi, tra cui il nostro, la Resistenza fu, certo, una lotta di liberazione nazionale (dall’invasore nazista), ma anche una guerra civile (contro il fascismo come regime e contro i fascisti che quel regime incarnavano) e, per una parte del movimento partigiano, una guerra di classe (contro il padronato agricolo e industriale, che aveva appoggiato Mussolini come “soluzione” della crisi sociale). Quest’ultima dimensione costituisce uno dei maggiori rimossi della nostra storia, non secondariamente per la scelta del PCI di oscurarla, con la svolta di Salerno, per accreditarsi come partito dell’unità nazionale. Della Resistenza invocata oggi come “patentino” della legittimità della resistenza ucraina si recupera ovviamente solo la componente di liberazione nazionale nella sua dimensione armata, con buona pace del contributo della resistenza non violenta.

V. Strategie complementari di manipolazione della storia. La memoria pubblica funziona ormai come Amazon: chiunque può cliccare sull’articolo (il personaggio o il fenomeno) che più gli conviene in quel momento, senza curarsi né della filiera, né della destinazione e dell’impatto. La strumentalizzazione della storia, una piaga non solo italiana, si presenta sotto due volti. Il più rozzo, che nel nostro paese produce effetti particolarmente mefitici, è quello dell’appiattimento di processi ed eventi sul paradigma vittimario: nell’indistinzione dei morti, si compie l’assoluzione dei vivi (i fascisti e gli esponenti del potere istituzionale ed economico), mentre il giudizio della Storia condanna all’infamia i “rossi”. Il volto più raffinato, per così dire, consiste nell’appropriazione di personaggi e processi “eccentrici”, non prima di averli depurati delle loro componenti disturbanti: così il socialdemocratico Olof Palme, odiato dalla destra in vita, da morto viene canonizzato, ma in quanto campione del liberalismo; analogamente, Antonio Gramsci diventa icona di italianità, ma per la sua indiscutibile (?) ispirazione liberale. Nel caso della Resistenza, si è passati con la massima disinvoltura dalla criminalizzazione degli ultimi decenni a una repentina (e verosimilmente assai transitoria) beatificazione. L’arroganza intellettuale e morale della classe dirigente ha passato ogni limite.

VI. La resa degli intellettuali. Scomparse le organizzazioni di massa (se non quelle di destra) che assicuravano loro un ruolo sociale, gli intellettuali “progressisti” (il maschile è intenzionale) si sono adeguati alle modalità comunicative di un sistema mediatico ibrido, in cui la logica binaria dei social avvelena anche i media tradizionali; non vi è posto per l’argomentare razionale e il confronto civile tanto cari ai liberaldemocratici, ma solo per la rissa. Ecco allora che, anziché contribuire al dibattito pubblico mettendo a fuoco le aporie del diritto internazionale (dalle ambiguità del principio di autodeterminazione dei popoli all’impotenza dell’Onu di fronte al militarismo), i nostri intellettuali democratici hanno sfoderato, in occasione dell’aggressione russa all’Ucraina, una logica binaria amico-nemico, alleato-traditore, degna delle peggiori fasi della Guerra fredda e per giunta incattivita da una comunicazione urlata e diretta alla delegittimazione dell’interlocutore. Pochi vi si sono sottratti; tra loro, Michele Serra, che, pur dichiarandosi a favore dell’invio di armi all’Ucraina, si è rifiutato di partecipare al derby fra le opposte tifoserie, confessando anzi il suo tormento interiore. Ma, appunto, si tratta di casi isolati. Lo “stile” del dibattito è stato dettato piuttosto da chi, come Paolo Flores d’Arcais, ha definito “oscena” la posizione di Pagliarulo, salvo poi invitarlo a un confronto pubblico (prima ti demolisco, poi parliamo, insomma).

VII. Acribia filologica a corrente alternata. Mediocri pennivendoli con l’elmetto si sono presi la briga (sottraendo tempo a cause più nobili) di andare a spulciare i post sul Donbass scritti da Pagliarulo a partire dal 2014, per dimostrarne in modo inequivocabile il “putinismo”. Dunque, commenti di sette-otto anni fa, su cui si può essere più o meno in accordo, sono usati per squalificare le dichiarazioni di oggi, e con esse la persona tout-court; un procedimento metodologicamente assai discutibile, considerando che Pagliarulo, e l’Anpi, hanno immediatamente e ripetutamente condannato l’aggressione russa. Ancora più strumentale appare poi una pubblicazione dei post di Pagliarulo completamente avulsa dalle contemporanee prese di posizione di organismi transnazionali al di sopra di ogni sospetto, che constatavano nella regione contesa gravi violazioni dei diritti umani da entrambe le parti: i nazionalisti filorussi come l’esercito e le formazioni paramilitari ucraine (si veda, tra gli altri, il rapporto del 2017 dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/Countries/UA/UAReport19th_EN.pdf). La stessa sorte è toccata del resto al comunicato di Pagliarulo sul massacro di Bucha. Il presidente dell’ANPI ha chiesto una commissione d’inchiesta indipendente per accertare le effettive responsabilità: esattamente quello che ha sollecitato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per la semplice ragione che è ciò che prevede il diritto internazionale. Ma questo particolare deve essere sembrato ininfluente, ai guerrafondai nostrani, che lo hanno per lo più taciuto.

VIII. Il capro espiatorio. Per gli avversari dell’Anpi e del movimento pacifista, Pagliarulo rappresenta un bersaglio perfetto: ha un passato comunista (una colpa da cui non ci si redime, in Italia, se non rincorrendo la destra fino ad autoliquidarsi) e non può contare sull’appoggio di organizzazioni di massa. Il PD, che di massa non è più, si pone anzi come uno dei suoi più accaniti detrattori. Attribuendo a Pagliarulo posizioni “vergognose”, si vende all’opinione pubblica una narrazione rovesciata, in cui a essere faziosi (perché “putiniani”) e inerti (perché complici) sono i pacifisti. In questo modo, si devia l’attenzione da chi è davvero compromesso con Putin così come da chi si preoccupa soltanto di vendere armi, non di perseguire la pace per via negoziale. Così, mentre i sinceri democratici chiedono le dimissioni di Pagliarulo, Salvini, i cui rapporti con Mosca sono noti a tutt@, se l’è cavata con la passeggera umiliazione patita in Polonia. Anche in questo caso sono stati rispolverati vecchi post, che hanno, sì, dato adito a sarcasmo, ma non alla richiesta di dimissioni della Lega dal governo. Mentre Pagliarulo viene additato al pubblico ludibrio come traditore della patria e della democrazia, chi sacrifica i diritti sociali delle classi popolari, imponendo, dopo due anni di pandemia, l’aumento delle spese militari e le ricadute energetiche di una guerra che in alcun modo tenta di arrestare, riceve il plauso di un apparato mediatico nelle mani di un oligopolio (i cui azionisti controllano anche buona parte dell’industria bellica: si pensi a Gedi/Exor). Infine, mentre si infierisce su Pagliarulo, nessuno chiede lo scioglimento di Forza Nuova, che ha legami ideologici nonché militari con la Russia di Putin.

IX. L’Anpi, la Costituzione e la democrazia. Perché l’Anpi oggi è ancora, anzi, più che mai, necessaria? Dovrebbe bastare un semplice dato, per chiudere la questione: l’Associazione dei partigiani conta 120.000 iscritti; Fratelli d’Italia 130.000. In un paese in cui, stando ai sondaggi, il 40% dell’elettorato voterebbe per due partiti di estrema destra, l’Anpi, con tutti i limiti che può avere, è uno dei pochi presidi di democrazia rimasti. Ed è proprio per questo che la si vorrebbe liquidare, con argomenti pretestuosi, come la sua obsolescenza (come se non si fosse rinnovata, nelle finalità e nel corpo militante, già da diversi anni) o la sua “faziosità”: celebri pure il 25 aprile, ma non si impicci di politica (una logica introiettata, purtroppo, anche da non pochi dei suoi iscritti). Delegittimando l’Anpi, si vuole archiviare definitivamente l’antifascismo come DNA della cultura politica nazionale e, con esso, quella Costituzione che, nata dalla Resistenza, ne raccoglie la triplice eredità di lotta di liberazione, guerra antifascista e lotta di classe: un circolo virtuoso che risulta intollerabile, nell’epoca di irreggimentazione permanente che sempre più ci imprigiona.

X. La Resistenza come promessa. “Come non illudersi che il nuovo Stato italiano avrebbe preso atto di tutto quello che la lotta partigiana significava: la forza di un popolo quando gli comanda la coscienza morale; l’intuito giusto della salvezza e libertà nazionali; la distruzione dei vecchi sistemi statali a base militaristica; la possibilità di un’esperienza di autogoverno? Come non ritenere inevitabile che la Resistenza, che oggi osava affrontare armata il fascismo e lo sconfiggeva, avrebbe distrutto tutto quanto il fascismo aveva rappresentato nella storia italiana e non soltanto italiana: la boria nazionalistica, lo spirito di divisione dell’Europa e del mondo intero, l’ossessione imperialistica, il bruto attivismo, lo stato etico, il capitalismo cieco? La «liberazione» doveva diventare «tutta la libertà»”. In queste parole, pronunciate da Antonicelli nel 1949, sono scolpiti i fondamenti dell’antifascismo italiano, quello rinnovatore, nato ben prima dell’8 settembre 1943 e non esauritosi con il 25 aprile 1945; a noi, fuori e dentro l’Anpi, il compito di inverare la promessa di redenzione dal nazionalismo, dal militarismo e dall’ingiustizia che esso ha dischiuso.

Franco Antonicelli (1902-1974) – Molta gente prende la parola per non dire niente. E c’è chi rifiuta la parola agli altri (non a sé) per timore che gli altri vedano dentro la sua che cosa c’è.


Monica Quirico, Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022.

Partigiano, letterato, poeta, giornalista, editore, senatore: tutto questo è stato Franco Antonicelli, una figura di spicco del Novecento italiano. Consapevole della parabola discendente della memoria della Resistenza, dai primi anni del dopoguerra, e per tutta la sua vita, Antonicelli ha fatto dell’antifascismo non mera testimonianza, ma un impegno da rinnovare di continuo per la trasformazione della società, un compito cui si è dedicato con inesausta energia nell’attività politico-culturale – fino ad approdare alla battaglia nelle istituzioni come indipendente nelle liste del Pci. In questa prima biografia documentata – intellettuale e politica – Monica Quirico ci restituisce il ritratto di un uomo che, a distanza di quasi cinquant’anni dalla morte, continua a impressionare per la vastità di interessi e la perenne lotta per la libertà e la giustizia che portava avanti animato dal costante bisogno di fare il proprio dovere.


Alcuni libri di Monica Quirico

Collettivismo e totalitarismo. F. A. von Hayek e Michael Polanyi (1930-1950), Franco Angeli, 2004.

La differenza della fede. Singolarità e storicità della forma cristiana nella ricerca di Michel de Certeau, Effatà, 2005.

Il socialismo davanti alla realtà. Il modello svedese (1990-2006), Editori Riuniti Press, 2007.

L’ Unione culturale di Torino. Antifascismo, utopia e avanguardie nella città-laboratorio (1945-2005), Donzelli, 2010.

Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo, Rosenberg & Sellier, 2018.

Guardare, Cittadella 2020.

Franco Antonicelli. L’inquietudine della libertà, Castelvecchi, 2022

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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25 Aprile 2022 – Una nuova resistenza sotto la bandiera del bene e della verità.

Anna Magnani in una celebre sequenza di “Roma città aperta”, di Roberto Rossellini.
Salvatore Bravo

Una nuova Resistenza sotto la bandiera del bene e della verità

Esodo per una nuova cultura della Resistenza

Resistenza e riduzionismo

 

 

Il 25 Aprile è il giorno in cui la democrazia sociale afferma i propri valori sconfiggendo le forze oscure del nazifascismo. Nella liturgia annuale della ricorrenza però si tende da più parti ad occultare che il sistema capitalistico – già vigente in tutto il Novecento  (prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale) e oggi globalizzatosi –, non è così antitetico al nazifascismo come sovente ama dipingersi: il nazifascismo è parte sostanziale della ormai lunga storia del capitalismo.

 

La multinazionale capitalistica della IBM, al servizio di Mussolini e di Hitler

In un articolo pubblicato il 14-02-2001 su “il manifesto” si poteva leggere a proposito di un libro di Edwin Black (La IBM e l’Olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana, Rizzoli, Milano 2001):

«[…] uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dal libro di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è persino trasfigurato in una istituzione “morale”, fonte dei valori che contano […]. Sul versante della casa madre IBM il libro mette in luce l’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare […]. Le schede perforate della IBM grondano di sangue […]. I manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocifio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”. […] Thomas Watson [si vedano immagini cliccando qui], presidente della IBM, sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, e fu ricevuto dal Führer con tutti gli onori a Berlino nel 1937 [Si vedano le foto cliccando qui]. Ancora nel marzo del 1941 un manager IBM telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”. […] Dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 i rapporti con la filiale svizzera della IBM non si interruppero, e per questo tramite […] forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data».[1]

 

Mettere a nudo la realtà capitalistica del presente

La vittoria del 25 Aprile e le sue celebrazioni ritrovano il proprio autentico significato se davvero riescono ad individuare le forze che oggi operano (in vario modo) nel controllare, soggiogare, silenziare ogni istanza comunitaria alternativa: è questo l’unico modo per resistere e non lasciarsi avvolgere e stritolare dai tentacoli del capitale. Se ci si limita ad una monumentale celebrazione del passato, e specialmente, se la giornata del 25 Aprile è usata ideologicamente dalle attuali forze capitalistiche per autocelebrarsi, la ricorrenza è svuotata del suo significato etico e politico. Costoro dicono che il nemico è stato sconfitto nel passato e affermano che ora regna il miglior sistema sociale e politico possibile, che bisogna “solo gestire” l’ordinario costituito dai bombardamenti etici e dalla flessibilità (sfruttamento) sul lavoro in nome della libertà del capitale. Resistere significa, invece, far emergere “il nemico” della democrazia e della libertà.

 

L’inganno del riduzionismo

La contemporaneità ha nel riduzionismo e nel capitalismo (nella sua forma globale) i nemici da combattere. La bestia selvatica del mercato, come l’ebbe a definire Hegel, produce riduzionismi in campo culturale, in modo da congelare le coscienze individuali e comunitarie condannate a ipostatizzarsi.
Il feticismo dei mercati sta divorando le libertà mediante l’inganno del riduzionismo: si elimina ogni discorso sul bene e sulla verità per sfuggire allo sguardo critico e non svelare le dinamiche dei processi di accumulo e profitto.

 

Accogliere solo chi testimonia dialetticamente la verità

In tale clima infausto bisogna leggere e pensare autori che testimoniano dialetticamente la verità. Senza la ricerca veritativa il sistema capitale non si palesa nella sua miseria culturale, la quale si traduce in nichilismo e squallore antropologico. Il dialogo tra Carmelo Vigna e Luca Grechi dona uno sguardo critico e fuori dal coro accademico che consente di comprendere le dinamiche in atto. Si resiste al presente, se si introduce il parametro della qualità e del bene con cui giudicare e pensare la totalità.
Il riduzionismo è il velo di Maya con il quale il capitale neutralizza il pensiero dialettico e la prassi. I riduzionismi devono essere letti nella loro valenza storica e ideologica per poterli smascherare nella loro verità strutturale e ideologica:

«Vigna: […] Questo riduzionismo si associa ad altre forme di riduzionismo: naturalistico, psicologico ecc. L’epistemologia è, comunque, sul piano filosofico, la fonte (e la forma) maggiore di questi riduzionismi, specie se coltivata senza la consapevolezza ch’essa è solo riflessione su un frammento dell’esperienza, e non sul senso della esperienza nella sua totalità».[2]

 

Adattarsi passivamente oppure agire criticamente dall’interno?

Resistere significa scegliere. Gli uomini e le donne che hanno resistito al nemico nazifascista hanno scelto la libertà, non sono stati “idioti” nel significato greco del termine. Gli idioti erano coloro che si occupavano solo degli affari privati e non avevano nessun senso del pubblico.

Resistere implica avere il senso etico del pubblico che si costruisce attraverso lo sguardo olistico con il quale si giudica il valore qualitativo della totalità, in cui siamo implicati:

«Vigna: […] La massa può solo fare i conti col proprio “starci dentro” quotidiano, cioè dentro la vita quotidiana. E, in questo quotidiano, si può vivere sostanzialmente in due modi: adattandosi passivamente oppure agendo criticamente dall’interno».[3]

 

Resistenza e flessibilità

La mercificazione totale dell’essere umano e della vita è il vero nemico. Il male è tra di noi e con noi, ogni tentativo di occultarne la verità va combattuto e denunciato. Bisogna tenere la posizione, non cedere all’adattamento che in questo caso è già assimilazione. Le gioie e le promesse del grande tentatore, il capitalismo, si stanno rilevando nella loro effettualità: gli esseri umani con le loro relazioni sono merce di scambio. Il dialogo ha ceduto il posto al solo calcolo utilitario, per cui si è tutti in pericolo e minacciati dal valore di scambio e dai processi di alienazione che producono l’infelicità generale e le guerre nel privato, nel pubblico e tra gli Stati nazionali:

«Grecchi: […] Tutto, nel modo di produzione capitalistico, diventa inevitabilmente merce: non più solo il lavoro, la natura, la moneta (come sottolineava K. Polany), ma anche tutte le relazioni umane, e in un certo senso perfino le strutture della personalità, che il capitale tende a produrre appunto come merci, funzionalmente al proprio valore processo di valorizzazione complessiva».[4]

  

Resistenza significa cambiarne i processi produttivi

Il nucleo del problema resta la produzione. Resistenza significa cambiarne i processi produttivi. Nela produzione capitalistica gerarchizzata i soggetti imparano la normalità del dominio, assimilano e riportano nel loro privato la logica dello sfruttamento e della negazione dell’altro. La produzione forma soggettività passive pur nella loro aggressività competitiva.
Resistere, oggi, significa trasgredire gli inutili specialismi astratti per una critica argomentata al sistema capitale non scissa dalla prassi. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita è la violenza legalizzata col sistema capitalistico.
Bisogna spostare l’attenzione sul problema essenziale, il quale, non è la distribuzione, ma la produzione che si esplica con la gerarchizzazione e con la sussunzione. La produzione con la divisione tra dominatori e dominati addomestica ed insegna la passività. La genesi della passività è nella produzione la quale forma coscienze che ipostatizzano la gerarchizzazione produttiva con cui si nega l’attività politica. La produzione passivizzante vuole formare alla normalità della pratica del dominio. Resistere e sperare significa storicizzare i sistemi produttivi per emanciparli dalla normalità della violenza globale:

«Grecchi: […] Engels ha chiarito bene che la ridistribuzione della ricchezza dipende dalla forma (privatistica e sociale) della sua produzione, e oggi la forma produttiva è quella capitalistica privata dei gruppi transnazionali…».[5]

 

La fioritura della nostra umanità

Resistere significa coltivare nella lotta la speranza di una nuova fioritura nella vita e nella storia:

«Vigna: […] La fioritura della nostra umanità è sempre inizialmente un sogno, ed è un sogno che vuole (e che deve anche) farsi reale. Perciò è necessario coltivare cose come l’audacia e la speranza, fin da quando si è giovani».[6]

Il primo esodo per una nuova cultura della Resistenza è capire i significati delle nuove liturgie del sistema con il suo linguaggio falsamente libertario e orwelliano. La speranza è prassi critica e consapevolezza teorica del luogo-mondo in cui siamo. Bisogna trovare le ragioni per resistere e sperare, non vi è resistenza senza speranza. Gli adulti devono testimoniare non la flessibilità-adattamento al sistema capitale, ma la speranza critica in opposizione alla crematistica alienante e violenta. La speranza e la resistenza hanno la loro genealogia nella testimonianza critica a cui le nuove generazioni guardano per orientarsi in una realtà depressiva che li vuole perennemente flessibili e adattabili agli ordini del capitale.

 

Note

[1] Un test statistico chiamato Shoah

il manifesto 14/02/01

La Ibm e l’Olocausto Il ramo tedesco del gigante informatico Usa fornì a Hitler il know how dello sterminio. Un libro lo svela, cinque scampati chiedono i danni GUIDO AMBROSINO – BERLINO

Che la macchina di sterminio nazista si fosse avvalsa della tecnologia meccanografica della Ibm, il gigante americano dell’informatica, non è una novità.

In Germania se ne discusse già nel 1983, quando un inedito movimento di protesta riuscì a far saltare il censimento progettato dal governo federale. Incombeva allora lo spettro del “grande fratello” che tutto controlla, come nel romanzo 1984 di George Orwell. Le stesse “iniziative civiche” che si battevano contro le centrali nucleari e i missili atomici a medio raggio temevano un salto di qualità nella schedatura elettronica dei cittadini, già sperimentata in grande scala dalla polizia durante la caccia ai guerriglieri della Rote Armee Fraktion. La corte costituzionale finì col dare loro ragione, proclamando il diritto dei cittadini “all’autodeterminazione informatica”, cioè al controllo sui dati che li riguardano. I Länder tedeschi e lo stato federale dovettero istituire dei garanti per la tutela dei dati personali. Solo molti anni più tardi queste tematiche vennero riprese anche in Italia.

Uno degli argomenti che favorì in Germania il successo della protesta contro il censimento del 1983 fu proprio la scoperta che le premesse “informatiche” per lo sterminio degli ebrei erano state fornite dall’Ufficio statistico del Reich e dalla filiale tedesca della Ibm, la società Dehomag (Deutsche Hollerith Maschinen Gesellschaft), con i censimenti del 1933 e del 1939, i cui dati erano stati elaborati con il sistema delle schede perforate. Due storici della nuova sinistra, Karl Heinz Roth e Götz Aly, riversarono le loro ricerche nel libro Schedatura totale. Censimenti, controlli d’identità e selezione nel nazionalsocialismo (Berlino, 1984).

Un libro importante, che fece perdere l’innocenza alle tecniche di controllo statistico della popolazione. Ma le sue rivelazioni, più che sfociare in una denuncia delle responsabilità passate della casa madre americana, servirono a rafforzare un movimento per i diritti civili nella società contemporanea. Del resto la storiografia di sinistra aveva già tanto insistito sulla compromissione del capitale – anche di quello internazionale – nel nazismo, che il ruolo giocato allora dalla Ibm ne sembrava un corollario quasi scontato. Come che sia il libro di Roth e Aly è finito sulle bancarelle dell’antiquariato, senza fare né caldo né freddo ai manager della Ibm nella centrale di Armonk, vicino a New York.

Non andrà così col nuovo libro del pubblicista americano Edwin Black, La Ibm e l’Olocausto, pubblicato in contemporanea il 12 febbraio in otto paesi, con anticipazioni in esclusiva su settimanali e quotidiani. L’impatto è enorme, e non solo perché Black ha aggiunto molti nuovi dettagli alle ricerche di Roth e Aly, soprattutto sul versante americano della casa madre Ibm, e sull’uso delle schede perforate non solo nella preparazione a tavolino della Shoah, ma anche nella gestione logistica dei campi di concentramento, del lavoro coatto, della macchina militare.

Paradossalmente uno dei motivi che spiegano il putiferio scatenato dalla pubblicazione di Black è proprio la generalizzata amnesia postmoderna. Negli ultimi due decenni non solo si è rimossa la memoria dei crimini del capitale in nome del profitto: il capitalismo si è perfino trasfigurato in un’istituzione “morale”, fonte dei valori che contano, come innovazione e spirito d’impresa. Riscoprire dopo tanta apologia che le schede perforate della Ibm grondano sangue ha l’effetto di uno shock.

Ma è soprattutto l’esperienza organizzativa e giuridica accumulata negli ultimi anni in America dai sopravvissuti allo sterminio con le cause collettive di risarcimento a rendere esplosivo il libro di Edwin Black. Grazie alle class action la storiografia esce dagli scaffali delle biblioteche universitarie e piomba nelle aule dei tribunali. Ed ecco che il gigante Ibm trema: non tanto perché ferito nell’onore, ma perché minacciato nel portafoglio. Sono in gioco indennizzi per miliardi di dollari.

Sabato scorso cinque ebrei scampati ai Lager, due cecoslovacchi, un ucraino e due cittadini statunitensi hanno presentato una denuncia contro la Ibm accusandola di “complicità nell’Olocausto”, a nome dei circa centomila sopravvissuti. Il loro avvocato Michael Hausfeld vuole innanzitutto che i giudici costringano la Ibm a rendere accessibile tutta la documementazione conservata nei suoi archivi. Ma già adesso – sulla scorta dei libro di Edwin Black – ritiene di poter dimostrare che i manager americani sapevano benissimo che la loro tecnologia era usata nei campi di concentramento, che essa “agevolava l’oppressione e il genocidio”, “costituiva l’ossatura dell’infrastruttura nazista”.

Era stato Hermann Hollerith, un ingegnere americano di origine tedesca, a inventare le schede perforate che portano il suo nome, le antenate dei moderni computer. E grazie al possesso di questo brevetto la Ibm ha costruito le sue fortune. I dati, con delle punzonatrici, vengono tradotti in fori su delle schede di cartoncino. Le schede possono poi venire lette con degli aghi di metallo. Quando passano attraverso un buco gli aghi chiudono un circuito elettrico, che aziona dei contatori di scatti, in grado di tradurre le informazioni in serie numeriche.

I circuiti elettrici possono anche azionare delle macchine di smistamento delle schede, che depositano in un mucchietto separato quelle con i dati cercati. Per esempio le schede con i dati del censimento del 1933 prevedevano per gli ebrei un foro alla terza riga della 22esima colonna. La smistatrice ammucchiava una sull’altra le schede con questa informazione in un mucchietto a parte. Per passaggi successivi si poteva ricostruire quanti ebrei abitavano in un determinato quartiere o in una certa strada, o incrociare i loro dati anagrafici con le loro professioni. Negli anni ’40 lettori meccanografici più elaborati erano in grado di tradurre le schede in tabulati e liste di nomi.

Così all’interno della popolazione si potevano rapidamente individuare gruppi a seconda della caratteristica scelta: minorati fisici e mentali, asociali, comunisti, omosessuali. L’amministrazione dei Lager poteva smistare i prigionieri nella produzione a seconda della loro qualificazione professionale, oppure selezionarli per le camere a gas.

In Germania negli anni ’20 una società autonoma utilizzava, su licenza della Ibm, la tecnica Hollerith: la Dehomag di Willy Heidinger. Nel 1922, anno in cui la Germania fu funestata da una superinflazione, la Dehomag non fu in grado di pagare 100.000 dollari per l’uso del brevetto. Thomas Watson, presidente della Ibm, ne approfittò per inghiottirla. Offrì alla Dehomag la cancellazione del debito in cambio della cessione del 90% delle azioni. Da quel momento la fabbrica tedesca divenne a tutti gli effetti una filiale della Ibm, la più importante: il comparto tedesco realizzava quasi la metà del fatturato dell’intero gruppo.

L’ufficio statistico del Reich era uno dei migliori clienti. Watson, che sfoggiava sul suo pianoforte una foto di Mussolini con dedica autografa, e parlava di Hitler con “simpatia” e “ammirazione”, fu ricevuto con tutti gli onori dal Führer a Berlino nel 1937. Ancora nel marzo del 1941 un manager Ibm telegrafò soddisfatto a New York: “Il governo tedesco ha bisogno delle nostre macchine. I militari le usano per ogni possibile impiego”.

Solo dopo l’entrata in guerra dell’America nel 1941 la Dehomag fu posta dai nazisti sotto amministrazione controllata. Ma stranamente i rapporti con la filiale svizzera della Ibm non si interruppero, e per questo tramite, secondo Edwin Black, forniture americane arrivarono in Germania anche dopo quella data.

[2] Carmelo Vigna – Luca Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia 2011, pag. 18. [indicepresentazioneautoresintesi ]

[3] Ibidem, pag. 39.

[4] Ibidem, pag. 77.

[5] Ibidem, pag. 115.

[6] Ibidem, pag. 118.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Callimaco (305-240 a.C.) – Qualcuno mi ha detto della tua morte e ho pianto a ricordare. Ed ora tu, chi sa dove, sei cenere: ma hanno vita i tuoi usignoli, da cui persino Ade, che tutto rapisce, terrà lontane le sue cupe mani.

Ludovica Bargellini

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Cicerone (106-43 a.C.) – Se qualcuno salisse al cielo e contemplasse la forma dell’universo e lo splendore delle stelle, tale spettacolo non gli darebbe alcun piacere, mentre sarebbe fonte di grande gioia se avesse qualcuno a cui raccontarlo.


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Piergiorgio Bellocchio (1931-2022) – In ricordo di Piergiorgio Bellocchio. I suoi “semi di umanità” rappresentano oggi l’indispensabile educazione al “restare umani” (Franco Toscani).

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