«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
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Uno strumento critico per affrontare il viaggio nell’affascinante scoperta del vasto continente della letteratura e della filosofia: il libro di Giorgio Riolo, La via del classico.
Sono stato molto contento di accogliere, nella collana che dirigo, La via del classico di Giorgio Riolo, per due motivi, uno personale e l’altro culturale. Il motivo personale è la riconoscenza all’amico Giorgio, per essere stato, ormai una trentina di anni fa, una delle prime persone, nella sua qualità di responsabile della Libera Università Popolare di Milano, ad affidarmi un corso di lezioni (insieme a Mario Vegetti), quando pure ancora non avevo pubblicato nulla. Riolo ha infatti coordinato per molto tempo questa importante associazione culturale, collegata al Punto Rosso, che nel capoluogo lombardo, principalmente tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, è stato un riferimento notevole per la riflessione teorica comunista.
Il motivo culturale è, tuttavia, più rilevante rispetto a quello personale. La via del classico costituisce infatti una raccolta rielaborata di molte sue lezioni sulla letteratura, tenute soprattutto alla Biblioteca comunale di Bollate, dotata di un elevato valore orientativo. Il libro rappresenta in effetti un omaggio, in un’epoca in cui i classici sono sempre meno letti, alla grande tradizione umanistica, che Riolo interpreta nella maniera a mio avviso migliore, ovvero come dotata non solo di valore “estetico”, ma anche di valore sociale, politico, in senso ampio filosofico. L’umanesimo, per l’autore, il cui approccio condivido, è sempre infatti anticrematistico (crematistica essendo ogni modalità economico-sociale caratterizzata dal fine della massima acquisizione di beni materiali, chremata in greco antico, quale è il modo di produzione capitalistico). L’umanesimo, almeno quello europeo, cui Riolo in questo libro maggiormente si ispira, è anticrematistico sin dalla sua matrice greca originaria, ponendosi come fine la buona vita degli esseri umani nel rispetto del cosmo naturale. Il fine della crematistica è invece opposto, ossia il denaro, per ottenere il quale tutto il resto, dunque esseri umani e cosmo naturale, non sono altro che strumenti, con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti ogni giorno – quando i media capitalistici, almeno, ci consentono di vederli –, in termini di devastazione ambientale, guerre di occupazione, povertà diffusa ed altro ancora.
Per entrare, in ogni caso, per quanto in maniera sintetica, nel merito del libro, l’autore lo presenta, con molta modestia, come caratterizzato dall’obiettivo di porsi come utile strumento per i lettori, ovvero come un “primo bagaglio per affrontare il viaggio all’affascinante scoperta del vasto continente letteratura” (p. 9). Riolo afferma anche, a mio avviso con ragione, che il testo evita in maniera consapevole due estremi assai presenti nella pubblicistica letteraria odierna, ossia da un lato lo specialismo erudito, dall’altro la banalizzazione eccessiva. Il libro, nel suo intento di portare acqua alla riflessione politico-culturale, naviga benissimo tra questi Scilla e Cariddi, rimanendovi equidistante, in un itinerario che pure si snoda, a partire da Omero, fino a Frantz Fanon, passando per la tragedia e la filosofia greca, la cultura latina, la Bibbia e i Vangeli, e ancora Dante, Machiavelli, Shakespeare, Goethe, Rousseau, Balzac, Stendhal, la letteratura russa, Mann, Manzoni, Leopardi, Verga, nonché i grandi autori italiani del dopoguerra.
Nella sua introduzione, l’autore sostiene, tra le altre cose, che “cultura è come si sta al mondo” (p. 11), ossia un sapere che aiuta a realizzare nella maniera migliore la propria umanità. Nei miei rapporti pluriennali con Riolo, non frequenti ma rimasti intatti nel tempo, ho potuto constatare sempre, appunto, questa postura umana di disponibilità e correttezza, che emerge in modo nitido anche dalle pagine di questo libro. Per tale motivo sono lieto che proprio Petite Plaisance sia stata il “luogo editoriale” da lui prescelto per il presente volume, il quale sintetizza fatiche di anni, essendo il coronamento di una lunga attività didattica, per quanto non condotta nei contesti consueti (ossia Licei ed Università). Conoscendo Riolo – persona dotata di interessi culturali vastissimi, come dimostra, a mero titolo esemplificativo, l’ottimo volume scritto con Massimiliano Lepratti Un mondo di mondi. L’avventura umana dalla scoperta dell’agricoltura alle crisi globali contemporanee (Asterios, 2021) –, questo libro non sarà per lui un punto di arrivo, ma di partenza per ulteriori riflessioni, le quali auspico non mancheranno, per la passione, nonché per la lucidità, con cui riesce ad analizzare la socialità umana ed insieme, come in questo caso, i grandi capolavori della letteratura mondiale.
Associazione culturale Petite Plaisance
La contraddizione
Amici
Amore
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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L’immaginario e il Simbolico. Commentario di Proclo all’Alcibiade primo
«La ricerca muove l’occhio dell’anima
verso l’alto e lo esercita alla visione della verità».
Proclo, Commentario all’Alcibiade primo di Platone, 236, 1.
Dai commentari al Timeo di Platone
«Con quale intenzione Dio, dopo una inerzia di durata infinita, penserà di creare? Perché pensa che è meglio? Ma prima, o lo ignorava, o lo sapeva. Dire che lo ignorava è assurdo; ma se lo sapeva, perché non ha cominciato prima?».
Proclo, Commentario al Timeo, 115 e.
Stele funeraria di Proclo
Πρόκλος ἐγὼ γενόμην Λύκιος γένος, ὃν Συριανὸς
ἐνθάδ’ ἀμοιβὸν ἑῆς θρέψε διδασκαλίης.
ξυνὸς δ᾽ ἀμφοτέρων ὅδε σώματα δέξατο τύμβος·
αἴθε δὲ καὶ ψυχὰς χῶρος ἕεις λελάχοι
«Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò qui per succedergli nell’insegnamento. Questa tomba comune accolse il corpo d’entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!».
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Alla luce delle epoche passate, siamo troppo spesso obbligati a “credere sulla parola ad ogni epoca”, cioè a credere ai suoi ideologi ufficiali – in, misura più o meno grande – poiché non sentiamo la voce del popolo, non sappiamo trovare né decifrare la sua espressione pura e schietta […].
Questo vecchio potere e questa vecchia verità avanzano pretese di assolutismo, di valore extratemporale […] Il potere e la verità dominanti, non accorgendosi della propria origine, dei propri limiti, della propria fine, del proprio volto vecchio e ridicolo, e del carattere comico delle loro pretese di eternità ed immutabilità, non riescono a vedersi nello specchio del tempo. E i rappresentanti del vecchio potere e della vecchia verità recitano la loro parte con l’aspetto più serio e con i toni più seri […]. C’è sempre in questa serietà un elemento di paura e di intimidazione … Nella cultura di classe la serietà era ufficiale, autoritaria, si associava alla violenza, ai divieti, alle restrizioni […]. Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso. Il riso non impone divieti né restrizioni […]. La vittoria sulla paura, […] percepita non soltanto come vittoria sulla paura mistica (“paura divina”), ma sulla paura davanti alle forze della natura, soprattutto come vittoria sulla paura morale, che incatena, opprime e offusca la coscienza dell’uomo: la paura di tutto ciò che è sacro e vietato (“tabu” e “mana”), del potere divino e umano, dei comandi e dei divieti autoritari […].
Vincendo la paura, il riso ha rischiarato la coscienza dell’uomo e gli ha rivelato un mondo nuovo […]. Il popolo non si esclude da tutto il mondo in divenire. È anch’esso incompiuto; anch’esso, morendo, nasce e si rinnova […]. Il riso ambivalente del popolo esprime […] l’opinione del mondo intero in divenire, in cui si trova anche colui che ride […]. Il riso autentico, ambivalente e universale, non esclude la serietà, ma la purifica e la completa. La purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo e dalla perentorietà, dagli elementi di paura o di intimidazione, dalla didatticità, dall’ingenuità e dall’illusione, dalla fissazione nefasta e unilaterale […]. Il riso è una forma interiore, non esteriore […]. Esso ha liberato non soltanto dalla censura esteriore, ma soprattutto dal grande censore interiore, dalla paura del sacro, delle proibizioni autoritarie, dal passato, dal potere: paure ancorate nello spirito umano da migliaia di anni […]. Ha aperto gli occhi sul nuovo e sul futuro […].
Il riso ha rivelato un mondo nuovo soprattutto nel suo aspetto gioioso e lucido […]. E non si è mai riusciti a renderlo del tutto ufficiale. È rimasto sempre l’arma della libertà nelle mani del popolo. In contrapposizione al riso, la serietà […] era interiormente pervasa da elementi di paura, debolezza, docilità, rassegnazione, menzogna, ipocrisia o, al contrario, da elementi di violenza, intimidazione, minacce, divieti. Sulla bocca del potere la serietà intimidiva, esigeva e vietava; in quella di coloro che erano sottomessi, al contrario, tremava, si sottometteva, adulava, lodava […].
La serietà opprimeva, terrorizzava, incatenava; mentiva ed era ipocrita […]. Era chiaro che dietro al riso non era mai nascosta la violenza, che il riso non esigeva alcun rogo, che l’ipocrisia e l’inganno non ridono mai, ma hanno addosso una maschera seria, che il riso non ha dogmi e non può essere autoritario, che non è segno di paura, ma è coscienza di forza, che è legato all’atto sessuale, alla nascita, al rinnovamento, alla fecondità, all’abbondanza, al mangiare e al bere, all’immortalità del popolo, ed è legato all’avvenire, al nuovo, al futuro, e gli sgombera il cammino. È per questo motivo che del tutto spontaneamente non si credeva alla serietà mentre si confidava molto nel riso dei giorni di festa […]. La nozione della festa con la cultura borghese non ha fatto altro che diminuire e snaturarsi […].
La festa è la categoria principale e indistruttibile della cultura umana […]. Le feste (qualunque esse siano) sono una forma primaria molto importante della cultura umana. Non si deve considerarle né spiegarle come un prodotto delle condizioni e degli scopi pratici del lavoro collettivo o, interpretazione ancora più volgare del bisogno biologico (fisiologico) di riposo periodico. Le festività hanno sempre avuto il contenuto essenziale e il senso profondo di una concezione del mondo. Mai alcun “esercizio” di organizzazione e di perfezionamento del processo di lavoro collettivo, alcun “giocare a lavorare”, alcun riposo o tregua nel lavoro sono potuti diventare delle feste in sé. Perché divenissero feste c’era bisogno di un qualche altro elemento attinto da una diversa sfera della vita comune, da quella spirituale-ideologica. Dovevano essere sanzionate non dal mondo dei mezzi e delle condizioni indispensabili, ma da quello degli scopi superiori dell’esistenza umana […]. Senza tutto ciò non poteva esistere alcun clima di festa.
Le festività hanno sempre un rapporto essenziale con il tempo. Alla loro base sta sempre una concezione determinata e concreta del tempo naturale (cosmico), biologico e storico. Inoltre esse, in tutte le fasi di evoluzione storica, sono state legate a periodi di crisi, di svolta, nella vita della natura, della società e dell’uomo. Il morire, il rinascere, l’avvicendarsi e il rinnovarsi sono sempre stati elementi dominanti nella percezione festosa del mondo […]. Le forme della festa popolare sono rivolte al futuro e rappresentano la vittoria di questo futuro […] sul passato […]. L’immortalità del popolo garantisce il trionfo del futuro. La nascita di qualcosa di nuovo, di più grande e di migliore è indispensabile come la morte di ciò che è vecchio. L’uno si trasforma nell’altro, il migliore mette in ridicolo e distrugge il peggiore. Nell’insieme del mondo e del popolo non c’è posto per la paura; la paura può penetrare soltanto in quella parte che si è staccata dal tutto, in quella parte che sta morendo, presa separatamente da tutto ciò che sta venendo alla luce. L’insieme del popolo e del mondo trionfa allegramente e impavidamente […].
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Mauro Bonazzi, Il demone della nostalgia. L’invenzione della Grecia da Nietzsche a Arendt, Einaudi, 2025
L’Autore
Mauro Bonazzi insegna Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Milano. Ha insegnato anche a Clermont-Ferrand, Bordeaux, Lille e all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Specialista del pensiero politico antico, di Platone e del platonismo, tra le sue pubblicazioni ricordiamo: I sofisti (Carocci, 2010), Platone, Menone e Fedro (Einaudi, 2010 e 2011), À la recherche des Idées. Platonisme et philosophie hellénistique (Vrin, 2015), Il platonismo (Einaudi, 2015), Atene, La città inquieta (Einaudi, 2017), Piccola filosofia per tempi agitati (Ponte alle grazie 2019) e Creature di un sol giorno. I greci e il mistero dell’esistenza (Einaudi, 2020).
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«La specializzazione della mano significa lo strumento:
e strumento significa l’attività umana specifica.
La mano dell'uomo è altamente perfezionata
dal lavoro di centinaia di migliaia di anni...
Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il più rozzo coltello di pietra...
La mano dell'uomo ha raggiunto quell'alto grado di perfezione...
solo attraverso il lavoro...
E l’uomo ha fatto tutto ciò, innanzitutto ed essenzialmente,
per mezzo della mano».
F. Engels,
Dialettica della natura,
Editori Riuniti, Roma, 19713, pagg. 49-50
«Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’aver mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti uno strumento, e la natura, come farebbe una persona intelligente, attribuisce sempre ciascuno di essi a chi può servirsene; giacché è più conveniente dare flauti a chi è già flautista, che non attribuire l’arte del flauto a chi possiede flauti. La natura attribuisce ciò che è minore a ciò che è maggiore e più importante, non il più nobile e il maggiore al minore. Se dunque questa è la via migliore, e la natura nel campo delle possibilità realizza quella migliore, allora non è che l’uomo sia il più intelligente grazie alle mani, ma ha le mani grazie all’esser il più intelligente degli animali. E il più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; ora la mano sembra costituire non uno ma più strumenti: in un certo senso essa è uno strumento preposto ad altri strumenti. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. Quanto a coloro che sostengono che l’uomo non è costituito bene, anzi peggio di tutti gli altri animali (dicono infatti che non ha protezione per i piedi, è nudo e sprovvisto di armi da combattimento), il loro discorso non è corretto. Gli altri animali hanno un solo mezzo di difesa, e non è loro concesso di sostituirlo con un altro, anzi devono dormire e fare qualsiasi altra cosa tenendo sempre, per cosÌ dire, le scarpe ai piedi, cioè senza deporre la corazza che hanno sul corpo, né possono cambiare l’arma che gli è toccata in sorte. All’uomo, invece, sono concessi molti mezzi di difesa, ed egli può sempre mutarli, adottando inoltre l’arma che vuole e quando la vuole. La mano infatti può diventare artiglio, chela, corno, o anche lancia, spada e ogni altra arma o strumento: tutto ciò può essere perché tutto può afferrare e impugnare. Anche la forma della mano è stata dalla natura congegnata in questo senso. Essa è articolabile e divisa in più parti, perché nella divisione è implicita anche la capacità di coesione, mentre la prima non è implicita nella seconda. Ed è possibile servirsene come di un sol organo, di due o di molti»
Aristotele, Opere biologiche, Le parti degli animali, Libro IV, 687a-687b, a cura di Diego Lanza e Mario Vegetti Utet, 1971, pp. 710-711.
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