Albert Camus (1913-1960) – Ciò che conta è essere veri. Ogni volta che si cede alle proprie vanità, ogni volta che si pensa e si vive “per apparire”, si tradisce.

«La bellezza non fa rivoluzioni.
Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza».
A. Camus, Homme révolté

camus-taccuini

Fra poco altre cose, e gli uomini, torneranno ad afferrarmi. Ma lasciatemi ritagliare questo minuto dalla stoffa del tempo, come altri lascerebbero un fiore fra le pagine per racchiudervi una passeggiata in cui li ha sfiorati l’amore. […]. Il libro si apre su una pagina amata. […] Posso dire […] che ciò che conta è essere umani, semplici. E invece no: ciò che conta è essere veri […]. Prendo coscienza delle potenzialità di cui sono responsabile. Ogni minuto della vita ha in sé un valore miracoloso e un volto eternamente giovane. [Gennaio 1936]

***

La vita è difficile da vivere. Non si riesce sempre ad adeguare le proprie azioni alla propria visione del mondo. […] Il mio sforzo consisterà nel portare al limite estremo questa presenza di me stesso a me stesso, nel conservarla davanti a tutti gli aspetti della mia vita – anche a costo di quella solitudine che, ora lo so, mi è tanto difficile da sopportare. Non cedere, tutto sta lì. Non consentire. Non tradire. […] Ogni volta che si cede alle proprie vanità, ogni volta che si pensa e si vive “per apparire”, si tradisce. E ogni volta è sempre la gran disgrazia di voler apparire che mi ha rimpicciolito dinanzi al vero. […] Veramente forte è colui che appare esclusivamente quando è necessario. [Febbraio 1937]

Albert Camus, Taccuini


Albert Camus (1913-1960) – Ogni autentica creazione è in realtà un regalo per il futuro.
Albert Camus (1913-1960) – Il teatro è un luogo di verità: è per me esattamente il più alto dei generi letterari e in ogni caso il più universale.
Albert Camus (1913-1960) – Invece di uccidere e morire per diventare quello che “non” siamo, dovremo vivere e lasciare vivere per creare quello che realmente siamo.
Albert Camus (1913-1960) – Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l’esprime. Che cambi in esempio.

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Viola Papetti – «Animali quasi umani», testi drammatici nel segno di un simbolico espressionismo.

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Djuna Barnes

Animali quasi umani. Short Plays.
Testo originale a fronte.
Traduzione, cura e postfazione di Silvia Masotti.
Introduzione di Maura Del Serra, con uno scritto di Carmelo Rifici.
Disegni [14] e nota di accompagnamento di Cristina Gardumi.
Appendice iconografica dedicata a D. Barnes.
n copertina: Cristina Gardumi, Devil in the details, 2012
indicepresentazioneautoresintesi

 

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Djuna Barnes


«Animali quasi umani è il titolo degli Short Plays della mai dimenticata Djiuna Barnes […]. Un breve scritto di Carmelo Rifici dà il nome di “espresionismo simbolico” al gusto acerbo di questi brevi testi drammatici […]» [Leggi tutta la recensione nel PDF allegato qui sotto].

La recensione di Viola Papetti è stata pubblicata su “il manifesto”, Alias, dell’8 settembre 2013.

 

Viola Papetti,
Animali quasi umani,
testi drammatici nel segno di un simbolico espressionismo


Alcuni libri di Viola Papetti

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Viola Papetti

 

Arlecchino a Londra. La pantomima inglese 1700-1728. Studi e testi

Arlecchino a Londra. La pantomima inglese 1700-1728. Studi e testi

 

La commedia da Shakespeare a Sheridan

La commedia da Shakespeare a Sheridan

 

Le forme del teatro

Le forme del teatro

 

 

Lettere senza risposta

Lettere senza risposta

 

Il neoclassicismo

Il neoclassicismo

 

Gli straccali di Manganelli

Gli straccali di Manganelli

 

John Gay o dell'eroicomico

John Gay o dell’eroicomico


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Antonio Prete – Leggere è far respirare, insieme, l’immaginazione e il pensiero, è custodia dell’interiorità, è un ascolto silenzioso, è fare esperienza del tempo, contro la dissipazione, la distrazione, la spettacolarizzazione.

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«La lettura è un ascolto silenzioso. […] Leggere è legare lettere tra di loro, e allo stesso tempo trasformare la frase in immagine, in paesaggio, in situazione […] tutto vive dinanzi a noi mentre leggiamo. Un mondo accade. […] Leggere è fare esperienza del tempo, della sua estensione: mentre leggiamo, il tempo sembra perdere la sua prima amara qualità, che è quella di essere irreversibile, e infatti quel che è scomparso riappare, quel che più non c’è torna a vivere, e persino ciò che non è ancora accaduto, e ciò che non può mai accadere, ha una presenza, una sua vita. Quel tempo finito può essere attraversato, ci si può soffermare in una stagione, indugiare in una giornata. O in un istante. […] Si può attraversare lo spazio. La lontananza, quando leggiamo, non è schiacciata nella superficie visiva di uno schermo, dando l’illusione del qui e ora, come spesso accade con le tecniche visive della comunicazione, ma è attraversata nella sua profondità: è una lontananza che percorriamo, riempiamo di paesaggi, di oggetti, di figure. E questo perché nella lettura colui che legge non è uno spettatore, ma un soggetto attivo. Il lettore collabora con il farsi della scrittura, la scrittura vive del lettore, con il lettore, dentro i lettori. Gli antichi esegeti medievali dicevano che «la scrittura cresce con i lettori» (scriptura cum legentibus crescit). E questo accade anche quando, invece di fare scorrere le pagine con la mano, tocchiamo con una falange la superficie di un display e seguiamo con gli occhi lo scorrere di un e-book. Le forme del libro possono cambiare, anche smaterializzarsi, farsi elettroniche, fugaci, fragili, vitree, luminose, ma in questo cambiamento di forme il lettore sa che la sostanza interiore dell’ atto che è proprio della lettura non cambia: non cambia il rapporto con la risonanza interiore di quel che leggiamo. Possono tuttavia modificarsi i tempi e i modi e le forme del nostro indugiare su una pagina o su una frase, come cambia il modo di sottolineare, scrivere al margine, annotare. E questa sparizione o anche solo attenuazione è certo amara se osservata dal punto di vista della lettura intesa come collaborazione attiva al divenire di un testo. Dal rotolo di papiro al codice in pergamena alla stampa con caratteri mobili su fogli cartacei, la forma-libro ha intrattenuto con il lettore un rapporto per dir così d’equilibrio: due presenze in dialogo. Per dire di questo dialogo la miniatura prima e poi la pittura hanno molte volte raffigurato lettrici e lettori. O mostrato situazioni in cui la lettura è accadimento e sorgente di nuove azioni. […] La parola letta dà corpo e tremore al desiderio. La poesia, la narrazione, ospitano lungo il tempo e in tutte le lingue lettori e scene di letture, dischiudono da una lettura un’altra lettura, e costruiscono personaggi libreschi, nati da libri e trasformati in libro, primo tra questi don Chisciotte: e alla ricerca di un’idea o di una figura o di un’azione amate in un libro questi personaggi si avventurano nel labirinto della vita. […] E una lettrice, Ludmilla, è personaggio attivo e presenza che muove la macchina narrativa nel più metaletterario dei romanzi di Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Leggere è far respirare, insieme, l’immaginazione e il pensiero. Esercizio più che mai necessario nella nostra epoca: contro la dissipazione e la distrazione. Contro la spettacolarizzazione. Il tempo del leggere è custodia dell’interiorità. O anche, persino, riscoperta della propria interiorità. Agostino racconta nelle Confessioni che quando con altri amici andava a trovare Ambrogio, era colpito dal fatto che costui se ne stesse in silenzio a leggere e non si interrompesse all’arrivo delle visite: a quel silenzio erano invitati anche gli astanti, poiché la lettura, esercizio interiore, era prima e oltre la conversazione, prima e oltre l’incontro.

Proust vedeva nel libro lo strumento offerto al lettore per scorgere quel che forse senza il libro costui non avrebbe potuto scorgere in se stesso. E andava più oltre: “In realtà, ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso”, si dice in una pagina del Tempo ritrovato. Ma Barthes, il proustiano Barthes, conclude Critica e verità, del 1966, opponendo al tono assertivo e dichiarativo della critica sovrapposto alla “verità” dell’opera il rapporto di “desiderio” che è proprio del lettore: “Leggere è desiderare l’opera, è voler essere l’opera, è rifiutarsi di replicare l’opera al di fuori di ogni altra parola che non sia quella dell’opera stessa”».

Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 148-151.

***

 Immagine in evidenza: Antonio Fontanesi, Solitudine, 1875, Musei Civici, Reggio Emilia.

Risvolto di copertina
Dentro di noi custodiamo un cielo nascosto, uno spazio-tempo altrettanto abissale dell'universo che ci sovrasta. Come è accaduto alla volta stellata, gli interni d'anima hanno attratto cosmografi fin dall'antichità: filosofi, scrittori, teologi e poeti hanno scrutato, contemplato, decifrato, versato in parole «fantasticanti e conoscitive» ogni transito di pensieri, ogni orbita di passioni, ogni ellissi del desiderio. Si è via via affinata una lingua per dire la mobilità dell'io e il teatro degli affetti, e si è scoperto nelle profondità della mente il punto di maggiore consonanza con il ritmo vivente del mondo. Questa pienezza di raffigurazione e il suo stesso oggetto - la vita interiore, concentrata nelle proprie fantasmagorie, ma anche persa in lontananze e silenzi siderali - rischiano oggi di smarrirsi, vittime dello spossessamento di sé indotto dalla seduzione della vicinanza virtuale e dal frastuono della comunicazione. In controtendenza rispetto ai tempi, Antonio Prete compie qui un prezioso gesto di restituzione. Mette la sua maestria di comparatista al servizio di una materia sconfinata, prelevandovi con levità figure tematiche e passaggi salienti, da Agostino a Joyce, da Montaigne a Proust a Calvino, e cedendo spesso il passo agli amatissimi Leopardi e Baudelaire. Sono tutti loro, insieme con gli artisti che nell'autoritratto hanno sfidato l'irrappresentabile, a costruire idealmente una «grammatica dell'interiorità», dove troviamo declinate le eterne forme del sentire, amorose o meditative, gioiose o dolenti, stupefatte o rammemoranti. Senza attingere a quel lessico, non potremmo neppure riconoscere ciò che ci accade dentro

 

 



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Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

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Il potere di tutti

La censura agisce con l’espulsione dall’orizzonte dialogico di autori disfunzionali rispetto alle logiche di potere sempre più escludenti. Non sono solo le persone ad essere espulse, rese invisibili, ridotte a merce e come tali vendute in quanto forza lavoro a basso prezzo nell’occidente, ma anche gli autori che fungono da rottura critica per il sistema vigente.
Aldo Capitini è tra gli autori scomparsi, resi invisibili dal ‘panorama culturale’ mediatico e chiassoso. L’occidente dei leaders, del potere consegnato agli uomini ed alle donne forti al comando, che chiamano con la solita fascinazione delle parole, responsabilità politica, trasparenza, efficienza della decisione. La realtà immanente ci parla invece di infeudamento del potere: leaders, longa manus dei poteri finanziari e il popolo divenuto materiale inerte nelle mani di improbabili demiurghi che in nome di interessi lobbistici sono divenuti gli esattori dei diritti sociali. Il decremento dei diritti sociali obnubilato dalla concessione dei diritti individuali. Questi ultimi divengono operativi per coloro che ne possono usufruire materialmente, per i restanti il diritto individuale è solo potenziale senza atto.
Aldo Capitini, scomparso nel 1968, contrapponeva al sistema del potere di pochi, del partito, dei molti contro le minoranze un’altra visione, un’altra prospettiva del potere. Per Capitini il potere che si struttura secondo forme escludenti, o che si autolegittima mediante l’uso della forza è ancora natura nella natura, ‘il pesce grande mangia il pesce piccolo’; affinché l’essere umano possa divenire umano deve spezzare tale meccanicismo per sostituire ad esso l’apertura. Essa è umanizzazione dei rapporti, infinita inclusione nell’amore. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione perché possa fiorire nelle sue potenzialità. Aristotele affermava che l’uomo dev’essere come un albero, deve fiorire, vi dev’essere il passaggio dalla potenza all’atto. Per Capitini solo l’apertura riporta gli uomini all’incontro con il ‘tu’, nell’empatia, nello scambio, la meraviglia che stimola la crescita nell’incontro. La compresenza dell’altro, è uno dei capisaldi del pensiero di Capitini: compresenza significa sguardo che incontra l’alterità e non lo distoglie, significa parola che si fa dialogo e non termina, perché l’apertura è infinita e sospende ogni forma di naturalizzazione del sistema. Il potere si naturalizza non solo nella sua intrasformabilità ideologica, ma specialmente – fa notare Capitini – nella sua pratica violenta ed escludente, nel suo omologarsi alle forze della natura. Bisogna rompere il meccanicismo dell’azione con l’apertura e la compresenza dell’altro perché la vita diventi il centro del fare politica. La Resurrezione, secondo Capitini, era il simbolo della vittoria sulla morte ovvero la chiusura della natura quale modello di adesione acritico del potere. Oggi nel sistema del selfie e delle mercificazioni, assistiamo all’operazione di trasformare l’apertura mediatica, tutto è fluido e pubblico per essere fonte di guadagno, l’altro è sempre un mezzo, ci si intristisce in una chiusura senza feritoie, se tutto passa e pare permesso, resta celata la persona, che è invisibile mentre tutto sembra controllato dallo sguardo del nuovo potere disciplinare, del nuovo Panopticon. La persona non dev’esserci, perché dove c’è l’umano c’è il tu che nel logos dell’incontro è una variabile che può scomporre i poteri. Il tu è censurato, alienato dalle logiche permissiviste che, in cambio del tutto lecito, vogliono l’abbandono della speranza, dell’uscire fuori da sé per entrare in una nuova vita. Alla chiusura attuale, di questi anni, una cortina di cemento sembra il nostro futuro, si contrappone l’apertura, la compresenza che divengono omnicrazia .. [Leggi tutto nel PDF]

Salvatore Bravo


Aldo Capitini e la omnicrazia

 


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Nell’agosto 1968, due mesi prima dell’operazione chirurgica che ne provocherà la morte il 19 ottobre, Capitini affida allo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo la sintetica ricostruzione del suo percorso esistenziale, intellettuale e politico. Tra la primavera e l’estate dello stesso anno ha tentato una sintesi del suo pensiero politico nello scritto Omnicrazia: il potere di tutti, riproponendosi di lavorarci ulteriormente dopo l’operazione; non potrà farlo, ma lascerà un testo tutt’altro che incompiuto che è il risultato di un’esperienza quasi quarantennale di elaborazione teorica e di organizzazione politica, dall’antifascismo «liberalsocialista» degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica, alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.

I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.


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Pubblicati nel 1937 presso l’editore Laterza per interessamento di Benedetto Croce, gli Elementi di un’esperienza religiosa di Capitini sfuggirono alla censura fascista per un fatto assai significativo: essendo per il regime la religione naturalmente conservatrice – e certo tale era la religione cattolica -, nulla v’era da temere da un libro che parlasse di religione. Il libro di Capitini esprimeva, invece, una visione del mondo radicalmente antifascista. Partendo da una persuasione liberamente religiosa, né cattolica né cristiana, Capitini affermava i valori della nonviolenza, della nonmenzogna, della responsabilità, del “farsi centro” in un momento storico che vedeva il trionfo della violenza e dell’assenza di scrupoli.

Gli Elementi, prima opera filosofica di Capitini, sono il punto di partenza ideale per studiare la complessa filosofia di uno dei teorici più rigorosi e profondi della nonviolenza.

 

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Luis Buñuel (1900-1983) – Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.

Luis Buñuel 01
dei miei sospiri estremi, edizione se, milano, 1991

Dei miei sospiri estremi

«Negli ultimi dieci anni di vita, mia madre perse a poco a poco la memoria. Quando andavo a trovarla, a Saragozza, dove abitava con i miei fratelli, ci capitava di darle una rivista che lei sfogliava minuziosamente dalla prima all’ultima pagina. Dopo di che gliela riprendevamo per dargliene un’altra, che in realtà era la stessa. Ricominciava a sfogliarla con la medesima cura.
Arrivò a non riconoscere più i figli, a non sapere più chi eravamo, chi era. Entravo, la baciavo, passavo un po’ di tempo con lei – la salute fisica restava intatta, era anzi piuttosto agile per la sua età – poi uscivo, rientravo subito dopo, e mi accoglieva con lo stesso sorriso, mi pregava di accomodarmi, come se mi vedesse per la prima volta. Del resto, non ricordava neanche più il nome.
In collegio, a Saragozza, ero in grado di recitare a memoria l’elenco dei re visigoti spagnoli, superfici e popolazioni di tutti gli stati europei, e molte altre futilità. Questo genere di memoria meccanica è generalmente disprezzato nei collegi. In Spagna questo tipo di allievo si chiama memorion. Ed io, memorion com’ero, ero bersagliato da sarcasmi per quelle esibizioni mediocri.
A mano a mano, col passar degli anni, questa memoria un tempo così disdegnata ci diventa preziosa nella vita. I ricordi si accumulano a nostra insaputa e un giorno, all’improvviso, cerchiamo inutilmente il nome di un amico, di un parente. Lo abbiamo dimenticato. Può capitarci di diventare furiosi, alla vana ricerca di una parola che conoscevamo, che abbiamo sulla punta della lingua, e che si ostina a non ritornare.
Con questa dimenticanza, e le altre che non tarderanno a farsi avanti, incominciamo a capire e ad ammettere l’importanza della memoria. L’amnesia – di cui, per quanto mi riguarda, ho incominciato a soffrire verso i settant’anni – inizia con i nomi propri e i ricordi più vicini: dove ho messo l’accendino, cinque minuti fa? Cosa volevo dire avventurandomi in questa frase? È l’amnesia anterograda, cui segue quella antero-retrograda che si riferisce agli avvenimenti degli ultimi mesi, degli ultimi anni: come si chiamava il mio albergo, quando sono andato a Madrid, nel maggio 1980? E il titolo di quel libro che mi ha tanto interessato, sei mesi fa? Non ricordo più, cerco a lungo, invano. E finalmente arriva l’amnesia retrograda che può cancellare una vita intera, com’è accaduto a mia madre.
Quanto a me, non ho ancora subito i colpi di questa terza forma di amnesia. Del mio passato remoto, dell’infanzia, della giovinezza, serbo ancora ricordi molteplici e precisi, così come una gran quantità di volti e di nomi. Se mi capita di dimenticarne uno, non mi preoccupo troppo. So che tornerà improvvisamente, per uno dei molti capricci dell’incoscio, che lavora instancabile nell’ombra.
In compenso mi capita di avvertire una grande preoccupazione, angoscia direi, quando non riesco a ricordare un avvenimento recente, che ho vissuto, oppure il nome di una persona incontrata negli ultimi mesi, e perfino di una cosa. D’un tratto la mia personalità si sgretola, si sfascia. Non mi riesce di pensare ad altro, eppure tutti i miei sforzi, le mie ire sono inutili. Che sia l’inizio di una scomparsa totale? Sensazione tremenda, dover usare una metafora per dire “tavolo”. E oltre ogni limite, l’angoscia peggiore: esser vivo, ma non riconoscere più, non sapere chi sei.
Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.
Ho immaginato spesso d’inserire in un film una scena con un uomo che cerchi di raccontare una storia a un amico. Ma dimentica una parola su quattro, parole generalmente molto semplici, come “automobile”, “via”, “poliziotto”.Farfuglia, esita, gesticola, cerca degli equivalenti patetici, fino a quando l’amico irritatissimo lo schiaffeggia e se ne va. Mi capita anche, per difendermi ridendo dalle crisi di panico, di raccontare l’aneddoto del tizio che va da uno psichiatra e lamenta disturbi della memoria, lacune. Lo psichiatra gli fa un paio di domande formali, poi gli dice:
“E allora? Queste lacune?”.
“Quali lacune?” risponde l’altro.
Indispensabile e onnipotente, la memoria è anche fragile e minacciata. Minacciata non solo dalla dimenticanza, sua vecchia nemica, ma anche dai ricordi fasulli che la sommergono, e l’invadono ogni giorno di più. Un esempio: ho raccontato per anni agli amici (e in questo libro lo cito) il matrimonio di Paul Nizam, brillante intellettuale marxista degli anni Trenta. Rivedevo chiaramente la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, il pubblico di cui facevo parte, l’altare, il prete, Jean-Paul Sartre testimone dello sposo. Un giorno, l’anno scorso, mi dissi improvvisamente: ma è impossibile! Paul Nizam, marzista convinto, e sua moglie che apparteneva a una famiglia di agnostici, non si sarebbero mai sposati in chiesa! Una cosa assolutamente impensabile. Avevo quindi trasformato un ricordo? Si trattava di un ricordo inventato? Di una confessione? Ho rivestito di un ambiente familiare, chiesastico una scena soltanto orecchiata? Non lo so, non sono mai riuscito capire.
La memoria è perennemente invasa dall’immaginazione e dalle fantasticherie, e poiché esiste una tentazione di credere nella realtà dell’immaginario, finiamo col fare delle nostre menzogne verità. Il che del resto ha un’importanza molto relativa, dato che sono anch’esse cose vissute, e personali.
In questo libro semibiografico, nel quale mi capiterà di perdermi come in un romanzo picaresco, di abbandonarmi al fascino irresistibile del racconto inaspettato, forse, malgrado la mia vigilanza, continuerà a sussistere qualche ricordo fasullo. Ma la cosa ha veramente poca importanza, ripeto. Sono fatto dei miei errori e dei miei dubbi, come delle mie certezze. Non essendo uno storico, non mi sono aiutato con appunti né libri e il ritratto proposto è comunque il mio, con tutte le mie affermazioni, esitazioni, lacune, con le mie verità e le mie bugie, in una parola: la mia memoria».


Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano, 1991, traduzione di Dianela Selvatico Estense.


Dei miei sospiri estremi copia

Luis Buñuel Portolés nacque a Calanda (vicino Saragozza, in Aragona) il 22 febbraio 1900  e ci lasciò il 29 luglio 1983 a Città del Messico. Scrisse questo libro già ottantenne con il suo fido sceneggiatore Jean-Claude Carrière. Il titolo originale è: Mon derniere soupir. Il libro fu pubblicato nel 1982 da Edition Robert Laffont, S.A. di Parigi e tradotto in Italia, a Milano, da SE nel 1991. La mia copia è la prima edizione (dubito che ce ne sia stata una seconda). Sono 280 pp. e costava la bella cifra di 38.000 lire. In copertina c’è il particolare di un quadro del 1904 di Dalì (La persistenza della memoria), la IV di copertina è realizzata con una fotografia di Man Ray che ritrae il regista nel 1929. E’ un libro che ho appena riletto: semplicemente strepitoso. Strepitoso come la sua vita: gli amici intimi di questo artista impareggiabile erano personaggi come Lorca, Dalì, Tanguy, Picasso, Man Ray …

Vincenzo Reda

Luis Bunuel ritratto d Man Ray

Luis Buñuel ritratto da Man Ray

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Jorge Luis Borges (1899-1986) – Non c’è libro meno bisognoso di prologo di questo, dalla genesi indolente, formato da una sedimentazione di prologhi …

Borges 01

J. L. Borges, L'idioma degli argentini

Logo Adelphi

Jorge Luis Borges, L’idioma degli argentini, Adelphi, 2016

A cura di Antonio Melis.
Traduzione di Lucia Lorenzini.

Risvolto di copertina

Che ci racconti del truco, grazie al quale i giocatori, dimesso l’io abituale, diventano criollos che «vogliono spaventare la vita a grida»; o di coltelli che cercano i sentieri della morte e del Chileno, signore dell’insolenza, che si dissangua a terra; o dell’origine del tango, la cui patria sono gli angoli delle case rosate dei sobborghi, la protervia domenicale del guappo e il chiasso delle popolane sui portoni; o di una notte serena capace di rivelare miracolosamente il «senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità»; o della felicità, che «non è meno sfuggente nei libri che nella vita»; o del metodo insospettabile e segreto con il quale Cervantes suscita nel lettore «una reazione di compassione e perfino di collera di fronte alle infinite iniquità che affliggono l’eroe»; o, infine, delle differenze fra lo spagnolo degli spagnoli e quello della conversazione argentina, il Borges di questo libro giovanile, ripudiato e ora finalmente ritrovato, è già, inconfondibilmente, il grande Borges. E solo apparente è l’«aria enciclopedica e guerrigliera», giacché tre direzioni cardinali lo governano: «La prima è un sospetto, il linguaggio; la seconda è un mistero e una speranza, l’eternità; la terza è questo godimento, Buenos Aires».

Scrive Maria Grazia Profeti (Alias, il manifesto, 18-12-2016): «Forse uno dei più evidenti motivi di interesse dell’Idioma degli argentini risiede proprio nel tentativo dell’autore di fare i conti con il legato spagnolo, come veniva percepito in Amertica Latina, riflettendo insomma sulla formazione di quell'”idioma”. Lo sottolinea adeguatamente Antonio Melis, nel saggio conclusivo, nel quale ripercorre la storia editoriale del libro, e dove nota come Borges “non perda l’occasione per scrivere un altro capitolo della polemica contro la letteratura spagnola”».

Maria Grazia Profeti,
Eroici furori giovanili di fronte al legato spagnolo

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Anna Maria Ortese (1914-1998) – Una delle azioni peggiori è il corrompere, il far morire la fiducia e la speranza.

Ortese Anna Maria

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Domanda
Quale è per lei la cosa peggiore?

A. M. Ortese
Certamente sono tante: l’inganno, pe resempio, il mentire, il tradire. Ma una delle peggiori è il corrompere, il far morire la fiducia e la speranza. Questo oggi si fa con i giovanissimi, con i bambini stessi; [poi adulto] nessuno ricorda se stesso, da bambini, o da ragazzo e cosa si aspettava, a buon diritto dalla vita.

Risvolto di copertina
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell'uomo «contro la Terra», la sua «cultura d'arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d'allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l'uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l'universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull'unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.

 


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Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.

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Il nazionalsocialismo è l’esempio evidente delle modalità con le quali un’economia altamente razionalizzata e meccanizzata, dotata della massima efficienza produttiva, può operare nell’interesse dell’oppressione totalitaria e conservare la penuria. Il Terzo Reich è realmente una forma di “tecnocrazia”: le considerazioni tecniche dell’ efficienza e della razionalità imperialistiche superano i criteri tradizionali della profittabilità e del benessere generale. Nella Germania nazista il regno del terrore si regge non solo sulla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche sull’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia stessa: l’intensificazione del lavoro, la propaganda, l’addestramento dei giovani e degli operai, l’organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito – tutti strumenti del terrore quotidiano – si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica. Tale tecnocrazia terroristica non si può ricondurre alle esigenze eccezionali dell”’economia di guerra”: questa rappresenta piuttosto lo stato normale di quell’ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia è uno degli stimoli principali.
Nel corso del processo tecnologico si sono affermati nella società una nuova razionalità e nuovi criteri di individualità, differenti e opposti a quelli che avviarono la marcia della tecnologia.
Queste trasformazioni non sono l’effetto (diretto o derivato) della macchina su coloro che la usano, o della produzione di massa sui consumatori; sono piuttosto esse stesse fattori determinanti nello sviluppo della macchina e della produzione di massa. […].
L’individuo umano, di cui la rivoluzione borghese ha fatto l’unità fondamentale e il fine della società, sosteneva valori che contraddicono apertamente quelli dominanti nella società odierna. Se cerchiamo di riunire in un unico concetto guida le varie tendenze religiose, politiche e economiche che davano forma all’idea di individuo nel XVI e nel XVII secolo, possiamo definire l’individuo il soggetto di determinati criteri e valori fondamentali che – si riteneva – nessuna autorità esterna poteva usurpare. Tali criteri e valori erano propri delle forme di vita, sociale come personale, più adeguate allo sviluppo delle facoltà e delle capacità dell’uomo. Per la stessa ragione, essi rappresentavano la “verità” della sua esistenza individuale e sociale. Si riteneva che l’individuo, in quanto essere razionale, fosse capace di scoprire queste forme col proprio pensiero, e, una volta acquisita la libertà di pensiero, di perseguire una linea di condotta volta a realizzarle. […] Il principio dell’individualismo, il perseguimento dell’interesse personale, era condizionato dall’assunto che tale interesse personale fosse razionale, che fosse cioè il prodotto del pensiero autonomo e ne fosse guidato e controllato. […] Gli uomini dovevano aprirsi un varco attraverso l’intero sistema di idee e valori loro imposti, e scoprire e fare propri le idee e i valori conformi alloro interesse razionale. Dovevano vivere in uno stato di costante attenzione, apprensione e critica, per respingere tutto ciò che non fosse vero e giustificato dalla ragione libera. Ciò costituiva, in una società non ancora razionale, il principio di una permanente tensione e opposizione, dal momento che la vita degli uomini era governata ancora da falsi criteri: libero individuo era colui che li sottoponeva a critica, ricercando quelli veri e promuovendone la realizzazione. […]
L’adempimento della razionalità presupponeva un adeguato assetto economico e sociale, tale da fare appello a individui la cui prestazione sociale coincidesse, almeno il larga parte, con il proprio lavoro. […] Nel corso del tempo, tuttavia, il processo della produzione di merci minò la base economica sulla quale la società individualistica si era costruita. […] Il principio dell’efficienza competitiva favorisce le imprese col più alto livello di meccanizzazione e razionalizzazione delle attrezzature industriali […]: la razionalità individualistica si è trasformata in una razionalità tecnologica, la quale non è circoscritta ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala, ma caratterizza il modo pervasivo del pensiero e persino le molteplici forme di protesta e ribellione. Questa razionalità stabilisce i criteri di giudizio e promuove atteggiamenti che rendono gli uomini pronti ad accogliere e persino a introiettare i dettami dell’apparato.
Lewis Munford ha caratterizzato l’uomo nell’età della macchina come una “personalità oggettiva”, come colui che ha imparato a trasferire tutta la sua spontaneità soggettiva sulla macchina, della quale è al servizio, a subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
Le distinzioni individuali di attitudini, intuito e conoscenza si trasformano in differenti determinazioni quantitative di specializzazione e addestramento, da coordinare in ogni momento all’interno del quadro comune delle prestazioni standardizzate.
L’individualità, tuttavia, non è scomparsa. Il libero soggetto dell’economia si è piuttosto sviluppato nell’oggetto di una organizzazione e coordinazione su larga scala, e la realizzazione individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. Questa è caratterizzata dal fatto che la prestazione dell’individuo è motivata, guidata e misurata secondo criteri che gli sono esterni, e che si riferiscono a compiti e funzioni predeterminati. L’individuo efficiente è quello la cui prestazione costituisce un’azione solo in quanto è la reazione adeguata alle esigenze oggettive dell’apparato, e la cui libertà si limita alla scelta dei mezzi più adeguati per il raggiungimento di un obiettivo non stabilito da lui.
Mentre la realizzazione individuale è indipendente dal riconoscimento e si compie nel lavoro stesso, l’efficienza costituisce una prestazione remunerata e portata a compimento solo per il valore che ha per l’apparato. Insieme con la maggior parte della popolazione, la precedente libertà del soggetto economico affogò gradualmente nell’efficienza con la quale questi assolveva le mansioni assegnategli. Il mondo risultò razionalizzato a tal punto, e la sua razionalità era divenuta un potere sociale tale, che l’individuo non poteva fare di meglio che addattarvisi senza riserve. […] Il procedimento meccanico richiede una conoscenza orientata “alla pronta comprensione di fatti poco chiari, in termini quantitativi sufficientemente esatti. Questo tipo di conoscenza presuppone da parte dell’operaio un determinato atteggiamento intellettuale o psichico, quale la volontà di apprendere prontamente e apprezzare i dati di fatto, di guardarsi dall’arricchire tale conoscenza con supposte sottigliezze animistiche o antropomorfiche, con interpretazioni semipersonali dei fenomeni osservati e dei loro rapporti reciproci”.
[…] Il nuovo atteggiamento si differenzia per l’acquiescenza altamente razionale che lo contraddistingue. I fatti che dirigono il pensiero e l’azione dell’uomo non sono quelli della natura che si devono accogliere perché li si possa dominare, né quelli della società, che sono da mutare perché non corrispondono ai bisogni e alle potenzialità dell’uomo. Sono piuttosto quelli del procedimento meccanico, che si presenta come l’incarnazione della razionalità e della funzionalità.
[…] Non vi è una possibilità individuale di fuga dall’apparato che ha meccanizzato e standardizzato il mondo. […] Manovrando la macchina, l’uomo impara che l’obbedienza alle direttive è il solo modo di ottenere i risultati desiderati. Tirare avanti equivale ad adeguarsi all’apparato. Non vi è spazio per l’autonomia. La razionalità individualistica si è sviluppata in efficiente acquiescenza col continuum preesistente di mezzi e fini. Quest’ultimo assorbe gli sforzi liberatori del pensiero e le varie funzioni della ragione convergono nell’incondizionata conservazione dell’apparato.
[…] Tutto coopera a incanalare istinti, desideri e pensieri umani in modo da alimentare l’apparato[…] I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico. Ma i congegni meccanici che facilitano le relazioni tra gli individui ne intercettano anche e ne assorbono la libido, deviandola da tutte le aree troppo pericolose nelle quali l’individuo è libero dalla società. Difficilmente l’uomo medio si prende cura di un essere vivente con la stessa intensità e costanza che mostra per la sua automobile. La macchina che egli adora non è più materia morta, ma diventa qualcosa di simile a un essere umano. Ed essa restituisce all’uomo ciò che possiede: la vita dell’apparato sociale di cui è parte. Il comportamento umano è dotato della razionalità del processo meccanico […]. La funzionalità nei termini della ragione tecnologica è, al tempo stesso, funzionalità nei termini dell’efficienza orientata al profitto […]. Quanto più l’individuo si comporta razionalmente e attende amorevolmente al suo lavoro, tanto più soccombe di fronte agli aspetti frustranti di tale razionalità. Egli sta perdendo la capacità di astrarre dalla forma particolare nella quale la razionalizzazione si realizza, e la fede nelle sue potenzialità non realizzate. Il realismo, la sfiducia nei confronti di tutti i valori che trascendano i dati dell’osservazione, il risentimento verso tutte le interpretazioni semi personali e metafisiche, il sospetto per ogni criterio che rapporti l’ordine osservabile delle cose, la razionalità dell’apparato alla razionalità della libertà: questo atteggiamento complessivo giova fin troppo a coloro che sono interessati alla perpetuazione della forma prevalente delle realtà di fatto. Il processo meccanico richiede un “costante addestramento all’apprendimento meccanico delle cose”, e questo a sua volta promuove “la conformità a una vita programmata” […]. La “meccanica del conformismo” si estende dall’ordine tecnologico a quello sociale; governa le prestazioni non solo nelle fabbriche e nei negozi, ma anche negli uffici, nelle scuole, nelle assemblee e, da ultimo, anche nel regno dello svago e dell’intrattenimento.
Gli individui sono spogliati della loro individualità, non per una costrizione esterna, ma dalla razionalità della loro vita[…] L’uomo però non fa esperienza della perdita della libertà come dell’opera di una forza estranea e ostile; affida invece la sua libertà al comando della ragione stessa. […] Il sistema di vita creato dall’industria moderna è della massima funzionalità , convenienza e efficienza. Definita in questi termini, la ragione equivale a un’attività che perpetua questo mondo. La condotta razionale si identifica con un realismo che insegna una ragionevole remissività, e garantisce così che si proceda d’accordo con l’ordine prevalente.
[…] La razionalità viene trasformandosi da forza critica in principio di adeguamento e acquiescenza. L’autonomia della ragione perde il suo significato nella stessa misura in cui i pensieri, i sentimenti e le azioni degli uomini sono modellati dalle esigenze tecniche dell’apparato che essi hanno creato.
[…] Estendendosi all’intera società, le leggi e i meccanismi della razionalità tecnologica sviluppano una serie di propri valori di verità, che vanno bene per il funzionamento dell’apparato – e solo per questo. Le proposizioni relative a un comportamento competitivo o complice, a metodi degli affari, ai principi di un’efficace organizzazione e controllo, alla correttezza e all’uso della scienza e della tecnica, sono vere o false nei termini di questo sistema di valori, cioè nei termini propri di strumenti che dettano i loro stessi fini. Questi valori di verità sono messi alla prova e perpetuati dall’esperienza e devono guidare i pensieri e le azioni di quanti vogliono sopravvivere. La razionalità esige qui acquiescenza e coordinazione senza condizioni, sicché i valori di verità connessi ad essa implicano la subordinazione del pensiero a criteri esterni preesistenti. A questa serie di valori di verità possiamo dare il nome di verità tecnologica […]. La standardizzazione del pensiero sotto il dominio della razionalità tecnologica coinvolge anche i valori di verità critici. […]. I valori di verità critici sorti da un movimento sociale di opposizione mutano di significato nel momento in cui tale movimento si incorpora nell’apparato. […] La tendenza ad assimilarsi ai modelli organizzativi e psicologici propri dell’apparato ha determinato un mutamento nella struttura dell’opposizione sociale in Europa. La razionalità critica delle sue finalità è stata subordinata alla razionalità tecnologica […]. I gruppi di opposizione sono venuti trasformandosi in partiti di massa, e i loro dirigenti in burocrazie di massa.
[…] È possibile ridurre il tempo e l’energia spesi nella produzione delle necessità della vita, e una graduale riduzione della penuria e l’abolizione delle occupazioni competitive consentirebbe di sviluppare il sé a partire dalle sue radici naturali.
Quanto meno tempo ed energia l’uomo deve investire per conservare la vita propria e della società, tanto maggiore è la possibilità che egli possa “individualizzare” la sfera della propria realizzazione in quanto uomo. Al di là del regno della necessità potrebbero dispiegarsi le differenze essenziali tra gli uomini: ognuno potrebbe pensare e agire da sé, parlare il proprio linguaggio,
avvertire le proprie emozioni e seguire le proprie passioni. Non più incatenato all’efficienza competitiva, il sé potrebbe crescere in un regno di soddisfazione. L’uomo potrebbe riconoscersi nelle proprie passioni. Gli oggetti dei suoi desideri risulterebbero tanto meno sostituibili, una volta che fossero conquistati e modellati dal suo libero sé. Essi gli “apparterrebbero” come mai gli sono appartenuti prima, e una simile “proprietà” non sarebbe offensiva, poiché non richiederebbe di essere difesa contro una società ostile.
Un’utopia siffatta non costituirebbe uno stato di perenne felicità. L’individualità “naturale” dell’uomo è anche la fonte del suo dolore naturale. Divenuti compiutamente umani, liberi da ogni criterio estraneo, i rapporti tra gli uomini saranno permeati dalla malinconia del loro contenuto singolare. Essi sono transeunti e insostituibili, e il loro carattere transeunte risulterà accentuato, nel momento in cui la preoccupazione per l’essere umano non sarà più mescolata con la paura per la sua esistenza materiale e offuscata dalla minaccia della miseria, della fame e dell’ostracismo sociale.

 

Herbert Marcuse, Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna, articolo pubblicato per la prima volta in “Studies in Philosophy and Soci al Science», IX, 3, 1941, pp. 414-439. Esiste una traduzione italiana nel volume Tecnologia e potere nelle società post-liberali, a c. di G. Marramao, Liguori, Napoli 1981, pp. 137-169. Qui nella traduzione di Luca Scafoglio, in Herbert Marcuse, La società tecnologica avanzata, volume III, a cura di Raffaele Laudani, manifestolibri, 2008, pp. 25-53.


Herbert Marcuse
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Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale
Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

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Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d’oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell’intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni.

Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi s’adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono tra le righe. […] Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è lì che si trova la realtà, dato che non vi è per intero.

Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto.

Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l’ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo. Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici. Le leggi più antiche non sono esenti da quella selvatichezza che miravano a correggere, le più venerabili rimangono ancora un prodotto della forza. La maggior parte delle nostre leggi penali – e forse è un bene – non raggiungono che un’esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da adattarsi all’immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi; pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli. E tuttavia, da questo cumulo di innovazioni pericolose e di consuetudini antiquate emerge qua e là, come in medicina, qualche formula utile.

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Margherite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1981.

 



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Sabrina D’Alessandro – Se tu scegli di far risuonare la realtà con delle parole diverse, cambia anche la realtà che è intorno.

Sabrina D'Alessandro

 

 

 

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C’è un modo straordinariamen-te rotondo per definire un uomo di bassa statura e alta considerazione di sé: «salapùzio». Una parola poco, pochissimo usata, ma colorita e sonora; quattro semplici sillabe capaci di contenere la complessità di un tipo umano, di raccontarla in modo sincero e immediato, trasformando una realtà sgradevole in allegra catarsi canzonatoria.

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Aspre o scioglievoli, enigmatiche o lampanti, le parole hanno la capacità di dare voce a cose che altrimenti non vedremmo, creando un’idea dove prima non c’era, e ci consentono di far risuonare la realtà in modo nuovo, diverso. Le parole non solo sono interessanti, ma soprattutto sono piene di bellezza. Dimenticarle, sostituirle, semplificarle è un po’ come appiattire la nostra stessa percezione della realtà, rinunciando a sfumature e colori che raccontano e trasformano l’identità delle relazioni umane. Ogni tanto fa bene concedersi un momento di «risquitto», così come variare con una «rùzzola» o un «raperónzolo» i soliti turpiloqui può giovare al fegato e portare la bile a essere meno commossa. Queste parole esistono anche per aiutarci a vedere e a vivere meglio; tornare a usarle, tornare ad apprezzarle e ad amarle non significa solo salvaguardare un patrimonio linguistico, ma alimentare la ricchezza, e l’allegria, del nostro immaginario profondo.

 

Sabrina D’Alessandro

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Il lavoro di Sabrina D’Alessandro esplora il rapporto tra linguaggio e immaginario, coniugando arte e filologia. Nel 2009 fonda l’URPS (Ufficio Resurrezione Parole Smarrite), progetto volto al recupero e alla diffusione in forma artistica di «parole smarrite benché utilissime alla vita sulla terra». La sua produzione spazia dall’arte visiva alla scrittura, dal video alla performance, in una ricerca unica e inesauribile che parte dall’archeologia della parola per arrivare a un modo nuovo di leggere la realtà e di reinventarla.

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Il sito di Sabrina D’Alessandro

 

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Ente preposto al recupero di parole smarrite, benché utilissime alla vita sulla terra.


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Sabrina D’Alessandro – Ufficio Resurrezione
Il libro delle parole altrimenti smarrite
Sabrina D’Alessandro,
Ufficio Resurrezione ,
Esempio di ingiurie in una redamazione rimpedulata

 

Intervista a Sabrina D’Alessandro
Ufficio Resurrezione
Libro delle parole altrimenti smarrite

 



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