«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica, che recide i sentieri tra il passato e il presente occultando il pensiero dei “divergenti”.
Rimettere in circolo le idee di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale, ma l’hanno vissuta: per esempio F. Saverio Merlino
La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione.
F.S. Merlino
Economisti organici
In un’epoca mediocre, in cui la mediocrazia ideologica è divenuta il fondamento del capitalismo nella sua fase distruttiva dell’essere umano e del suo ambiente, è necessario comprendere il nostro tempo storico per poter deviare dal realismo ideologico con cui i trombettieri del capitale dichiarano l’impossibilità di ogni alternativa. Il realismo ideologico deve appellarsi alla scienza neutra ed oggettiva organica al capitale: l’economia. In assenza di fondamento metafisico il capitalismo per giustificarsi deve appellarsi all’economia con un movimento di autofecondazione di se stesso che è stato ed è il suo trionfo, ma prepara anche il suo dissolvimento. L’autoreferenzialità del capitale lo rende totalitario, lo costituisce come il nuovo totalitarismo che con i suoi postulati impera e sussume. Le contraddizioni e le tragedie del capitale sono rimosse dagli atei devoti che officiano le loro sacre lezioni di economia. L’autoreferenzialità spinge le contraddizioni verso intensità sempre più estreme, gli stessi sudditi possono non concettualizzarle, ma le vivono quotidianamente. L’acuirsi delle ingiustizie sociali ed internazionali non potrà che favorire il passaggio dalla cupa rassegnazione alla formazione di un’opposizione politicamente organizzata e plurale. In questo contesto è possibile trarre energia plastica dagli autori che nel passato hanno denunciato la deriva ideologica del capitale con i suoi abili occultamenti. Il capitale ha lasciato cadere su di loro la mannaia del tempo, sono stati espunti dalla storia del pensiero e ostracizzati. L’opposizione prima a tale stato di cose è rimettere in circolo il pensiero fecondo e vero di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale, ma l’hanno vissuta. In un’epoca di mediocrità strutturale voluta le testimonianze di coloro che hanno deviato il percorso dal conformismo dimostra al nostro presente che l’opposizione radicale è sempre una potenzialità dell’umano che si può esplicare e rinnovare nel presente. Francesco Saverio Merlino[1] è stato anarchico e socialista libertario nei suoi scritti denuncia la verità prima del sistema ideologico del capitale: l’economia e gli economisti sono gli intellettuali organici al sistema per eccellenza. Gli economisti si fanno promotori di soluzioni alle contraddizioni del capitale con “ricette” che rispondono agli interessi dei capitalisti. Il lavoro è descritto come attività di produzione finalizzata al consumo, non risponde alla soddisfazione dei bisogni materiali e della persona, ma è attività meccanica disumanizzata. La disumanizzazione del lavoro si completa con la gerarchia padronale. I lavoratori sono corpi in attività che non pensano, devono obbedire alla mente che appartiene al padrone e ai suoi sgherri. La divisione ideologica delle funzioni di un essere umano è riprodotta nella gerarchia sociale per rendere indiscutibile e naturale la verticalizzazione dell’ordine sociale:
“Gli economisti hanno falsato i concetti del lavoro, della rimunerazione e della consumazione. Per essi lavoroè la servitù del proletario che presta l’opera sua, spesso vende la sua esistenza, per una mercede che procura a lui il necessario affinché egli procuri al capitalista e necessario e surperfluo. Per noi lavoro è ogni attività utile alla società e che apre l’adito, come tale, alla soddisfazione de’ bisogni[2]”.
In questa ricostruzione ideologica dell’ordine sociale gli economisti risolvono le crisi a cui periodicamente il capitalismo va incontro con proposte che soddisfano i padroni del capitale e dei mezzi di produzione: il taglio dei salari dei lavoratori. Il potere resta indiscusso e indiscutibile e, allora, come oggi, la crisi è pagata dai lavoratori:
“Gli economisti dal canto loro non se ne stanno con le mani alla cintola: ma studiano, indagano e dànno responsi. La crisi è l’effetto della concorrenza straniera: no, dell’eccesso di produzione: neppur di questo, ma dell’elevatezza de’ salari. Sicuro, se gli operai del paese non fossero così ingordi da pretendere una paga superiore a quella de’ coolies cinesi e degli schiavi africani, quale capitalista al mondo penserebbe di sospendere la produzione? Il capitalista — gli economisti proclamano ad alta voce — è ben nel suo dritto di non voler sapere di produzione, se egli non tocca il suo ordinario profitto: spetta all’operaio a metter senno e contentarsi, per paura di peggio, di lavorare a stomaco digiuno, come se si dovesse prendere la santa comunione[3]”.
La metafora dello Stato padronale
Francesco Saverio Merlino usa una breve metafora per smascherare la favola dello Stato super partes. Lo Stato è parte in causa nella logica del dominio e della sussunzione, è schierato con i più forti, perché è l’agile strumento istituzionale con cui i più forti dominano mascherandosi e facendo appello ad una uguaglianza giuridica e quindi solo formale. Lo Stato nell’immaginario letterario e politico di Severino è uno scimmione, non è umano, assomiglia all’essere umano, ma in realtà agisce bestialmente e secondo la legge della giungla: approfitta e divora la fatica dei più deboli. Li turlupina al punto che l’unico modo che i sussunti hanno per difendere ciò che hanno guadagnato è disertare dalla giustizia del scimmione:
“C’erano due gatti, che convennero di uscire a foraggiare insieme e di dividersi la preda in parti uguali. Presero ciascuno un pezzo di formaggio; ma il pezzo d’uno era più grosso di quello dell’altro. Si recarono dallo Scimione, che era giudice; il quale per eguagliare le parti, cominciò a morsicare prima il pezzo più grosso, che presto divenne più piccino, poi l’altro, poi di nuovo il primo. I gatti videro la mala parata, s’adocchiarono e, raccolto quel che restava, andarono a goderselo in pace. I due gatti sono gli operai manuali, intellettuali ed altrimenti distinti d’oggi. I due pezzi di formaggio sono i prodotti del loro lavoro associato, co’ quali devono soddisfare i loro bisogni. — Lo Scimione è il Governo con quel che segue. La morale della favola tiratela voi[4]”.
Per poter resistere e trasformare in prassi la consapevolezza che i sudditi hanno appreso dalla realtà storica è necessario ricongiungere ciò che il capitale ha separato: la natura umana. Senza rifondazione metafisica il capitale non può essere abbattuto. Se la natura umana è una, il capitale per ipostatizzarsi interviene per dividerla e immettere fratture, in tal modo nella lotta che pervade ogni strato sociale e ogni relazione umana si disperde la possibilità del sovvertimento di un ordine innaturale che nega la comune natura umana:
“Anche qui lo scienziato ed il manovale sono eguali: ambedue vivono ad un dipresso la stessa vita. La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione[5]”.
Associazionismo e natura umana
La soluzione è l’associazionismo con cui l’essere umano si riappropria della sua natura comunitaria ed esce dalle relazioni di dominio e violenza. L’alienazione non è eterna, ma essa può essere trascesa con un movimento storico che abbia la chiarezza dell’obiettivo finale: l’economia per l’essere umano e non contro gli umani:
“L’uomo, che lavora per sé, produce quello che gli bisogna e consuma quello che produce. Egli trova la misura al suo lavoro nei suoi bisogni, e trova la misura de’ suoi bisogni nella sua capacità e forza di lavorare. Egli non sacrifica la sua salute in un lavoro eccessivo, né trascura per ingordigia di ricchezze la coltura della sua mente. Solo costretto per fame, l’uomo lavora eccessivamente a prezzo della vita, per soddisfare non i suoi, ma gli altrui bisogni[6]”.
Associazionismo e pieno possesso dei mezzi di produzione ribaltano l’innaturale ordine del capitale. La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica che, per eternizzarsi, cerca di occupare lo spazio e il tempo di ogni essere umano occultando la sua violenza.
Per ricominciare a pensare in modo libero può essere proficuo riallacciare i sentieri interrotti tra il passato e il presente che il capitale ha “ideologicamente” reciso.
Salvatore Bravo
[1]Francesco Saverio Merlino (Napoli, 15 settembre 1856– Roma, 30 giugno 1930)
[2] Francesco Saverio Merlino, Manualetto di scienza economica, Vasai editore, Firenze, 1888, pag. 10.
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Il potere ha calato la maschera e mostrato il suo volto, che sia il ghigno da pescecane del Primo Ministro, o il faccione curiale e mellifluo del titolare del MIUR. Fattezze che si combinano l’un l’altra alla perfezione e che campeggiano al centro delle fotografie che li ritraggono senza mascherina in mezzo a classi ed insegnanti naturalmente plaudenti, naturalmente imbavagliati.
Immagini che ci consegnano, con irrefutabile evidenza, lo stato delle cose, l’abissale differenza fra noi e loro, il nostro statuto di sudditi contenti di esserlo. Non solo: esse sottolineano, a conclusione di un anno scolastico contrassegnato da pesanti, incostituzionali ed inedite discriminazioni nei confronti di alunni e personale non vaccinato, che la scuola è il terreno di elezione per la fabbrica dell’obbedienza, il terminale di un’articolata catena di comando, l’humus più fertile per il condizionamento delle condotte, con buona pace per chi ha pensato, come chi scrive, che essa possa e debba trasformarsi in luogo di messa in discussione dell’esistente, in virtù della centralità che vi dovrebbero occupare le sovversive arti dell’argomentare razionalmente e del conoscere criticamente. Ad essere messa in discussione, invece, è la scuola come luogo di formazione alla libertà intellettuale e civile e all’eguaglianza, se non altro formale, dei cittadini, categoria storica, politica e giuridica della quale, d’altra parte, le misure di contrasto alla pandemia hanno accelerato il dissolvimento, a vantaggio di una cittadinanza condizionata, autorizzata e a scadenza.
Le mascherine, il cui valore simbolico è stato non a caso rimarcato da diversi esponenti governativi di fronte alle numerose perplessità espresse in merito alla loro effettiva efficacia e sicurezza da parte di tanti medici e scienziati, investono un aspetto fondamentale della nostra relazione con il mondo che è quello del nostro rapporto con l’Altro, a partire dal volto che incontrandone un altro sprigiona domande che sollecitano risposte.
Il legame tra alterità e volto è, come è noto, al centro della riflessione filosofica di Emmanuel Lévinas che in Totalità e infinito identifica il volto con il modo in cui si presenta l’Altro. Questo volto non è la somma di ciò che lo caratterizza, non si riduce a pura anatomia, tanto meno a maschera; la sua vera natura risiede piuttosto nella domanda che mi rivolge che è al contempo richiesta di aiuto e minaccia, non solo implica la relazione, è relazione. Nell’epifania del volto dell’Altro si scopre che il mondo è proprio nella misura in cui si può condividerlo con l’Altro.
Il volto, che è condizione primaria di riconoscimento dell’Altro e dunque di sé, apertura verso la comunicazione e l’assunzione di responsabilità che essa comporta, si espone a rischi, come tutto ciò che va oltre la mera conservazione di se stesso, che esce dalla autoreferenzialità.
Ora, è questo volto che la mascherina sottrae allo sguardo dell’Altro e rinserra in un universo solitario dominato dalla paura, dalla diffidenza, dall’istinto di autoconservazione spacciato per patto di reciproca sicurezza. Alla mirabile e sorprendente diversità dei volti che incontrandosi fanno esperienza dell’Identico e del Diverso, si oppone l’uniformità dei volti mutilati. Unica differenza ammessa – d’altronde, al consumatore la libertà di scelta in qualche modo va sempre garantita – quella del colore della mascherina.
Non è casuale che il suo uso, limitato per il momento, per benevola concessione dei governanti, a determinati contesti sia invece rimasto obbligatorio a scuola, a dispetto del gran caldo del mese di maggio e della mancata installazione dei sanificatori d’aria. (Quanto ai condizionatori, essendo tutti gli studenti e i docenti schierati per la pace, non è nemmeno il caso di parlarne …).
Le nuove generazioni, infatti, non solo vanno educate al conformismo e alla sudditanza, pure con massicce dosi di pedagogia della paura, la quale occhieggia dietro la mordacchia messa sul viso, ma rappresentano anche la carne viva di una vera rottura antropologica. Esse sono deputate a realizzare appieno la medicalizzazione dell’esistenza (spendibile, all’occorrenza, come formidabile ricatto di fronte ad eventuali conflitti politici e sociali) e la trasformazione dell’Altro da fondamento vitale e crocevia di senso a incubatore e diffusore di virus, incarnazione post-moderna dell’homo homini lupus chegià ha corsoringhiante le inospitali praterie neoliberiste, sbranando vincoli comunitari, solidarietà di classe, legami affettivi.
Nell’universo indistinto delle mascherine, dove la sola differenza ammessa è quella della United Colors alla Benetton, c’è però qualcuno più uguale degli altri che il proprio volto lo può esibire, anche se farebbe molto meglio a nasconderlo.
I sovrani francesi nel Medioevo erano ritenuti depositari di sovrannaturali poteri taumaturgici attraverso l’imposizione delle mani, ciò che richiedeva, perlomeno, uno sporadico contatto fisico con i sudditi; i nostri regnanti, invece, danno l’impressione di essere in possesso di una miracolosa immunità, non tanto rispetto al virus con cui hanno continuato a bombardarci per due lunghi anni, ma alla decenza, o meglio a quella che George Orwell chiamava common decency che non è semplicemente rispetto del decoro.
Infatti, la maschera arrogante e predatrice del potere e la sua controfigura compassata e sermoneggiante del munus conoscono solo l’esenzione dal vincolo e dalla responsabilità, non certo la disponibilità al dono che istituisce reti di reciprocità, uno scambio paritario faccia a faccia.
Fernanda Mazzoli
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.
Che vuol dire “compassione”? Vuol dire, in generale, avere un cuore che prova pietà per chi è in difficoltà, per chi dolora, per chi è emarginato, ferito dalla vita e quindi bisognoso di aiuto.
Ma perché “aver compassione” è cosa buona? Si può rispondere che lo è, perché l’ha detto il Cristo. Ma questa risposta, propria dell’uomo di fede cristiana, non è, certo, diversa da quella di fede ebraica, tratta dal Vecchio Testamento. Inutile qui ricordare quante volte lì tutto questo ricorra. E bisogna subito aggiungere che anche altre religioni invitano alla compassione. Lo fa il buddismo, per esempio. Pure la fede musulmana continuamente appella Dio come il compassionevole e prescrive la compassione per i poveri e i deboli. Il confucianesimo non è da meno. Persino le religioni antiche esortavano alla compassione, a modo loro: avevano ad es. il culto dell’ospitalità, che è poi compassione per lo straniero. Come mai questo convergere sulla compassione, mentre la storia umana è spesso senza compassione, ossia è crudele – a volte specialmente con gli indifesi?
La compassione in molti casi è qualcosa di spontaneo. Ma stranamente appare anche come qualcosa di spontaneo l’opposto della compassione, cioè poi l’odio nelle sue molte forme. Già questo cenno all’odio, come opposto della compassione, fa capire che la compassione è in realtà uno dei nomi dell’essere “per altri”, anzi che essere “contro gli altri”. E in effetti, l’essere “per altri” è prescritto non solo dal cristianesimo, ma anche dalle altre religioni. Almeno da quelle che ho prima evocato. Ebbene, in che si radica questo “amore” per gli altri? Rispondo: anzitutto in una inconscia percezione del nostro aver bisogno degli altri. Noi istintivamente amiamo gli altri, prima di tutto perché “sentiamo” che senza gli altri non potremmo vivere. Questo è evidente nei bambini, che hanno, appunto, bisogno dei genitori, questo è altrettanto evidente nella vita adulta, quando si ha bisogno di far coppia e si ha pure bisogno degli amici e di tutti quelli che ci rendono la vita più vivibile. Questo è evidente nell’ultima parte della nostra esistenza, quando l’impotenza o le malattie della vecchiaia ci fanno bisognosi di cure. Gli altri sono – in qualche modo – il nostro “bene”, ossia l’oggetto che nutre il nostro desiderio di vita.
Certo, non è solo questo desiderio a spingerci verso gli altri. C’è pure una relazione più nobile, che, a un certo punto e a certe condizioni, si fa avanti, ossia l’apprezzamento e quindi l’amore per gli altri “disinteressato”: voglio bene all’altro indipendentemente dall’utilità che egli può procurarmi. Voglio il “suo” bene e non il “mio”. In questo caso, rovesciando il precedente dinamismo, sono io che mi rendo in qualche modo un bene per altri. E anche questo movimento vanta una certa sua spontaneità, specialmente nel rapporto umano maturo. Ma è da aggiungere che questo modo di essere “per altri” (cioè “disinteressato”) sorge solitamente durante o dopo l’avvertimento che l’altro mi vuole bene, cioè che si offre come un “bene” per me.
Ora, la compassione sembra proprio questo tipo di essere “per altri” in cui non si è “per altri” in quanto si ha bisogno d’altri, ma si è “per altri” in quanto ad altri ci si offre come il loro bene o come un aiuto. Questo salta subito all’occhio. E’ meno evidente però un elemento aggiuntivo – di particolare importanza – che fa essere veramentecompassionevoli e che ora va sottolineato. E l’elemento aggiuntivo è questo: nella vera compassione, la compassione non è frutto della percezione mia di una qualche elezione da parte dell’altro. In altri termini, l’altro, come oggetto di compassione non è uno che mi ha previamente “scelto”; è, piuttosto, uno di cui molto spesso non so nulla e soprattutto è uno che non è neppure in grado di offrirmisi come un “bene per me”. Insomma, è uno che non mi ha mai dato niente e che non ha niente da darmi.
Diciamolo in altro modo. Noi, quando siamo veramente compassionevoli, ci offriamo come aiuto e sostegno ad altri senza attenderci o esigere alcun ricambio: né un ricambio a seguire, né un ricambio anticipatorio (come a volte accade quando si implora pietà e poi la si ottiene). La vera compassione prescinde da una qualsiasi condizione di reciprocità. Semmai, dà inizio alla reciprocità. Perciò si può dire che la compassione èl’accadere della purezza del dono di sé ad altri, ancor prima che altri chieda. Credo sia questo il motivo per cui la compassione viene, più o meno spontaneamente, associata al divino. Solo Dio, infatti, può essere sempre così. Ne viene che, quando noi lo siamo, diventiamo in qualche modo simili a Lui.
Carmelo Vigna,Didascalie filosofiche, Orthotes, Nocera Inferiore, 2022, pp. 21-23.
Tra i libri
di
Carmelo Vigna
Prima le copertine in galleria, poi ogni singolo titolo con le copertine in sequenza cronologia.
La dialettica gentiliana, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1964, fasc. III, pp. 362-392.
Religione e filosofia nel pensiero di Giovanni Gentile, in “Giornale critico della filosofia italiana, fasc. II, pp. 260-281, 1967.
Ragione e religione, CELUC, 1971
Filosofia e Marxismo, CELUC, 1974
Gentile interprete di Marx, in AA.VV., Enciclopedia 76-77. Il pensiero di Giovanni Gentile, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, pp. 885-899, 1977
Le origini del marxismo teorico in Italia. Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia, Città Nuova, 1977
Antonio Gramsci. Il pensiero teorico e politico. La “questione leninista”, con V. Melchiorre e G. De Rosa, Città Nuova, 1979
La ragione e la dialettica. Studi su Marx e Della Volpe, Marsilio, 1980
Teorie della felicità II, con D. Goldoni, I. Sciuto, P. Vidali, Aldo Francisci Editore, 1986
La qualità dell’uomo. Filosofi e psicologi a confronto, on G. Trentini, Franco A,geli, 1988
Invito al pensiero di Aristotele, Mursia, 1992
Dio e la ragione. Anselmo d’Aosta, l’argomento ontologico e la filosofia, Marietti, 1993
L’etica e il suo altro, Franco Angeli, 1994
Sostanza e relazione. Una aporetica della persona, in L’idea di persona, a cura di V. Melchiorre, Vita e pensiero, 1996
Strutture del sapere filosofico, con E. Berti, A. Masullo, L. Ruggiu, E. Severino, Il Cardo, 1997
La libertà del bene, Vita e pensiero, 1998
La modernità ha perduto, lungo la sua parabola, la percezione profonda del legame originario tra la libertà e il bene. Eppure, solo questo legame è in grado di allontanare dalla storia dei singoli e dei popoli i mostri partoriti dall’arbitrio brutale della forza. Sappiamo che la forza è brutale quando è cieca, ossia quando è priva di uno scopo e di uno scopo giusto, quando non ha nulla in vista che non sia il ripiegamento su se medesima, in una sorta di delirio di onnipotenza, onnipotenza che sembra risiedere nella facoltà di oscillare infinitamente tra il bene e il male, come se in questo consistesse un reale dominio e del bene e del male. Ma ciò produce piuttosto il deserto della rescissione dei legami con le cose buone della vita. Per nostra fortuna, oltre alla libertà di compiere il bene o il male, v’è la libertà di compiere il bene anziché il male, cioè la libertà del bene. Una libertà da riscoprire. I saggi del presente volume tracciano una mappa essenziale della parabola di questa libertà. Antichi, medievali e moderni sono stati interrogati a fondo, così da offrire al dibattito contemporaneo e al lettore attento i riferimenti storici e teorici irrinunciabili per porre in modo nuovo la questione. A capo della raccolta appare, e per la prima volta, un saggio su “La libertà e il male” di Paul Ricoeur, una delle voci più autorevoli e più ascoltate della filosofia contemporanea.
La politica e la speranza, con Virgilio Melchiorre, dizioni Lavoro, 1999
L’enigma del desiderio, con L. Ancona e P.A. Sequesri, Edizioni San Paolo, 1999.
Non è difficile raccontare il desiderio. È difficile riconoscerne le radici e accettarne la compagnia; cercare di capire da dove viene e dove vuole farci arrivare. In una parola, accreditarlo come interlocutore autorevole e sensato della nostra vita. Sono molteplici le forme attraverso le quali esso insorge e s’afferma, assumendo i volti ambivalenti, spesso indecifrabili, di una forza salutare e inquietante, confidenziale e imprevedibile.
Essere giusti con l’altro, Rosenberg & Sellier, 2000
Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, 2000
Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, 2001
Sul trascendentale come intersoggettività originaria, in Le avventure del trascendentale, a cura di A. Rigobello, Rosenberg & Sellier, 2001
Etica trascendentale e intersoggettività, Vita e Pensiero, 2002
La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di di Virgilio Melchiorre, con F. Boturi, F. Totaro, Vita e Pensiero, 2002
Multiculturalismo e identità, con S. Zamagni, Vita e Pensiero, 2002
La vecchia Europa vive una nuova stagione, come epicentro amato e odiato di una profonda migrazione di popoli che convengono soprattutto dall’oriente e dal sud del mondo, in cerca di una vita migliore o semplicemente per sfuggire alla fame, al dolore e alla morte. In non pochi casi, anche per ritrovare una dignità di vita. Come è accaduto e continua ad accadere per la vita sociale (e politica) americana, anche per noi europei v’è il problema di stabilire il giusto rapporto fra la necessità di reperire un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità etnico-culturale. La letteratura sull’argomento oscilla tra due estremi, non facilmente componibili: da un lato, si cerca la soluzione per sottrazione, e si bada al reperimento di alcune costanti dell’umano che dovrebbero da tutti essere riconosciute per via della loro universalità; dall’altro lato si nega che un tale compito possa essere eseguito e si ricorre a una soluzione per addizione. Il molteplice culturale dovrebbe essere semplicemente registrato e tutte le differenze essere coltivate. La fragilità di entrambe le soluzioni, che pure contengono una loro verità, è diventata fin troppo evidente. Bisognava, dunque, volgere lo sguardo altrove. Bisognava dare indicazioni intorno a una universalità concreta degli umani, che onorasse tanto ciò che li accomuna quanto ciò che li fa differire
Etiche e politiche della post-modernità, Vita e Pensiero, 2003
Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, 2003
Affetti e legami, con F. Botturi, Vita e Pensiero, 2004
Il primo volume dell’Annuario di Etica è concepito come inedito luogo di incontro e di elaborazione teorica, come proposta e confronto sui grandi temi dell’etica, a partire dall’attualità dell’esperienza morale. Esso coltiva una linea che pone a confronto alcune grandi tesi, nella convinzione che è ancora possibile la determinazione della verità e del bene, a fronte di una situazione presente rassegnata ad una pratica indifferenza reciproca dei diversi saperi e credenze, incline alla privatezza della verità e del bene e alla retorica del frammento.
Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, con E. Bonan, Vita e Pensiero, 2004
Per nostra fortuna, da qualche parte le forme di alleanza tra gli umani risorgono incessantemente. Non può essere diversamente, perché sono la nostra prima radice. Risorgono tutte le volte che qualcuno invita vicini e lontani a condividere la verità e il bene. Allora giustizia, riconoscimento e responsabilità diventano parole d’ordine degne della nostra attenzione. Questo libro a più mani è un piccolo invito a esercitare questa attenzione essenziale….
La regola d’oro come etica universale, con S. Zanardo,
Vita e Pensiero, 2004
La Regola d’oro (“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” o, in positivo, “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”) merita oggi un’attenzione filosofica particolare, anche se si tratta di un’intuizione sapienziale, innanzi tutto, e non di un principio teorico, più o meno raffinato nella sua formulazione. L’intuizione sapienziale ha in questo caso il grande vantaggio di esprimersi genialmente intorno al rapporto giusto tra esseri umani. Non ad “un” rapporto giusto, ma proprio “al” rapporto giusto. Ciò significa che la Regola d’oro contiene virtualmente in sé tutte le forme di comando per altri, poiché essa dice della “qualità” della relazione tra noi indipendentemente dal gesto singolare che dovesse incarnarla.
Annuario di Etica, Di un altro genere, genere femminile, con P. Ricci Sindoni, vol. 5, Vita e Pensiero, 2008
L’attuale dibattito teorico del femminismo europeo e americano sembra ormai definitivamente assestato su posizioni antiessenzialiste e antinaturaliste, secondo cui la differenza sessuale – usualmente accettata nelle due forme di maschile e di femminile – va al contrario ricondotta alle sue configurazioni sociali e storiche e, dunque, raccolta dentro un’indistinta uniformità di genere. Il sesso non è più un elemento distintivo di una marcatura ontologica duale, ma un orientamento soggettivo segnato dalla libertà del singolo. La negazione dell’identità sessuale, insomma, posta al servizio di una ridefinizione ‘neutra’ della natura umana, eleva il ‘genere’ a nuovo paradigma culturale, ormai sempre di più accettato e promosso dalle politiche mondialiste dell’ONU e dell’UE. Questo volume, che si avvale dei contributi delle più acute pensatrici italiane, intende affrontare i nodi ancora irrisolti della questione femminile nelle sue declinazioni storiche, culturali e politiche, alla ricerca di un’antropologia duale, ontologicamente fondata ed eticamente produttiva, per raggiungere la trama intersoggettiva della differenza, dove equilibrare pathos e logos, esperienza emotiva ed esperienza cognitiva, passione e dovere, concretezza del vivere e universalità della condizione umana, complessità dei legami intersoggettivi e responsabilità morale.
Bontadini e la metafisica, Vita e Pensiero, 2008
Gustavo Bontadini (1903-1990) è uno dei grandi nomi della filosofia italiana del Novecento. Molti protagonisti dell’attuale dibattito filosofico sono stati alla sua Scuola. Basti citare – per tutti – il nome di Emanuele Severino. Questo libro è una sorta di corposo up-date sulla figura di Bontadini e, nel contempo, una coraggiosa messa alla prova della sua eredità speculativa.Qui si confrontano in modo appassionato ben tre generazioni di studiosi, in gran parte suoi allievi. Il pensiero bontadiniano è scrutato in profondità e anche discusso con grande e affettuosa libertà di spirito. A tema è soprattutto l’ontologia metafisica del Maestro e l’esplorazione storiografica preparatoria. Ma anche la sua formazione giovanile viene scandagliata con ricchezza di particolari. Perché Bontadini è uno di quei pensatori che vengono da lontano: è nato all’interno di una grande Scuola e ha fatto a sua volta Scuola come pochi altri in Italia e altrove.
Chi legge questo libro, poi, ha in mano anche uno spaccato della filosofia italiana del Novecento: non un resoconto di superficie, ma una indagine di struttura, simile a quella che Bontadini aveva tante volte coltivato in vita sua, per far vedere come la metafisica rappresenti non solo il luogo dell’antica verità, che i Greci per primi avvistarono, ma anche il luogo del riscatto dialettico dell’intera modernità. In funzione del tempo presente. La metafisica di Bontadini è un ‘discorso breve’. Quasi un punto speculativo. Ma su questo punto sta, come sul vertice di un cono rovesciato, il senso dell’essere di memoria parmenidea. L’essere di Parmenide nella sua purezza, cioè nella sua assoluta e sovrana libertà dal negativo, sta oltre l’orizzonte dell’unità dell’esperienza. Questo il guadagno della metafisica, che Bontadini rigorizzò con impareggiabile acume, dedicando al grande compito l’energia di una vita intera. Questo anche il suo lascito fondamentale. Il libro che il lettore ha tra mano intende onorarlo al meglio.
Interventi di: Carlo Arata, Aldo Bergamaschi, Enrico Berti, Lucio Cortella, Giulio Goggi, Luca Grion, Virgilio Melchiorre, Leonardo Messinese, Paolo Pagani, Mario Ruggenini, Dario Sacchi, Angelo Scola, Emanuele Severino, Enzo Sisti, Davide Spanio, Antonio Tessarin, Francesco Totaro, Fabrizio Turoldo, Carmelo Vigna.
Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male, con S. Zanardo, Vita e Pensiero, 2008
L’etica è una delle teorie più legate alla fluidità della vita umana, perché è mirata al governo dell’agire, che è sempre singolare; dunque determinato dalle coordinate dell’empiria (lo spazio e il tempo; cioè poi il molteplice e il divenire). Essa orienta in tal modo la vita. Ma, se deve seguire della vita le volute, deve pure, nel contempo, ritrarsene. Come ogni teoria. Una teoria, anzitutto e per lo più, risulta dalla comprensione dei fenomeni. L’etica deve coniugare il singolare con l’universale, cioè stare al singolare con uno sguardo universale, per rendere universale il singolare. L’etica, allora, non è una teoria come tutte le altre. Se comprende il singolare per orientarlo all’universale, deve stare in certo modo sempre alla frontiera, cioè deve sempre scrutare la realtà del nuovo che avanza, se vuol dargli la forma trascendentale dell’oggetto conveniente con il buon uso della libertà. La frontiera è una cifra simbolica piena di fascino, perché sembra alludere nel linguaggio comune alla possibilità di straordinarie avventure. Tace, però, quasi sempre intorno ai rischi che tutto questo porta con sé. Quando qualcosa viene a noi, non sempre è per noi. Anzi, non di rado è contro di noi, fino a minacciarci di morte. Per questo le frontiere sono state sempre, in realtà, vigilate. Essere alla frontiera è lo stesso che vigilare sulla frontiera. In faccia al nemico, perché il nemico non sorprenda. Essere alla frontiera è proteggere dal male e custodire il bene.
Metafisica e violenza, con P. Bettineschi, Vita e Pensiero, 2008
Che la metafisica sia violenta è diventata oramai una ‘vecchia storia’. Nondimeno essa circola sempre sotto nuove spoglie. Oggi la metafisica sembra accusata di violenza, soprattutto perché ostacolerebbe la percezione della ‘finitezza’. Come se si potesse determinare la ‘finitezza’, senza dare significato (fosse pure semplicemente negativo) anche a ciò che ad essa assolutamente si oppone, ossia all’infinità. Paradossalmente, è proprio la storia della metafisica a contenere nel proprio patrimonio teorico la messa a tema della determinazione del ‘finito’. Ogni buon metafisico sa, infatti, che la posizione di ciò che oltrepassa il finito implica necessariamente la posizione del finito come tale. Anzi, questa è per lui la maggiore ‘fatica del concetto’. La metafisica, in sé e per sé, non c’entra nulla con la violenza, perché è una realtà di un altro ordine. La metafisica è un teoria, la violenza è una pratica. E si possono usare le teorie più vere per le pratiche più aberranti. Provvede un essere umano, nella sua libertà, a far da tramite. La metafisica è solo il guadagno di questa fondamentale e semplice convinzione, che lo strato infinito dell’essere, che necessariamente si dà (Parmenide), trascende infinitamente il finito. Proprio questa convinzione può rendere ineseguibile la ‘cortocircuitazione’ della soggettività e del senso dell’Intero, che è la vera radice della umana violenza.
Giorgio La Pira. Un San Francesco nel Novecento, con E. Zambruno, AVE, 2008
Multiculturalismo e interculturalità. L’etica in questione, con E. Bonan, Vita e Pensiero, 2011
Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C’è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell’interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l’etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l’umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l’ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell’interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.
Sulla verità e sul bene, con L. Grecchi, Petite Plaisance, 2011
Con questo volume Luca Grecchi continua la serie meritoria dei suoi dialoghi con filosofi italiani, aggiungendo un nuovo numero ai precedenti colloqui con Umberto Galimberti e con chi scrive. Come i lettori noteranno, non si tratta di interviste, ma di vere e proprie discussioni a due voci, anche se l’iniziativa è in genere di Grecchi, che pone le domande e in tal modo sceglie di volta in volta gli argomenti su cui discutere.
Nel caso di questo dialogo con Carmelo Vigna, egregio rappresentante di una specie divenuta ormai rara, quella dei fautori della metafisica classica, la conversazione assume ancora di più che nei casi precedenti il carattere di una vera e propria discussione filosofica, genere anche questo divenuto – ahimè – alquanto raro. Vigna infatti non solo risponde alle domande di Grecchi, ma lo sollecita a sua volta a prendere posizione e poi lo critica, assumendo in tal modo lui stesso il ruolo che nelle discussioni dialettiche antiche era quello dell’interrogante, svolto ad esempio da Socrate nei dialoghi platonici. Si assiste quindi ad un coinvolgente scambio di ruoli, che ricorda appunto, per le sue modalità e i suoi contenuti, le pratiche dell’antica dialettica, ormai quasi completamente abbandonate dai filosofi di oggi.
Si delineano così due posizioni che si fronteggiano su di un piano di parità, anche se quella di Vigna presenta uno spessore teoretico maggiore per esperienza e maturità. Carmelo Vigna è infatti uno dei pochi rappresentanti rimasti della gloriosa scuola di Gustavo Bontadini, fedele al suo maestro nonostante la “secessione” determinata da Emanuele Severino e il conseguente esodo di filosofi dall’Università Cattolica di Milano all’Università di Venezia. Anche Vigna è docente a Venezia, ma tra i “veneziani”, pur riconoscendo il suo debito verso Severino, è ancora il più “bontadiniano”. Vigna tuttavia non è solo questo: è anche un filosofo teoretico, che ha approfondito e sviluppato la posizione di Bontadini soprattutto nel libro Il frammento e l’intero (Milano 2000), ed è un filosofo morale tra i più importanti in Italia, che dirige il Centro Interuniversitario di studi sull’etica ed è alla testa di una scuola fiorente per quantità e qualità di allievi e di iniziative.
Luca Grecchi è un giovane filosofo non accademico, quindi “autodidatta” nel senso migliore del termine, poiché si è formato da sé attraverso una serie impressionante di letture, è autore di una serie notevole di pubblicazioni ed è dotato di una passione senza uguali per la filosofia. Anche Grecchi è per la metafisica, ma per una metafisica “umanistica”, che identifica l’intero con la totalità sociale e che si ispira in una certa misura – oltre che a Platone ed Aristotele – a Marx, venendo in tal modo anch’egli a rappresentare una specie divenuta ormai rara, quella dei filosofi di ispirazione marxista che non hanno rinnegato Marx, nonostante da tempo egli non sia più di moda.
I temi scelti da Grecchi per la discussione sono numerosi e variati, perché vanno dalla filosofia antica (Platone, Aristotele, lo Stoicismo, il Neoplatonismo) alla filosofia moderna (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche) e a quella contemporanea (Weber, Heidegger, Arendt, Habermas, Rorty), dall’epistemologia al comunismo, al capitalismo (da lui ricondotto alla “crematistica”), al senso della vita, alla filosofia della storia, con incursioni nell’antico Oriente, e con un’attenzione sempre fissa – e questa è una delle cose che maggiormente apprezzo in lui – per gli antichi Greci. Egli è a volte giovanilmente “intemperante” nei suoi giudizi, spesso molto duri soprattutto verso i filosofi contemporanei, ma è anche a volte capace di intuizioni illuminanti, come a proposito della “svergognatezza” degli Stoici, dell’accostamento di Kant a Smith, del debito di Marx verso i Greci, della filosofia della storia nell’antichità.
Su tutti questi temi Vigna ha qualcosa di importante da dire, con giudizi in genere più equilibrati, ma poi vi aggiunge dal canto suo altri temi, altri problemi, come quello dell’importanza di Leibniz e Vico, quello dello sviluppo dell’idealismo gentiliano in Bontadini, quello della critica alla riduzione dell’intero, quello della differenza tra la metafisica di scuola milanese e la metafisica di scuola padovana, quello fondamentale del rapporto fra teoria e prassi, e non si risparmia a sua volta critiche a filosofi italiani contemporanei, come Colletti e Pera, o stranieri, come Levinas, e a tendenze politiche come il berlusconismo.
Ne risulta così una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa, divenuta invece oggi oggetto di scherno per sedicenti filosofi che non hanno più nulla da dire e, invece di incolpare se stessi, incolpano l’oggetto di cui dovrebbero parlare. Ovviamente avrei anch’io da dire alcune cose su alcuni dei temi affrontati da Grecchi e Vigna, ma non posso trasformare un dialogo a due voci in un dialogo a tre, avendo già fatto la mia parte in un volume precedente. Potrebbe essere interessante trovare un’occasione per discutere tutti insieme, magari con l’aggiunta di un’altra voce di ispirazione marxista, che potrebbe essere quella di Mario Vegetti, in alcuni passi citato da Grecchi. Se non altro, ci prenderemmo tutti insieme l’accusa di avere resuscitato il “catto-comunismo”. Scherzi a parte, mi auguro che discussioni come questa continuino, e ringrazio Luca Grecchi per il fatto di averle promosse.
Life and the Sacred, con R. Alvira, Olms, 2012
One of the concepts which deserves particular attention by philosophers of the 21th century is that of life and, more specifically, that of human life. Because life on Earth is limited, mankind has historically relied on religion for its promise of salvation and an afterlife.Yet, recently, people have been relying on alternative institutions, such as the state or market, for answers to their questions about the limited nature of human life. With the rise of dependence on such instituions comes the rise of new questions: are the state and market responsible for defining the meaning of life and for providing adequate answers to the suffering and death that afflict humankind? Can the state make use of technology and scientific knowledge in order to regulate population according to its objectives? Is there any ethical limit to the experimentation with the different phases of human life? Is it possible to preserve a sacral sphere for human life? This book provides extensive reflection and possible solutions to these perplexities.
La vita spettacolare. Questioni di etica, con Riccardo Fanciullacci, Orthotes, 2013
Pasolini, di fronte alle trasformazioni che il capitalismo neoliberista imprime alla forma di civiltà, non esita a parlare di “mutazione antropologica” e arriva a dire: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”. Queste “macchine” hanno solo un debole legame con gli esseri umani che ancora crediamo di essere e che diverse istituzioni, come quelle della democrazia, presuppongono che siamo: la vita spettacolare ci avvolge e ci seduce. I saggi di questo volume interrogano questa configurazione della vita con radicalità. Ma proprio per questo arrivano a riconoscere come essa non occupi e non possa occupare l’intero spazio dell’esistenza e come il desiderio, seppur plasmato da quei modelli, non vi si adegui mai del tutto: conserva in sé le tracce di una verità etica che attende l’invenzione di nuove forme di legame attraverso cui possa orientare una vita più giusta e più felice. Saggi di: Francesco Callegaro, Carlo Chiurco, Adriano Fabris, Riccardo Fanciullacci, Giacomo Ghidelli, Peppino Ortoleva, Antonio Petagine, Maddalena Pezzato, Teresa Scantamburlo, Giovanni Ventimiglia, Carmelo Vigna.
Etica del desiderio come etica del riconoscimento, Orthotes, 2015
L’Occidente – e non solo – è malato nel suo desiderio. Riusciamo a difenderci molto più di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘esterne’, che ci fanno ammalare nel corpo; riusciamo a difenderci molto meno di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘interne’, che sono cose di desiderio e che ci fanno ammalare nell’anima. Storditi dalla facile disponibilità di beni materiali, crediamo ingenuamente che anche i beni dello spirito siano subito a portata di mano. Ma la felicità, la gioia di vivere, la benevolenza, la sobrietà, l’ordine degli affetti, la solidità dei legami e cose simili non si possono comprare al supermercato. Sono, piuttosto, modi di incontrare gli altri e il mondo, cioè ‘disposizioni’ permanenti, frutto di scelte mirate e a lungo ripetute. Una volta queste disposizioni si chiamavano ‘virtù’ e l’insieme organico di queste virtù si chiamava saggezza’. La ricerca secondo verità intorno alle virtù e intorno alla saggezza è poi quella che, ancora oggi, si chiama ‘etica’. Un’etica del desiderio è l’oggetto fondamentale di questo libro. Che mira, quindi, a istruire il senso delle virtù e della saggezza.
Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Orthotes, 2015, 2 voll., 708 pp.
Ma è poi vero che l’ultima cifra del senso dell’essere è il frammento che siamo? No, è subito da rispondere; non è per nulla vero. Questo libro ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (cioè di dimostrare) l’impossibilità che il frammento che siamo, cioè poi il finito, sia l’ultima parola intorno al senso dell’essere; e ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (dimostrare) che ciò che finito non è, sta ontologicamente oltre il finito. Ne è il fondamento di senso e ne è il fondamento d’essere. In altri termini, il frammento che siamo implica necessariamente l’Intero o la totalità dell’essere, ma come altro da sé.
Etica dell’economia. Idee per una critica del riduzionismo economico, con A. Biasini, Orthotes, 2016
Sostanza e relazione. Indagini di struttura sull’umano che ci è comune. Ediz. integrale, Orthotes, 2016
L’umano che ci accomuna è da proteggere: questo è il compito fondamentale del nostro tempo, dopo le tragedie immani del secolo scorso e quelle che si annunciano già agli inizi di questo secolo. Qualsiasi forma di protezione è in ogni caso un che di pratico: è una forma della cura. Ogni cura, poi, e ogni protezione hanno una mira determinata. Una mira determinata è certo già la protezione dell’umanità che ci accomuna. Ma che cosa propriamente ci accomuna? Che cosa dell’umano storico dobbiamo tenere custodito senza tentennamenti e che cosa invece possiamo lasciar fluttuare nel tempo o anche dismettere? Non si può rispondere a queste domande senza tornare a interrogarsi – con rigore speculativo – sul senso della persona umana. Il senso di qualcosa è, in primo luogo, ciò che di qualcosa permane nel variare delle circostanze. E ciò che permane nel variare delle circostanze è quel che si usa da gran tempo indicare come l’universale. Nel nostro caso, come l’universale umano. Ebbene, l’universale umano è ciò su cui queste pagine indagano, senza indulgere alla chiacchiera filosofica, spesso oggi contrabbandata nelle vesti di un cattivante vestito prêt à porter.
Differenza di genere e differenza sessuale. Un problema di etica di frontiera, Orthotes, 2017
Nella cultura contemporanea, anche in quella più vulgata, differenza di genere e differenza sessuale tendono oramai a significare due “opzioni antropologiche” divaricate. La prima espressione allude sempre di più al differire come a una costruzione semplicemente culturale, la seconda invece al differire come a una condizione naturale (biologica) e nel contempo simbolica. La divaricazione è il risultato di una stagione complessa, e piuttosto recente, legata ai “Gender Studies” di matrice angloamericana. È soprattutto da questa matrice, infatti, che la differenza sessuale è stata messa radicalmente in questione: i ruoli del maschio e della femmina umani sarebbero degli stereotipi socialmente e politicamente accreditati per rendere stabile la sottomissione violenta delle donne agli uomini. E la “liquefazione” o “dissoluzione” della differenza sarebbe il rimedio più efficace per stroncare tutte le discriminazioni su quella differenza fondate. Ma le cose stanno proprio così?
Il dovere dell’ospitalità, Orthotes, 2018
L’ospitalità è dovuta a ogni essere umano che la richieda e che abita la faccia della terra. Non è, l’ospitalità, una sorta di opzione da buonismo ma, appunto, uno dei fondamentali doveri del nostro vivere insieme. Questo, del resto, si è sempre in molti modi pensato e praticato nei secoli in Occidente. E questo viene qui indagato, secondo molti lati, da una serie di contributi autorevoli. I quali rendono conto anche dei limiti inevitabili secondo cui l’ospitalità può essere offerta nella vita quotidiana. Limiti già codificati ? sul piano giuridico ? nella nostra Carta costituzionale. Ma tali limiti non possono essere invocati a giustificazione delle pulsioni xenofobe e razziste che serpeggiano nelle società industrializzate, pulsioni malamente mascherate spesso da ragioni di sicurezza o addirittura di supremazia bianca. Questo viene qui energicamente sottolineato. E questo viene pure qui denunciato attraverso una disamina severa di quel che veramente accade in Italia nella nostra (cosiddetta) attività di accoglienza a livello istituzionale.
Introduzione generale e logica. Corso di filosofia tomista, R. Verneaux autore, C. Vigna traduttore, Claudiana, 2019
Il lavoro di Roger Verneaux funge da volume introduttivo al «Corso di Filosofia Tomista» edito negli anni 60 dai professori dell’Institut Catholique di Parigi. Il volumetto si distingue per la chiarezza e la scioltezza del dettato, ma soprattutto per la sempre vigile attenzione alle domande della cultura filosofica contemporanea, discusse nelle pagine iniziali dell’opera. La parte preponderante è dedicata alla logica, che viene illustrata e spiegata in tutte le sue parti, dalla nozione di logica in generale, ai termini, la proposizione, l’argomentazione, il sillogismo, il sillogismo ipotetico e l’induzione, fino alla dimostrazione, i suoi intenti, i suoi elementi, i suoi principi.
Studi gentiliani, Orthotes, 2019
Giovanni Gentile, il maggior filosofo italiano del primo Novecento, è da dimenticare, come taluni vorrebbero? Per nulla, bisognerebbe rispondere. L’apparato categoriale da lui costruito genialmente, nonostante la sua (relativa) semplicità speculativa, è forse la maggiore leva di forza per intendere ancora il nostro tempo. Anche quello della Rete e dei “social network”, dove trionfa un contenuto sterminato che Gentile avrebbe sicuramente relegato nel ruolo di “pensiero pensato”. Il fatto è che Gentile, ostracizzato per i suoi legami con il fascismo, tutto sommato estrinseci, ci appare oggi, una volta smaltite le nebbiose e spesso ingiuste polemiche nel dopoguerra intorno alla sua eredità intellettuale, come il Maestro insuperato della grandezza del “pensiero pensante”. E anche come colui che offre ancora le ragioni più profonde per intendere appieno la natura inviolabile della nostra umana dignità. Questo libro, soprattutto dedicato alla logica e alla religione di Gentile, non è tuttavia un’apologia dell’attualismo; ché anzi l’attualismo sottopone ad una analisi serrata e senza sconti di sorta, per indicarne “ciò che è vivo e ciò che è morto”.
Studi marxiani, Orthotes, 2019.
Se si volesse racchiudere in una breve indicazione il risultato del lavoro di analisi riversato in questi “Studi marxiani”, non si andrebbe lontano dal vero se si dicesse che si è qui tentato di “spaiare” in Marx e nel marxismo italiano la cifra (economico-politica) del “plusvalore” dalla cifra (veritativo-speculativa) del “materialismo storico”. Perché la prima pare ancora molto utile per leggere il presente neocapitalistico, mentre la seconda pare non solo sbagliata, ma anche molto datata. E in effetti, si tratta di una cifra ottocentesca, che la storia filosofica e culturale del Novecento ha, di fatto e in molti modi, archiviato. Avere offerto argomenti per l’operazione di “spaiamento”, quando – negli anni settanta – tutti ne osannavano la saldatura è (forse e ancora) il merito di queste pagine. E del resto un’operazione siffatta, inevitabile su qualunque sapere “regionale” che si presenti con la pretesa di essere la forma del sapere assoluto dell’Intero del senso, resta sempre di utilità speculativa per chi ama la filosofia, perché invita a riflettere su certe mosse radicali che una partita teorica così alta pone necessariamente in campo.
Storia e verità. Medioevo e Novecento, Orthotes, 2020
I saggi di storia della filosofia raccolti in questo libro sono dedicati alla grande Scolastica medievale (parte prima) e al Novecento (parte seconda), specialmente italiano (parte terza e quarta). La ricostruzione storica non è stata dettata solo da naturali preoccupazioni narrative, ma anche da altrettanto naturali (benché spesso dagli storici della filosofia trascurate) preoccupazioni teoriche. Ad avviso dell’autore, infatti, non si può ripercorrere la storia del pensiero, quale che essa sia, senza presentarla a un lettore non solo curioso dei risultati della ricerca, ma anche curioso della solidità veritativa dei risultati della ricerca. Questo ci hanno insegnato i grandi Maestri di filosofia che si sono occupati anche di storia della filosofia (da Aristotele a Hegel, almeno). Questo è giusto non dimenticare e, nei limiti delle proprie forze, praticare. Ed è ciò che in questo libro si è cercato di tenere sempre a mente: storia e verità.
Studi aristotelici, Orthotes, 2020
Aristotele non è solo un insuperato Maestro di metodo. Egli insegna anche che la comune esperienza umana del mondo (ta physikà) chiede d’essere oltrepassata. Oltrepassata, se letta secondo un sapere stabile o incontrovertibile (episteme). È infatti questo sapere che costringe a porre uno strato dell’essere che è metà ta physikà. Tanto i libri aristotelici di Metafisica quanto quelli di Fisica convergono su questo stesso risultato, preparato da una lunga ricerca che ha l’Accademia di Platone come luogo privilegiato di formazione intellettuale. Purtroppo, episteme e metafisica sono anche le due grandi cifre aristoteliche che la letteratura critica del secolo scorso ha spesso sottovalutato o ignorato o ridotto a convinzioni giovanili del loro Autore. Queste cifre vengono invece qui riproposte nella loro centralità, sullo sfondo della dottrina dell’analogia dell’essere, geniale congedo di Aristotele dal platonismo.
Pensieri cristiani, Orthotes, 2021
“Questo libro raccoglie un gruppo di scritti da me dedicati a temi di “filosofia cristiana”. La filosofia in quanto tale non è cristiana. È opus rationis, semplicemente. E tuttavia, lo può in qualche modo diventare, quando aiuta la riflessione di un cristiano che vuole intendere, meglio che gli riesca, il senso della propria fede in Gesù di Nazareth come nel Figlio Eterno. Allora, l’apparato categoriale proprio del mestiere del filosofo si mette al servizio dei contenuti della Rivelazione, ma senza mai abdicare allo statuto che gli è proprio. Diventa, la filosofia, ancilla. D’accordo. Non però della teologia, ma della fides quae creditur. E così aiuta il credente cristiano a capire, ma aiuta pure o può aiutare chi al credente cristiano chiede conto della propria fede. Dalla teologia, perciò, in certo modo differisce, perché il sapere filosofico qui non è un utile strumento di facile sostituzione, a seconda delle mode culturali, ma una fonte veritativa, la cui formalità speculativa supera (lo dice Tommaso d’Aquino) quella della fede. Che offre, a sua volta e di suo, soccorso all’esistenza nostra, perché venga salvata. La filosofia fa luce. Ma non può salvare”.
Didascalie filosofiche, Orthotes, 2022
Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Questo volume offre la prima edizione integrale dei frammenti e delle testimonianze su Zenone di Elea, grande filosofo presocratico, allievo di Parmenide e padre della dialettica. La traduzione, con testo greco a fronte, e l’ampio commento consentono di ricostruire l’immagine dell’Eleate, celebre per i suoi argomenti contro il movimento e la molteplicità. Emerge la figura di un filosofo consapevole che l’esistenza è una continua tensione tra l’unità realizzata dalla ragione (logos) e la molteplicità degli eventi offerti dall’esperienza, i quali vanno affrontati nella loro problematicità e anche contraddittorietà. Egli opera un attacco possente e complessivo alla realtà fenomenica, insegnando all’Occidente a misurarsi con le aporie, tanto che i suoi paradossi sono ancora al centro della filosofia, della fisica e della matematica contemporanee.
Un lavoro di raccolta e selezione delle testimonianze e dei frammenti di Zenone di Elea appare attuale e necessario nel panorama degli studi intorno all’Eleate. Esistono infatti diverse edizioni e traduzioni delle testimonianze e dei frammenti di Zenone, ma si riscontrano differenze significative nella selezione e nel taglio delle varie testimonianze, nel loro smembramento o nel riassemblaggio così come nel numero delle testimonianze accolte.
Per ovvi motivi, l’edizione che risulta più incompleta è proprio quella “classica” di riferimento di Diels-Kranz (= DK: Diels H.-Kranz Von W., Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutsch von H. Diels 6 verbess. Auft. Herausg. Von W Kranz, Berlin 1951; traduzione italiana: G. Reale (a cura di), I Presocratici, Bompiani, Milano 2006). Questa edizione è integrata da Untersteiner con otto testi (Zenone. Testimonianze e frammenti, introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1963; ristampato in Eleati. Parmenide-Zenone-Melisso. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2011): sette testimonianze e un frammento; ancora più completa è poi l’edizione del Lee (H.D.P. Lee, Zello of Elea, A text with translation and notes, Cambridge University Press, Cambridge, 1936, rist. anast. 2014), che integra diciotto testi di Temistio e Filopono, ma accoglie solo testimonianze di contenuto teoretico. Differenze rispetto all’edizione di Untersteiner si riscontrano anche in Pasquinelli (A. Pasquinelli, I Presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi Editore, Torino 1958) e Albertelli (P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, a cura di P. Albertelli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014), che propongono un testo in sola traduzione italiana.
La sezione dedicata a Zenone nella raccolta di Kirk-Raven (The Presocratic Philosophers, Cambridge 1957) comprende una scelta delle testimonianze raccolte in DK, per un totale di ventuno testimonianze e tre frammenti che, però, nella numerazione, non vengono distinti dalle testimonianze. L’aggiornamento del lavoro (Kirk-Raven-Schofield, The Presocratic Philosophers, Cambridge 1983:) propone una nuova numerazione delle testimonianze ma, rispetto alla scelta dei brani, risulta confrontabile con la prima edizione. La raccolta proposta da Alberto Bernabé (Fragmentos presocráticos de Tales a Democrito, Introducción, traducción y notas de Alberto Bernabé, Alianza Editorial, Madrid 1998, 20102) comprende i soli frammenti e sei testimonianze; l’edizione dei Presocratici a cura di Gemelli Marciano (M. L. Gemelli Marciano, (Hrsg.), Bd. l., Griechisch-lateinisch-deutsch. Auswahl der Fragmente und Zeugnisse. Übersetzung und Erläuterungen. Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer: Xenophanes, Heraklit, Düsseldorf Artemis & Winkler 2007; Bd. 2. Griechisch-lateinisch-deusch. Auswahl der Fragmente und Zeugllisse, Übersetzung und Erläuterungen, Parmenides, Zenon,Empedokles, Düsseldorf, Altemis & Winkler 2009: Die Vorsokratiker: Bd. 3. Griechisch-lateinisch-deusch. Auswahl der Fragmente und Zeugllisse, Übersetzung und Erläuterungen, Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia. Die antiken Atomisten: Leukipp und Demokrit, Mannheim: Artemis & Winkler, 2010) nella sezione riguardante Zenone accoglie alcune testimonianze non presenti in DK, ma conta diciotto passi e non distingue tra testimonianze indirette e frammenti; anche D. W. Graham (The Texts of Early Greek Philosophy, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 2010) – che accoglie 30 testimonianze, alcune delle quali non presenti in DK – non opera la distinzione tra testimonianze e frammenti. Mansfeld-Primavesi (Die Vorsokratiker, Reclam, Stuttgart 2012) raccoglie trentatré testimonianze, accogliendo anche passi non presenti in DK e non distingue tra testimonianze e frammenti; la raccolta di Laks-Most (Early Greek philosophy, V, Loeb Classical Library, Cambridge MS 2016) è forse la più ricca tra le edizioni recenti: raccoglie le testimonianze organizzandole tematicamente e amplia molto rispetto al DK accogliendo anche passi che non compaiono in precedenti raccolte.
La presente edizione si pone l’obiettivo di offrire uno strumento il più possibile completo e che risulti di semplice fruizione. A questo fine, si è cercato di raccogliere tutte le testimonianze disponibili, anche quelle assenti dalle edizioni correnti, ma comunque presenti nel dibattito filosofico; l’intento della completezza spiega scelte “di rottura” come quella di accogliere anche una testimonianza generalmente attribuita a Parmenide (DK 28A28= t. 59), ma in cui è ravvisabile uno scambio di attribuzione tra maestro e discepolo e che risulta, in base al contenuto, attribuibile a Zenone. I testi sono stati tagliati a volte in modo più ampio di quanto sia stato fatto in altre edizioni, perché sia chiaro il contesto in cui si pone la testimonianza stessa: si è cercato di conservare, per quanto possibile, la consequenzialità e l’integrità dei testi pervenuti e, per questo, si è scelto di attribuire un numero a ogni testimonianza, seguendo una numerazione continua e organizzando la raccolta in varie sezioni tematiche, attraverso un sistema di titoli che ha l’obiettivo di rendere chiaro il percorso biografico e teorico che tracciano la chiusura di ogni sezione tematica la voce “riferimenti incrociati” riporta il riferimento ad altre testimonianze attinenti a quella sezione, ma che sono state collocate altrove per ragioni teoriche e/o di contenuto). Com’è facile intuire, questa scelta ha reso necessario svincolarsi dalla numerazione del DK, che è però sempre annotata accanto a quella nuova e, in alcuni casi, è affiancata anche dalla numerazione del Lee, per consentire un più immediato orientamento. Le corrispondenze con le edizioni maggiori sono poi riproposte in un’apposita tabella comparativa.
Attraverso una numerazione distinta e non consecutiva, si è mantenuta la distinzione tra le testimonianze indirette e quelle che, invece, contengono, per opinione comune degli studiosi, veri e propri frammenti di tradizione diretta. Si tratta, infatti, di un discrimine imprescindibile dal punto di vista filologico, anche se in alcuni casi il confine appare molto labile. Tuttavia, dato che i frammenti, dal punto di vista contenutistico, testimoniano alcuni argomenti zenoniani, si è scelto di proporli anche nelle sezioni tematiche delle testimonianze, numerandoli con un rimando, per fornire al lettore un commento completo e non frammentato.
Il testo è organizzato in due parti: nella prima sono raccolte tematicamente le testimonianze e i frammenti in traduzione con testo a fronte (corredati da note di carattere filologico e testuale o finalizzate a collocare i brani citati nel loro contesto storico e/o filosofico); per quanto riguarda le fonti arabe e alcuni testi in ebraico, si è preferito offrire il testo nella sola traduzione italiana. A ogni sezione tematica dei testi segue un commentario ragionato delle testimonianze stesse. Nella seconda parte si riattraversa con un approccio di sintesi l’analisi proposta nella prima con l’intento di cogliere e sottolineare i nodi teorici più rilevanti e tentare di ridisegnare la figura di Zenone di Elea.
Il libro è infine corredato da diversi indici (l’indice alfabetico dei nomi antichi e moderni; le tabelle di riferimento delle numerazioni attribuite ai testi dai vari editori) utili per la consultazione del testo stesso.
Zenone di Elea, «Frammenti e testimonianze». Prima edizione integrale a cura di Lucia Palpacelli, Morcelliana, Brescia 2022.
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Fedro: «Dove vuoi, o Socrate, che ci mettiamo a sedere per leggere?
Socrate : «Giriamo di qui e andiamo lungo l’Ilisso, poi, dove ci sembrerà un posto tranquillo, ci metteremo a sedere. […] Allora, fa’ da guida …».
Fedro: «Vedi quel platano altissimo? […] Là c’è ombra e un venticello giusto, e anche erba per metterci a sedere, o, se vogliamo, per distenderci».
Socrate: «[…] Bel luogo per fermarci! Questo platano è molto frondoso e alto; l’agnocasto1 è alto e la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è, rende il luogo profumatissimo. E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima, con acqua molto fresca, come si può sentire con il piede. […] E se vuoi altro ancora, senti come è gradevole e molto dolce il venticello del luogo. Un dolce mormorio estivo risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più piacevole di tutte è quest’erba che, disposta in dolce declivio, sembra cresciuta per uno che si distenda sopra, in modo da appoggiare perfettamente la testa. […] Ma ora che siamo giunti qui, intendo sdraiarmi; e tu vedi quale sia la posizione che ritieni più comoda per poter leggere, sceglila e poi leggi!».
Platone, Fedro, 228 d – 229 b; 230 b-e, trad. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, pp. 540-542.
1 L’agnocasto è un arbusto a foglia decidua che può raggiungere fino a tre metri. Mette le foglie a primavera inoltrata e fiorisce in piena estate con spighe di color viola scuro, molto profumati.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«Nella nostra vita frettolosa, assordante, sono maledettamente poche le ore in cui l’anima può diventare cosciente di sé stessa, in cui tace la vita dei sensi e quella dello spirito e l’anima sta senza veli davanti allo specchio dei ricordi e della coscienza». Hermann Hesse
Il canto degli alberi
«Gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi […]. Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto per sfuggire a una debolezza, ma come grandi uomini solitari […]. Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi».
Hermann Hesse, Il canto degli alberi, Guanda, 2008.
Risvolto di copertina
Un libro di poesie, prose e racconti di Hermann Hesse che hanno come tema unificante gli alberi, figure emblematiche della vita naturale. Faggi, castagni, peschi, betulle, tigli, querce e molti altri, nella magnificenza della fioritura o con i rami nodosi offerti alle brinate notturne, illuminati dal sole o al chiarore della luna: sono loro i protagonisti indiscussi di questa raccolta. Essi accompagnano lo scrittore, silenziosi e saggi, nel corso della sua vita, segnano momenti precisi, suscitano riflessioni e ricordi, vengono invocati come esseri viventi, come amici. Simbolo della continuità del ciclo vitale e di una necessaria sottomissione alle leggi della natura, gli alberi parlano a Hesse trovando in lui un interprete smagliante e appassionato.
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«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».
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