Enrico Berti ci ha lasciato. Un ricordo filosofico ed umano di Luca Grecchi

ENRICO BERTI. UN RICORDO FILOSOFICO ED UMANO

 

di Luca Grecchi

 

Con Enrico Berti ci ha lasciato il 5 gennaio 2022 uno dei maggiori storici della filosofia, in particolare del pensiero di Aristotele, nonché uno dei pochi filosofi rimasti, in grado di argomentare in maniera chiara, solida ed originale importanti posizioni teoretiche, illuminando insieme la cultura antica e la realtà del nostro tempo.

Per un bilancio complessivo della sua opera molti saggi, nei prossimi mesi, seguiranno; io stesso sono stato subito incaricato, dalla rivista Humanitas, di redigere un suo profilo. Quanto mi preme fare ora però, nella immediatezza della notizia della sua morte, è realizzare un piccolo ricordo personale, un po’ per consolarmi della perdita di un amico, e un po’ per mettere in risalto, per quanto in maniera sintetica, il valore dello studioso e della persona. Sono felice, peraltro, di avere ricordato più volte a Enrico, negli ultimi tempi, quando si lamentava delle sue peggiorate condizioni di salute – cosa che con gli amici più giovani, per pudore, non faceva – l’importanza di ciò che aveva realizzato nella sua vita, sia come pensatore che come educatore, essendo egli stato un costante sostegno ed un esempio per molte generazioni di studiosi. Per far capire la sua enorme disponibilità anche solo verso gli studenti, rammento semplicemente l’orario di ricevimento affisso sulla porta del suo ufficio all’Università di Padova, quando lo incontrai per la prima volta nel 2002: lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle 8,30 alle 12! Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.  

Il mio rapporto con Berti iniziò appunto nel 2002, quando gli spedii una copia del mio primo libro, L’anima umana come fondamento della verità. Berti, con il consueto approccio dialettico, non si lasciò raffreddare dal fatto che in quel libro esprimevo alcune critiche, peraltro eccessive, alla sua interpretazione di Aristotele. Seppe anzi valorizzare il contenuto teoretico del testo, iniziando con me un dialogo, praticato soprattutto in forma scritta, durato fino ai suoi ultimi giorni di vita, quando ancora stava concludendo un saggio che spero si possa recuperare. Uomo di rara dolcezza, Berti era persona schiva e riservata, con cui non era facile entrare in confidenza. Siamo passati al “tu” solo dopo oltre dieci anni di intensi scambi epistolari, e solo dopo sua richiesta (io non mi sarei permesso, tale era per me l’autorevolezza della sua figura).

La prima nostra occasione pubblica di incontro fu a Padova, nel 2006, quando presentammo insieme, alla facoltà di Filosofia, la riedizione del libro del suo maestro Marino Gentile intitolato La metafisica presofistica, nella collana da me diretta presso Petite Plaisance, con introduzione proprio di Berti. Ricordo che in quella occasione, alla presenza dei più importanti docenti della Facoltà, Enrico mi introdusse – con onore assolutamente immeritato – non come semplice “studioso”, bensì addirittura come “filosofo”, con parole che mi imbarazzarono molto (ma che furono verosimilmente da lui dette, al contrario, per togliermi dall’imbarazzo di essere, allora, un “giovane non accademico” che veniva a parlare ad accademici in una delle più prestigiose Università italiane); mi definì appunto “giovane filosofo non accademico, perché non è necessario essere in Università per essere filosofi; anzi, talvolta, per potere fare ricerca ed esprimersi più liberamente, è meglio non esserlo, come dimostra il dottor Grecchi”.

Fu per me un grande complimento, in quanto Berti era persona che pesava le parole, non solo in pubblico. Rare sono state infatti anche le sue introduzioni a libri di altri studiosi, per cui sono davvero felice che ne abbia realizzate addirittura due a miei libri; in particolare, al libro-dialogo da me composto con Carmelo Vigna, Sulla verità e sul bene (Petite Plaisance, 2011). In quella occasione la posizione della metafisica umanistica – la mia posizione teoretica – venne da Berti considerata “su un piano di parità” (pag.7) nel confronto dialettico con la metafisica classica, che pure costituiva la posizione sua e di Vigna.

Sempre nel 2006 Berti pubblicò, ancora presso Petite Plaisance, un suo libro importante, Incontri con la filosofia contemporanea, con mia postfazione. Replicò nel 2019 con un altro volume, Scritti su Heidegger, anche per testimoniare la sua vicinanza alle meritorie iniziative di Petite, nonostante mi abbia confessato che, come proprio editore di riferimento, per la sua storia secolare e le sue radici cattoliche, egli aveva sempre considerato Morcelliana.

Il ricordo più bello del mio rapporto con Berti è, in ogni caso, la realizzazione del libro-dialogo A partire dai filosofi antichi (Il Prato, Padova, 2008), che ci coinvolse in discussioni appassionanti per alcuni giorni, ed in cui emerse una sua forte convergenza con la interpretazione umanistica della filosofia greca che avevo proposto in alcuni libri precedenti (pagg.29-35), oltre che su altri argomenti. Il volume fu peraltro presentato in una splendida sala del Municipio di Padova nel 2010, in cui improvvisammo un dialogo su molti temi che, anche a distanza di tempo, mi pare davvero perfettamente riuscito.  

Sempre per quanto riguarda le iniziative comuni, sono contento di avere preso parte in quegli anni, insieme ad un altro grande studioso scomparso, Mario Vegetti, alla bellissima collana Autentici falsi d’autore, diretta da un altro amico, Giovanni Casertano, per la casa editrice Guida di Napoli. Berti realizzò, naturalmente, il “falso Aristotele”, Vegetti il “falso Platone” e io, indegnamente, il “falso Socrate”. 

Una grande occasione di arricchimento è stata poi, per me, la stesura di quella che è, ad oggi, l’unica monografia esistente sulla sua opera, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (Petite Plaisance, 2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione dello stesso Berti. Con Vigna e Berti abbiamo peraltro condiviso lunghi periodi di intensi scambi epistolari, soprattutto sulla metafisica, che ho accuratamente raccolto. Parecchi di questi scambi emergono, in controluce, nel confronto fra metafisica umanistica e metafisica classica presente in E. Berti-L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi (pagg.89-94), nonché in C. Vigna-L. Grecchi, Sulla verità e sul bene (pagg.29-37) e in L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (pagg.75-93).

Tra il 2016 ed il 2018, infine, ho curato tre volumi aristotelici, molto importanti in quanto hanno raccolto saggi dei principali studiosi di Aristotele italiani. Berti mi ha, anche qui, sempre benevolmente accompagnato. Ciascuno di questi tre volumi (Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele, tutti editi da Petite Plaisance), inoltre, si apriva con una conversazione fra me e Carmelo Vigna sui temi oggetto di analisi, cui sempre è seguita la presa di posizione di Enrico sulle nostre osservazioni.

Da Berti ho imparato molto, anzi moltissimo. Fra noi vi era una distanza anagrafica di circa 40 anni, e una relativa distanza geografica; mi confidò tuttavia una volta che sarebbe stato contento se fossi stato un suo studente a Padova, poiché il nostro rapporto avrebbe potuto così essere più stretto, nonostante alcune differenze nelle vedute filosofiche.

Concludo dicendo che, alla fine del nostro libro-dialogo, A partire dai filosofi antichi, Enrico ribadì la sua fede in un possibile ritorno alla vita dopo la morte, che ascoltai con doveroso rispetto. Su tante questioni teoriche, su cui inizialmente non concordavo, ho dovuto nel tempo ammettere che aveva ragione lui: spero possa essere così anche questa volta. In ogni caso, una parola vorrei dirgliela sin da ora: “Grazie Enrico, per tutto quello che hai fatto”.

Luca Grecchi

                                                                                                        5 gennaio 2022



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carl G. Jung (1875-1961) – Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare.

«Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare».

 

Carl Gustav Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 217 (Liber secundus, 20)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità.

 
Salvatore Bravo

L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi

Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità
 

“Forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrisse nel 1938 Antonia Pozzi al poeta Vittorio Sereni. Le parole di Antonia Pozzi risuonano, ora, e oggi più vere che mai. Vi è il timore che le parole non siano più il luogo topico dell’umanizzazione: hanno dismesso la loro capacità di comunicare, di mettere in comune argomentazioni e vite per capire la verità. Al loro posto vi è solo la parola usata come arma contundente per segnare la potenza di pochi e l’umiliazione di molti. Le parole non solo ci parlano, ma sono la breccia con cui l’irrazionale diviene razionale, sono la partecipazione alla vita, sono la vita nel suo dispiegarsi verso la totalità.

In questo momento storico sono soltanto il mezzo con cui si tolgono i diritti, si occultano i doveri e si alimenta la discriminazione. Il confronto dialogico è stato sostituito dal monologo ubbidiente a cui si obbedisce supinamente. L’obbedienza non è una virtù, Don Milani lo ha testimoniato!

Solo le parole riescono ad emancipare dalla sofistica del dominio. La mortificazione che molti provano è l’effetto delle parole usate come uno sperone di ferro sotto il quale schiacciare i dissenzienti: le loro parole non devono trovare spazio e tempo per apparire, ma devono essere tacitate e oltraggiate.

Assistiamo all’oltraggio delle parole, e quindi alla negazione dell’essere umano. Senza parole l’essere umano è disumanizzato, il logos è sostituito dalla scaltrezza del calcolo e dall’uso arbitrario dei significati.

Non resta che la solitudine. Il rischio è la disperazione silenziosa, poiché il furto delle parole non è un semplice saccheggio, è negazione della profondità umana e della natura dialogica che, per storicizzarsi, necessita dell’incontro. Quest’ultimo è possibile solo se la parola è la soglia nella quale e dalla quale la verità prende forma.

Senza le parole del logos non vi è che la legge del più forte: la violenza pur invisibile è legalizzata e la truffa sociale della governance ai danni della collettività diviene “normalità” e “banalità del male” che penetra nelle relazioni per saccheggiarle della corrente calda dell’incontro senza il quale non vi è pensiero, ma solo dominio.

Antonia Pozzi si è suicidata nel 1938, nell’anno delle leggi razziali. La sua tragica scelta è per noi un monito: non si può vivere senza parole e senza verità. Ella non ha resistito dinanzi all’apparir del vero, come la giovane Silvia (nella parola poetica di Leopardi). Dobbiamo ricordare la sua morte e la cornice in cui è avvenuta per non cedere alla violenza dei nostri giorni, anche se ai più appaia ormai inesorabile. Dinanzi al male che avanza abbiamo bisogno di parole di verità: «L’amore per la verità non è fattore normativo autoritario, ma è intima coerenza tra vita e pensiero», ha scritto una insegnante in questi difficili giorni. Parole di verità per non cedere alla malinconia delle passioni tristi che incombe su tutti. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio:

 

Giardino chiuso

 

Come in una fiaba
triste – un altro giardino
si chiude – al margine
della strada –

 Restano soli sul colle
i pioppi con le foglie leggère –
le siepi di bosso – le mammole
delle primavere
perdute –

 Il bosco dei faggi
si fa tutto ombra
senza raggi
di cielo –
tomba
per gli uccelli
che saranno
morti –

 Come in una fiaba
triste – il viandante che porti
per questa strada

la sua

fatica –
vede una fuga di cancelli
chiusi – su l’antica
erta – e imprigionati nel fondo
i castelli
dei sogni ciechi –

 

13 settembre 1933

Antonia Pozzi

I cancelli hanno bisogno di parole per aprirsi alla speranza e alla prassi, ora che il cielo sembra chiudersi su di noi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Un silenzio assordante. Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Fernanda Mazzoli

UN SILENZIO ASSORDANTE

Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata.

***

Può darsi che io sia un soggetto in preda a credenze irrazionali, ma qualcosa non mi torna nelle misure messe in atto in ambito scolastico per arginare la pandemia da Covid 19.

Credevo di trovare, già a settembre, classi sdoppiate o meno affollate, mi aspettavo l’installazione in ogni aula di sanificatori d’aria, contavo su un raddoppiamento o almeno un incremento dei trasporti pubblici. È arrivata, invece, a dicembre la sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio dei docenti e degli Ata che hanno scelto di non vaccinarsi.

Migliaia di insegnanti che in questi due difficili anni hanno contribuito, insieme ai loro colleghi, a dare continuità all’attività didattica ad Istituti chiusi, rappresentando un punto di riferimento forte per studenti spaventati e disorientati, mentre Miur e media cianciavano di DAD come nuova opportunità metodologica o di banchi a rotelle, sono considerati ora alla stregua di untori da allontanare dalla vita sociale, sino al punto di impedire loro di svolgere il loro magistero e di privarli delle fonti di sostentamento. Infatti, non trattandosi di un provvedimento disciplinare e conservando essi il rapporto di lavoro, sembra che non potranno nemmeno percepire l’assegno alimentare, né svolgere un’ altra mansione regolare.

Tutto questo avviene nel silenzio assordante dei grandi sindacati, dei difensori titolati della democrazia e dei diritti umani, nonché di molte delle voci critiche che si sono levate in questi anni contro l’aziendalizzazione della scuola, di cui questa disposizione rappresenta uno degli esiti. Toccherà, infatti, al dirigente scolastico nella sua qualità di datore di lavoro comminare la sospensione.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata, in cui il diritto al lavoro è subordinato all’accettazione delle misure e delle condotte decise dal governo di turno, alle quali si assegna un carattere inconfutabile, in virtù del loro preteso coincidere con il Bene pubblico.

Chi dissente e rivendica la libertà di scelta si ritrova, come ha affermato il presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa del 26 novembre1, fuori dalla società. E dalla scuola, dove a contare non sono più la preparazione professionale, la conoscenza dei contenuti disciplinari e la capacità di comunicarli ai ragazzi, ma l’acquiescenza e l’obbedienza, oggi al nuovo culto del vaccino (trasformato da strumento utile a contenere i danni del virus – di cui servirsi con tutte le precauzioni richieste da un farmaco sperimentale – a panacea miracolistica), domani a qualche altro credo, sempre naturalmente rivestito di opportuna aura salvifica.

Questi sono tempi in cui occorrerebbe riflettere sul serio sul sermone del teologo e pastore protestante Martin Niemöller, erroneamente attribuito a Bertold Brecht.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.

Non solo: un provvedimento come quello che scatterà dal 15 dicembre suona come un vergognoso ricatto economico: non si limita a discriminare pesantemente i docenti in base a un parametro che nulla ha a che vedere con la specificità della loro professione, ma introduce un’ulteriore discriminazione fra coloro che potranno concedersi il lusso di essere coerenti con le proprie idee e quelli che, tra mutuo da pagare e figli da crescere, non potranno permettersi di rinunciare allo stipendio.

Saranno, questi, insegnanti avviliti ed umiliati, costretti ad abdicare alla propria libertà in cambio dei mezzi di sussistenza, schiacciati da una violenza – quella economica – che marchia a sangue le persone tanto quanto l’aggressione fisica, se non di più. Difficilmente, un insegnante umiliato potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

A scanso di equivoci, non ci si riferisce qui a chi ha scelto liberamente di vaccinarsi, ma a chi lo ha fatto o lo farà spinto dalla necessità di continuare a percepire un salario per vivere.

A ben guardare, i conti tornano, eccome: lo svilimento dei docenti è una tessera importante di quel puzzle disegnato dalle riforme degli ultimi venticinque anni, tendenti a fare della scuola una formidabile fabbrica di consenso sociale.

Fernanda Mazzoli

1 Testualmente :

Speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia normale per tutti. […] Bisogna che anche coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni […] possano tornare a essere parte della società con tutti noi”, dal che si evince che per adesso non ne fanno parte.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michail Bacthin (1895-1975) – Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso.

«[…] non è possibile comprendere l’uomo interiore qualora se ne faccia un oggetto di analisi indifferente e neutrale; non si può impadronirsene nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui con il sentimento.

No, a lui ci si può accostare e lo si può scoprire – o meglio, indurlo a svelarsi – solo comunicando con lui, dialogicamente.

Raffigurare l’uomo interiore […] si può soltanto raffigurando il rapporto comunicativo di lui con l’altro.

Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso».

Michail Bacthin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 331.

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Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore

Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.

Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi.

Fernanda Mazzoli

Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile

Tutta la vita della società industriale divenuta globale
si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi


Ci sono libri la cui qualità ed importanza – in termini di capacità di leggere la realtà con lenti lucide ed originali, offrendo al lettore una visione delle cose che rovescia i capisaldi delle opinioni correnti – sono inversamente proporzionali alla loro notorietà e diffusione. Paradosso solo apparente e piuttosto scontato di un mercato editoriale che misura la qualità in base al presenzialismo mediatico degli autori e all’adeguamento al pensiero dominante che, di questi tempi, veste progressista e fa l’occhiolino al bene comune, il quale, per una svista della logica e della storia, è andato a cacciarsi sotto l’ombrello protettore dei miliardari filantropi, dei finanzieri divenuti salvatori della patria e dei grands commis ai vertici degli organismi internazionali. Così, un libro poco conosciuto e ancor meno citato come quello scritto a quattro mani da René Riesel e da Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable,1 dovrebbe, invece, essere uno dei testi di riferimento ineludibili per chiunque voglia comprendere il presente – tra minacce di catastrofe sanitaria e ricorso ad un’emergenza divenuta ordinaria amministrazione – senza piegarsi sotto le forche caudine dell’informazione di regime, della narrazione mainstreem e delle troppo facili semplificazioni offerte dagli adepti delle teorie complottiste.

Parodiando un celebre incipit, gli autori affermano che «tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi», diffuse con il supporto mediatico da esperti che si richiamano ad una conoscenza quantitativa, ad un insieme di dati posti a fondamento di un’analisi incontrovertibile della realtà e di risposte altrettanto assolute. Dall’inevitabilità delle catastrofi consegue il successo della propaganda per le misure autoritarie altrettanto inevitabili se si vuole garantire la sopravvivenza del pianeta, la realizzazione delle quali mobilita un apparato burocratico-tecnologico sempre più robusto e più pervasivo, capace di un controllo totale delle condizioni di vita.

Semprun e Reiser si erano dati come oggetto del loro studio l’emergenza ambientale (di cui, peraltro, erano ben lontani dal negare la portata, da convinti avversari della società industriale, nonché del modo di produzione capitalistico, di cui hanno denunciato a più riprese le diverse nocività) ed è quindi particolarmente interessante riscontrare l’aderenza del loro discorso alla situazione determinatasi oggi intorno all’emergenza sanitaria. È anzi ragionevole ritenere che se nello spazio di un anno e mezzo molte società occidentali sono state disposte a rinunciare a quelle libertà individuali e collettive esibite orgogliosamente come cifra distintiva rispetto al resto del mondo chiamato a regolare il proprio passo su quello delle democrazie liberali, il terreno della rinuncia sia stato abbondantemente irrigato in precedenza da un discorso pubblico sempre più centrato sulla minaccia di una catastrofe incombente che ha assunto volti diversi (dal terrorismo al riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse naturali), ma egualmente efficaci ad attivare le condizioni politiche, i presupposti ideologici e i condizionamenti psicologici e mentali atti a legittimare uno stato di perpetua emergenza. La grande paura, creata e diffusa artatamente da istituzioni, informazione, esperti a vario titolo a partire da fenomeni reali, di cui si tende a rimuovere l’origine e la funzionalità, qualora esse mettano in causa l’intero sistema sociale, ha naturalizzato lo stato di emergenza, ha trasformato l’eccezione in normalità, ha sollecitato un enorme bisogno di protezione da parte delle popolazioni, cui solo le misure che si accompagnano allo stato d’emergenza sembrano capaci di dare una risposta. Che il prezzo da pagare siano l’autodeterminazione, le libertà faticosamente conquistate da un’intera civiltà nel corso della sua storia, i legami sociali poco importa, purché la minaccia dell’annichilimento sia stornata o rinviata. Ci si affida, dunque, con abbandono quasi infantile a quelli che prendono in mano «l’amministrazione del disastro», alla burocrazia di esperti incaricata di «una gestione di crisi permanente», si sacrifica loro quel poco che resta di spirito critico e di capacità di pensare ed agire autonomamente. È qui che si annidano tutte le derive autoritarie che oggi non sbandierano più il mito consunto e poco credibile del sangue e della razza, o dell’ortodossia ideologica, ma quello del bene della società, o meglio di ciò che i suoi esponenti di punta avvalorano come tale.

«È un dovere civico quello di essere in buona salute, culturalmente aggiornati, connessi. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. […] Chi si opporrebbe al mantenimento dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera?».

Spetta proprio ad una visione antagonista rispetto alla moderna società industriale quale quella sostenuta da Riesel e Semprun e, pertanto, particolarmente sensibile ai problemi posti dalla predazione dell’ambiente individuare con lucidità e denunciare la conversione ecologica del capitale in cerca di nuove frontiere che consentano di avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

A questo proposito, gli autori citano uno studio di Pierre Souyri,2 pubblicato postumo nel 1983 e dedicato alle trasformazioni del capitalismo, che fa piazza pulita delle illusioni alimentate oggi dalla green economy – ultimo tentativo in ordine di tempo di dare un volto presentabile a questo modo di produzione e intanto impegnarlo in una nuova fase – e dal diffondersi di una coscienza ecologica di massa sapientemente orchestrata dall’alto e funzionale alla prima.

«Le campagne allarmistiche scatenate intorno alle risorse del pianeta e all’avvelenamento della natura da parte dell’industria non annunciano certamente un progetto degli ambienti capitalistici di fermare la crescita. È piuttosto vero il contrario. Il capitalismo si impegna attualmente in una fase in cui si troverà costretto a mettere a punto un insieme di nuove tecniche di produzione dell’energia, dell’estrazione dei minerali, del riciclaggio dei rifiuti e di trasformare in merce una parte degli elementi naturali necessari alla vita. Tutto ciò annuncia un periodo di intensificazione delle ricerche e di sconvolgimenti tecnologici che richiederanno investimenti giganteschi. I dati scientifici e la presa di coscienza ecologica sono utilizzati e manipolati per costruire dei miti terroristi la cui funzione è quella di fare accettare come imperativi assoluti gli sforzi ed i sacrifici che saranno indispensabili per il compimento del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica che si annuncia».

Il catastrofismo, dunque, diventa il dispositivo ideologico perfetto per creare un consenso trasversale nella società intorno a scelte politiche ed economiche di fondo dalle ricadute radicali sulla vita dell’intera collettività, persuasa da una batteria di fuoco aperta da esperti, scienziati, giornalisti, esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura non solo ad accettare tali misure coercitive, ma a richiederle con entusiasmo in nome della salvezza propria e del pianeta.

Sono esattamente le stesse dinamiche in gioco nella gestione dell’epidemia sanitaria da Covid 19: la creazione della grande paura, da Apocalissi del nuovo millennio, l’emergenza continua, la demonizzazione di ogni dubbio o dissenso, fino alla secca alternativa tra vaccinarsi o morire, di malattia o di messa al bando dalla società civile fino all’allontanamento dall’attività lavorativa.

Che si tratti di ambiente o di salute, è l’irreggimentazione forzata o volontaria nelle nuove armate del Bene, fertile humus per ogni torsione autoritaria che richiede e al tempo stesso presuppone quella che i nostri autori definiscono «normalizzazione degli spiriti».

«La domanda sociale di protezione nella catastrofe» non chiama più in causa solamente l’apparato statale e burocratico, ma è tutta la società, – «attraverso gli uomini qualunque che vi si mobilitano per raccogliere le sue inquietudini e fabbricare l’immagine di una pretesa “società civile” – che reclama norme e controlli».

Non si tratta tanto di negare la realtà del disastro ambientale o dell’epidemia, quanto di comprendere che il combinato disposto fra allarmismo mediatico, idolatria dei dati, declinazione della scienza in nuovo dogma religioso e conseguente intervento dello Stato in veste di tutore concorrono ad una condizione permanente di amministrazione del disastro dove, ad essere confermata e consolidata, è la sottomissione3 degli individui e dei popoli, mentre nuove catastrofi, ecologiche e sanitarie, si profilano all’orizzonte.

Dove trovare un giacimento di paura e di coercizione altrettanto prezioso per la governance globale, pronta ad approfittarne per ridisegnare l’economia, il modo di vivere, le strutture della politica in una direzione più funzionale alla fase in cui il capitale è entrato?

Fernanda Mazzoli

1 Pubblicato a Parigi nel 2008 dall’Encyclopédie des Nuisances, fondata e diretta dallo stesso Jaime Semprun, il libro è disponibile in traduzione italiana dal 2020 per i tipi della casa editrice dell’Ortica con il titolo Catastrofismo, amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Le citazioni del presente articolo sono state da me tradotte dal testo originale. Quanto agli autori, entrambi hanno preso parte al Maggio francese e sono stati vicini, per qualche anno, all’Internazionale Situazionista; hanno pubblicato studi di critica sociale, collaborando alla rivista dell’Encyclopédie des Nuisances, poi trasformata in casa editrice. René Riesel, allevatore di ovini, per la sua militanza anti-OGM ha subìto arresti ed un periodo di detenzione.

2 Pierre Souyri, La Dynamique du capitalisme au vingtième siècle, Payot, Paris, 1983. L’autore, di formazione marxista, è stato partigiano, militante comunista (uscito dal PCF nel 1944 su posizioni antistaliniste) e ha fatto parte del gruppo Socialisme ou barbarie.

3 Il titolo del saggio in questione gioca sul doppio significato del francese durable, durevole e sostenibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

***

Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josep M. Esquirol – La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità.

La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità

***

«Ci sono solitudini incomparabili nel loro tendere alla condivisione. In realtà, solo chi è capace di solitudine può stare davvero insieme agli altri. […] Il deserto è ovunque e in nessun luogo […]. Chi affronta il deserto è, soprattutto, un resistente. Non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e poter così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso, ma anche, e specialmente, servire gli altri. Questo atteggiamento non va confuso con la protesta facile e stereotipata: la resistenza, in genere, è un atto discreto.

[…] Eppure non è sbagliato usare la parola resistenza per riferirsi, oltre agli ostacoli opposti dal mondo alle nostre pretese, alla fortezza che possiamo dimostrare nell’affrontare i processi di disintegrazione e corrosione provenienti dall’ambiente circostante e persino da noi stessi. Ed è proprio allora che la resistenza si rivela una profonda pulsione umana.

Il nostro esistere può essere considerato un resistere proprio perché una delle dimensioni della realtà è interpretabile come forza disgregatrice. Di fatto, la prova più dura a cui viene sottoposta la condizione umana è la continua disgregazione dell’essere. È come se le forze centrifughe del nulla volessero saggiare la capacità dell’uomo di resistere al loro assalto. Sebbene i volti dei nemici cambino nel tempo, non si tratta di una sfida legata all’oggi o al passato, bensì di una prova costante, perché è la realtà stessa – per esempio per mezzo del volto del tempo e della sua assoluta irreversibilità – a cingerci d’assedio.

[…] Il silenzio di chi si raccoglie è un silenzio metodologico – letteralmente, è “un cammino” – che cerca di “vedere meglio” […].

Se la resistenza si contrappone soprattutto alla disgregazione, sarà opportuno analizzare la natura specifica di alcune forze entropiche a cui dobbiamo la nostra situazione attuale (nichilismo è il nome di una di esse, forse la più rilevante) […].

[…] Abbiamo sottolineato che la resistenza intesa come raccoglimento non si contrappone all’idea di progetto, anzi, se adottiamo questa prospettiva, la resistenza diviene condizione necessaria della possibilità del progetto. Esistono, invece, una chiusura e un isolamento assolutamente sterili […] . Non ricevere né dare, ecco un isolamento che sta agli antipodi di quello del resistente, le cui orecchie sono invece sempre tese ad accogliere la parola amica, mentre il suo pensare generoso è fin dall’inizio rivolto ad una azione responsabile. La resistenza non è immunologia (da qui il nostro disaccordo con Sloterdijk).

[…] Il resistente non pensa solo, o prioritariamente, a se stesso. Ecco dunque gli elementi della resistenza politica: coscienza, volontà e coraggio, oltre a un’intelligenza strategica per organizzarsi da sé e continuare a lottare nonostante la persecuzione sistematica e inevitabile di cui sarà oggetto. […] Resistere alla tirannia e al totalitarismo significa opporsi alla disgregazione, perché quei regimi […] uniformano e forzano una totalità apparente e falsa.

[…] La forza del resistente viene dal profondo.

[…] La memoria e l’immaginazione (il fervore delle idee) sono le migliori armi a disposizione del resistente.

[…] Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è resistente.

[…] La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio. Solo se non si arretra nemmeno di un passo si può continuare a sperare …».

Josep Maria Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 9-17.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Le stagioni del nichilismo. Un’analisi filosofica e una prognosi storica

Costanzo Preve

Le stagioni del nichilismo

Un’analisi filosofica e una prognosi storica

ISBN 978-88-7588-309-6, 2021, pp. 104, , Euro 10 – Collana “Divergenze” [79].
In copertina: Alberto Giacometti, L’Objet invisible (Main tenant le vide), 1934-35.

indicepresentazioneautoresintesi


Il 1998 è un anno particolarmente opportuno per iniziare un discorso critico complessivo sul nichilismo italiano, la sua origine storica ed ideologica, le sue divisioni interne, la sua dinamica di sviluppo. Il nichilismo filosofico italiano, vogliamo dirlo subito con chiarezza, non è un fenomeno da baraccone o una moda giornalistica. Si tratta di una cosa molto seria, ed anzi in senso assoluto di una delle correnti filosofiche più importanti nel panorama del Novecento culturale italiano. Parlando pacatamente, e pesando bene le parole, si tratta di un fenomeno complessivamente serio ed importante come lo fu il neoidealismo italiano di Croce e di G. Gentile. Il lettore potrà forse stupirsi di una valutazione tanto favorevole, avanzata da chi non si riconosce in questa corrente di pensiero, la respinge radicalmente e ne auspica esplicitamente il superamento. Ma la valutazione storiografica della rilevanza di una corrente filosofica non ha nulla a che vedere con la scelta filosofica personale di un pensatore. I criteri, per l’appunto, sono di tipo storiografico, e prendono in considerazione l’ampiezza, l’articolazione interna, l’influenza sociale e culturale di una determinata corrente di pensiero. In questo 1998 l’intellettuale-massa italiano, il lettore delle pagine culturali dei giornali, lo spettatore “colto” dei dibattiti televisivi, l’insegnante diviso fra degradazione crescente del suo ruolo sociale e velleità di rinascita sulla base della falsa onnipotenza e della concreta impotenza della “scuola-fai-da-te”, eccetera, è in media “nichilista” almeno come più di mezzo secolo fa era “crociano”.

Il nichilismo non deve dunque diventare oggetto di spiritose stroncature di costume, ma deve essere preso molto sul serio. Recenti pubblicazioni, che richiameremo ovviamente nella nota bibliografica in coda a questo saggio, ci invitano a farlo. È un peccato che queste pubblicazioni, in piccola parte anche per loro colpa, vengano fagocitate dalla chiacchiera giornalistica sugli schieramenti di destra e di sinistra nell’Italia dell’Ulivo. Il nichilismo debole di G. Vattimo è di destra, mentre il nichilismo forte di M. Cacciari è di sinistra, o non è piuttosto l’inverso? Ed ancora, è più di sinistra un nichilismo laico, postmoderno, debole e tranquillizzante, oppure un nichilismo più aperto all’esperienza religiosa, forte ed inquietante?

Nello stesso momento in cui pongo queste stupide domande, mi vergogno di fronte al lettore di queste note. In altra sede ho respinto radicalmente la pertinenza della dicotomia “destra”/”sinistra”, e lo ribadisco con forza anche qui. Tuttavia, se c’è un campo in cui questa dicotomia è particolarmente fittizia, pretestuosa ed inesistente, è proprio il campo delle oggettivazioni universalistiche, come la filosofia, l’arte, la scienza e la letteratura. Eppure, sono gli stessi pensatori “nichilisti” italiani che, su questo punto, danno corda alla curiosità classificatoria dei giornalisti, dal momento che la maggior parte di loro invece accetta integralmente la pertinenza della dicotomia destra/sinistra, e dunque nessuno di loro vuole essere classificato a “destra”, ma vogliono tutti invece essere fieramente riconosciuti come i “veri” pensatori di sinistra.

Tutto ciò avviene per tristi ragioni di congiuntura storica. Mentre al tempo della Prima Repubblica (1948-1992) il potere economico e politico stava maggiormente nelle mani della Democrazia Cristiana, ed il potere culturale invece gravitava maggiormente nell’area del defunto Partito Comunista Italiano e dei suoi alleati socialisti, nella presente incipiente Seconda Repubblica l’alleanza di centro-sinistra denominata Ulivo tende ad unificare il potere politico, il potere economico ed il potere culturale, e gli intellettuali si adeguano, anche perché gli “oppositori”, da S. Berlusconi a U. Bossi, vengono percepiti dall’intellettuale-massa conformista come esponenti della non-cultura, ed allora l’adesione simbolica all’Ulivo, o meglio ad un generico ulivismo, appare come uno status symbol culturale obbligato. La stragrande maggioranza dei filosofi “nichilisti” attivi è dunque tendenzialmente di area ulivista, ed ancor più precisamente di area PDS. Volendo scherzare un poco, ma non poi troppo, si potrebbe dire che la separazione fra nichilisti “deboli” e nichilisti “forti” duplica la scissione fra un PDS appagato ed un PDS inquieto, un PDS soddisfatto ed un PDS tormentato. Ma vogliamo rassicurare subito il lettore. Non ci metteremo su questa strada buffonesca. L’ulivismo è un fenomeno storico tragicomico da analizzare in altra sede e con altri strumenti. Qui è bene tornare al nostro proposito iniziale: prendere il nichilismo italiano sul serio. In un saggio breve come questo, in cui lo spazio è programmaticamente limitato, è indispensabile non perdersi troppo nei dettagli, e seguire una linea di ragionamento che non confonda il lettore, ma lo aiuti ad impadronirsi dei termini teorici essenziali della questione.

Lo faremo sviluppando il ragionamento in tre momenti successivi. In primo luogo partiremo dalla situazione culturale italiana attuale, in cui l’egemonia filosofica del nichilismo è un fatto, ed è un fatto che si è consolidato ed irrobustito gradualmente negli ultimi due decenni, a partire dalla metà degli anni Settanta circa. Cercheremo di fare alcune ipotesi di spiegazione di questa crescente egemonia, ipotesi peraltro abbastanza ovvie e di facile comprensione. In proposito, è importante capire che le odierne tensioni nel campo del nichilismo italiano, che la chiacchiera giornalistica più recente ha reso palesi, sono un segno di forza e non di debolezza del nichilismo, come a suo tempo era un segno di forza e non di debolezza del neoidealismo la tensione fra Croce e G. Gentile. Già Hegel aveva parlato di segno di “forza” di un partito filosofico il fatto di scindersi, e di poter sopportare la scissione rafforzandosi anziché scomparire. Nello stesso tempo, deve essere chiaro che restando nel circolo delle polemiche fra le varie correnti del nichilismo italiano si continua a girare in tondo senza alcun costrutto. È necessario prendere le distanze dall’immediatezza, ed affrontare il tema del nichilismo con una ben maggiore prospettiva storica e filosofica.

In secondo luogo, dunque, proporrò al lettore una simile presa di distanza storica e filosofica, attraverso tre punti distinti ma interconnessi. Primo, chiarirò che la nozione di nichilismo è una nozione squisitamente filosofica, che concerne dunque il significato esclusivamente filosofico di verità, ed è dunque una nozione il cui uso storico, ideologico e scientifico è fortemente sconsigliato, ed è anzi da evitare con forza. Secondo, distinguerò tre significati storico-filosofici di nichilismo assolutamente distinti, il nichilismo dell’Occidente, il nichilismo della modernità ed infine il nichilismo della contemporaneità postmoderna. L’importanza di questa distinzione è tale che vi dedicherò tre distinti paragrafi. Terzo, sosterrò che la maggior parte degli equivoci, che impediscono di impostare correttamente la questione del nichilismo, deriva dal fatto che il secondo significato è accuratamente evitato o radicalmente frainteso, ed in questo modo si crea un corto circuito interminabile fra il primo significato ed il terzo, che vengono connessi direttamente l’un l’altro senza mediazione alcuna, con il bel risultato di far saltare l’intero “impianto elettrico”.

In terzo luogo, per finire, tornerò alla discussione contemporanea sul nichilismo italiano alla luce del punto di vista espresso alla fine del secondo momento del mio ragionamento: la questione cruciale è il nichilismo della modernità, non il corto circuito fra il nichilismo dell’Occidente e l’attuale nichilismo della contemporaneità postmoderna. Se si assume questo punto di vista, la cui fecondità si tratta appunto di mostrare al lettore, molte cose altrimenti incomprensibili ed oscure “andranno al loro posto”. Sarà allora non solo possibile comprendere la logica delle scissioni e delle differenziazioni interne al nichilismo italiano, ma anche prendere finalmente una posizione radicalmente esterna ad esso. Non dico che sia una cosa facile. Dico soltanto che è una cosa in via di principio possibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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