«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
La paura del tiranno domina minacciosa la vita della democratica Atene; a dare volto ed espressione al nemico della città, a definirne sempre meglio i caratteri concorrono poeti, storici, oratori, filosofi. Personaggio storico di un recente passato, il tiranno si trasforma nella figura ideologica che finisce con l’assommare in sé ogni forma di devianza dalla norma sociale, che assurge a simbolo del vizio, dell’asocialità, della disumanità. Questo libro non si limita a ripercorrere i momenti della costruzione della figura del tiranno, ma indaga anche le attese sociali che la sua rappresentazione è chiamata a soddisfare. L’esame si estende quindi alla sopravvivenza del mito della tirannide fuori del mondo greco fino ai nostri giorni. Sopravvivenza che, pur nella varietà delle situazioni storiche, rivela il ricorrere di una medesima pratica ideologica: la mistificazione di ogni potere autoritario sotto il segno tutto psicologico del potere individuale, della follia che muove la sete di dominio, di Nerone come di Federico II, di Hitler come di Stalin. Il saggio si sviluppa nel vivace intreccio di diverse esperienze d’indagine, storiche, linguistiche, letterarie, tutte subordinate alla rigorosa definizione dell’organizzazione della cultura (ruolo sociale dei produttori, canali di trasmissione, pubblico) nella città greca.
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.
Sommario
Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione
Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto
Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana
Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente
L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico
Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo
L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi
Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino
La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico
Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia
Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico
Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica
Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa
La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali
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Appendice
In cammino verso la realtà
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il titolo di questo volumetto potrà sembrare irriverente, tuttavia porsi la domanda sul senso del fare storia della filosofia oggi è auspicabile per varie ragioni, non da ultimo per il diffuso disinteresse nei riguardi degli studia humanitatis. Le pagine di questo lavoro non intendono fornire risposte onnicomprensive o soluzioni assolutamente valide circa una questione davvero enorme ma vogliono offrire un contributo al dibattito, oggi più che mai vivo (specialmente in Italia), sull’utilità delle discipline umanistiche. L’esito delle (modeste) riflessioni che il lettore troverà qui è una seria e convinta difesa della storia e del suo metodo investigativo, fondato innanzitutto sul rigore e sul rispetto dell’oggetto di indagine. Il metodo storico, se applicato in termini rigorosi, è sempre rivolto, almeno in prima istanza, verso il suo oggetto, dunque verso quanto è altro rispetto alla capacità interpretativa dello storico. La stima per l’oggetto di indagine dovrebbe tradursi, più in generale, in rispetto verso chi e verso ciò che è altro da noi: in tal modo il metodo storico potrà essere vantaggioso al fine del miglioramento della comunità in cui si vive.
[…] filosofia e condotta pratica di vita, specialmente riguardo alla direzione dello Stato, di regola non si troveranno unite in una persona. La filosofia non può essere definita una guida. Tuttavia, il filosofo interpreterà al meglio il suo ruolo di guida se rimane fedele alla teoria e cerca di promuoverla facendo tutto il possibile. Egli può confidare sul fatto che una progressiva comprensione mostrerà i suoi frutti nella vita pratica. E. Stein
F. Verde, Epicuro
Epicuro è uno dei più significativi filosofi antichi di età ellenistica, il cui pensiero ha influenzato in modo rilevante la storia della filosofia occidentale successiva. Questo volume intende essere un’introduzione alla filosofia di Epicuro che si struttura in un sistema coerente e ordinato, costituito da tre parti distinte ma connesse fra loro: la parte epistemologica del sistema, la scienza della natura e, infine, l’etica, che rappresenta l’autentico coronamento e il fine unico e privilegiato a cui la filosofia mira.
Al critico della cultura non va a genio quella cultura alla quale sola egli deve il disagio che prova di fronte ad essa.
Theodor W. Adorno
In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito.
«Euripide porta sulla scena lo spettatore; l’uomo della vita di ogni giorno, e non soltanto vestendolo dei panni solenni degli eroi epici, ma addirittura con le sue proprie vesti. Euripide porta sulla scena gente comune, anonima, e non soltanto in ruoli tradizionalmente consentiti e riconosciuti: il pedagogo, la guardia, la nutrice. Il contadino dell’Elettra e l’altro contadino, questo soltanto evocato, in un logos angelikos ma non per questo di minore importanza, dell’Oreste, non sono personaggi al seguito degli eroi, né semplici elementi di comodo nello svolgersi della vicenda drammatica. La loro introduzione nelle tragedie è un fatto nuovo, reso possibile dal nuovo carattere che la tragedia è venuta assumendo. […] Negli ultimi quarant’anni del V secolo a.C. si trasforma profondamente lo stesso valore semantico di termini come sophron, sophrosyne, sophronein. Come per altri termini, quali philos, eusebes, eleutheros, si attua per sophron un processo di interiorizzazione: una definizione sociale si trasforma in definizione psicologica, sì che la mente e l’anima dell’uomo possono essere esplorate con gli stessi strumenti che servono a descrivere la comunità sociale. Il platonico “l’uomo è simile alla città” non è che l’approdo teoricamente consapevole di una lunga pratica analogica, che ha trovato il suo costante presupposto non solo dei trattati di retorica, ma anche della invenzione e dell’elaborazione dei personaggi tragici. Il personaggio della tragedia acquista in profondità e in complessità a misura che si rende esplicita la sua analogia di microcosmo col macrocosmo della città: le parti dell’anima tendono a riprodurre le parti della città e a riprodurne l’interna dinamica. Un siffatto processo sposta oggettivamente l’attenzione dello spettatore dai conflitti tra le persone ai conflitti interni all’anima del singolo personaggio, e avvia una dialettica che ha sempre meno riferimento con la realtà sociale della città. Giunta a consapevolezza l’analogia tra città e uomo sortisce un doppio effetto: da una parte la corrispondenza di microcosmo psichico e di macrocosmo politico assicura immediatamente un ampio e fecondo sviluppo all’indagine psicologica e ne garantisce la validità, dall’altra parte rafforza il presupposto ideologico della concezione politica su cui riposa: che la polis sia un tutto organico e non un agglomerato di individui o di gruppi sociali. Si enfatizza in questo modo l’aspetto unitario ed organico della città offrendone una certezza intuitiva e trasparente. Le parti dell’anima sono la proiezione su un piano parallelo delle parti della città, ma la loro indiscutibile unità organica si riproietta a sua volta sul piano della città, e ne garantisce definitivamente la coesione. Così l’ideologia della città come di un tutto organico e indisgiungibile è oggettivamente rafforzata proprio nello spettacolo teatrale, e grazie all’invenzione del personaggio tragico, anche in assenza di una tematica direttamente politica. Tuttavia il trasferimento della legge dell’equilibrio e della concordia sociale nell’individuo finiscono col comporre un modello di uomo autosufficiente che nel proprio intimo realizza i valori della città, ma con la quale paradossalmente non può non riconoscersi in conflitto, dalla quale finisce con l’apparire anche spazialmente separato. Il contadino che abita lontano dal centro della città, che frequenta poco il mercato e l’assemblea è chiamato a incarnare questa nuova figura ideologica, in lui si vuole riconoscere il più geloso custode dei valori patrii, l’unica parte sana di una città corrotta. Ciò è diverso dalla collocazione dei contadini come forza intermedia tra ricchi e poveri, come invece talvolta si è stati tentati di interpretare sotto l’evidente suggestione di Aristotele. In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito. Dapprima essa si presenta ancora sulla scena sotto panni eroici, poi osa comparire con gli abiti della vita quotidiana, quelli appunto del contadino. È l’uomo della vita di ogni giorno, il contadino non il borghese, lo spettatore che si affaccia sulla scena. […]».
Diego Lanza, Lo spettatore sulla scena, in AA.VV., L’ideologia della città, Liguori Editore, Napoli 1977, pp. 57, 71-72.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
Questo libro si colloca sulla lunghezza d’onda di quelle che vengono chiamate “pratiche filosofiche”. Esse consistono in modalità di declinazione del filosofare che si prefiggono di integrare, senza volerle sostituire, le tradizionali forme accademiche dell’insegnamento e della ricerca scientifica indirizzata ad un circuito di fruizione prettamente specialistico. A segnare la distanza fra i due orizzonti è, soprattutto, il fatto che le pratiche filosofiche intendono farsi carico delle richieste di senso che circolano diffusamente nell’attuale scenario sociale. Più esattamente, esse provano a fornire possibili risposte a tali richieste: risposte che non esauriscano le domande ma le rendano sostenibili. Ciò significa che mentre la filosofia nella sua configurazione tradizionale tende a limitarsi a studiare il fenomeno contemporaneo della dolorosa mancanza di senso del vivere che molte esistenze vanno sperimentando, le pratiche filosofiche tentano di offrire, ad un’utenza la più vasta possibile, strumenti per ridurre questo spaesamento o almeno limitarne gli effetti più nocivi.
Va evidenziato che esse non costituiscono “applicazioni” della disciplina filosofica (così come, ad esempio, si danno forme di etica applicata all’economia o alla scienza), poiché invece muovono in direzione della promozione di un modo di essere filosofico. Laddove con questa espressione si intende – con chiaro riferimento al tema della saggezza tipico del filosofare antico – anche un modo di vivere, caratterizzato dalla capacità di mettere in discussione se stessi (le proprie idee, i propri criteri di giudizio, la propria maniera di compiere scelte e di relazionarsi agli altri, ecc.), al fine di conseguire un’esistenza coerente, ricca di significato e valore, realmente appagante.
Tali pratiche assumono configurazioni differenti, fra le quali mi limito a segnalare la consulenza rivolta a singoli o a gruppi e la promozione della metodologia dialogico-relazionale all’interno di contesti organizzativi ad alto tasso di complessità gestionale (ad esempio aziende ed ospedali). In tempi recenti esse hanno iniziato a retroagire nella realtà accademica, per cui in alcuni dipartimenti universitari sono stati attivati corsi di pratiche filosofiche. Anche in forza di questo feedback, a mio avviso prezioso, si origina la ricerca concretizzatasi nel presente contributo. Una ricerca in cui l’approccio filosofico essenziale viene affidato al gesto del curare.
Senza dubbio il tema della cura conosce da tempo una vasta diffusione nell’ambito degli studi filosofici, dove viene svolto in una molteplicità di direzioni di indagine che, a seconda dei casi, si rifanno in maniera più o meno esplicita ai due luoghi teorico-concettuali da cui esso proviene: l’epiméleia del pensiero socratico e l’heideggeriana Sorge. Ma si tratta, appunto, del tema della cura. Nel senso che in queste numerose trattazioni la cura rappresenta l’oggetto dei discorsi filosofici, i quali di volta in volta domandano, per esempio, quale sia il significato da attribuire a tale termine, quali siano le pratiche soggettive e collettive che possono essere sussunte sotto di esso, quale sia il suo possibile impiego in sede epistemologica e così via. Questo testo, invece, si caratterizza per un taglio differente, poiché prova a fare della cura lo stile del suo discorso. Esso, cioè, presenta un filosofare che non si occupa di parlare delle pratiche di cura, ma ha l’ambizione di costituire esso stesso una pratica di cura. Nello specifico, presentandosi come serie di esercizi volti a favorire il dispiegamento delle condizioni di possibilità di una vita felice.
Tale intenzione prende corpo, anzitutto, nella scelta preliminare di distanziarsi dall’approccio diffuso che tratta la questione della felicità come se fosse una domanda specifica della filosofia, mentre invece essa è una domanda dell’umano. Una domanda che può essere avvicinata in modo filosofico come anche a partire da altre prospettive, ad esempio psicologiche o teologiche. Facendo della questione della felicità una faccenda di proprietà della filosofia, non di rado si finisce con l’indagarla limitandosi a commentare e confrontare le teorie sulla felicità che la storia del pensiero filosofico ha ampiamente prodotto, smarrendo così il contatto con i mondi di vita storicamente determinati da cui essa continua a scaturire sotto forma, appunto, di domanda di felicità. In questa scelta preliminare è da vedersi la ragione del fatto che nelle pagine che seguono si troveranno rari riferimenti a testi filosofici sulla felicità.
Pertanto, lo stile curante del lavoro si esprime, in primo luogo, nel prendersi cura della domanda di felicità che proviene dal nostro presente e, quindi, nel non impiegare il concetto di felicità come fosse un universale di senso impermeabile al divenire storico.
In secondo luogo, l’assunzione di questo stile ha condotto a non limitarsi a stendere il resoconto delle sciagure del nostro tempo (che pure sono numerose), ma a coniugare la lettura critica dell’oggi con uno sforzo teoretico mirante ad indicare, motivandole, buone pratiche di vita nel presente, ovvero modi di essere che possano rivelarsi capaci di far fiorire l’esistenza anche in un frangente storico che, sotto diversi profili, risulta disumano.
In tal senso, il discorso che segue procede lungo una traiettoria che si distanzia da quelle che mi paiono essere le due prospettive prevalentemente percorse dall’attuale riflessione filosofica intorno alla felicità: da un lato, le indagini che si interrogano sulla plausibilità di un’articolazione interna tra vita felice e vita giusta, distinguendo più o meno nettamente l’aspirazione alla felicità dall’esercizio del dovere; dall’altro lato, gli studi che si propongono di individuare quali siano le istituzioni e le procedure politico-giuridiche capaci di garantire le condizioni sociali dell’esercizio del “diritto alla felicitàˮ. Discostandomi da tali linee di sviluppo – senza tuttavia voler indicare una terza via che le escluda pregiudizialmente – in questo lavoro indago le condizioni esistenziali, oggi, di una felicità possibile. Come si vedrà, questa indagine ha la natura di un’analisi di carattere etico-antropologico rivolta a tre nuclei fondamentali dell’esperienza umana: la sofferenza, il desiderio ed il tempo. Le si accompagna, a mo’ di appendice, una proposta educativa relativa all’intelligenza pratica.
Inoltre, il proposito di formulare un discorso che potesse risultare curante mi ha indotto a scegliere di lavorare in sinergia con altri saperi del campo delle scienze umane, ai quali mi sono rivolto con la cautela indispensabile quando si maneggiano strumenti che non sono i propri. Così facendo non sono andato alla ricerca di una sorta di attestazione di oggettività per le mie speculazioni; al contrario, spesso mi sono trovato a pensare a partire da contenuti di natura psicologica, sociologica, ecc., ossia grazie ad essi. Ciò è significato procedere in controtendenza rispetto a quell’atteggiamento di orgogliosa autoreferenzialità che talvolta connota le ricerche che si muovono in ambito etico. Un’autoreferenzialità che – va detto – è anche un’autolimitazione del filosofare, che in questo modo rischia di smarrire la capacità di mantenersi in comunicazione diretta con il vissuto dei soggetti, cioè di non comprendere adeguatamente quel che gli abitanti del presente sperimentano e di non farsi comprendere da loro.
Merita precisare, allo scopo di evitare possibili fraintendimenti, che l’intenzione che ha animato la scrittura del libro – farsi carico dell’attuale domanda di felicità – non è coincisa con la volontà di realizzare un testo che presentasse i tratti tipici di quella produzione pseudo-filosofica che da anni sta conoscendo ampia diffusione e con la quale non simpatizzo affatto. In altre parole, non ho nutrito alcun proposito di imbastire una filosofia prêt-à-porter. Al contrario, la sfida (mi auguro vinta) è consistita nel far convivere il rispetto dei canoni di qualità propri del lavoro scientifico con l’esigenza di comporre un pensiero in grado di dar voce alle istanze che provengono da uno scenario collettivo dove circola, ormai stabilmente, un multiforme disagio esistenziale. Il che significa che questo testo non offre ricette di vita, né avanza tesi senza prendersi la briga di provare a dimostrarle e saltando direttamente alle conclusioni. Il libro presenta, invece, delle rigorose argomentazioni filosofiche, che vengono svolte ed intessute in modo da poter essere comprese (almeno nei loro elementi essenziali) anche dai non “addetti ai lavori”, ossia da coloro che non possiedono una specifica preparazione in questo campo. A loro in particolare chiedo attenzione e pazienza nel seguire i numerosi fili del discorso: una fatica che confido troveranno ben ripagata.
A questo punto, forse si sarà già intuito che la felicità di cui qui si tratta non coincide con una tonalità emotiva (gaiezza, allegria) e nemmeno con la gioia, che, per quanto costituisca una potente elevazione dello stato interiore, possiede un carattere di subitaneità. La felicità che il libro mette a tema non è, insomma, la “condizione positiva” che succede di sperimentare più o meno occasionalmente, secondo quanto espresso dall’inglese happiness (da to happen, “accadere”) o dal francese bonheur e dal tedesco Glück (che significano anche “fortuna”). Si tratta, bensì, del senso di pienezza prolungato, seppur ad intensità variabile, che scaturisce dall’avvertire che la propria esistenza sta riuscendo, ossia sta divenendo ciò che può essere, poiché i semi di vita in cui è racchiusa la propria unicità hanno iniziato a germogliare e a dare frutti. Dunque, non la felicità di momenti di vita, ma la vita felice. L’eudaimonía, nel linguaggio della dottrina etica della filosofia greca.
Per quanto riguarda la distribuzione interna del libro, esso è stato concepito in maniera da presentare quattro capitoli che risultino sia disposti lungo una linea di sviluppo chiaramente percepibile, sia dotati di autonomia argomentativa, tanto da poterli anche leggere separatamente o perfino in un ordine diverso da quello in cui sono collocati.
Nel corposo apparato delle note sono presenti citazioni, riflessioni e proposte di approfondimento che non andrebbero considerate come marginali, poiché sono invece parte integrante del percorso generale. Sono state poste fuori dal testo principale soltanto per evitare di compromettere la fluidità del discorso. Il lettore deciderà se soffermarsi su di esse durante il tragitto o al suo termine.
Chi leggerà questa introduzione, deve sapere che questo libretto si muove su di un arco di quarant’anni. La quarta di copertina è in realtà la copertina del numero 18/19 di Corrispondenza Internazionale (Gennaio-Giugno 1981) che conteneva un ampio saggio di Roger Faligot sulla resistenza irlandese.
Il primo dei due saggi è uscito sul numero di Koinè, nuova serie (Gennaio-Giugno 2000) e racconta l’epopea della resistenza irlandese che vide il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni determinati fino alla morte in difesa dei loro diritti. Il secondo dei due saggi è un inedito, ma scritto all’incirca ai tempi del primo. Mi piace ricordare come andarono le cose, ovviamente non con la dovizia di particolari che si scopre leggendo il primo saggio. A novembre del 1980 la mia testa era volta soprattutto al terremoto che aveva colpito duramente l’Irpinia ma anche la Basilicata dove vivevano i miei genitori. La sollecitazione di Carmine Fiorillo ad affrontare di nuovo la situazione irlandese, servì a “distrarmi” non dai mei doveri di figlio ma da un comportamento “unidirezionale”. Raccogliere in un quadro unitario cose altrimenti mai collegate tra loro, mi avrebbe consentito di parlare di un mondo, quello irlandese, per troppo tempo affidato a descrizioni di comodo, di fonte prevalentemente britannica, o in ogni caso influenzate dai canoni interpretativi, vigenti nella perfida Albione. Se dal punto di vista storico i problemi da risolvere non erano molti (sarebbe bastato chiarire l’estraneità degli irlandesi, gaelici e cattolici dai britannici invasori dell’Irlanda e, all’atto della colonizzazione, ormai definitivamente protestanti), non si poteva dire la stessa cosa per quanto riguardava il presente, da intendere comunque in senso lato, dal momento che in questo presente andava incluso un periodo di circa ottant’anni, quanti cioè erano trascorsi dalla divisione dell’Irlanda in due (la spartizione). Messe da parte le remore per la difficoltà del tema affrontato nella sua totalità, riconoscendo nello stesso tempo le potenzialità positive di una simile scelta, mi sono messo al lavoro.Avevo strutturato l’ipotetico articolo in quattro parti: – un excursus storico di più di settecento anni, dall’invasione dell’Irlanda da parte degli anglo-normanni alla proclamazione della repubblica indipendente d’Irlanda del 1916 e alla successiva spartizione; – un’analisi della spartizione, con le relative conseguenze discriminatorie, politiche e sociali, per la minoranza cattolica, nell’ultra-artificiale Irlanda del Nord; – una descrizione degli eventi più significativi, a partire dai disordini (i troubles) del 1969, per arrivare ai giorni nostri; – un’analisi dell’Accordo del Venerdì santo, come evoluzione del processo di pace, avviato nel 1993.
E ho lavorato sodo! Le difficoltà erano sorte immediatamente per lo spazio limitato dell’articolo che, nella sostanza, avrebbe dovuto riassumere l’intera storia dell’Irlanda. Decisi di lavorare, in un primo momento, senza pensare alle dimensioni e giunsi alla conclusione che, con il materiale raccolto, si sarebbe potuto scrivere un agile libretto sulla storia dell’Irlanda, e non mortificarla in una logica da Bignami. Ecco rivelato l’arcano! La terza e la quarta parte costituirono il primo saggio. La prima e la seconda parte vedono la luce soltanto oggi, vent’anni dopo. Giusto però intitolare il tutto Piccola storia dell’Irlanda. Che cosa non si fa quando si è empaticamente coinvolti con le sorti di un popolo! Quanto ad empatia, in realtà i popoli sono due: quello irlandese e quello palestinese.
ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]
A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato
Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi
Questo volume, curato da Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato, raccoglie gli Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», promosso dall’Università degli studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, e dalla Associazione «Philo. Pratiche filosofiche», il 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
Si evidenziano i relatori e i temi trattati:
Daniele Guastini Inattualità e attualità della paideia poetica
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Angelo Tonelli «La Sapienza greca tra Oriente e Occidente. Dioniso, Eleusis, Parmenide, le Upanishad e il “Mongolo di Taranto”
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Alberto Jori Ippocrate ‘filosofo’: dal sapere ontologico alla scienza funzionale
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Arianna Fermani ”In ogni caso si deve filosofare”. Aristotele e l’attualità della filosofia
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Maurizio Migliori Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo
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Giulio A. Lucchetta «Quale rischio corre Dione a Boristene? Un bilancio della cultura greca in età ellenistico-imperiale
Elena Bartolini – Andrea Ignazio Daddi – Alessandra Filannino Indelicato
Premessa
Il presente volume raccoglie gli interventi proposti nel corso del convegno Il futuro dell’antico, svoltosi il 27 e 28 Marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca: due giornate di studio volte ad esplorare, nel passato, potenzialità e insegnamenti ancora da pensare, dunque contemporanei. Studiosi importanti si sono incontrati per offrire agli studenti e alla cittadinanza l’occasione di un incontro con il pensiero antico, troppo spesso trascurato, soprattutto nelle sue connessioni con il presente, nonché nei suoi slanci verso un futuro inesplorato. Dell’antico si sono così messe in luce la densa e ancora contemporanea vitalità, nonché le conseguenti suggestioni e implicazioni sul piano formativo, etico e politico. Coordinatori scientifici del convegno sono stati la Prof.ssa Claudia Baracchi e il Dott. Luca Grecchi, il cui precipuo interesse, insieme al comitato organizzativo rappresentato dagli stessi curatori degli atti (Dott.ssa Elena Bartolini, Dott. Andrea Ignazio Daddi e Dott.ssa Alessandra Filannino Indelicato), è da sempre quello di mantenere vivo e vitale il contributo sapienziale filosofico-antico nel suo nesso con l’analisi della vita quotidiana, in tutti i suoi molteplici aspetti. Come vedremo, l’antico risulta costantemente carico di “novità”, per cui i contributi qui presentati, pur differenti nell’impianto generale per contenuti e per approcci, hanno questo in comune: l’effervescente afflato, sentito con prioritaria urgenza, di vivere il contemporaneo non indifferenti all’amore per la saggezza che nell’antico trova origini e sviluppi ancora tutti da riscoprire e da esplorare. Quella che, allora, attraversa i vari testi come un filo rosso, potrebbe essere una sola grande domanda: quale futuro per l’antico?
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Il primo saggio è presentato da Daniele Guastini, che offre un’analisi della paideia poetica nei suoi aspetti di inattualità ed attualità. Con l’espressione “paideia poetica” egli intende riferirsi ad una formazione dell’essere umano declinata attraverso gli elementi caratterizzanti dell’epos, delle arti visive, della pittura, della scultura e dell’architettura secondo i canoni dell’antichità classica. Fin da subito l’autore ci avverte di evitare di sovrapporre o equiparare paideia poetica ed educazione estetica, considerando quest’ultima secondo i criteri imposti dal neoclassicismo. Guastini evidenzia che la maggiore distanza tra queste due prospettive si riscontra, più che nella mancanza di centralità dell’arte nel contesto contemporaneo, nel tipo di esperienza che si ha rispetto agli oggetti indicati dalla teoria estetica come “opere d’arte”. Il momento cruciale in cui si avvera la divergenza tra queste due diverse possibilità esperienziali sarebbe da trovare nella proposta estetica di Hegel, convinto sostenitore della storicità del concetto di arte e del necessario superamento di questa da parte di religione e filosofia, e in quella di Kant, secondo cui l’arte viene a identificarsi con la creatività del genio. È con Kant che si sancisce l’inutilità pratica dell’esperienza estetica e dell’arte in genere, così come la contenuta delimitazione gnoseologica a cui questa può aspirare. Oltre ad esporre le dinamiche di tale divergenza, Guastini ne approfondisce i motivi storico-filosofici, ripercorrendo le vie teoriche che ne hanno permesso lo sviluppo. Infine, nella terza e ultima parte del suo scritto, egli ci fornisce spiegazione circa le ragioni che portavano i greci a considerare la paideia poetica propedeutica non solo alla formazione ma soprattutto al sapere, intravedendone risvolti propositivi per la contemporaneità.
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Con incisività, il saggio di Angelo Tonelli, dal titolo quanto mai esaustivo, conduce il lettore verso l’immediata e provocatoria comprensione del debito contratto da una inesistente – al singolare – “grecità”, nei confronti del tutt’altro-che-occidentale. Grecità bastarda, meticcia, spuria, mostrata nella sua irriducibilità non soltanto al logos che facendo parola già tradisce il mondo, ma anche al duale e al dicotomico. “Grecità” ereditata e rifratta dalle complessità dello sciamanesimo iperboreo mongolico-siberiano e trace, ma anche egiziano, iranico, persiano; riverberata nell’occulto di antichissimi echi di un Oriente taoista e upanishadico e, ancora, in radicale fusione con le inattingibili origini del pensiero. E dunque, la nascita della filosofia, pure nella forma logico-razionale contemporanea, è chiamata a cum-prehendere la vita come pratica quotidiana contemplativa e partecipativa di sat, l’intero-verità, del cosmo-cuore, dell’immanentismo-panico. Dioniso, Eleusi e Parmenide sono tra le più nitide testimonianze di questo immenso movimento di radicamento nel panorama straniero, slancio altro e invito a rieducare lo sguardo all’antico e a riconsiderare il circolo di trasmissione-ricezione del passato. Sicuramente Tonelli ha il coraggio di mostrare il futuro incerto, assieme alla violenta brutalità e all’ostilità perpetrata da un contemporaneo ladro, dimentico – più che altro per brame di potere o per necessità storico-politiche – della forza trasformativa dell’intuito (nòos) e della necessità di una vita nel segno di quest’ultimo praticata. Per quanto oggettificato, strumentalizzato, peraltro morente – un resto, insomma, una scoria non meglio individuata del soma psichico-cosmico – nòos ci attraversa e ci compone, in quanto organo di connessione umano-divino, e ancora ci interroga sul rapporto tra essere e apparire, illuminando la via sapienziale che è occidentale e orientale insieme. E tutto questo soggiace a null’altra legge se non a quella che è protetta dal non dicibile, difesa dal silenzio di un’umanità in cammino nella direzione dello sprofondamento oscuro e totalizzante del tò eón, che è anche rinascita verso un futuro dove sia possibile ereditarsi nella propria interezza s-confinata e con-fusa di mondi, tutti quelli che ci compongono.
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Alberto Jori analizza l’epistemologia ippocratica, prima testimone e promotrice del passaggio fondamentale, e rivoluzionario su più livelli – culturale prima di tutto -, tra il modello essenzialista (o ontologico-strutturale) e il modello funzionale (o storico-evolutivo). Il primo, in linea con la mitopoiesi e dominato dalla ricerca delle archai operata soprattutto dalla prima filosofia naturalista, utilizza il metodo genetico come una forma riduzionistica del concetto di storicità – forma caratterizzata da linearità, staticità, reversibilità e perenne ripetizione degli eventi e dunque implicante una temporalità intesa nella sua astoricità o antistoricità. Il secondo invece, prevalente nel Corpus Hippocraticum e sviluppatosi inizialmente in stretta opposizione al primo, si impone con il postulato metodologico secondo cui l’uomo è prima di tutto produttore e prodotto storico e culturale, differenziandosi dalle bestie per la produzione dei suoi propri strumenti. Questo modello, che presenta per Jori echi marxisti, non soltanto ruota attorno all’asse temporale diacronico, attribuendo alla storicità il compito di investire integralmente il piano ontologico ed epistemologico, rendendoli perfettamente sintonizzati, ma vuole anche “garantire la condizione di possibilità dell’itinerario storico-culturale che traccia, nel segno del progresso”. Per questo motivo, la iatrikè va salvaguardata da possibili sconfinamenti disciplinari – come per esempio la scienza medica della nutrizione e dell’alimentazione va differenziata dalla cucina, che pure veniva considerata una proto-medicina – e va ribadito fortemente il primato di quella su qualsiasi scienza, anche della natura. In conclusione, Jori mostra come sia proprio nel passaggio dalla vana investigazione archeologica delle essenze all’indagine strutturale delle relazioni – passaggio testimoniato anche da Platone, che nel Fedro supporterà questo nuovo modello – che si gioca la vera grande provocazione di Ippocrate, provocazione che viene lasciata ai posteri in forma di eredità da riscoprire e che non allontana il medico dalla via sapienziale ma, al contrario, ne riconferma il talento di grande filosofo.
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Arianna Fermani conduce il lettore alla ri-scoperta del versante prettamente pedagogico-formativo del filosofare aristotelico, troppo spesso ignorato, sottolineando come la dimensione della paideia sia, per lo Stagirita, un elemento cruciale ai fini della piena “fioritura dell’umano”. Se, infatti, più in generale, la filosofia greca si pone, sin dalle origini, come una “teoria generale dell’educa zione”, è in particolare con Aristotele che formazione ed etica finiscono col fondersi inscindibilmente. Esaminando soprattutto gli scritti etici e politici, allora, la studiosa tratteggia i due diversi scenari che questo rapporto costitutivo assume nel pensiero del filosofo: l’educazione è, da un lato, la “precondizione dell’etica” e in quanto tale ha nell’acquisizione della virtù – cui la stessa prepara attraverso la relazione tra il soggetto in crescita e la figura del maestro e la conseguente imitazione di un modello – il suo esito; d’altro canto, essa al contempo coincide con l’etica quale continua “attività dell’anima secondo virtù”, che sola è “garante di pienezza e felicità” per l’individuo ormai adulto. Questo attento riesame delle posizioni etico-pedagogiche aristoteliche, quindi, ci mostra come già il filosofo avesse inaugurato la prospettiva, oggi diffusa, dell’educazione permanente e ci consente di cogliere l’attualità, tutta inattuale, di un messaggio che ammonisce la contemporaneità a non recidere troppo sbrigativamente i legami tra pratiche formative e ricerca della vita buona. Una particolare attenzione viene, inoltre, attribuita al ruolo che Aristotele riserva alle passioni e al desiderio nell’ambito dello stesso processo educativo attestando, in tal modo, una misurata consapevolezza del coinvolgimento di tutto lo psichismo nell’attività di formazione dell’umano che precede di molto le elaborazioni freudiane. Infine Fermani rileva, con Aristotele, la costitutiva ambivalenza dell’apprendere e dell’educare che molto spesso si danno più come necessaria “correzione dolorosa” che come piacevole esperienza ludica, per quanto lo Stagirita, nuovamente precorrendo i tempi, inviti ad adottare pratiche formative attente a non snaturare le diverse specificità soggettive o, come diremmo oggi, individualizzate.
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Maurizio Migliori si sofferma sulla relazione amicale che intercorre tra Platone e Socrate, “l’uomo più giusto del suo tempo”, portandola ad esempio della filosofia platonica nel suo insieme. Il passaggio su cui l’autore si sofferma è tratto dalla Lettera VII, in cui si fa riferimento anche al processo che ha visto coinvolto Socrate. La figura di Socrate, tuttavia, non viene mai definita con gli stessi termini lusinghieri negli altri testi platonici; anzi, la presenza e la caratterizzazione di Socrate trovano spazio nei dialoghi solo alla luce del “gioco” dialettico cui Platone invita il lettore – un gioco in cui via via la figura socratica va scomparendo. Migliori evidenzia come, in un certo senso, i primi dialoghi platonici siano da considerarsi una genuina derivazione rispetto all’indagine socratica, preminentemente incentrata sul «che cos’è (tì êsti)»: in tali testi, Platone si concentra sulla differenza che intercorre tra l’incertezza propria del mondo diveniente e l’ordine stabile delle idee. Altro è il Socrate del Simposio che, dopo esser stato maestro di Agatone, apprende da Diotima quale sia la vera natura di Eros e quale l’ascesa verso il vero sapere, in un intreccio altalenante di sapienza ed ignoranza. L’autore si sofferma poi sia sul Fedro che sul Fedone, esempi del filosofare giocoso che permettono a Platone di manifestare quelli che lui ritiene essere i limiti della filosofia socratica. In questo modo viene accentuato l’aspetto di ricerca insito nel sapere filosofico, ma viene anche accennato il rimando al mondo altro delle idee. L’amicizia tra i due, perfetto emblema dei rapporti in cui si declina la philia greca, non significa completa sovrapposizione di pensiero, ma coesione nella ricerca, accettando i rischi che questa richiede.
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Il volume si chiude con il contributo di Giulio A. Lucchetta che ci porta sulle tracce di Dione di Prusa, di ritorno dalla lontana Boristene, e offre una reinterpretazione della sua Orazione XXXVI. Se il retore, celebre per abilità e moderazione, narra le difficoltà con cui si è scontrato una volta giunto all’estremità dell’ecumene, e ammette il fallimento della sua strategia comunicativa presso un uditorio apparentemente fuori dal tempo, è per denunciare i limiti del logos ellenistico che, ormai “abusato e rinsecchito” da una “razionalità astratta e inconcludente”, può ben poco di fronte al riemergere di quanto, di una grecità arcaica ancora in dialogo con l’Oriente, sembrava andato perduto: di fronte all’irrompere del numinoso e dell’immaginifico, di fronte all’esperienza del thaumàzein, il dire scientifico-razionale cede il passo al silenzio oppure di metafore atte a ornare il logos”. E il mito può osare l’altrimenti indicibile. L’incontro tra Dione e la comunità boristenita, fieramente greca dai tratti ancora omerici e al contempo profondamente influenzata dalle popolazioni barbariche che la circondano, è, allora, l’esito di un viaggio che il sofista compie tanto nello spazio quanto nel tempo e il suo racconto, lungi dall’essere un mero argomento di interesse storiografico, costituisce per noi, oggi, un monito a restare aperti all’Alterità: a quella che ci circonda e a quella che ci in-forma, ci abita, dice della nostra provenienza non meno che del nostro destino.
Il convegno si è rivelato una preziosa occasione di condivisione e confronto, un vitale momento di dialogo costruttivo all’interno della comunità filosofica. Nel rendervi testimonianza, dando spazio alla pluralità di voci coinvolte così come alla diversità di approcci, questo testo vuole essere un invito a guardare l’antico con occhi nuovi, disincantati, scevri da giudizi precostituiti, per immergersi nel non ancora pensato che lì trova la sua inesauribile sorgente.
Un saggio su Michelstaedter è un’impresa destinata inesorabilmente all’incompiutezza: scrivere di colui che con le parole volle fare guerra alle parole, alla ricerca di una pienezza di vita inattaccabile, da trovare, come fondamento stabile, socraticamente solo in se stessi – dando tutto e non chiedendo nulla per sé. Non si potrà mai dire compiutamente l’altezza vertiginosa raggiunta dal suo pensiero, che resta come una cifra inaudita dell’assolutezza dell’Essere e della giustizia da lui cercata. Eppure, col suo pensiero, questo giovane (ma saggio) solitario, che si richiama alla sapienza di Eraclito e di Parmenide e che troverà un’eco, e una parentela postuma, anche in Heidegger, vorrebbe unire il mondo in un unico afflato di fratellanza e d’amore, sull’esempio di Cristo e di Buddha: da lui presi come modello di vita persuasa, sul finire della sua breve esperienza terrena.
In Michelstaedter è risuonata la voce di qualcosa di sovrumano, così lontana dalla sua, e ancor più dalla nostra, epoca del compiuto nichilismo: del sapere scientifico ormai vittorioso e della tecnica dimentica dell’anima.
Roberto Fumagalli è nato a Monza nel 1973. Laureato in Filosofia presso l’Università di Pavia, ha tra i suoi primi interessi il teatro: formandosi a Padova, presso il Teatro Stabile del Veneto, e come uditore di Luca Ronconi, presso il Piccolo Teatro di Milano. Ha insegnato presso istituti universitari privati in Italia e in Corea del Sud. È stato autore e regista radiofonico oltre che regista-documentarista. Occasionalmente ha anche scritto per periodici culturali locali.
La formazione dell’ideale filosofico costituisce un momento di grande importanza nella storia dell’etica greca e forma il vincolo più intimo ed essenziale di continuità sia tra la riflessione morale più antica e l’indagine naturalistica che caratterizza fin da principio la filosofia presocratica, sia, più tardi, fra questo naturalismo e l’umanesimo di Socrate. Secondo l’idea tradizionale derivata da Cicerone, la filosofia, che fino allora avrebbe rivolto al cielo la sua contemplazione, con Socrate soprattutto, l’abbasserebbe verso la terra e l’uomo. In realtà, anche l’interesse conoscitivo verso la natura che appare al principio della filosofia greca ubbidiva a motivi essenzialmente umani, costituiti soprattutto da un’esigenza profondamente etica e religiosa, che sorgeva da un nuovo concetto dell’uomo e del suo fine. Per la tradizione anteriore l’uomo, mortale e limitato, doveva pensare unicamente cose umane, cioè limitate e mortali, rinunciando alle divine, che si dichiaravano privilegio degli dèi, difeso dalla loro gelosia. Nell’attribuire all’uomo la capacità di pensare alle cose divine, e nel farlo in tal modo partecipe del divino, convertiva in un’obbligazione sacra per lui quello che la saggezza anteriore gli vietava come insolenza (hybris) ed empietà. La filosofia pertanto diviene per i moralisti greci la forma più eccellente ed efficace di purificazione spirituale (catharsis); e l’attività del filosofo rappresenta – come ci mostra nella Repubblica platonica l’allegoria della caverna – una missione di illuminazione e liberazione. Socrate personificò questa missione, nella sua vita e nella sua morte.
I libri non hanno solo un proprio destino: talvolta possono essere destino.
Jean Améry
Come vive un intellettuale la propria condizione di uomo dello spirito nel luogo dell’anti-spirito per eccellenza che fu il Lager? Con uno stile a metà tra il saggio e la narrazione, Daniele Orlandi ripercorre la vicenda umana e culturale di Jean Améry, filosofo e scrittore, fra i più alti testimoni dello sterminio nazista, morto suicida nel 1978.
Daniele Orlandi è nato a Roma, dove vive, nel 1977. È dottore di ricerca in “Cultura e territorio”. Con Petite Plaisance ha pubblicato: Matricola 76613. Il Mauthausen dimenticato di Aldo Valcarenghi (2015). Ha curato i volumi La Farfalla, versi rubati a Sante Notarnicola (2015) e B. Guidetti Serra, Primo Levi, l’amico, (2016). Nel 2017 esce la sua prima opera narrativa: T. Lettera a una madre sul primo amore.
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