Ugo Mattei – La moneta, la proprietà privata sulla terra e il lavoro salariato, sono invenzioni umane che hanno il fine di astrarre a scopo di commercio valori qualitativi di per sé unici e non riproducibili.

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«[…] il processo di accumulazione necessita della mercificazione, i cui presupposti sono la moneta, la proprietà privata sulla terra e il lavoro salariato, invenzioni umane che hanno il fine di astrarre a scopo di commercio valori qualitativi di per sé unici e non riproducibili (terra, tempo della vita e scambio qualitativo sono in natura unici e irriproducibili. In questo quadro teorico, che risulta assai nitido se si pone al centro la prospettiva del comune e non quella dell’individuo, l’accumulazione originaria su cui si fonda il capitalismo non può ridursi alla recinzione dei beni comuni in Inghilterra, contro cui già si scagliava Tommaso Moro scrivendo la sua Utopia all’inizio del XVI secolo. Né essa è soltanto l’assoggettamento violento di luoghi e persone (il saccheggio) nel corso della conquista dell’Africa o delle Americhe, cui l’Occidente deve la sua primazia (oggi messa in discussione per la prima volta nella modernità). L’accumulazione individualizzata dei beni comuni è prima di tutto un processo ideologico di costruzione, naturalizzazione, conservazione e allargamento di un immaginario individualizzato capace di conquistare sempre nuovi spazi, “luoghi comuni” di cui si è progressivamente cancellata la coscienza. La stessa locuzione “luogo comune” lo fa coincidere con una banalità, così denigrandolo e rendendolo ideologicamente debole di fronte all’”idea originale” che può essere soltanto individuale e privata secondo i dettami (che non a caso conquistano sempre nuovi luoghi comuni) del diritto della proprietà intellettuale. In questo quadro, accumulazione originaria attraverso la conquista di beni – o se si preferisce luoghi – comuni è oggi anche la privatizzazione di quanto realizzato in comune con la fiscalità generale (frutto del lavoro di tutti), come i sistemi di trasporto pubblico, le reti delle utilities e delle telecomunicazioni, lo sviluppo urbanistico, i beni culturali e paesaggistici, le scuole (intese in senso ampio come cultura e conoscenza), gli ospedali e in generale le strutture che fondano la convivenza civile (compresi la difesa, le carceri, i sistemi di disposizione dei rifiuti e molti altri). Il processo di sviluppo contemporaneo dunque, al centro come in periferia, è ancor oggi – e non certo solo all’ origine – il frutto di un processo di accumulazione sotto forma di trasferimento ad interessi privati, sempre più spesso sotto forma di grandi corporations, di beni comuni. È compito della cultura critica svelare, storicizzandolo, questo immaginario colonizzato dalla “scienza economica” che inconsapevolmente ci consegna immagini rovesciate della realtà, facendo compiere all’umanità passi forse irreversibili verso il baratro».

Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, 2011, pp. XVI-XVII.

 


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Ugo Mattei, Alessandra Quarta – L’acqua e il suo diritto. La politica economica in materia di acqua deve abbandonare la logica del profitto.

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L’analisi condotta dei processi di privatizzazione dei servizi idrici ha offerto diversi spunti di riflessione, in virtù della delicatezza della questione affrontata. È indubbio che, tra tutti i beni comuni, l’acqua sia quello che viene più facilmente percepito come insostituibile e primario. Pertanto, è agevole comprendere le ragioni di una sua gestione pubblica, la quale è perfettamente in grado di garantire i principi di equità e di universalità del servizio, a differenza di una gestione privata che, per sua stessa costituzione, è orientata alla realizzazione di profitti. Ragionando in quest’ottica, le proposte per un ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico consentono due ulteriori sviluppi: il primo attiene alla possibilità di tornare a pensare un’economia priva degli schemi del neoliberismo, mentre il secondo consente di recuperare un’idea di democrazia partecipativa.
Le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno seguito i paradigmi della globalizzazione finanziaria: consumo, profitto e mercato sono diventate le parole chiave dell’economia mondiale, nonostante la loro naturale contrapposizione con un concetto che acquista sempre maggiore importanza, ossia quello della sostenibilità ecologica. Gli attuali ritmi di crescita dimostrano come i benefici economici di breve periodo, conseguiti sull’onda delle scelte neoliberiste, vengano di fatto annullati dai loro stessi effetti sugli equilibri ecologici, sulla salute e sull’alimentazione.
Questo impatto è ancora più forte se lo si applica all’acqua: lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa naturale rischia di condurre a un drastico aumento della popolazione mondiale priva di acqua potabile (ad oggi circa un miliardo di persone), con la conseguenza tangibile che possano sorgere nuovi conflitti per l’accesso alle fonti idriche.
L’icona del pensiero neoliberale è rappresentata dal ricorso alla privatizzazione dei beni e dei servizi. […] Quali potrebbero essere gli schemi normativi da seguire per realizzare la presenza strategica dello Stato in determinati settori, tra cui di certo compare la gestione del servizio idrico integrato? In primo luogo, bisogna lavorare per migliorare il settore pubblico, liberandosi dall’idea, diventata ormai una sorta di luogo comune, per cui il privato sia la soluzione delle inefficienze prodotte dall’intervento statale. Il conseguimento di tale scopo passa attraverso la creazione di una gestione pubblica che sappia coinvolgere in modo diretto le comunità di utenti che beneficiano del servizio.
[…] Il recupero del rapporto tra ente pubblico e cittadino consente, inoltre, di riflettere sull’acqua come bene comune. Tale risorsa, infatti, presenta caratteristiche tali per cui risponde pienamente a interessi sociali e a bisogni della collettività, ripudiando, in maniera quasi fisiologica, il ricorso allo strumento della concorrenza e del mercato. Lo Stato deve comportarsi, rispetto a questo bene, come un gestore nell’interesse della collettività, la quale risulta essere l’unica vera proprietaria dei beni comuni.
In virtù della forte dimensione sociale che l’amministrazione del servizio idrico riveste […] si deve ritenere che […] la politica economica in materia di acqua deve abbandonare la logica del profitto. […] In questo senso, il diritto all’acqua e la riflessione sui beni comuni rappresentano la via per rafforzare l’uguaglianza dei cittadini e per contribuire alla costruzione di un futuro solidale e sostenibile.

Ugo Mattei, Alessandra Quarta, L’acqua e il suo diritto, Edisesse, 2014, pp.113-117.

 

Risvolto di copertina

Il testo esplora il tema dell’acqua e del suo diritto, inteso come disciplina giuridica del bene e del servizio idrico integrato, passando in rassegna gli eventi che ne hanno influenzato la definizione, da un punto di vista sia normativo sia culturale. La rico-struzione pone al centro di questi processi la campagna referendaria sull’«Acqua bene comune», che si è svolta nel 2011, e il relativo esito della consultazione popolare, il quale ha aperto una discussione sulla definizione normativa del servizio idrico integrato e sui modelli di gestione ad esso applicabili, oltre a diffondere una nuova sensibilità per i beni comuni. Ampio spazio è riservato all’esperienza parigina e a quella napoletana di ritorno alla gestione pubblica, che dimostrano come sia possibile, per un bene cruciale come l’acqua, immaginare un ruolo forte delle istituzioni locali, valorizzando altresì gli elementi della partecipazione e della conservazione delle risorse anche per le generazioni future.


Ugo Mattei

Insegna Diritto civile presso l’Università degli studi di Torino e Diritto comparato e internazionale presso l’Università della California. È stato vi-cepresidente della Commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici, coredattore dei quesiti referendari sul l’«Acqua bene comune» e ha patrocinato come avvocato la loro ammissibilità innanzi alla Corte costituzionale. È attualmente presidente di Acqua bene comune Napoli. Fra i suoi libri più recenti, si segnalano Beni comuni. Un manifesto (2011); Controriforme (2012); Senza proprietà non c’è libertà. Falso! (2014).


Alessandra Quarta

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Dottrine generali del diritto presso l’Università degli studi di Foggia e, attualmente, è docente a contratto di Diritto civile presso l’Università degli studi del Piemonte orientale e assegnista di ricerca di Diritto privato presso l’Università degli studi di Torino. Ha collaborato alla difesa dell’ammissibilità dei quesiti referendari del 2011 innanzi alla Corte costituzionale e ha concentrato i suoi studi sui temi della proprietà e dei beni comuni, con diversi saggi pubblicati su riviste scientifiche.


 

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Maria Grazia Dalla Valle – Recensione al libro di G. Cambiano e C. Pianciola, a cura di, “Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)”

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Locandina del libro

G. Cambiano e C. Pianciola, a cura di, “Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)”

 

di Maria Grazia Dalla Valle

Questo è un libro per chi ha conosciuto Chiodi per le sue opere di filosofia e  le sue traduzioni di Kant e di Heidegger, ma pure un libro per chi non lo conosce. Definisce bene la complessità di un filosofo, mancato troppo presto al dibattito filosofico, di un insegnante che fu anche partigiano, come appare nel ricordo del suo allievo più famoso, Beppe Fenoglio.
Il partigiano Chiodi scriveva nel 1952:

“ L’orgoglio non è una virtù. Non si dovrebbe essere orgogliosi. Tanto meno di aver fatto qualcosa, come il partigiano, che mirava proprio a ricostruire l’uguaglianza morale tra gli uomini… Ma  sono soprattutto orgoglioso di aver fatto il partigiano quando qualcuno mi dice che non dovrei esserne orgoglioso, perché penso che sono io che, combattendo per la libertà, gli ho conferito il dritto di dirmelo.”

Alcuni capitoli del volume – affidati a Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola  e Gianluca Garelli – delineano l’attività di Chiodi come filosofo e traduttore, la scelta per un esistenzialismo positivo, il dibattito con Abbagnano e Paci, il  rapporto con Sarte e il marxismo, la fondamentale traduzione di “Essere e tempo”  di Heidegger del 1953 e  il costante confronto con Kant  sia con lo scritto del 1961 “ La deduzione nell’opera di Kant” sia con la traduzione della “Critica della ragione pura”.
Per un insegnante di filosofia la lettura è un ottimo esercizio critico perché le posizioni di Chiodi non sono mai datate o scontate, aiutano a ricostruire alcune tappe importanti del dibattito filosofico  tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ‘70. Ma non si limitano a questo, per esempio la traduzione di opere come “Holzwege-Sentieri interrotti”, appartenenti alla seconda fase del pensiero di Heidegger,  e gli scritti dedicati da Chiodi al filosofo tedesco, “L’esistenzialismo di Heidegger” e “L’ultimo Heidegger”, sono ancora utili  oggi nel dibattito su questo controverso filosofo, la validità del suo pensiero, il rapporto tra l’evoluzione del suo pensiero e l’adesione al nazismo.
Ma  il volume presenta due capitoli – “Pietro e Beppe” di Gabriele Pedullà e “ “Accendere dei fuochi. Rileggendo Banditi di Pietro Chiodi”, di Andrea Mecacci – che da soli ne consiglierebbero la lettura, e possono catturare l’attenzione anche di chi non vuole farsi coinvolgere in controversie filosofiche.
“Pietro e Beppe” delinea il sodalizio tra Chiodi e Fenoglio durato un quarto di secolo e lo affronta in quattro prospettive diverse. L’uomo Chiodi ricostruisce l’amicizia tra un insegnante e il suo allievo separati da soli sette anni di età, la comune partecipazione alla Resistenza anche se in bande partigiane diverse, la comune passione politica, che li vede schierati in una sinistra non comunista.
Il filosofo Chiodi sottolinea come il rapporto di Fenoglio con l’esistenzialismo attraverso Chiodi sia fondamentale per la scrittura dei suoi testi. Chiodi il personaggio analizza la presenza di Chiodi nei romanzi di Fenoglio, con lo pseudonimo Monti o con il proprio nome, e soprattutto mette in risalto come la scelta di Johnny di partire partigiano avvenga dopo un colloquio con il personaggio Chiodi.
Il lettore Chiodi, infine, mostra la capacità del Chiodi lettore di Fenoglio di cogliere per esempio il rapporto tra la estrema stilizzazione della pagina e la stilizzazione dei propri comportamenti, in modo tale che “non è possibile parlare dei suoi libri senza giudicarli anche a paragone della sua biografia”.
“Accendere dei fuochi” è un invito a rileggere Banditi, il diario partigiano di Pietro Chiodi, perché si tratta del libro o meglio dell’esperienza  senza la quale non ci sarebbe stato tutto il resto del suo magistero umano.
Banditi colpisce per l’assoluta assenza di retorica  e proprio per questo riesce a trasmettere l’essenziale della scelta e della lotta partigiana. Andrea Mecacci  riporta alcun passaggi chiave del testo e mostra come questo diario si possa considerare anche la testimonianza di chi è sopravvissuto ed è ritornato per ricordare  quelli che sono morti.

“No, quei mesi non erano riempiti dalla mia salvezza, dalle mie lacrime, dalla vittoria, dalla libertà, erano riempiti dalla loro morte. La differenza fra allora e adesso era questa che allora Noi c’eravamo ed ora Noi non c’eravamo più.”

Si può ancora ricordare per invitare alla lettura del saggio in ricordo di Chiodi e, per chi non lo conosca, anche del suo diario partigiano Banditi, un passo del necrologio di Nicola Abbagnano:

“… fu filosofo per la stessa ragione per cui fu partigiano. Si trattava di realizzare con mezzi diversi uno stesso scopo quello di contribuire ad emancipare l’individuo  e ad affermarne in modo completo l’umanità”.

Maria Grazia Dalla Valle

 

Recensione pubblicata già il 21-04-2017 sulla Rivista Telematica Insegnare, Rivista del centro di iniziativa democratica degli insegnanti.

 



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Gabriella Putignano (a cura di) – Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile. Contributi di: Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano.

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Editrice Petite Plaisance, 2017, p. 160, euro 12

Gabriella Putignano (a cura di)

Cantautorato & Filosofia.

Un (In)Canto possibile

Contributi di:
Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano.

[Vedi in basso i titoli]


Prefazione

«…la musica […] è un’arte che rivela…»1

Il seguente libro raccoglie gli atti di un ciclo di incontri, a cura della sottoscritta, in cui s’è cercato di far emergere un virtuoso circolo erme­neutico fra il cantautorato italiano, di vecchia e nuova generazione, e il mondo della filosofia.
L’idea era quella di mostrare quanto la musica d’autore, nella quale note sublimi si sposano con l’incanto di parole poetiche, fosse in grado di squarciare domande, veicolare idee, aprire arcobaleni di senso. Un pensiero di Rachel Bespaloff (1895-1949), filosofa-musicista del secolo scorso2, ci ha in particolare guidato su questa via, un pensiero secondo cui la musica può sì degradare in vacuo starnazzamento, in rumore stordente, ma nella sua autentica accezione essa è «arte che rivela»3. Vi sono, infatti, impressi nel suo “cuore” un pathos rivelatorio e una capacità formativa tali da richiamarci a noi stessi, da ricordarci chi siamo o chi vorremmo diventare.
Il thaumazein così provocato permette – a nostro giudizio – non solo di addentrarci dentro sentieri teoretici, ma di comprendere – ça va sans dire – anche l’importanza di filosofare con lo splendore di tutti i linguaggi4 e di non trincerarsi nell’autoreferenzialità di un sapere stantio.
Forti di queste premesse, abbiamo dato avvio al nostro progetto, radi­cato in primis su un’idea ‘omnicratica’5 del pensare, cioè su un bisogno di condivisione corale, simmetrico di riflessioni e di entusiasmi. In secondo luogo, si è pensato di suddividere l’intera iniziativa in due parti: nella prima l’attenzione è stata rivolta a cantautori più legati alla generazione degli anni Settanta; nella seconda a cantanti o a gruppi musicali, più o meno giovani6, del tempo presente.7 L’intenzione era di confutare, in tal modo, una vulgata corrente, che vuole la musica odierna solo e soltanto come qualcosa di insulso e di vuoto.8
Nella prima parte è senza dubbio emerso l’impegno etico della can­zone d’autore, nonché la sua critica corrosiva a taluni meccanismi sociali. Abbiamo dunque preso le mosse dalla Scuola di Bologna: da Guccini e dalla sua visione crepuscolare dell’esistenza, e da Lolli e dalla sua acuta denuncia contro la ‘sclerocardia’ contemporanea. Siam poi passati a con­frontarci con la discografia di De André e di Gaber: l’uno considerato alla luce della sua interpretazione della Buona Novella, l’altro quale cantore dell’odierna “civiltà delle macerie” e di una nuova, “eidetica”, coscienza.
Altrettanto densi i temi affrontati nella seconda parte, ove il punto di partenza è stato il ‘misticismo aperto’ dei Baustelle, la loro tensione morale congiunta ad uno sguardo disincanto sul mondo della vita; ab­biamo proseguito con i Bluvertigo e lo studio del nesso ʻpensare-direʼ e con Il Teatro degli Orrori, tra inquieta ricerca di senso e veemente accusa al lavoro alienato. L’intervento conclusivo ha suggellato il percorso fatto assieme, poiché – a partire dai testi di Federico Fiumani – si è trattato il problema del riconoscimento/riconoscenza.
I papers qui riportati costituiscono, pertanto, la fedele trasposizione dei contributi tenuti oralmente, ma nel contempo sono arricchiti da schede didattiche finali che evidenziano come siffatto lavoro possa benissimo concretizzarsi in classe, nella convinzione – già in precedenza delineata – dell’importanza di un filosofare plurale e di un insegnamento differente rispetto ad una piatta trasmissione di nozioni. Sono, così, da noi (per la maggior parte docenti liceali) offerti una serie di percorsi interdisciplinari da inserire o nella consueta programmazione curricolare o in ricerche di approfondimento.9
Ci sembra, comunque, di poter cogliere un essenziale fil rouge fra tutte le relazioni, un’esortazione comune, da Guccini a Fiumani, ad esprimere la propria unicità di persona e a far risplendere il coraggio della libertà. Ed è esattamente questo l’augurio che ci piace lasciare al nostro lettore: non perdere mai, nonostante i “grandi freddi” contemporanei, il brivido del rendersi inizio10, il fremito della possibilità quale sigillo dell’umano esistere.

Gabriella Putignano

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1 R. Bespaloff, Su Heidegger, trad. it. di L. Sanò, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 25. Corsivo nostro.

2 Rachel Bespaloff è stata una filosofa ebrea di origini ucraine, acuta studiosa di diversi pensatori, fra cui Heidegger, Šestov, Kierkegaard; diplomatasi, nel 1914, in pianoforte al Conservatorio di Ginevra, occuperà la cattedra di musica all’Opéra di Parigi. Nell’estate del 1941 – a causa del contestuale quadro internazionale – si trasferirà negli Usa, ove morirà suicida nel 1949.

3 Ibidem. Corsivo nostro. Vale la pena riportare l’intero passaggio, che peraltro evidenzia quanto la musica sia in stretta correlazione con la nostra vita affettiva: «La buona e la cattiva musica, indifferentemente, fanno entrambe appello alla nostra vita affettiva: ciò che importa è che la prima la utilizza «nel modo della conversione», mentre la seconda «nel modo della diversione». […] La musica è […] un’arte che rivela, oppure un rumore che stordisce.»

4 Altri logoi, oltre a quello musicale, sono l’artistico, il filmico/cinematografico, il poetico, etc.

5 Adoperiamo questa espressione nel senso dato da Aldo Capitini (1899-1968), cioè come ʻpotere di tuttiʼ, lotta contro un pensiero autoritario e catechetico, a favore di uno pro­manante “dal basso”.

6 Cantanti come Capovilla e Fiumani non possono anagraficamente essere considerati giovani, ma la loro musica appartiene senz’altro ad una generazione successiva a quella sessantottina, vicina a quella attuale.

7 Un limite è stato aver considerato cantanti di solo sesso maschile, ma cercheremo di rimediare con un altro ciclo di incontri.

8 Certamente oggigiorno assistiamo ad una decisa diffusione della musica di consumo, caratterizzata da ritornelli fatui e melensi. Si veda su questo M. Bonanno, La musica è finita. Quello che resta della canzone d’autore, Stampa Alternativa, Viterbo 2015. Tuttavia ciò che non condividiamo di siffatta impostazione è l’assolutizzazione compiuta, incapace così di considerare voci interessanti e degne d’ascolto. Per esempio sul piano italiano, oltre ai cantanti da noi analizzati nella seconda parte, si potrebbero annoverare fra gli/le artisti/e, più o meno giovani, meritevoli di attenzione: Niccolò Fabi, Brunori Sas, Ales­sio Lega, i Tiromancino, Pacifico, Elisa, Cristina Donà, Noemi, Samuele Bersani, Vinicio Capossela, i Virginiana Miller, Max Gazzè, Pippo Pollina, i Têtes de Bois, i Non voglio che Clara, etc.

9 Quasi tutti i percorsi didattici presentati sono rivolti ad una quinta classe, ma ciò non esclude affatto che si possa (e si debba) lavorare in questa maniera anche in una terza o in quarta classe. Nel prosieguo della lettura apparirà, inoltre, evidente un’ulteriore differenza fra la prima e la seconda parte: nella prima i collegamenti con la filosofia sono varie volte espliciti, diretti e posti dai cantautori stessi, nella seconda questo non sempre avviene espressamente. Nondimeno tale differenza non ha per noi un’importanza rile­vante, poiché la pretesa maggiore che ci proponevamo con le suddette schede didattiche era mostrare la possibilità di insegnare determinati temi filosofici prendendo spunto dal brano di una canzone.

10 Utilizziamo questa parola nel precipuo senso arendtiano.


I contributi

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Giacomo Pisani,

La verità come possibilità. Guccini e la narrazione dell’immanenza


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Gabriella Putignano,

Claudio Lolli: “vivere forte” contro “il grande freddo” della sclerocardia


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Gianluca Gatti,

Umana famiglia. La buona novella di Faber


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Corrado De Benedittis,

Giorgio Gaber, cantautore di una nuova coscienza


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Federico Limongelli,

Baustelle, i mistici dei nostri giorni?


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Stefano Daniele,

Nulla e Comprensione. Lo Zero dei Bluvertigo attraverso i Presocratici


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Raffaele Pellegrino,

Il Teatro degli Orrori sul palco del mondo contemporaneo: alterità, violenza, solitudine


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Federico Fiumani

Francesco Malizia,

Federico Fiumani, tra esperienza del noi e dinamica del riconoscimento

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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Il Tempo grande scultore. Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita.

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Il tempo grande scultore

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Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita. È superata la prima fase, che, per l’opera dello scultore, l’ha condotta dal blocco alla forma umana; ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l’aveva sottratta lo scultore.
Non abbiamo più, inutile dirlo, una sola statua greca nello stato in cui la conobbero i contemporanei: scorgiamo appena qua e là, sulla capigliatura di una Kore o di un Kuros del VI secolo, lievi tracce di colore rossastro, comparabili oggi alla più pallida henna, che attestano la loro qualità antica di statue dipinte, con la vita intensa e quasi terrificante di manichini e di idoli che per di più sarebbero capolavori. Questi materiali duri modellati a imitazione delle forme della vita organica hanno subito, a loro modo, l’equivalente della fatica, dell’invecchiamento, della sventura. Sono mutati come il tempo ci muta. Gli scempi dei cristiani o dei barbari, le condizioni in cui hanno trascorso sotto terra i secoli di abbandono sino alla scoperta che ce li ha restituiti, i restauri sapienti o insensati di cui si avvantaggiarono o soffersero, le incrostazioni o la patina autentica o falsa, tutto, fino all’atmosfera dei musei ove nei nostri tempi sono rinchiusi, ne segna per sempre il corpo di metallo o di pietra.

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Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo. Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un’opera nuova, perfetta nella sua stessa segmentazione: un piede nudo che non si dimentica, poggiato su una lastra, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare, un seno o un sesso di cui riconosciamo più che mai la forma del fiore o del frutto, un profilo ove la bellezza sopravvive in un’assenza assoluta di aneddoto umano o divino, un busto dai tratti corrosi, sospeso a mezzo tra il ritratto e il teschio. Così un corpo scabro somiglia a un blocco sgrossato dalle onde; un frammento mutilo si differenzia appena dal sasso o dal ciottolo raccolto su una spiaggia dell’Egeo. Ma l’esperto non ha dubbi: quella linea cancellata, quella curva ora perduta ora ritrovata non può provenire se non da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose.

Statue de kor en marbre de Paros. Le bras gauche Žtait attachŽ sŽparŽment. Le dŽcor polychrome est bien prŽservŽ sur les bordures du vtement. Fin du VIe sicle av. J.-C. MusŽe de l'Acropole, 594.

Certe statue esposte al vento marino hanno il biancore e la porosità di un blocco di sale che si sgretola; altre, come i leoni di Delo, hanno cessato di essere effigi animali per divenire fossili imbiancati, ossa al sole in riva al mare. Gli dèi del Partenone minati dall’atmosfera di Londra volgono a poco a poco al cadavere e al fantasma. Le statue rifatte e patinate dai restauratori del Settecento, accostate ai lucidi pavimenti e agli specchi tersi dei palazzi di papi o di principi, hanno un’aria di gala e di eleganza che non è antica, ma che evoca le feste di cui furono testimoni, dèi di marmo ritoccati nel gusto del tempo, in compagnia di effimeri dèi di carne. Persino le foglie di fico che li rivestono sembrano un costume d’epoca. Certe opere minori che non si è pensato di mettere al riparo in gallerie o padiglioni adatti, abbandonate lentamente ai piedi di un platano, sul bordo di una fontana, acquistano nel tempo la maestà o il languore di un albero o di una pianta; quel fauno villoso è un tronco coperto di muschio; quella ninfa reclina somiglia al caprifoglio che l’abbraccia.

Afrodite detta Psiche

Afrodite detta Psiche

Altre ancora devono solo alla violenza degli uomini la bellezza nuova che hanno acquisito: la spinta che le abbatté dal piedistallo, il martello degli iconoclasti le hanno dato la forma del presente. L’opera classica si impregna così di patetico; e gli dèi mutilati hanno l’aria di martiri. A volte, l’erosione prodotta dagli elementi e dalla brutalità degli uomini si uniscono per creare una parvenza unica fuori oramai da ogni scuola o tempo: acefala, senza braccia, separata dalla sua mano che è recupero recente, consunta da tutte le raffiche delle Sporadi, la Vittoria di Samotracia è divenuta meno donna e più vento di mare e dell’aria.

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Nike di Samotracia

Da queste trasformazioni involontarie dell’arte antica nasce un falso aspetto di arte moderna: la Psiche del Museo di Napoli, dal cranio tagliato di netto, scisso orizzontalmente, ha l’aria di un Rodin; un torso decapitato rotante sul proprio zoccolo fa pensare a un Despiau o a un Maillol. Quello che i nostri scultori imitano per volontà d’astrazione, in virtù di un abile artificio aggiunto, è qui intimamente unito all’avventura della stessa statua. Ogni sua ferita ci aiuta a ricostruire un crimine e a volte a risalire alle sue cause.

Marathon Youth or Ephebe of Marathon http:/www.tuttartpitturasculturapoesiamusica.com

Quel volto di imperatore è stato preso a martellate in un giorno di rivolta o riscolpito per servire al suo successore. La pietra scagliata da un cristiano evirò quel dio o gli spezzò il naso. Un avaro ha strappato dalla testa di un dio gli occhi di pietra preziosa, lasciandogli così una faccia da cieco. Un soldataccio, in una sera di saccheggio, si è vantato di far vacillare quel colosso con una sola spallata. Ora la colpa è dei barbari, ora dei crociati, o viceversa dei turchi; ora dei lanzichenecchi di Carlo V e ora dei cacciatori di Bonaparte, e Stendhal così si commuove sull’Ermafrodito dal piede spezzato. Un mondo di violenza avvolge d’intorno queste forme tranquille.
I nostri avi restauravano le statue; noi ne asportiamo i nasi finti e i pezzi di protesi; i nostri discendenti, a loro volta, opereranno senza dubbio in modo diverso. Il nostro punto di vista attuale rappresenta a un tempo un profitto e una perdita. Il bisogno di ricreare una statua completa, dalle membra posticce, può essere dipeso in parte dall’ingenuo desiderio di possedere e di esibire un oggetto in buono stato, come porta in ogni tempo la semplice vanità dei possessori. Ma il gusto del restauro radicale, proprio di tutti i grandi collezionisti a partire dal Rinascimento, e giunto quasi sino a noi, nasce indubbiamente da ragioni più profonde dell’ignoranza, della convenzione, o del pregiudizio di una grossolana redazione in pulito. Forse più umani di quanto noi non siamo, almeno nel campo delle arti, a cui non chiedevano poi che sensazioni piacevoli, sensibili in modo diverso e solo loro, i nostri antenati non potevano rassegnarsi a questi capolavori mutilati, a segni di violenza e di morte su questi dèi di pietra. I grandi collezionisti di cose antiche restauravano per pietà. E per pietà, noi provvediamo a disfare la loro opera. Può darsi anche che siamo più assuefatti alla rovina e alle ferite. Dubitiamo di una continuità del gusto o dello spirito umano che consentirebbe a Thorvaldsen di rifare Prassitele. E accettiamo più facilmente che questa bellezza, divisa da noi, collocata nei musei e non più nelle nostre case, sia una bellezza etichettata e morta. Insomma, il nostro gusto del patetico ha la propria ragione in questi sfregi; la nostra predilezione per l’arte astratta ci porta ad amare le lacune, le rotture che neutralizzano, per così dire, il possente elemento umano di questa statuaria. Di tutti i mutamenti provocati dal tempo, nessuno intacca maggiormente le statue che gli sbalzi del gusto negli ammiratori.
Una forma di metamorfosi più sconvolgente delle altre è quella subita dalle statue colate a picco. Barche che portavano da un porto all’altro l’opera eseguita su commissione da uno scultore, galere ove i conquistatori romani avevano stivato il bottino greco per portarlo a Roma, o viceversa, quando Roma divenne poco sicura, per trasportarselo a Costantinopoli, sono talvolta affondate corpo e beni; alcuni di questi bronzi naufragati, ripescati in buone condizioni, come annegati rianimati in tempo, non hanno conservato del soggiorno subacqueo se non la mirabile patina verdastra, come l’Efebo di Maratona o i due possenti atleti ritrovati più di recente. Fragili marmi, invece, sono riemersi consunti, mangiati, corrosi, adorni di barocche volute scolpite dal capriccio dei flutti, incrostati di conchiglie come le scatole che si compravano sulle spiagge nella nostra infanzia. La forma e il gesto imposti dallo scultore non sono stati per queste statue che un breve episodio tra la loro incalcolabile durata di roccia nel grembo della montagna, e poi la lunga esistenza di pietra deposta sul fondo delle acque. Esse sono passate per questa decomposizione senza agonia, perdita senza morte, sopravvivenza senza resurrezione quella appunto della materia consegnata alle proprie leggi; ma non ci appartengono più. Come quel cadavere di cui parla la più bella e misteriosa delle canzoni di Shakespeare, esse hanno subito un mutamento oceanico dovizioso non meno che strano. Il Nettuno, buona copia di bottega, destinato ad adornare il molo di una cittadina i cui pescatori gli offrivano le primizie delle reti, è disceso nel regno di Nettuno. La Venere celeste e quella dei quadrivi è divenuta l’Afrodite dei mari.

1954
1982

Margherite Yourcenar, Il Tempo grande scultore, trad. di Giuseppe Guglielmi, nota biobibliografica di Yvon Bernier, Einaudi, 1985-2012, pp. 51-55.


Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Leggere la vita
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Costruire, significa collaborare con la terra. Ricostruire significa collaborare con il tempo.
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Ho sempre avuto fortissimo l’orrore del possesso, l’orrore dell’acquisizione, dell’avidità, della logica per cui la riuscita consiste nell’accumulare denaro.
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

 



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Punti Critici N° 2 (Settembre/Dicembre 1999) – Scritti di Paolo Maddalena, Alberto Giovanni Biuso, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Lucio Russo, Stefano Isola, Marco Mamone Capria, Angela Martini.

Punti Critici n. 2

Coperta N- 2pic

Comitato di direzione: Franco Ghione, Sandro Graffi, Paolo Maddalena, Angela Martini, Lucio Russo, Giovanni Stelli.
Comitato scientifico: Alberto Giovanni Biuso (Liceo Beccaria di Milano), Laura Catastini (Istituto Statale d’Arte, Pisa), Antonio Gargano (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Franco Ghione (Università di Roma Tor Vergata), Sandro Graffi (Università di Bologna), Antonio La Penna (Università di Firenze), Paolo Maddalena (Corte dei Conti per il Lazio e Università di Viterbo), Emanuele Narducci (Università di Firenze), Lucio Russo (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Serafini (Università di Udine), Augusto Schianchi (Università di Parma), Giovanni Stelli (IRRSAE dell’Umbria, Perugia).

Segretaria di redazione: Carla Russo.


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Presentazione

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In questo numero

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Paolo Maddalena,
Il rapporto tra ragione e diritto

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Alberto Giovanni Biuso,
Educazione e antropologia

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Giovanni Gallavotti,
Venti di riforma universitaria e avvertenze

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Sandro Graffi,
La sezione fisico-matematica degli istituti tecnici

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Lucio Russo,
Alcune osservazioni sulla complessità

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Stefano Isola,

Su alcune formulazioni matematiche della complessità


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Marco Mamone Capria,
Questioni di responsabilità scientifica

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Angela Martini,
Un monito dall’America: Le scuole di cui abbiamo bisogno

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Notizie sugli autori

 

Per leggere le pagine

del n° 1.

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Punti Critici N° 1 (Maggio 1999) – Scritti di Fabio Acerbi, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Giovanni Lombardi, Paolo Radiciotti, Lucio Russo, Maria Sepe, Giovanni Stelli.

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Punti Critici N° 1 (Maggio 1999) – Scritti di Fabio Acerbi, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Giovanni Lombardi, Paolo Radiciotti, Lucio Russo, Maria Sepe, Giovanni Stelli.

Punti Critici n. 1

Punti Critici n. 1

Comitato di direzione: Franco Ghione, Sandro Graffi, Paolo Maddalena, Angela Martini, Lucio Russo, Giovanni Stelli.
Comitato scientifico: Alberto Giovanni Biuso (Liceo Beccaria di Milano), Laura Catastini (Istituto Statale d’Arte, Pisa), Antonio Gargano (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Franco Ghione (Università di Roma Tor Vergata), Sandro Graffi (Università di Bologna), Antonio La Penna (Università di Firenze), Paolo Maddalena (Corte dei Conti per il Lazio e Università di Viterbo), Emanuele Narducci (Università di Firenze), Lucio Russo (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Serafini (Università di Udine), Augusto Schianchi (Università di Parma), Giovanni Stelli (IRRSAE dell’Umbria, Perugia).

Segretaria di redazione: Carla Russo.


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Presentazione

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In questo numero

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Maria Sepe,
Come fondare una nuova disciplina. L’esempio della archeoastronomia


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Giovanni Lombardi,
La “relatività globale” e la resurrezione dei morti

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 25-55    

Lucio Russo,
Appunti per una storia dei concetti di “matematica” e “fisica”

Lucio Russo (Venezia. 1944), è titolare di Calcolo delle probabilità. presso la Facoltà di Scienze dell’Università Tor Vergata di Roma. Ha svolto ricerche su argomenti di meccanica statistica, calcolo delle probabilità e storia della scienza. Tra le sue pubbcazioni (vedi curriculum), cfr.  in particolare: Da «La Rivoluzione dimenticata» … a «La bottega dello scienziato», passando per «Stelle, atomi e velieri» con il forte riferimento a «Euclide».

 


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Paolo Radiciotti,
Osservazioni di un paleografo attorno alle origini
ed al significato della codicologia quantitativa

Paolo Radiciotti (Roma, 1961) è dottore di ricerca in paleografia greca e latina e ha numerose pubblicazioni nel settore. Insegna greco e latino al Liceo “I. Vian” di Bracciano (Roma) .


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Giovanni Gallavotti,
Il conflitto inesistente

Giovanni Gallavotti (Napoli, 1941), Accademico Linceo, professore universitario dal 1972, è titolare di Meccanica Superiore presso la Facoltà di Scienze dell’Università “La Sapienza” di Roma. La sua attività di ricerca scientifica verte sulla meccanica analitica, sui sistemi dinamici caotici, sulla meccanica statistica, sulla teoria dei campi quantizzati e altri argomenti diftSica matematica. È autore di alcuni trattati scientifu:i a vasta diffusione internazionale.


Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 77-95    

Giovanni Stelli,
La riforma della scuola

Giovanni Stelli (Fiume, 1941) insegna storia e filosofia nei licei e svolge attività di ricerca per conto dell‘Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Tra i volumi da lui pubblicati La ricerca del fondamento (Guerini, 1995) e Il labirinto e l’orizzonte. Strutture fIlosofiche del post-moderno (Guerini, 1998). Attualmente lavora presso l’IRRSAE dell’Umbria.


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Sandro Graffi,
Sullo stato attuale dell’Università italiana

Sandro Graffi (Bologna, 1943), professore universitario dal 1975, è titolare di Meccanica Superiore presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Bologna. La sua attività di ricerca scientifica verte sulla meccanica quantistica e meccanica statistica.


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Giovanni Gallavotti,
L’ascesa di Micrososoft è davvero irresistibile?

Giovanni Gallavotti (Napoli, 1941), Accademico Linceo, professore universitario dal 1972, è titolare di Meccanica Superiore presso la Facoltà di Scienze dell’Università “La Sapienza” di Roma. La sua attività di ricerca scientifica verte sulla meccanica analitica, sui sistemi dinamici caotici, sulla meccanica statistica, sulla teoria dei campi quantizzati e altri argomenti diftSica matematica. È autore di alcuni trattati scientifu:i a vasta diffusione internazionale.


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Fabio Acerbi,
Tutti e nessuno

Fabio Acerbi (Livorno, 1965) è dottore di ricerca infisica matematica e si occupa di storia della scienza. Insegna matematica e fisica al Liceo classico “Stellini” di Udine.


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Notizie sugli Autori

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Juan Martín Guevara – Ernesto è mio fratello e il Che è il mio compagno di ideali. Non vivo nella sua ombra, ma alla luce della sua azione e del suo pensiero.

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Mon frère le Che

Mon frère le Che

 

Juan Martín Guevara

Juan Martín Guevara

 

Ernesto con la madre e in braccio Juan1943

Ernesto con la madre e in braccio Juan, 1943

 

 

Ernesto con il padre e in braccio Juan

Ernesto con il padre e in braccio Juan

 

 

Fratelli Guevara

Fratelli Guevara

 

«Lo scopo di Ernesro resta valido, come resta attuale il pensiero del Che. Ernesto è mio fratello e il Che è il mio compagno di ideali. Mi accompagna da quando ho cominciato ad avere coscienza politica e sociale. Non vivo nella sua ombra, ma alla luce della sua azione e del suo pensiero. Rimpiango di non essere stato di più al suo fianco, imparando e condividendo i suoi insegnamenti.
Già nel 1965 il Che prevedeva che l’URSS stava tornando al capitalismo […]».

Juan Martín Guevara, da una intervista a cura di Geraldina Collotti, Alias, il manifesto, 22-04-2017, p. 7.


Entrevista con Juan Martín Guevara, hermano de Ernesto ‘Che’ Guevara
Mon frère, le Che de Armelle Vincent et Juan Martin Guevara
Juan Martín Guevara ricorda il fratello Ernesto, il Che

Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Ha più valore, un milione di volte, la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – 1951 … adesso sapevo che io starò con il popolo. E preparo il mio essere come un tempio sacro in cui risuoni di nuove vibrazioni e nuove speranze il grido del proletariato.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Non si può arrivare al comunismo con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua. Ma noi dobbiamo tenere lo sguardo fisso a quella meta. L’uomo è l’attore cosciente della storia. Senza questa coscienza, che abbraccia anche quella del proprio essere sociale, non può esserci comunismo.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Nel cinquantesimo dell’assassinio di Ernesto Che Guevara (9 Ottobre 1967). Le sue lettere del 31 marzo 1965 e del 1° Aprile 1965 indirizzate a Fidel Castro, ai genitori e ai figli.

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Simone Weil (1909-1943) – La nozione di valore è al centro della filosofia.

Simone Weil 019
Premiers écrits philosophiques

Premiers écrits philosophiques

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«La nozione di valore è al centro della filosofia.
Ogni riflessione che verta sulla nozione di valore, su una gerarchia di valori, è filosofica; ogni sforzo di pensiero attinente a un oggetto altro dal valore è, se lo si esamina da presso, estraneo alla filosofia».

Simone Weil, Oeuvres, Edition établie sous la direction de Florence de Lussy, Quarto, Gallimard, Paris, 1999, p. 121.


Simone Weil (1909-1943) – Silenzi che educano l’intelligenza
Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015
Simone Weill (1909-1943) – Trovare uomini che amino la verità
Simone Weil (1909-1943) – Il desiderio di luce produce luce: un tesoro che nulla al mondo ci può sottrarre.
Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.
Simone Weil (1909-1943) – Dove il pensiero non ha posto, non ne hanno né la giustizia né la prudenza. Le nostre idee di limite, di misura, di equilibrio, che dovrebbero determinare la condotta di vita, ormai hanno solo un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri soltanto davanti alla materia. I Greci furono geometri innanzitutto nell’apprendimento della virtù.
Simone Weil (1909-1943) – L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. È puro quel che è sottratto alla forza.

 


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Giovanni Stelli – Il problema del relativismo filosofico riveste una grande importanza teoretica ed etica. Una filosofia che non voglia ridursi a dossografia o a un mero esercizio formalistico deve cercare di misurarsi con esso.

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Il labirinto e l’orizzonte

Risvolto di copertina

Abbandonata la grande illusione di tutti i sistemi filosofici della modernità, l’idea che possa esistere una fondazione ultima, e rifiutata quindi ogni pretesa autoritaria di «reductio ad unum», ai filosofi postmoderni il sapere appare come una disseminazione di giochi linguistici, un labirinto da cui è impossibile uscire e in cui dobbiamo abituarci a vivere senza rimpianti né nostalgie, «poiché il lavoro del lutto è compiuto» (Lyotard).
Ma proprio l’approfondimento conseguente delle argomentazioni antifondative operato dai postmoderni produce una interessante metamorfosi del relativismo: nell’etnocentrismo di Rorty esso relativizza se stesso, capovolgendosi in un paradossale «assolutismo» non universalistico; nel razionalismo pancritico di W.W. Bartley III addirittura si autosopprime attraverso l’estrema radicalizzazione della critica. Il labirinto degli infiniti giochi linguistici assunti come inconfrontabili in linea di principio si rivela così necessariamente interno a una ragione che ne costituisce l’orizzonte inaggirabile, poiché è solo questo orizzonte che ci consente di capire che ci troviamo nel labirinto e che cosa propriamente sia un labirinto.

***

INDICE

Prefazione

  1. Autocomprensione e comprensione del «postmoderno»

1.1. La riunificazione delle due tendenze (Wittgenstein e Heidegger)
della filosofia contemporanea

1.2. La categoria di «postmoderno»

1.2.1. Il rifiuto delle metanarrazioni

1.2.2. La fine della filosofia della storia

1.2.3. L’immagine postmodema del sapere come disseminazione di giochi linguistici

1.2.4. La rinuncia alla legittimazione del sapere e la positività del disincanto

1.3. Osservazioni sull’autocomprensione del postmoderno

  1. L’etnocentrismo antirelativistico di Richard Rorty

2.1. Il «pragmatismo» come compimento della secolarizzazione
e autocomprensione del postmoderno

2.2. La formulazione antirelativistica del relativismo

2.3. Etnocentrismo come antirelativismo

2.4. Verità e confronto

2.5. Riflessività e «frivolezza»

  1. W.W. Barrley III e il razionalismo pancritico

3.1. Limiti della conoscenza e limitazione logica della razionalità.
Fenomenologia del relativismo contemporaneo

3.2. Protestantesimo e razionalismo: il fondamento irrazionale del razionalismo

3.3. Il «dilemma dell’impegno ultimo» ovvero l’argomento del «tu quoque»

3.4. Il fallimento del panrazionalismo moderno e del razionalismo critico contemporaneo

3.4.1. Il panrazionalismo o razionalismo radicale

3.4.2. Il razionalismo critico

3.5. Il razionalismo pancritico e la sconfitta dell’irrazionalismo

3.6. L’intrascendibilità della ragione è una questione di fatto o di diritto?

3.7. I presupposti inaggirabili della critica: dal razionalismo pancritico
ai problemi della pragmatica trascendentale

***

PREFAZIONE

I problemi e le argomentazioni presentati nel testo che segue sono stati sviluppati nel corso di un seminario che ho tenuto a Napoli, agli inizi di aprile del 1997, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, sul tema Il relativismo contemporaneo e il problema del fondamento ultimo.

Questo tema, nella sua formulazione generale, sintetizza la direzione fondamentale della ricerca filosofica che mi occupa da qualche anno, a partire dal seminario svolto nel gennaio 1993, sempre nella sede dell’Istituto, sul Fichte del 1794 (II programma dell’idealismo tedesco nello scritto fichtiano «Sul concetto della dottrina della scienza», successivamente rielaborato nel volume La ricerca del fondamento, Milano, 1995), in cui le argomentazioni antifondative del razionalismo critico contemporaneo venivano discusse alla luce del metodo fichtiano della fondazione. La riflessione su Fichte e, più in generale, sulle strutture argomentative dell’Idealismo tedesco, sopratrutto nella profonda e originale riformulazione che ne ha fornito Vittorio Hösle (in particolare in Hegels System, Hamburg, 1988), mi ha portato a ritenere, contro l’opinione filosofica prevalente, che un discorso di fondazione ultima di tipo riflessivo sia teoreticamente non solo attuale ma addirittura necessario, per evitare le conseguenze negative, in particolare sul piano eticopolitico, del relativismo contemporaneo, che si presenta oggi come il principio dominante dell’opinione pubblica e, insieme, come il principio, apparentemente indiscutibile, della filosofia.

Il problema del relativismo filosofico non è affatto, come pure a volte viene perentoriamente asserito senza peraltro curarsi di fornirne una dimostrazione, un falso problema o una questione vuota, bensì riveste una grande importanza teoretica ed etica: il relativismo filosofico si ripresenta periodicamente, in formulazioni diverse e sempre più raffinate, nel corso della storia del pensiero, e una filosofia che non voglia ridursi a dossografia o a un mero esercizio formalistico deve cercare di misurarsi con esso usando lo strumento della critica immanente, che cerca di comprendere dall’interno le ragioni delle posizioni che intende criticare, nella convinzione che non esistono «errori» assoluti, ma solo modi parziali, più o meno unilaterali, di cogliere la «verità».

Un aspetto non secondario di questo compito critico consiste nella individuazione dei luoghi d’origine, per così dire, delle strutture argomentative del relativismo contemporaneo.

Ho cercato di affrontare questo problema, di tipo storico e teoretico insieme, nel seminario tenuto, ancora nella sede dell’Istituto, nell’aprile del 1995, sul tema Il fondamento perduto: alle origini dell’etica moderna, in cui ho analizzato le posizioni, assunte come esemplari, di Hume e di Sade in relazione alla questione della fondazione dell’etica nel pensiero moderno, caratterizzato dalla dissoluzione della teleologia aristotelico-tomistica e dalla scissione del nesso tra essere e valore.

Il testo che segue costituisce invece un ritorno alla discussione teoretica di alcune posizioni caratteristiche della filosofia contemporanea, analizzate a partire dalla categoria di «postmoderno» e alla luce della pragmatica trascendentale di Apel e Kuhlmann. Cerco di spiegare nel primo capitolo perché ritengo la categoria di «postmoderno», nonostante l’abuso che se ne è fatto in un recente passato, fondamentale per descrivere le tendenze più significative e originali della filosofia attuale, il che, come è ovvio, non comporta l’adesione alle posizioni dei postmoderni e nemmeno la condivisione totale dell’autocomprensione del postmoderno. Sostengo la tesi che l’atteggiamento caratteristico dei filosofi postmoderni, i quali, come è stato detto, sottopongono a disincanto l’idea stessa di disincanto, conduce in qualche misura all’autosoppressione del relativismo mediante la formulazione di argomenti di tipo riflessivo quasi-trascendentali. Il labirinto degli infiniti giochi linguistici assunti dai postmoderni come inconfrontabili in linea di principio si rivela interno ad una ragione intesa come orizzonte inaggirabile: è solo questo orizzonte che ci consente di capire che ci troviamo nel labirinto e che cosa sia propriamente un labirinto. Tale tesi viene messa alla prova discutendo, nel secondo capitolo, l’etnocentrismo antirelativistico di Rorty e infine, nel terzo, il razionalismo pancritico di W.W. Barrley III, la posizione che più si avvicina a una impostazione di tipo trascendentale, e che anzi mi sembra richiedere una tale impostazione per non incorrere in inconseguenze e aporie.

Con Vittorio Hösle ho un debito di riconoscenza filosofica che si accresce con gli anni; devo ringraziarlo, inoltre, per aver avuto la pazienza di leggere il dattiloscritto di questo lavoro e per i suoi consigli. Naturalmente egli non porta alcuna responsabilità per le affermazioni contenute nel testo. Sono profondamente grato all’avv. Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che mi ha generosamente incoraggiato nel lavoro di ricerca e che ha reso possibile la realizzazione del seminario e la pubblicazione di questo libro, e all’amico, prof. Antonio Gargano, segretario generale dell’Istituto, per il suo sincero interessamento e la Sua costante disponibilità.

Giovanni Stelli, Il labirinto e l’orizzonte. Strutture filosofiche del postmoderno, Guerini e Associati, 1998.

***

 

Stelli01

Giovanni Stelli ha insegnato filosofia e storia nei licei e pedagogia generale e didattica della filosofia all’Università. Svolge da anni attività di ricerca con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, occupandosi soprattutto di idealismo tedesco e di filosofia contemporanea. Tra i suoi libri: La ricerca del fondamento. Il programma dell’idealismo nello scritto fichtiano “Sul concetto della dottrina della scienza” (Milano, 1995), Il labirinto e l’orizzonte. Strutture filosofiche del postmoderno (Milano, 1998), Percorsi della filosofia del Novecento [cura] (Perugia, 2001), Il filo di Arianna. Relativismi postmoderni e verità della ragione (Napoli 2007). Ha curato l’antologia  Aristotele. La scienza della prassi  (Roma, 2009) e la traduzione dei due volumi di Vittorio Hösle, Il sistema di Hegel (Napoli 2012). Per le edizioni “petite plaisance”, oltre ad alcuni saggi su “Koiné”, ha pubblicato con Luca Grecchi, La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (Pistoia 2013).


Giovanni Stelli – Senso e valore della filosofia. Tre domande, alcune risposte
Giovanni Stelli – Tre lezioni sulla politica di Aristotele: Etica-politica come scienza unitaria – L’originaria costituzione intersoggettiva dell’uomo: amicizia e giustizia – La comunità politica e la teoria delle costituzioni

Processione panatenaica, blocco VI, rilievo del fregio est del Partenone (Museo dell'Acropoli di Atene) - Fidia (bottega) - 442-438 a.C.

Coperta Tre lezioni sulla politica di Aristotele

Govanni Stelli
Tre lezioni sulla politicadi Aristotele

ISBN 978-88-7588-169-6, 2016, Editrice Petite Plaisance,
pp. 112, Euro 13, Collana “il giogo” [66].

Lezione I
Etica-politica come scienza unitaria: problemi di fondazione

Lezione II
L’originaria costituzione intersoggettiva dell’uomo:
amicizia e giustizia 

Lezione III
La comunità politica e la teoria delle costituzioni

indicepresentazioneautoresintesi


Per Aristotele la politica è la scienza unitaria della prassi, delle relazioni interumane, e comprende quindi tanto l’etica quanto la politica in senso specifico. In queste lezioni l’autore si propone di mostrare l’attualità teoretica del pensiero aristotelico, un’attualità che si evidenzia alla luce di un continuo confronto critico delle categorie del pensiero dello Stagirita con quelle del pensiero moderno, spesso ed erroneamente considerate “superiori”. Sul fondamento della sua impostazione teleologica, ben più consistente di quanto comunemente non si ritenga, Aristotele intende l’etica-politica come scienza descrittiva e insieme valutativa, evitando così l’antinomia tra fatti e valori tipica della modernità, e comprende l’uomo come un ente nella sua essenza sociale, sfuggendo all’altra antinomia, anch’essa tipicamente moderna, tra individualismo e organicismo. In questa visione l’uomo è in grado di attuare compiutamente la sua essenza e sviluppare le virtù individuali solo in una comunità bene ordinata, in cui insieme agli altri può e deve cercare di realizzare la vita buona.


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