Herbert Marcuse (1898-1979) – Un filosofo può commettere molti sbagli, ma in Heidegger non si trattò di un errore, bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.

Herbert Marcuse - Martin Heidegger

Se si esamina in retrospettiva il contributo di Herbert Marcuse alla cultura marxista degli anni Sessanta e Settata, non c’è dubbio che l’estetica abbia rappresentato per lui un campo di riflessione privilegiato. In un libro come Eros e civiltà (1955), lavorando sugli elementi di antropologia che in Marx si legano all’analisi dell’opera d’arte, Marcuse giunge a riconoscere nel comportamento estetico il modello di un’esperienza non alienata, il luogo in cui viene a ricomporsi la tipica scissione con la quale la società borghese divide anima e mondo, ideologia e base sociale. In questa prospettiva, Marcuse rivaluta la nozione romantica del «gioco» e ne fa il principio di una cultura non più repressiva di cui l’arte diventa una pietra angolare, dato che in essa si incontrano e si conciliano le istanze della libertà creativa e la necessità dei condizionamenti materiali.
L’arte, tuttavia, è e resta in Marcuse soltanto l’esempio di una prassi più generale che mira al rovesciamento degli ordini sociali esistenti e che egli definisce «dimensione estetica». Non è una scelta priva di ambiguità, posto che in assenza di una reale trasformazione della società il radicalismo di Marcuse rischia di confondersi con una strategia di estetizzazione dell’esperienza, ennesima variante di un atteggiamento divenuto oggi dominante. Ma è una scelta portata avanti con coerenza, al punto da diventare la preoccupazione più marcata dei suoi ultimi anni, come testimonia il saggio La dimensione estetica, apparso nel 1978, cioè un anno prima della sua morte. A riportare la nostra attenzione sulla connessione tra estetica e politica in Marcuse è una raccolta di testi curata da Paolo Perticari per l’editore Guerini e Associati. Si intitola, appunto, La dimensione estetica. Un‘educazione politica tra rivolta e trascendenza (pp. 296) e contiene, oltre al saggio che dà il titolo al volume, altri quattro contributi: «Industrializzazione e capitalismo nell’opera di Max Weber» (1968), «Tolleranza repressiva» (1969), «Saggio sulla liberazione» (1969), «Controrivoluzione e rivolta» (1972). In aggiunta a questo materiale, il volume propone un’intervista raccolta da Frederick Olafson nel1977 e finora inedita in italiano, nella quale Marcuse affronta per la prima volta in chiave autobiografica il proprio rapporto con Martin Heidegger, di cui fu allievo a Friburgo negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo.
La posizione di Marcuse è esemplare di una ricezione di Heidegger condizionata dalla sua adesione al nazismo – una terribile «sorpresa», egli dice, per tutti coloro che l’avevano conosciuto e frequentato – e dunque sostanzialmente disinteressata ai suoi lavori del dopoguerra. Ne diamo qui un’anticipazione abbreviata rispetto a quella del volume e leggermente riformulata per quel che riguarda le domande di Olafson.

Stefano Catucci

 

 

 

F. Olafson
Professor Marcuse, pochi sanno che Heidegger ha avuto un ruolo significativo nel suo percorso intellettuale. Che contatti ha avuto con lui.

H. Marcuse
Lessi Essere e tempo quando uscì, nel 1927. Dopo averlo letto decisi di tornare a Friburgo dove avevo conseguito la mia laurea in filosofia nel 1922 – con l’intenzione di lavorare con Heidegger. Rimasi a Friburgo fino al 1932.
Quando lasciai la Gennania – prima che Hitler salisse al potere – l’amicizia finì. Rividi Heidegger dopo la seconda guerra mondiale, cioè intorno al 1946/47, nella Foresta Nera, dove possedeva una casetta. Ci fu un colloquio dai toni poco amichevoli. Fino a quel momento c’era stato uno scambio epistolare, ma poi tutti i contatti tra noi si interruppero. [ … ] Durante il primo periodo, diciamo dal 1928 al 1932, da parte mia c’era solo una piccola riserva e relativamente poche critiche su Essere e tempo. Vorrei dire piuttosto da parte nostra, perché in quel periodo Heidegger non costituiva un problema personale, bensì un problema per la maggior parte della generazione che studiò in Germania dopo la prima guerra mondiale. Noi vedevamo in Heidegger ciò che all’inizio avevamo visto in Husserl: un nuovo inizio, il primo tentativo realistico di dare basi concrete alla filosofia, una filosofia che si interessasse della condizione umana e non solo di idee e principi astratti. Condividevo questo con una parte piuttosto ampia della mia generazione ed è superfluo dire che la delusione per questa filosofia arrivò presto, penso negli anni Trenta. E abbiamo fatto un riesame completo di Heidegger dopo che si è saputo del suo rapporto con il nazismo.

 

F. Olafson
Lei si è occupato delle implicazioni sociali e politiche della filosofia di Heidegger?

H. Marcuse
Me ne sono interessato molto. Nello stesso periodo scrivevo articoli sulle analisi marxiste per l’organo teoretico della socialdemocrazia tedesca, «Die Gesellschaft». All’inizio pensavo che potesse esserci una combinazione di esistenzialismo e marxismo sulla base di un’analisi concreta dell’esistenza umana e del suo mondo. Ma presto mi accorsi che la concretezza di Heidegger era in gran parte un’apparenza, che la sua filosofia era in realtà molto astratta e si allontanava dalla realtà, o meglio la evitava, proprio come le filosofie che allora dominavano le università tedesche: il neo-kantismo, il neo-idealismo, ma anche il positivismo. [ … ]

 

F. Olafson
Ma le analisi fenomenologiche e ontologiche di Essere e tempo possono essere utilizzate in chiave sociale
?

H. Marcuse
Nel mio primo articolo (Contributi ad una fenomenologia del materialismo storico, 1928) ho cercato di combinare esistenzialismo e marxismo. L’essere e il nulla di Sartre è un tentativo ancora più ampio in tal senso, ma quando Sartre si rivolse al marxismo rovesciò i suoi scritti esistenzialisti e alla fine se ne staccò, proprio perché non riusciva a conciliare Marx con Heidegger. Come lo stesso Heidegger, Sartre sembrava usare l’esistenzialismo per isolarsi dalla realtà sociale, invece di penetrarla. […] Concetti heideggeriani come «Esserci», «Essere», «Ente», «Esistenza», sono cattive astrazioni, nel senso che non sono strumenti concettuali per comprendere la concretezza vera sotto l’apparenza […]. Quella di «Esserci», per esempio, è per Heidegger una categoria sociologicamente e persino biologicamente «neutra» (non esistono differenze sessuali!). La «domanda sull’essere» rimane sempre senza risposta, e viene sempre ripetuta, mentre il fenomeno reale della paura si trasforma nel concetto di un’angoscia acuta, ma indefinita. […] L’ultimo Husserl cercò di arricchire la sua filosofia con una maggiore «concretezza storica». L’esistenzialismo di Heidegger, invece, resta in realtà un idealismo trascendentale.

 

F. Olafson
Dobbiamo concluderne che
i teorici sociali dovrebbero abbandonare ogni tentazione esistenzialista e limitarsi a una descrizione funzionale della natura umana, accettando di fatto i presupposti del comportamentismo? Sia Heidegger che Sartre hanno cercato di opporsi a questo tipo di filosofia.

H. Marcuse
No, non significa questo. Dipende solo da cosa s’intende per ontologia. Se un’ontologia trascura la storia, ne ignora il peso, la butta via e ritorna a un concetto trascendentale statico, allora io credo che non possa fornire alcuna base concettuale per una teoria sociale e politica.

 

F. Olafson
In
Essere e tempo Heidegger definisce «storicità» la struttura peculiare dell’esistenza umana, il rapporto costitutivo dell’individuo con il proprio passato, la sua dipendenza da una tradizione, il suo modo di raccoglierla e di cambiarla. Non sono elementi di concretezza?

H. Marcuse
Anche questa è una falsa concretezza, perché in realtà nessuna delle condizioni culturali, materiali e sociali che fanno realmente la storia trovano posto in Essere e tempo. La storia come tale viene neutralizzata […] e compressa in una categoria esistenziale totalmente immune dal materiale specifico e dalle condizioni mentali che sono il fondamento della storia. Ci può essere un’eccezione: l’interesse degli ultimi scritti di Heidegger per la tecnica e la tecnologia, il momento in cui la domanda «sull’essere» si ritira davanti alla domanda «sulla tecnica». Ammetto di non aver capito molte cose di questi scritti. […] Ma ho l’impressione che i concetti heideggeriani di tecnologia e di tecnica siano gli ultimi di una lunga serie di neutralizzazioni: vengono trattati come «forze in sé», lontane dai contesti di potere con i quali sono in relazione e che determinano il loro utilizzo e la loro funzione. Per questo vengono oggettivati come destino. […]

 

F. Olafson
Ma
quando paria di storicità, Heidegger non ha forse in mente qualcos’altro? Per una teoria sociale, non è importante mostrare in che modo l’individuo si rispecchia in una determinata società? Non è importante caratterizzare la situazione non solo al livello di forze e tendenze relativamente impersonali, ma sul piano delle loro ripercussioni individuali?

H. Marcuse
È una necessità prioritaria, ma è proprio qui che le circostanze concrete della storia entrano in gioco. Come si pone l’individuo e come si vede nel capitalismo – in un determinato livello di sviluppo del capitalismo –, nel socialismo, come membro di questa o quella classe e così via? Questa dimensione manca completamente. Sono sicuro che l’Esserci si costruisce nella storicità, ma Heidegger si concentra sull’individuo purificato dalle umiliazioni nascoste e palesi della sua classe, del suo lavoro, della sua realizzazione, purificato dai danni che sono stati causati dalla società e che gli individui subiscono attraverso la società. In Heidegger non c’è alcuna traccia di quella ribellione quotidiana che aspira alla libertà. Il «Si» anonimo, il «chiunque», non è un sostituto della realtà sociale.

 

F. Olafson
Inquietudine e angoscia sono per Heidegger categorie esistenziali dell’individuo perché poste in relazione con la dimensione dell’
essere per la morte. Lei ritiene che l’enfasi con la quale egli sottolinea questo aspetto dipenda dalla sua impronta teologica?

H. Marcuse
Sì, è possibile che abbia qualcosa a che fare con questo, ma è molto importante che lei ricordi il significato del concetto di morte nella sua filosofia. Credo che sia un buon inizio per una breve discussione sulla possibilità che il nazismo heideggeriano sia visibile nella sua filosofia prima del 1933. Io posso dirle, per esperienza personale, che né nelle sue conferenze, né nei suoi seminari, né a livello personale Heidegger ha mai dato alcun segno di simpatia per il nazionalsocialismo. In realtà non si discusse mai di politica e, fino alla fine, egli elogiò entrambi gli ebrei ai quali aveva dedicato i suoi libri: Edmund Husserl e Max Scheler. La sua aperta adesione al nazionalsocialismo fu perciò una sorpresa per noi. Da quel momento ci venne spontanea una domanda: ci siamo lasciati sfuggire qualcosa […] in Essere e tempo e negli altri scritti? E abbiamo fatto un’osservazione interessante, ex-post. Se si esamina la sua nozione di «essere nel mondo», si trova una visione dell’esistenza umana estremamente repressiva e opprimente. Rileggiamo le categorie […] con cui descrive l’Esserci: chiacchiera oziosa, rarità, ambiguità, caduta, gettatezza, angoscia, proiezione verso la morte, paura, sgomento, noia e così via. Quest’immagine gioca con le paure e le frustrazioni degli uomini e delle donne nelle società repressive; è materiale umano per la personalità autoritaria. Ed è sintomatico che, in Essere e tempo, manchi l’amore, citato solo in nota e in un contesto teologico, insieme con la fede, il peccato e il rimorso. Ora, ex-post, vedo nella sua filosofia un fortissimo deprezzamento della vita, una svalutazione della gioia e del godimento, della sensualità e dell’appagamento. Forse a quel tempo ne avevamo sentore, ma ne siamo stati consapevoli solo dopo aver saputo della sua adesione al nazismo.

 

F. Olafson
Lei crede che Heidegger fosse politicamen
te ingenuo? Secondo lei comprendeva le implicazioni della sua collaborazione con il partito nazista, quando era rettore dell’università di Friburgo?

H. Marcuse
Su questo posso dare informazioni sicure, perché ne ho discusso con lui dopo la guerra. Per preparare un po’ la mia risposta, mi permetta di leggere […] una delle sue affermazioni. Cito testualmente: «Non lasciare che le idee o i principi governino l’essere. Oggi e in futuro il Führer stesso è la realtà e la sua legge». Queste furono le parole di Heidegger nel novembre del 1933. Parliamo di un uomo che si dichiarava erede della grande tradizione filosofica occidentale, di Kant, di Hegel e di altri celebri filosofi. Tutto questo viene ora screditato. Norme, principi e idee sono obsoleti quando il Führer stabilisce la legge e definisce la realtà – la realtà tedesca! Ho parlato di questo con lui alcune volte ed egli ha ammesso che si era trattato di un «errore». Si era fatto un’idea sbagliata di Hitler e del nazionalsocialismo. […] Un filosofo può commettere molti sbagli, ma qui non si tratta di un errore […], bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. […] Heidegger riconobbe che c’era stato uno sbaglio, ma poi abbandonò li il problema. Rifiutava (e io credo che in qualche modo lo trovasse divertente) qualsiasi tentativo di negarlo o di spiegarlo in un’altra versione o non so cosa, perché non ha mai voluto appartenere alla stessa categoria dei suoi colleghi che, come egli diceva, all’improvviso non ricordavano più cosa avevano insegnato sotto il nazismo, o che l’avevano persino appoggiato, salvo poi dichiarare che non erano mai stati nazisti. Per quanto ne so, nel 1935 o 1936 Heidegger rinunciò a quell’aperta identificazione con il nazismo […], ma per me questo non basta a revocare il suo discorso del 1933.
È irrilevante quando e perché egli volse le spalle al nazismo […]. Rilevante è che egli pronunciò quella frase, che idolatrò Hitler ed esortò i suoi studenti a fare lo stesso. Se «la realtà e la legge tedesca d’oggi e del futuro» è solo il Führer stesso, allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.
[…]

 

F. Olafson
Lei pensa che Heidegger abbia un concetto di società e, se sì, come sì esprime?

H. Marcuse
Non sarebbe corretto se rispondessi a questa domanda in modo diretto, perché io praticamente dal 1947 non so più nulla di lui. Fino ad allora, se aveva un concetto di società, non era esattamente un concetto degno di un filosofo. Se poi sia stato diversamente, le cose che potrei dire ora non avrebbero alcun valore. Dopo tutte le critiche che gli ho rivolto […] vorrei sottolineare che ho anche imparato qualcosa dal primo Heidegger: ho imparato a pensare […]. E soprattutto ho imparato a leggere un testo e a maneggiarlo seriamente, anche allontanandomi dalle interpretazioni tradizionali. Penso che i maggiori contributi filosofici di Heidegger siano le interpretazioni della filosofia greca. Egli sapeva davvero analizzare una frase di Aristotele o dei pre-socratici, e non solo in una o due ore, ma in mezzo semestre. Noi eravamo totalmente catturati ed entusiasti. […] Oggi, nell’epoca dello strutturalismo, bisognerebbe insistere sul fatto che ogni testo ha una sua propria autorità e che vi si può accedere solo forzandolo.

 

Testi pubblicati su il manifesto, 12-06-2002, p. 12.

Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale
Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.
Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Maria Corti (1915-2002) – L’avvicinare degli spiriti che hanno vissuto solo per un ideale, per un mondo di ricerche che non ha bisogno del riconoscimento umano, è una cosa che dà tanto coraggio.

Maria Corti 01
«L’avvicinare degli spiriti
che hanno vissuto solo per un ideale,
per un mondo di ricerche che non ha bisogno del riconoscimento umano
anzi che si fa un paradiso della propria solutudine,
è una cosa che dà tanto coraggio».
Maria Corti, Lettera a Eva Terracini del 1938, in MF. Caputo – A. Longoni, Quasi un autoritratto, postfazione a: Maria  Corti, I vuoti del tempo, a cura di Francesca Caputo e Anna Longoni, Bompiani, Milano 2003.

Maria Corti (Milano, 1915-2002) è stata una filologa, critica letteraria, scrittrice, semiologa e ha insegnato Storia della lingua italiana all’Università di Pavia. Ha curato importanti edizioni critiche (Leopardi, Vittorini, Fenoglio) e ha promosso la creazione a Pavia del Fondo manoscritti di autori contemporanei. Ha scritto vari romanzi, tra cui: L’ora di tutti (1962), Il ballo dei sapienti (1966), Cantare nel buio (1981), Voci dal Nord-Est (1986), Il canto delle sirene (1989), Catasto magico (1999), Storie (2000), La leggenda di domani (2007). Numerosi i saggi, tra cui: Metodi e fantasmi (Feltrinelli, 1969; 2001), Principi della comunicazione letteraria (1976), Il viaggio testuale (1978), La felicità mentale (1983), Percorsi dell’invenzione (1993), Ombre dal fondo (1997). Per i “Classici” Feltrinelli ha introdotto Vita Nuova di Dante Alighieri (1993; 2008).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Rainer M. Rilke (1875-1926) – On voudrait avoir les yeux toujours ouverts, pour avoir vu, avant le terme, tout ce que l’on perd.

Rainer Maria Rilke11
«On voudrait avoir les yeux toujours ouverts,
pour avoir vu, avant le terme,
tout ce que l’on perd».

Rainer Maria Rilke, Verzieri, Le poesie francesi. Introduzione e traduzione di Pierangela Rossi, Biblioteca dei Leoni, Castelfranco veneto (TV), 2018.

Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Gianni Rodari (1920-1980) – Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni.

Gianni Rodari 01

«Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere”,

Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 2010.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Jeanne Hersch (1910-2000) – Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere.

Jeanne Hersch01
                  • L’uomo è una creatura incarnata e non può fare nulla di reale, né essere reale, se non incarnando. I suoi sogni reclamano dei gesti, le sue volontà degli atti.

«Ero sconcertata dal fatto di non poter abbracciare l’infinito. Mi dissi: se non posso comprendere il cielo, rappresentarlo, disegnarlo, bisogna almeno che lo immagini. Allora, di sera, nel mio letto, decisi di partire con l’immaginazione per un viaggio dentro le stelle e di vedere cosa succedeva. C’erano però sempre nuove stelle – ed ecco ciò che successe: sentii la mia scatola cranica. Fu un modo di essere riportata a me stessa, al mio essere limitato, e questa esperienza è stata probabilmente importante più tardi, quando scoprii e riconobbi in Jaspers la nozione del limite (Grenze), arrivando a fondare il mio senso della  ondizione umana sulla finitezza».

Jeanne Hersch, Rischiarare l’oscuro, trad. it., Dalai Editore, Milano 2006, p. 46.

 

«Perché la libertà fa della condizione umana qualcosa di unico, che merita di essere amata più di ogni altra cosa. Noi non assomigliamo agli altri esseri della natura, che vengono semplicemente spinti dall’esterno, prigionieri del sistema delle cause e degli effetti. Tutto ciò che è causa ed effetto, in sé, è privo di senso. Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere» (Ibidem, p. 78).

«Non vedo perché l’uomo, in quanto finito, non avrebbe a che fare con l’infi nito. Ciò che è inumano, sotto il pretesto di essere finiti, è di riportare tutto a qualche cosa di finito e di pretendere di esserne i padroni, come se fossimo Dio. O ancora, sotto il pretesto di raggiungere l’infinito, di volatilizzarsi nell’indeterminato, ciò che rappresenta allora il cattivo infinito, di uninfinito che equivale al nulla. Tra il nulla e l’essere dobbiamo divenire e far essere» (Ibidem, p. 84).

 

«L’anima senza corpo non è più l’anima, e il corpo senza anima non è più il corpo, poiché è l’incarnazione da compiere che dona a essi realtà. L’uomo è una creatura incarnata e non può fare nulla di reale, né essere reale, se non incarnando. I suoi sogni reclamano dei gesti, le sue volontà degli atti»

Jeanne Hersch, Essere e forma, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 34

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ngugi Wa Thiong’o’ – Bisogna Decolonizzare la mente. Il mezzo più potente di cui si serve l’imperialismo post-coloniale è il linguaggio.

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Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale.
Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente. Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo post-coloniale: il linguaggio.
In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. […] In questa prospettiva imperialista, studiare significava allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito.
Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfruttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza.
[…] Mai come oggi la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento.
La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi.
Oggi questo l’imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza.

 

 

Ngugi Wa Thiong’o’, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, trad. di Maria Teresa Carbone, Jaca Book, Roma 2015.

I quattro testi di Ngugi Wa Thiong’o che compongono “Decolonizzare la mente”, sono la summa di un pensiero che si è andato formando con anni di studio e con dolorose esperienze vissute in prima persona; in particolare la scelta di scrivere una pièce di critica al potere nella sua lingua madre, il gikuyu, in modo da poter essere compreso da ogni strato di pubblico, gli costò nel 1978 un anno di detenzione. Fu in quei mesi che l’autore maturò la convinzione che “l’arma più grande scatenata ogni giorno dall’imperialismo contro la sfida collettiva degli oppressi è la bomba culturale, una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso”. In tal senso, questo volume anche oggi può dire molto ai lettori occidentali che vogliano osservare criticamente i fenomeni connessi alla globalizzazione e gli effetti di una politica culturale omologante.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen] (1812-1870) – Stare ovunque e sempre in ogni cosa dalla parte della libertà, contro l’ingiustizia, dalla parte della conoscenza.

Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen]

«Un uomo con così rara combinazione di scintillante brillantezza e profondità».
                                                                        L. Tolstoj

«L’autobiografia di Herzen (Il passato e i pensieri) è uno dei grandi monumenti della letteratura russa, […] un capolavoro letterario da mettere sullo stesso piano delle opere dei suoi contemporanei e connazionali, Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij […]».
                                                                           I. Berlin

 

 

«Stare ovunque e sempre in ogni cosa dalla parte della libertà, contro l’ingiustizia, dalla parte della conoscenza, contro la superstizione e il fanatismo religioso, dalla parte del popolo che matura, contro i governi reazionari – questa è la nostra linea».

Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen], Il passato e i pensieri [1861], Einaudi-Gallimard, Torino 1966.

La tomba di Aleksandr Ivanovič Herzen, a Nizza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giorgio Bassani (1916-2000) – Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta, meglio da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare.

Giorgio Bassani 01

«Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare».

Giorgio Bassani, Il giardino dei Fizzi-Contini, Einaudi, Torino 1962.

“Nu couché bleu” è un olio su tela realizzato da Nicolas de Stael nel 1955.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Enrico Berti – recensione al libro di Maurizio Migliori, «Il “Sofista” di Platone. Valore e limiti dell’ontologia». Per migliori il “Sofista” mostra che in Platone l’amore del dialogo supera ogni desiderio di affermare tesi particolari.

Enrico Berti - Maurizio Migliori

Che cos’è un classico? Un testo che, anche se scritto molto tempo fa, si fa leggere e rileggere come se fosse sempre nuovo e perciò è sempre attuale. Il Sofista di Platone è certamente un classico, che non si finisce mai di discutere e di scoprire. Esso viene annunciato, come è noto, dallo stesso Platone come prima parte di una trilogia, destinata a illustrare rispettivamente il sofista, il politico e il filosofo. Ma soltanto le prime due figure sono oggetto di un dialogo, il Sofista appunto e il Politico, mentre la terza, che sembrerebbe essere la più importante, non ha questo privilegio. Perché? Platone non lo dice. Forse, trattando del sofista, che è la contraffazione del filosofo, egli ha già mostrato come deve essere il filosofo; oppure questo deve essere identificato col politico, col buon politico, colui che possiede la «scienza regale» del buon governo. Ma nemmeno questo Platone dice. Anzi, il fatto che inizialmente distingua il politico dal filosofo sembra segnare un distacco dalla Repubblica, dove invece le due figure coincidono.
Ecco allora un altro problema. In quale rapporto sta il contenuto del Sofista con quello degli altri dialoghi? Forse il Sofista risolve il problema posto nel Parmenide, cioè spiega come devono essere concepite le Idee per non cadere negli inconvenienti segnalati da Platone stesso per bocca di Parmenide? Indubbiamente la netta separazione tra i due mondi, sostenuta dagli «amici delle Idee», nel Sofista sembra superata, perché dell’«essere in senso pieno» fanno parte anche il moto e la vita, e quindi l’anima e il pensiero. E in quale rapporto sta questa dottrina con le «dottrine non scritte»? L’essere e il non-essere del Sofista coincidono con l’Uno e i Molti del Parmenide o con l’Uno e la Diade delle «dottrine non scritte»? La dottrina del Sofista è un’«ontologia», come molti hanno sostenuto, o la vera filosofia di Platone è l’«henologia», cioè la scienza dell’Uno, come vuole, ad esempio, la Scuola di Tubinga?
A queste domande cerca di rispondere Maurizio Migliori nel volume che presenta le lezioni da lui tenute a Pisa, su invito di Bruno Centrone. In esso egli ricorda, molto saggiamente, che i dialoghi di Platone hanno, tutti, un valore essenzialmente protrettico, cioè non espongono una filosofia già fatta, ma esortano, introducono, inducono a fare filosofia. Perciò per il Sofìsta non si può parlare di vera «ontologia», termine del resto certamente non platonico, e nemmeno antico, visto che nasce all’inizio del Seicento nella tarda scolastica suareziana. Migliori ha ragione di “relativizzare” l’ontologia del Sofista – e io direi che lo stesso dobbiamo fare con la presunta «ontologia» di Aristotele, liberandoci finalmente da quell’enfatizzazione del problema dell’essere che è stata inventata dalle interpretazioni creazionistiche dei filosofi antichi e che ci è stata trasmessa dagli epigoni di queste, cioè Brentano e Heidegger.
Migliori anzi relativizza l’intero Sofista, sostenendo che esso è stato sopravvalutato e che non costituisce il più importante documento della filosofia di Platone. Il Sofista in sostanza è per lui un esempio di discussione dialettica, anzi la proposta di una visione dinamica, cioè appunto dialettica, dell’essere, inteso essenzialmente come capacità di agire e di patire, ma anche come rapporto tra uno e molti, identico e diverso, quiete e moto, tutto e parti. In questo senso esso è certamente un superamento dell’eleatismo (non un “parricidio”). Ma più importante ancora del Sofista è per Migliori il Politico, al quale egli ha dedicato in passato un’ampia monografia.
Il volume è arricchito dalla discussione seguita alle lezioni, con interventi di allievi di Migliori, quali Arianna Fermani e Lucia Palpacelli, e di suoi “critici”, quali Bruno Centrone e Diana Quarantotto. Centrone rileva che bisogna fare i conti anche con Aristotele, il quale attribuì a Platone una vera e propria sostanzializzazione dell’essere e del non-essere, mentre Quarantotto conviene con la relativizzzione dell’ontologia, pur osservando che uno-molti, tutto-parti, agire-patire sono aspetti dell’essere. A tutti Migliori risponde in modo esauriente, pur rinviando la discussione sull’interpretazione aristotelica ad altra occasione.
Rimane, per noi, inquietante la figura del sofista. Anzitutto, infatti, non bisogna dimenticare che questo nome in greco non aveva un significato molto diverso da quello di «sapiente» (sophos); e poi proprio Platone, mostrando nel dialogo omonimo come è possibile dire il falso, attraverso un’abile mescolanza di essere e non-essere, identico e diverso, tutto e parti, non fornisce un criterio sicuro per distinguerlo dal filosofo, cioè dal dialettico, il quale compie in sostanza le stesse operazioni. Quando il sofista è un “grande” sofista, come ad esempio Gorgia o Protagora, chi sa distinguerlo dal filosofo? Si tratta veramente di un creatore di false apparenze, di un imbonitore, di un imbroglione? È più facile riconoscere tale figura nella contraffazione del politico, dove il sofista è colui che promette tutto a tutti, più ricchezza, meno tasse, più sicurezza, più libertà. Ma, anche qui, dove trovare il politico che possieda veramente la «scienza regale», la «giusta misura»?

Enrico Berti

 

Enrico Berti, “Secondo Maurizio Migliori il Sofista di Platone mostra che nel suo pensiero l’amore del dialogo supera ogni desiderio di affermare tesi particolari. Ma allora, come distinguere i filosofi dai ciarlatani?”, recensione al libro di Maurizio Migliori, Il “Sofista” di Platone. Valore e limiti dell’ontologia, Morcelliana, Brescia 2007, pubblicata su Il Sole-24 Ore, n. 123, del 6-5-2007, p. 39.

Enrico Berti

Enrico Berti, Professore emerito dell’Università di Padova, dove ha insegnato Storia della filosofia. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, membro della Pontificia Accademia delle scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie. Tra le sue numerose pubblicazioni: Introduzione alla metafisica (2017), la traduzione italiana della Metafisica di Aristotele (2017), Aristotelismo. Tradizioni di pensiero (2017), Tradurre la «Metafisica» di Aristotele (2017), Contraddizione e dia­lettica negli antichi e nei moderni (2016), La ricerca della verità in filosofia (2014), In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica (20018), A partire dai filosofi antichi (con Luca Grecchi, 2009), Aristotele nel Novecento (2008), Incontri con la filosofia contemporanea (2006).

Vedi pubblicazioni Berti Enrico



Maurizio Migliori
Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni. Platone è l’incontro con la grande bellezza e ci insegna che la filosofia è la scienza degli uomini liberi

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Maurizio Migliori

La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38

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Locandina M. Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo.
Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione.
Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Norberto Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, Torino, 2013.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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