Alessandro Dignös – Il libro di Luciano Canfora «Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci». Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia.

Luciano Canfora-Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös

Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci

di Luciano Canfora

Un’interessante indagine sul carattere pratico della filosofia

 

«Se si pone mente al caso dei filosofi greci (per lo meno di alcuni), il motto celebre, e celebrato, di Marx, secondo cui i filosofi si sarebbero sinallora limitati a “interpretare il mondo” astenendosi dall’imperativo inderogabile di “cambiarlo”, non sembra corrispondere al vero. Giacché quegli antichi inventori del filosofare, in verità, operarono. E in una piccola comunità, quale fu la città antica, la loro azione risultò sommamente visibile: tanto da diventare non di rado il bersaglio della più popolare forma d’arte, la commedia. Più avanti di tutti si spinse Platone, il quale tentò addirittura di costruire la “città nuova”; e perciò patì la cattiveria e rischiò il peggio. Molto dopo di lui, uno stoico, Blossio di Cuma, fu dapprima coi Gracchi. Una volta persili, andò a morire combattendo al fianco di Aristonico e dei suoi ribelli, i quali chiedevano uguaglianza e adoravano il sole. La loro parola era dunque azione. Contro Socrate – l’uomo che forse meglio rappresenta gli antichi pensatori nella fantasia dei posteri – fu lo stesso ceto politico a mobilitarsi per neutralizzarlo. E lo colpirono: con lo strumento, talvolta cieco, ma ognora onnipotente, del verdetto di un tribunale» (quarta di copertina).

 

 

Il saggio di Luciano Canfora Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, uscito vent’anni fa per i tipi di Sellerio Editore, si pone l’obiettivo di indagare la relazione che intercorre tra la parola filosofica di alcuni fra i maggiori pensatori antichi – come Socrate, Platone, Aristotele e Lucrezio – e la prassi cui essa dà luogo, richiamando l’attenzione sulle conseguenze da esse prodotte e sulle ragioni alla base delle ostilità suscitate dalla speculazione e dall’insegnamento di tali filosofi. Dalla presente ricostruzione ben emerge come la filosofia, lungi dal costituire un mero gioco o un innocuo affare di soli addetti ai lavori, intrattenga necessariamente una relazione con il potere costituito (o con i poteri costituiti) e, più in generale, con le vicende sociali e politiche – una relazione che si rivela assai sovente problematica. Se, infatti, la filosofia non può esimersi dal calarsi nelle convulse dinamiche che definiscono il proprio tempo storico e dall’appartenervi, scendendo talora inevitabilmente – realpoliticamente – a compromessi con l’ordine vigente allo scopo di farsi valere con i fatti e «non apparire solo parola» (Platone, Settima lettera, 328E), essa, per il suo carattere antiadattivo e potenzialmente sovversivo, espone costantemente se stessa e coloro che la praticano a gravi pericoli. Allo stesso tempo, il “bisogno di filosofia” nasce, in modo apparentemente paradossale, proprio là dove il potere si fa dispotico e, tuttavia, non per caso: il «bisogno di consenso intellettuale», infatti, «è un bisogno primario del potere, soprattutto del potere totalitario» (p. 85). È dunque il potere stesso a volere e a chiamare a sé i filosofi, che però finisce per accusare di essere “corruttori”, “cospiratori”, quinte colonne o, in ogni caso, “nemici dello Stato”. Quello del “filosofo” si rivela così un “mestiere pericoloso” in un duplice senso: lo è per i reggitori, i quali non possono non sospettare di coloro che liberamente indagano sui problemi che, in un modo o nell’altro, riguardano ogni uomo; lo è per i filosofi stessi che, proprio per la loro coraggiosa e radicale scelta di vita, si trovano di fatto in perenne pericolo.
La relazione tra la riflessione di tali filosofi e la prassi che da essa deriva è chiarita ripercorrendo i momenti cruciali della loro vicenda biografica. È infatti sul terreno della vita, delle scelte – più o meno filosofiche – che essi si trovano costretti a compiere e delle reazioni che la loro maniera di vivere e pensare provoca in chi detiene il potere, che si fa evidente la pericolosità della loro attività.
Se c’è una figura che, meglio di altre, può rendere l’idea del pericolo cui i filosofi sono esposti, essa è senza dubbio quella di Socrate. Egli è colui che, per le proprie idee e per la propria condotta, è assassinato dalla propria città, Atene. Sarebbe però un errore vedere in costui un uomo che, con coraggio, resta fedele ai propri princìpi di fronte all’estremo pericolo della condanna a morte: tutta la sua vita è infatti irradiata dall’idea che non si debba fare nulla che non sia conforme alla legge; non solo dinanzi alla morte, dunque, ma in ogni momento della sua vita Socrate si muove coraggiosamente contro corrente, rifiutandosi più volte di assecondare i desideri sia del demo sia di coloro che si ritengono migliori. Il suo grande merito è quello di smascherare l’inconsistenza della tesi secondo cui la “giustizia” coinciderebbe necessariamente con gli interessi della maggioranza; in aperto contrasto con la maggior parte degli Ateniesi, egli testimonia il primato del nomos sul demos.
La vita (filosofica) di Socrate rappresenta una sfida continua nei confronti dei pericoli cui un filosofo va inevitabilmente incontro. Diverso è invece, per Canfora, l’atteggiamento del suo allievo Platone. La sua filosofia nasce infatti, per certi aspetti, dal desiderio di evitare il pericolo di una condanna analoga a quella di Socrate, ed è questo a rendere il suo filosofare differente da quello del suo maestro: «se […] sceglierà di filosofare “al chiuso”, in una cerchia remota e separata, lontano dagli occhi dei concittadini, se cioè farà l’esatto contrario del continuo incontrarsi e scontrarsi con la città caratteristico di Socrate, questo sarà dovuto anche, se non essenzialmente, alla tragica conclusione dell’esperienza socratica» (p. 68). La morte del maestro, com’è noto, ha un’importanza decisiva per lo sviluppo del pensiero filosofico-politico di Platone: «il vero trauma, indelebile», per costui, è non la guerra civile che fa seguito alla sconfitta contro Sparta, ma «il processo mostruoso con cui la democrazia restaurata aveva messo a morte Socrate. È a quell’evento che dedica una riflessione altissima», poiché da esso «scaturisce la sua scelta di vita: la rinuncia a misurarsi con la democrazia e la ricerca di altre strade» (p. 69). L’assassinio di Socrate determina la rottura tra Platone e Atene: «è da allora che, giudicato irriformabile il modello politico rappresentato (per eccellenza!) dalla sua città, cerca altre strade, fa esperienze che saranno anch’esse alimento, e banco di prova, del suo pensiero politico» (pp. 69-70). La fondazione dell’Accademia sancisce, in seguito, la definitiva separazione dei filosofi dalla città. La comunità di Platone, infatti, «era una comunità che mostrava di non aver bisogno della città, e che tuttavia osava anche occuparsi della città» (pp. 80-81); questa è una delle ragioni per cui essa «non faceva che insospettire e irritare i “buoni” ateniesi. Cosa tramava quella gente al chiuso?» (p. 81) Il desiderio di «non apparire solo parola di fronte a me stesso» (Settima lettera, 328E) e dunque di modificare lo stato di cose presente è, osserva Canfora, il tarlo che tormenta Platone. È questo tormento, unito alla convinzione «che la prova decisiva alla quale ad un certo punto si è chiamati non è, come pensano molti, lontana e di là da venire o relegata in un passato (ormai mitizzato) di cui non potemmo essere protagonisti, ma è qui, a portata di mano, in un immediato presente dal quale è vile tirarsi indietro» (p. 84), a spingerlo alla collaborazione con i tiranni di Siracusa. E tuttavia, è in questo che, secondo lo studioso, consiste «il vero fallimento di Platone: nell’essere caduto nella spirale del potere, fallendo l’obiettivo di pilotarlo» (pp. 84-85). Ed è qui che, a conti fatti, la vicenda filosofica di Platone assume i tratti del paradosso: se è vero, infatti, che egli ha deciso di tenere la pratica della filosofia lontana dagli occhi degli Ateniesi per sfuggire al pericolo di una condanna a morte, è altrettanto vero che la decisione di venire a un’intesa con la tirannide siracusana lo pone (per più volte!) dinanzi al medesimo pericolo.
Di grande interesse è anche l’intrigante ricostruzione della vita di Aristotele, compiuta da Canfora con l’intento di portare alla luce la complessa trama che lega saldamente lo Stagirita alla monarchia macedone. L’autore rileva come il suo stesso desiderio giovanile di recarsi ad Atene per studiare presso l’Accademia di Platone sia, a ben vedere, riconducibile al sovrano di Macedonia, Filippo. La Macedonia, infatti, «era un paese che guardava alla cultura ateniese con interesse, anzi con avidità. […] Mandare il promettente figlio del medico di corte alla scuola di Platone era dunque, per la casa regnante macedone, innanzi tutto un investimento: Aristotele, l’adolescente promettente, veniva messo a contatto col centro di pensiero più avanzato della grecità continentale. […] Si nutriva a quella educazione da re per portare a sua volta, o trapiantare, nel suo paese, e soprattutto nell’educazione del giovanissimo principe ed erede, i frutti di quello straordinario apprendistato» (pp. 97-98). La decisione di lasciare Atene dopo un soggiorno ventennale va intesa considerando ciò che avviene tra il 348 e il 347 a.C.: la città di Olinto, sostenuta da Atene per volere di Demostene, si arrende a Filippo; Demostene diviene il leader della politica ateniese. È chiaro come in tali condizioni non convenga a un suddito macedone rimanere ad Atene. La scelta di andare in Troade, ad Atarneo, su invito del suo dinasta Ermia, anziché in Macedonia, si spiega per Canfora tenendo a mente che Ermia, benché protetto dal Gran Re di Persia, è in verità un agente di Filippo avente il compito di preparare l’attacco contro la Persia; in gioventù è stato allievo di Platone ed è presso la sua scuola che ha conosciuto Aristotele, divenendo suo amico e, in seguito, addirittura suo parente. In Troade, Aristotele fonda una scuola patrocinata dallo stesso Ermia che, tuttavia, segnala lo studioso, non è illecito ritenere che si tratti in realtà di un “organo” dell’intelligence macedone. In generale, secondo Canfora, è lecito pensare che Filippo abbia «infiltrato suoi uomini nella scuola di Platone» e che questi «stessero accanto ad Aristotele sotto l’eccellente copertura della frequentazione di studio presso quella scuola dove tutto avveniva al chiuso, al riparo dagli occhi della città» (pp. 109-110). Quanto ad Aristotele, quando diviene precettore del giovane Alessandro, figlio ed erede di Filippo, solo pochi possono sospettare che costui, che è ormai noto come una delle più grandi menti viventi, sia in realtà un agente macedone. Il suo successivo ritorno ad Atene, nei primi mesi del 334, può essere compreso alla luce di alcuni eventi connessi ai successi della politica macedone, come la distruzione di Tebe, che dà ad Aristotele la certezza che coloro che sono stati sconfitti nella guerra contro i Macedoni – come gli Ateniesi – non riservino sorprese. Ad ogni modo, anche la sua amicizia con Antipatro, reggente di Macedonia per conto di Alessandro dallo stesso anno, permette di fare luce tanto sulle ragioni del suo rientro quanto «sui rapporti ininterrotti e profondi di Aristotele con i livelli supremi del potere macedone. Un dato del genere», osserva l’autore, «consente di cogliere i fili che, dietro la scena, muovono i personaggi: Antipatro e Aristotele si muovono all’unisono quando vengono, entrambi, in Grecia durante l’assenza prevedibilmente non breve di Alessandro» (ivi). È addirittura proprio quest’ultimo a patrocinare il Liceo, la scuola che Aristotele, in quegli anni, fonda ad Atene. «Il legame che, anche a distanza, univa Alessandro al suo maestro», evidenzia Canfora, «era impersonato fisicamente da Callistene, il nipote di Aristotele» (p. 126), lo storico al seguito di Alessandro nella sua spedizione in Asia. Ed è per certi versi sempre Callistene la causa della rottura tra il Conquistatore e lo Stagirita: dopo l’uccisione di Callistene (327 a.C.) – accusato di aver congiurato contro di lui –, infatti, l’ira di Alessandro si scatena sul vecchio maestro, considerato il suo mandante. Dopo la morte improvvisa di Alessandro, molte personalità a lui vicine sono sospettate di averlo avvelenato; tra queste vi è anche Aristotele. Anche sulla morte di quest’ultimo (322 a.C.), per lo studioso, è lecito formulare alcune ipotesi. Fuggito da un’Atene nuovamente guidata da Demostene e in guerra contro Antipatro, forse anche per evitare un processo per empietà, egli si rifugia nella città di Calcide, controllata dai Macedoni, dove poco dopo muore. Non è dato sapere se la sua morte sia dovuta a malattia o avvelenamento, come sostengono alcuni storici antichi. «In tal caso», suggerisce Canfora, «ci dovremmo chiedere chi avesse provveduto a far fuori il filosofo a quel modo: degli Ateniesi esasperati dalla sconfitta che mal sopportavano di non averlo potuto processare, o dei “vendicatori” macedoni della morte di Alessandro?» (p. 138). In ogni caso, nonostante la vicenda di Callistene, è forse ancor prima, sul piano filosofico-politico, che si consuma la rottura tra Aristotele e Alessandro: l’ideale politico di Aristotele, infatti, «non si identifica con la monarchia dei suoi sovrani», ma con una polis «retta da leggi e avente come fulcro la classe media possidente» (p. 121) – un modello evidentemente distante da quello della basileia universale di Alessandro. Atene è, in questo senso, non solo un luogo particolarmente stimolante in cui fare ricerca e insegnare, ma anche «un punto di osservazione privilegiato per la sua riflessione politica» (pp. 120-121). È dunque il suo pensiero che forse, più di altri fattori, può spiegare cosa lo abbia indotto a lasciare Pella, la capitale macedone, per stabilirsi ad Atene.
Quanto esaminato costituisce solo una parte dell’opera di Canfora, alla quale vanno riconosciuti almeno due grandi meriti: da una parte, essa porta alla luce il carattere pratico della filosofia greca, indicando, nel confronto con la vita di alcuni suoi protagonisti, quali siano i pericoli cui un filosofo va o rischia di andare incontro; dall’altra, essa lascia intendere come, in ogni tempo, chiunque aspiri non solo ad “interpretare il mondo”, ma anche a “trasformarlo”, non cessi di imbattersi in analoghi pericoli, dimostrando come ogni vero filosofare rappresenti, in definitiva, un “mestiere pericoloso”.

Alessandro Dignös

 

 

 

Indice del volume

Socrate ovvero l’infallibilità della maggioranza
L’esule: vita randagia del cavaliere Senofonte
Platone e la riforma della politica
Aristotele uno e due
Epicuro e Lucrezio: il senso degli atomi
Un mestiere pericoloso

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) – Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è la fame né la peste; è invece quella malattia spirituale – la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli – che è la perdita del gusto di vivere

Pierre Teilhard de Chardin

«Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è la fame né la peste; è invece quella malattia spirituale – la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli – che è la perdita del gusto di vivere».

Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano [1955], Queriniana, 2010.

Pierre Teilhard de Chardin
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Fernanda Mazzoli-Antonio Fiocco

Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

ISBN 978-88-7588-239-6, 2019, pp. 80, Euro 10 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi
Fernanda Mazzoli

L’inesausta tensione progettuale per il bene comune,
mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Ho letto il recente saggio di Antonio Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente,[1] con la lente un po’ particolare di un lettore privo di rigorosa formazione filosofica, ma sinceramente interessato ad orientarsi nella realtà contemporanea con strumenti interpretativi solidi, nella prospettiva di pensarne una radicale trasformazione che coincida, come principio generale, con la fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico e dal tipo di relazioni sociali che esso comporta. La questione indicata dall’autore come centrale – ovvero quella della progettualità, intesa come necessità di elaborare a livello prima di tutto teorico un percorso che vada in tale direzione e un’idea di società seriamente alternativa all’attuale – mi riguarda dunque da vicino.
La riflessione di Antonio Fiocco non ha pretesa di sistematicità od esaustività, ma il merito (e non è poca cosa, dati gli attuali scenari politici e culturali) di individuare con chiarezza due aspetti imprescindibili del problema: da un lato, l’insufficienza e la contraddittorietà di una messa in discussione dell’attuale assetto sociale che non tocchi la questione di fondo che il capitalismo è irriformabile (anzi, come ben sottolineato da numerosi studi degli ultimi anni, è capace di assorbire e fare proprie molte istanze critiche nei suoi stessi confronti) [2] e che occorre dunque contrapporgli la visione di una società completamente diversa quanto a fondamenti e finalità, e dall’altro il fallimento sostanziale di esperienze rivoluzionarie che non si siano fatte carico pienamente – a partire da un’elaborazione teorica coerente – di tale esigenza di progettualità. Una carenza in tal senso finisce, infatti, per consegnare un processo di grande rinnovamento politico e sociale al gioco delle contingenze, alle pressanti esigenze pratiche con il rischio che esso venga snaturato, o esaurisca la sua spinta rivoluzionaria. L’autore pensa in particolare alla Russia sovietica e al corso involutivo susseguito all’«assalto al cielo» tentato dalla rivoluzione bolscevica.
La inadeguata attenzione alla progettualità appare, pertanto, ad Antonio Fiocco come il vulnus che ha logorato dall’interno sia esperienze storiche grandiose, sia costruzioni filosofiche ambiziose (basti pensare a quella di Sartre) e che, nella odierna fase del capitalismo avanzato, vanifica la possibilità stessa non solo di di costruire, ma anche di pensare un’ alternativa credibile al capitalismo. La non-progettualità finisce per legittimare e rinforzare l’attuale stato delle cose, poiché, mancando una proposta complessiva di ampio respiro, restano solo contestazioni parziali facilmente neutralizzabili o riforme chiamate a correggere gli squilibri del sistema alfine di meglio conservarlo.
Si impone, quindi, la necessità di progettare una nuova idea di comunismo, necessità resa ineludibile non solo da istanze filosofiche, maturate anche nel confronto con la prassi rivoluzionaria, ma pure dalla constatazione che ogni epoca storica ha elaborato un suo concetto di comunismo (da Gesù a Babeuf, da Marx a Stalin, secondo la suggestiva ipotesi di Costanzo Preve qui richiamato), mentre la post-modernità sembra non avere alcuna intenzione di metterne in cantiere uno. Compito oggi più difficile che mai, perché sembra difficile dare torto a Fiocco quando osserva che «ormai anche chi è sinceramente, soggettivamente, rivoluzionario e marxista, corre il rischio di non saper più pensare la realtà personale e sociale se non all’interno delle coordinate dettate dal capitale».[3]
E qui irrompe l’altra grande questione che l’autore si limita ad accennare e che pure il suo lavoro non può fare a meno di evocare con forza: quale soggetto – individuale e/o collettivo – può progettare questa idea di comunismo per una società a capitalismo avanzato all’epoca della globalizzazione? Se Fiocco rimanda per una possibile articolazione del problema ai fondamenti umanistici del comunismo,[4] dal suo testo emerge, tuttavia, con chiarezza che solo un pensiero che attribuisca alla filosofia un ruolo veritativo autonomo può superare quel limite di universalismo che ha inficiato precedenti teorie radicate sul Partito o la Classe, le quali hanno finito per piegarsi all’urgenza delle condizioni storico-sociali, fino a compromettere seriamente la loro incidenza sui processi di trasformazione sociale. La questione è enorme, mobilita sia un’elaborazione concettuale che ha segnato due secoli di pensiero europeo, sia un pezzo importante della storia dell’umanità e finisce per combaciare con l’enormità della nostra miseria attuale, che è assenza di teoria e assenza di prassi, mentre le contraddizioni stridenti del sistema capitalistico finiscono sempre per ricomporsi in un suo rafforzamento, in virtù anche di questo vuoto.
La pesante sconfitta del comunismo storico – che non è solo crollo di regimi che già da tempo avevano perlomeno esaurito la loro spinta emancipativa, ma anche disgregazione di istanze, lotte e movimenti capaci di proporre una visione antagonistica complessiva – ha minato l’idea stessa che sia possibile concepire un altrove rispetto alla società di mercato e alla razionalità liberista. E ha finito inoltre per orientare il superstite discorso sul comunismo, relegato ai margini della cultura e rimosso dalla vita politica, quando non criminalizzato, nella direzione di una sorta di teologia negativa, attenta a dire come non dovrà essere il comunismo del futuro, piuttosto che a progettarne le linee di fondo, operazione necessaria per uscire dalla subordinazione politico-culturale al capitale. Se è, infatti, evidente che non è possibile (e nemmeno auspicabile) costruire da cima a fondo e con materiali predisposti le osterie dell’avvenire, la scrivente concorda con Fiocco sulla necessità di elaborare una nuova idea di comunismo, quale condizione per uscire, prima di tutto sul piano intellettuale, dall’impasse di un ordine sociale contrabbandato come naturale, eterno ed unico.

Da dove ripartire, dunque? Antonio Fiocco in questo testo non traccia una strada maestra che attraversi la notte del presente, come si è detto, ma sicuramente lascia cadere diversi sassolini che costringono il lettore, anche non filosofo di professione come chi scrive, a fermarsi, raccogliersi e pensare a come disegnarla questa strada e per andare dove. Al netto di ogni illusione su un possibile paradiso futuro – aggiungo – proprio per non cadere nella micidiale trappola liberista della fine della storia, in un improbabile (e sinistro) mondo conciliato e pacificato, dove i cerchi dei beati ospitino indifferentemente e a scelta profluvi di merci e uomini tutti d’un pezzo impegnati a gareggiare virtuosamente in bontà, solidarietà e reciproco amore.
Il sassolino nel quale la sottoscritta è inciampata è quello della natura umana, caratterizzata come morale e razionale, posta a fondamento del possibile comunismo del futuro. Ora, rispetto agli amici di Koiné che, ormai da anni, hanno sviluppato una seria ricerca teorica su questo concetto, sono piuttosto incline a sottolineare la curvatura tragica di tale natura, l’ineludibile e insuperabile conflittualità ad essa congenita, suscettibile per il convergere di molteplici e svariati fattori di tendere verso il bene, ma mai come acquisizione definitiva, quanto come inesausta tensione. Ciò che non esclude il riconoscimento del suo carattere morale e razionale (da cosa, altrimenti, potrebbe scaturire tale tensione?), ma sposta l’attenzione sul non-compiuto, non-finito e sul suo incessante farsi. Condivido pienamente, comunque, la centralità accordata alla nozione di natura umana nella elaborazione della progettualità, nella ferma convinzione che su questo concetto, su una sua meticolosa ed articolata definizione, si giochi la possibilità di ricostruire dalle macerie un percorso di liberazione dalle logiche del capitale. La bussola capace di guidare questo arduo processo dovrebbe infatti, a giudizio della scrivente, cercare di dare una risposta, rigorosa quanto a fondamenti teoretici, ma sempre aperta alla ricerca, al dubbio e al confronto, a una domanda fondamentale: “Che idea di uomo abbiamo?”.
Il punto è dirimente, perché il capitalismo, e la sua attuale variante liberista, un’idea molto precisa in merito ce l’ha ed è anche grazie alla forza e alla capacità di irradiazione di quest’idea che ha, per adesso, vinto. Ancora una volta, la questione cruciale è quella dell’egemonia che investe innanzitutto il piano intellettuale. Porre con chiarezza questa dimensione antropologica e affrontarla in profondità significa individuare il cuore di una riflessione teorica capace di progettualità.
Altro grande merito di questo libro – che in una sessantina di pagine compendia una materia estremamente densa, offrendo ricchezza di spunti e di indicazioni, anche bibliografiche – è di affermare il primato, che è ontologico prima che cronologico, della teoria sulla prassi, della filosofia sulla sua applicazione, principio corroborato dalla stessa esperienza storica che mostra abbondantemente come «una elaborazione teorica coerente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti».[5] Se, in proposito, Fiocco riprende la tesi di altri pensatori, in particolare di Preve, giova però ricordare quanto la ripresa e la riproposizione di questo concetto siano rese necessarie dalla sua inattualità. La ragione liberista dominante inneggia infatti al sapere immediato, alla competenza spendibile sul mercato – il grande bazar delle merci, ma anche del lavoro, della cultura, delle relazioni interpersonali, merci tra le merci – e confina il sapere teorico nella soffitta delle anticaglie, bollandolo come inutile, privo di presa sulla realtà, noioso ed antidemocratico per la sua complessità. Non è un caso, e l’autore lo ricorda, che la scuola sia divenuta il terreno di manovra privilegiato di questa vasta operazione ideologica. La didattica delle competenze, ultimo ritrovato di pedagogisti in salsa ministeriale, suggella efficacemente l’ impianto culturale della buona scuola. Essa costituisce la matrice entro la quale modellare un nuovo profilo educativo che assume una specifica concezione dell’uomo, che è quella dell’imprenditore di se stesso e del consumatore informato. L’emarginazione delle conoscenze teoriche e la riduzione dei processi di astrazione alle tecniche del problem solving spacciate come innovazione metodologica contribuiscono molto efficacemente ad addestrare le nuove generazioni a compiti semplici, ripetitivi in quanto risolvibili all’interno di determinate procedure e specifici, attinenti, cioè, al particolare piuttosto che allla totalità. Degli individui atomizzati privi di progettualità sociale, adattati al grande ingranaggio sistemico nella speranza di trovarvi una nicchia il più possibile comoda per se stessi, incapaci di togliere al mondo in cui vivono le vesti dello spettacolo di cui si ammanta, ottime pedine per la sua riproduzione: uno scenario che non autorizza certo facili ottimismi, ma sollecita l’urgenza di una risposta forte, di un pensiero – imperniato su uomo e polis e la loro reciproca relazione – che sappia rimettere in moto la storia.

Fernanda Mazzoli

[1] A. Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente, 2019, Petite Plaisance.

[2] Cfr. in particolare L. Boltanski- E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, 2014, Mimesis.

[3] A.Fiocco, op. cit., p. 52.

[4] C.Fiorillo, L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del comunismo, 2013, Petite Plaisance.

[5] A. Fiocco, op. cit., p. 5.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
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Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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Gherardo Ugolini – Ricordo di Diego Lanza. Gli amici, gli allievi, i colleghi che ne portano avanti l’eredità intellettuale gli sono debitori di molti insegnamenti.

DiegoLanza-Gherardo Ugolini

Si può scaricare e stampare il PDF (14 pagine) del testo aprendo il file sottostante:

Gherardo Ugolini

Tra le molte pubblicazioni di Gherardo Ugolini

D. Lanza – G. Ugolini (a cura di), Storia della filologia classica, Carocci, Roma 2016. Premio Nazionale di Editoria Universitaria nel 2016.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

Bontempelli Massimo 01

La conoscenza del bene e del male

Massimo Bontempelli

La conoscenza del bene e del male

indicepresentazioneautoresintesi

***

Tanta fretta.
Perché?
Per prendere la barca
che non va da nessuna parte.
Amici miei, tornate!
Tornate alla vostra sorgente!

Non abbandonate l’anima
nel bicchiere
della morte.

Federico Garcia Lorca

***

L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE

[…] C’è stato […] nell’Occidente degli ultimi secoli un processo direzionalmente univoco, anche se differentemente articolato nei differenti tempi e luoghi, e variamente accidentato da ritorni e deviazioni, di razionalizzazione irrazionale delle forme di conoscenza.
Le forme di conoscenza, cioè, si sono gradualmente ristrutturate in relazione alla ridefinizione dei loro oggetti teorici. Questa ridefinizione è sempre andata nella direzione di un restringimento e di un isolamento dell’oggetto teorico. Ad esempio la nozione di moto, diventando oggetto teorico della nuova fisica galileo-newtoniana, subisce un restringimento di significato rispetto alla cornspondente nozione platonico-aristotelica: ora i processi di germinazione, di invecchiamento, di alterazione qualitativa non rientrano più nel moto fisico. Questo moto è ora solo spostamento nello spazio nel corso del tempo. Ad
esempio la nozione di ricchezza, diventando oggetto teorico della nuova economia di Quesnay, va a designare uno spettro molto più ristretto di fenomeni: ora è ricchezza soltanto il prodotto netto economico di una società, e non sono una sua ricchezza i livelli di intelligenza e di moralità dei suoi membri. Ad esempio le nozioni di rivoluzione e di reazione acquistano con Constant un significato molto più ristretto che in passato: ora esse indicano soltanto un mutamento forte delle istituzioni che organizzano la società.
La costituzione di un oggetto teorico dal significato più ristretto e maggiormente separato dagli altri, rispetto ad un precedente oggetto da cui è derivato, rappresenta un progresso nel possesso razionale del mondo, è cioè un momento di razionalizzazlone delle cose. Definire un oggetto teorico attraverso il restringimento e il maggiore isolamento di un oggetto anteriore significa infatti migliorare la precisione con cui esso identifica un aspett.o
della realtà. Quando ad esempio Quesnay restringe il significato della ricchezza a quello del prodotto netto sociale, fa emergere una nozione di ricchezza meno vaga e meglio identificabile che in passato. D’altra parte ragionare è distinguere, come spiegava Croce, e per distinguere occorre astrarre. Il restringimento e l’isolamento dei significati sono il processo stesso dell’astrazione, e per questo costituiscono sempre un momento di razionalizzazione. La rivoluzione scientifica cinque-seicentesca ha rappresentato un formidabile salto in avanti nello sviluppo dei procedimenti razionali proprio perché ha ridefinito gli oggetti teorici attraverso nettissime astrazioni dai significati dell’esperienza comune. Inoltre, ogni riduzione e maggiore separazione di un oggetto teorico accresce la sua efficacia come strumento di previsione, e quindi di azione. Ciò è mostrato, a livello molto banale, da qualsiasi esperienza pratica quotidiana, in cui quanto più numerose e indiscriminate sono le cose che si vedono, tanto minore è l’efficacia con cui le si possono controllare. Nella scienza ciò è ancora più vero: quanto più un oggetto teorico è ritagliato dal suo sfondo, e quanto più sono isolate le sue singole relazioni con gli altri oggetti, tanto più risultano prevedibili e riproducibili determinati suoi effetti particolari.
La consapevolezza della crescente precisione ed efficacia che la ragione può ottenere frammentando e separando i suoi oggetti è molto antica. Già Platone, infatti, nel Sofista e nel Politico guida il lettore in faticose e progressive scomposizioni e separazioni di concetti. In età moderna Hegel ha scritto, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, che «il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria ed una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo, che è l’energia del pensiero». L’energia del pensiero è definita negativa perché consiste, per così dire, nell’irrealizzare la realtà, scindendone la totalità in elementi teorici separati, resi irreali, cioè estranei alla totalità che sola è reale, appunto dalla loro separazione. Ma, osserva Hegel, «l’elemento scisso e irreale è tuttavia essenziale: il concreto, infatti, è automovimento solo perché si scinde e si fa irreale». La negatività dell’astrazione, dunque, è positività razionale nella prassi.
Platone ed Hegel sapevano, però, che la negatività che frammenta il campo teorico e separa i suoi oggetti tra loro scissi, pur generando l’analisi, la precisione, l’efficacia e la potenza della razionalità, è in se stessa irrazionale.
Perciò Platone, nel Fedro, pone accanto alla divisione la sinossi, come momento essenziale di un equilibrato sviluppo della facoltà razionale. Perciò Hegel, nella Scienza della logica, fa valere l’esigenza che, accanto ad un intelletto «astraente e con ciò separante, che permane nelle sue separazioni», operi una ragione che riunifichi l’intero campo teorico mediante la congiunzione dialettica dei concetti separati. Là dove l’oggetto teorico è costituito in modo da poter essere pensato soltanto dall’intelletto astraente, e non anche dalla ragione dialettizzante, allora, scrive Hegel nella Introduzione alla Scienza della logica, «in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere una verità soltanto soggettiva, a conoscere cioè soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto non corrisponda. Il sapere torna ad essere l’opinione» .
Questo è stato appunto l’epilogo della razionalizzazione irrazionale della modernità. Si tratta di un epilogo di non facile lettura, sia perché vi siamo ancora completamente immersi, e ci manca quindi quella distanza cronologica ed ideale che consentirebbe di metterlo meglio a fuoco, sia perché è costituito dalla massima intensificazione di elementi intrinsecamente antinomici. Abbiamo simultaneamente raggiunto, in primo luogo, il massimo della razionalità ed il massimo della irrazionalità storicamente prodotte, ed alla ragione non risulta facile pensare congiuntamente, come deve, entrambi questi aspetti della situazione.
D’altra parte, se essa non comprende l’irrazionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna a sottomettersi alle corrispondenti forme di vita come ad una fine della storia, a pensare come inconoscibile ciò che è più importante per la condizione umana, a veder emergere questo inconoscibile come sentimento primitivo, disperato, nichilistico. Se non comprende, invece, la razionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna ad una critica antiscientifica, regressiva ed impotente della modernità.
È dunque importante capire che la modernizzazione delle idee è stata […] un’opera simultaneamente di razionalizzazione e di irrazionalizzazione.
La costituzione di oggetti teorici sempre più astratti, tipizzati, parziali e separati ha potenziato al massimo la razionalità come precisione, previsione, calcolo ed efficacia settoriale. Ma questa stessa costituzione ha potenziato al massimo anche l’irrazionalità come incapacità di dialettizzare concetti separati, come impotenza di fronte al movimento della totalità sociale, come demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, come perdita della conoscenza del bene e del male.
Questo epilogo è antinomico anche perché da un lato esalta al massimo l’individualità, separandola come non mai nella storia da ogni matrice socializzante, e dall’altro la deprime al massimo con la serializzazione dei comportamenti e degli stessi pensieri. Ed è antinomico perché porta a compimento e invera la modernità, abbandonando nello stesso tempo tutte le sue promesse emancipatrici, tanto che si è parlato, in contrapposizione al moderno, di un postmoderno.
Il processo di razionalizzazione irrazionale è stato alimentato […] dai processi sociali di generalizzazione della fonna di merce e di universalizzazione delle relazioni tecniche. Anzi, è stata proprio la razionalizzazione irrazionale progressivamente diffusasi nelle relazioni sociali che ha generato quegli snodi nelle idee. […]
Ebbene: il modo di produzione moderno, la cui logica si dispiega nella circolazione delle merci, è sempre più penetrato, nel corso degli ultimi secoli, nello spazio sociale. Negli ultimi decenni lo spazio sociale ne è stato quasi interamente pervaso, cosicché oggi viviamo, per fare un paragone fisico anziché biologico, in un universo le cui masse interagenti sono merci e galassie di merci.
Dove tutto è merce, tutto è quantificabile, e, su scala locale, tutto diventa calcolabile, prevedibile, manovrabile: la razionalità trionfa. Ma il movimento globale, frutto di innumerevoli interazioni, diventa incontrollabile, e valori, vincoli e sentimenti perdono qualsiasi visibilità: l’irrazionalità trionfa.
L’universalizzazione delle relazioni tecniche è l’altro processo sociale che ha prodotto e plasmato la razionalizzazione irrazionale. Tecnica è, in senso proprio, una capacità di produzione data dall’uso di determinati strumenti in conformità a determinate regole. Si parla più specificamente di tecnologia quando le regole, o addirittura gli strumenti, della tecnica, sono la concretizzazione di nozioni scientifiche. Lo sviluppo dei mezzi tecnici e dei concetti scientifici nel corso dell’età moderna ha dato un’impronta sempre più tecnica, e tecnologica, alle relazioni sociali.
Oggi viviamo infatti in un universo tecnico. Ciò significa non tanto che viviamo in mezzo ad apparecchi tecnici, quanto piuttosto che le regole tecniche da un lato sono condizioni di efficacia di tutte le nostre azioni, e dall’altro non sono estrinseche agli strumenti, ma sono incorporate in strumenti, i quali sono a loro volta semplici articolazioni di un apparato complessivo. Questo apparato scientifico-tecnologico è dunque l’apparato di comando dell’azione sociale, che determina la divisione sociale del lavoro e i corrispondenti rapporti sociali. […]
In un siffatto universo tecnico si realizza il paradigma, proprio della razionalità, dell’unità della molteplicità. Innumerevoli interazioni sociali hanno infatti un unico apparato come luogo di coordinamento (sia pure di un coordinamento che amplifica, invece di comporre, gli antagonismi). Ogni azione, inoltre, viene esattamente predeterminata dalla tecnica, in conformità al criterio razionale della precisione e del rigore. Infine si determina la prevedibilità di catene, lunghe quanto mai in passato, di cause e di effetti. La razionalità, insomma, trionfa.
Nell’universo tecnico, d’altra parte, il soggetto non è più sorgente di azioni, in quanto le azioni si trovano già prescritte nel complessivo apparato scientifico-tecnologico. La libertà, quindi, perde di significato, e con essa la ragione. Prendersi la libertà di compiere un’azione contraria alle prescrizioni implicite nelle relazioni tecniche significa farla scadere dall’efficacia all’inefficacia, e quindi spogliarla del suo carattere attivo. Un’azione inefficace, cioè, non è più un’azione. Né è possibile farle attribuire un valore di altro genere, perché il riconoscimento di un valore presuppone l’accoglimento di un messaggio, e nell’universo tecnico gli unici messaggi di cui è possibile la trasmissione sono quelli conformi alle regole tecniche delle relazioni sociali, sono cioè quelle regole stesse. Nell’universo tecnico, dunque, cade la distinzione, paradigmatica della ragione, tra valore ed efficacia, perché il valore viene a coincidere con l’efficacia. L’irrazionalità, insomma, trionfa.
Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi.
Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre, il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo.
La storia degli ultimi secoli, dunque, da un lato ha potenziato ininterrottamente la razionalità, e dall’altro ci ha condotto, per la prima volta nella storia, ad una razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale. Il terreno a questo epilogo è stato preparato, sul piano delle idee, da tutti quegli autori che hanno dissociato la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana. […]
Il modello di una razionalità divenuta priva di scopi, a cui è approdato il processo di razionalizzazione irrazionale degli ultimi secoli, annulla qualsiasi possibilità di distinguere la vita dalla morte, il bene dal male. Abbiamo visto infatti, nel secondo capitolo, come la vita e la morte, il bene e il male, siano connessi alla intrinseca natura teleologica dell’esistenza. Un modello di razionalità come quello dell’attuale epilogo della razionalizzazione irrazionale, costruito separando la ragione dalla teleologia, è perciò necessariamente cieco di fronte alla vita e al bene. Esso si rispecchia, quindi, in uno stile di
vita e di pensiero in cui l’orizzonte della morte è rimosso, oppure nichilisticamente contemplato, in cui l’operare della morte è scambiato per espressione di vita e di conoscenza, in cui il bene è ineffabile, e sostituito in pratica dall’efficacia.

L’universo sociale contemporaneo, risultato dal processo di razionalizzazione irrazionale della modernità, è realmente l’inferno dello spirito. Dirlo non è elegante, non
fa fare buona figura nell’ambiente sedicente colto della sinistra intellettuale e dell’intellettualità accademica e mediatica, e suscita il sarcasmo riservato, da ogni buon scientista o detentore del potere culturale, alle nostalgie premoderne e alle visioni apocalittiche. Lo si deve però dire, se si vuol dire la verità. Come altrimenti definire un mondo in cui la produzione economica, cresciuta e “razionalizzata” al punto da avvelenare sempre più la terra, l’acqua e l’aria con i suoi rifiuti, tiene tuttavia i tre quarti del genere umano in una penuria superiore a quella dei secoli precedenti?

Massimo Bontempelli,
La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, 1998, pp. 115-125.

Filosofare

Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.

 ***

 

Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».


 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.

Georges Perec, Les choses

Il romanzo di Georges Perec Les choses,[1] pubblicato nel 1965, realizza un singolare paradosso: tanto è esiguo il volumetto, tanto esso pesa. Pesa di lunghe liste di oggetti, mobili, cibi, vestiti, aggeggi di ogni sorta che riempiono il vuoto in cui si dipana l’esistenza dei due protagonisti, Jerôme e Sylvie. Lo spazio della narrazione è disegnato da questo succedersi di pieni e di vuoti: pieno di cose e di desideri, vuoto di vita e di storia.
A partire dalla stessa vicenda narrata che avrebbe destato l’invidia di Flaubert per la sua semplicità, la sua banalità, la sua quotidianità, condizioni ottimali perché l’autore riesca a fare “un livre sur rien” (“un libro sul nulla”).
Una vita come tante, quella dei due protagonisti, senza éclat e senza infamia: un’origine sociale modesta, studi frettolosi e poco convinti, ma sufficienti per farne dei semi-colti con qualche aspirazione culturale e molte ambizioni, lavori precari in un settore di terziario avanzato (le ricerche di mercato, la pubblicità) che se non garantisce sempre, nell’immediato, un reddito soddisfacente avvia a un futuro di promettenti carriere, una cerchia di amici che gravita nello stesso ambiente professionale, un tentativo fallito di dare una svolta ad un’esistenza che ristagna con un trasferimento nella Tunisia da poco indipendente, la scelta di tornare in Francia e di accettare un lavoro fisso e ben remunerato a Bordeaux.
Nessuna azione degna di nota, nessuna passione travolgente: il ménage di Jerôme e Sylvie si installa ben presto sulle vie discretamente oliate della routine quotidiana; ad unirli è una complicità cameratesca, una condivisione di gusti ed aspirazioni e a dividerli qualche volta le momentanee difficoltà economiche.
Romanzo-non romanzo abitato da antieroi, nel solco di un ripensamento radicale del genere, sulla scia del nouveau roman? C’è molto altro in questo libriccino e non solo perché Les choses si distanziano da quest’ultimo per la linearità della narrazione e la persistenza dei personaggi, ancora dotati di stato civile e caratterizzazione se non psicologica almeno affettiva e “ideale”, ma in ragione, innanzitutto, del sottotitolo: une histoire des années soixante (una storia degli anni ‘60).
La non-storia di questa coppia è, insomma, profondamente radicata in un periodo ben preciso nel quale i molteplici possibili della storia sembrano avere imboccato una impasse che ha, però, tutta l’apparenza di un viale scintillante di luci e vetrine, di insegne allettanti di cinema e ristoranti. È nella società dei consumi di massa che Jerôme e Sylvie muovono i loro passi, e in modo letterale: le loro avventure sono quelle di cavalieri erranti del consumo, spinti a percorrere le vie di una capitale scrigno di tutte le ricchezze del mondo, alla ricerca degli oggetti dei loro sogni.

«Le loro prime uscite fuori dal mondo studentesco, le loro prime incursioni in questo universo dei magazzini di lusso che non avrebbero tardato a divenire la loro Terra Promessa furono […] particolarmente rivelatrici».

È un vero percorso iniziatico tra i templi del consumismo, da cui traggono una nuova conoscenza di se stessi che ruota intorno al riconoscimento di bisogni inediti, crescenti e spesso fuori della loro portata.

«Fecero a Parigi, in quegli anni, interminabili passeggiate. Si fermarono davanti ad ogni antiquario. Visitarono i grandi magazzini, per ore intere, stupiti, ed anche spaventati, ma senza ancora osare dirselo, senza ancora osare guardare in faccia questa specie di accanimento pietoso che sarebbe divenuto il loro destino, la loro ragione di essere, la loro parola d’ordine, stupiti e già quasi sommersi dall’ampiezza dei loro bisogni, dalla ricchezza esibita, dall’abbondanza offerta».

Non solo: la loro intera esistenza sembra trovare una direzione ed un senso proprio in questa abbondanza scoperta giorno dopo giorno e che si offre ai loro sguardi, modella i loro desideri e si rivela inesauribile, ponendo sempre un poco più in alto l’asticella della soddisfazione.

«Di stazione in stazione, antiquari, librai, commercianti di dischi, menù di ristoranti, agenzie di viaggio, camiciai, sarti, fabbricanti di formaggio, di scarpe e di dolciumi, salumerie di lusso, cartolai, i loro itinerari componevano il loro vero universo: là poggiavano le loro ambizioni, le loro speranze. Là era la vita vera, la vita che volevano conoscere, che volevano vivere: era per quei salmoni, per quei tappeti, per quei cristalli, che, venticinque anni prima, un’impiegata ed una parrucchiera li avevano messi al mondo».

La loro idea di felicità è legata strettamente al possesso delle cose, di cui vorrebbero godere con l’impazienza della giovinezza e quel fondo di innocenza che continuano a serbare e che li spinge ad ambire ad assaporare tutta la ricchezza del mondo come se essa si offrisse naturalmente ai loro appetiti ed aprisse loro le porte ad una vita piena ed armoniosa, dove tutto non è che «luxe, calme et volupté».[2]
Ben presto inciampano, però, in un ostacolo formidabile che impedisce loro di bere dalla coppa dell’abbondanza e di stringere fra le mani la felicità: il denaro, il denaro che manca, che non è mai abbastanza, che si dilegua appena guadagnato, perché possono contare soltanto sui redditi incerti di un lavoro che vogliono precario per non compromettere con un’occupazione stabile una libertà che ogni giorno appare più illusoria. Georges Perec commenterà più tardi, rovesciando il proverbio “chose promise, chose due” (“ogni promessa è debito”) che nella società capitalista “choses promises ne sont pas choses dues”.
In questo senso, Les choses non rappresentano una condanna della società dei consumi, come ha sottolineato l’autore stesso: sia perché, fedele alla lezione di Flaubert, Perec vuole conservare una certa distanza rispetto all’oggetto della narrazione, sia perché, intendendo scrivere una storia che dia conto di quegli anni, non può fare a meno di constatare che esiste «fra le cose del mondo moderno e la felicità un rapporto obbligato».
Il fatto è che questa promessa di possesso rimane solo un possibile: fallimento e frustrazione sono dietro l’angolo, la sua realizzazione mobilita energie smisurate e finisce per consumare il godimento che viene sempre differito, subordinato al raggiungimento di un bene ancora più grande. Infatti, tutto intorno alla giovane coppia è disposto in modo tale da instillare nei loro cervelli «a colpi di slogan, di locandine pubblicitarie, di neon, di vetrine illuminate, che erano sempre un poco più in basso nella scala».
Di modesta estrazione sociale, ma non poveri, sempre a pochi passi dalla riuscita e ad altrettanti dal fallimento, sono affascinati dal lusso e dal confort dei grandi borghesi, cui tradizione familiare e disponibilità economica conferiscono quella sicurezza, quell’eleganza e quella leggerezza che suscita le loro invidie ed alimenta le loro fantasticherie.
Sognano invece di agire, si immergono con voluttà e perseveranza in un sogno galleggiante nel gran mare dell’abbondanza. Sognano le spiagge alla moda, la cucina esotica, le scarpe esclusive, i musei e i pub di Londra, i ristorantini caratteristici, i maglioni di cashmire, le valigie ultimo grido.
Ed un grande, luminoso appartamento, con i suoi mobili e i suoi accessori immaginati e pregustati nei minimi dettagli. Non è casuale che il saggio di Baudrillard Le système des objets[3] (nato come tesi di dottorato discussa nel 1966 davanti ad una commissione di cui facevano parte Barthes, Bourdieu e Lefebvre) che si propone di investigare le modalità con cui le persone entrano in relazione con gli oggetti nella società dei consumi di massa, con particolare riferimento all’arredamento e al mobilio, dedichi un capitolo centrale alla coppia Jérôme et Sylvie e alla loro relazione con le cose che li circondano.
Né è casuale che il romanzo si apra su una lunga descrizione, attenta ad ogni particolare – stanze, mobili, arredi, caratterizzati con precisione quanto a forma, colore, dimensioni, materiale, collocazione – dell’appartamento sognato dai due protagonisti. Il sogno, nel suo minuzioso e lento dipanarsi, cui l’uso esclusivo del modo verbale del condizionale conferisce un ritmo quasi ipnotico, sposta poco per volta l’attenzione dagli oggetti alle fortunate persone chiamate a condividere con loro gli spazi.
Ed ecco che «la vita, là, sarebbe facile, sarebbe semplice. Tutti gli obblighi, tutti i problemi che implica la vita materiale troverebbero una soluzione naturale». Le fastidiose incombenze domestiche sarebbero sbrigate da personale di servizio, a loro resterebbe il godimento di una lunga, calma giornata ove ogni azione – pasti, lavoro, lettura, uscite con gli amici – si inserirebbe armoniosamente in un quadro spazioso, luminoso, elegante, creato apposta per loro. Nulla sembrerebbe impossibile, né alcuna cattiva passione – rancore, amarezza, invidia – turberebbe il loro equilibrio.

«In effetti, i loro mezzi e i loro desideri si accorderebbero, sotto tutti gli aspetti, sempre. Chiamerebbero questo equilibrio felicità e saprebbero, con la loro libertà, la loro saggezza, la loro cultura, preservarlo, scoprirlo ad ogni momento della loro vita comune».

In realtà, i due abitano un appartamentino di trentacinque metri quadri di cui trascurano la manutenzione e la sistemazione di cui avrebbe bisogno per trasformarsi in un interno accogliente, funzionale e non privo di fascino. O tutto o niente: senza autentica presa sulla realtà, essi scelgono di abbandonarsi alla dismisura dei loro desideri, cui fa da contrappunto l’esiguità delle loro azioni reali. Si lasciano modellare con compiacenza da sogni di lusso e ricchezza e rinunciano a dirigere la propria vita, ad assumersi la responsabilità e la fatica di un progetto razionale, scambiando per libertà questa rinuncia.
Eppure, il tempo lavora per loro e finirà per condurli alla decisione che muterà per sempre l’esistenza della coppia. Dopo una deludente esperienza di lavoro in una città tunisina, in cui si consuma nel volgere di qualche giorno ogni loro illusione esotica, al rientro a Parigi finiscono per accettare, come già hanno fatto tutti i loro amici, ciò che si erano ripromessi di evitare: quell’impiego stabile e ben remunerato che aprirà loro la possibilità di nuotare sul serio nel mare dell’abbondanza. Non sarà veramente la fortuna favolosa dei loro sogni.

«Non diverranno Presidenti e Amministratori delegati. Non maneggeranno che i milioni degli altri. Gliene lasceranno alcune briciole, per lo standing, per le camicie di seta, per i guanti in pecari color fumo. Si presenteranno bene. Saranno ben alloggiati, ben nutriti, ben vestiti. Non avranno nulla da rimpiangere. […] Avranno le stanze immense e vuote, luminose, i disimpegni spaziosi, i muri in vetro, le viste assicurate. Avranno le ceramiche, i coperti d’argento, le tovaglie ricamate, le ricche rilegature in cuoio rosso. Non avranno ancora trent’anni. Avranno la vita davanti a loro».

Per traghettare i suoi eroi nel loro nuovo mondo di classe media realizzata, Georges Perec passa dal condizionale al futuro, un futuro che sembra consumarsi mano a mano che il treno che li porta a Bordeaux – dove assumeranno la direzione di un’agenzia di pubblicità – si allontana dalla capitale ed essi, quasi senza accorgersene, prendono congedo dalla giovinezza per approdare ad una maturità abbastanza prevedibile e forse deludente. Con un biglietto di prima classe in tasca, a loro agio negli abiti leggeri, confortevolmente installati alla tavola di un pretenzioso vagone-ristorante, l’impeccabile coperto sembrerà «il preludio di un festino sontuoso. Ma il pasto che serviranno loro sarà francamente insipido».
La conclusione rapida e stringente, una delle rare occasioni in cui l’autore tradisce la sua presenza, suggella con un cenno quasi divertito un destino. Uno spazio bianco e poi una citazione da Marx che ricorda come il mezzo faccia parte della verità, tanto quanto il risultato, ciò che richiede che la ricerca della verità sia essa stessa vera. È al suo stesso lavoro che Perec pensa, al suo tentativo di restituire la verità di un’epoca, o, piuttosto, alla confusa ricerca della felicità da parte dei due protagonisti, probabilmente avviata ad arenarsi nelle sabbie della disillusione?[4]
Certo è che Les choses questo paesaggio degli anni ‘60, in cui il punto di vista è dato dal rapporto stregato tra uomini e cose, riescono a comporlo, se non in tutta la sua complessità, sicuramente in quelli che sono i suoi elementi di punta, ciò che ne costituisce la specificità e la novità. D’altronde, quel paesaggio Perec lo conosceva bene, aveva all’epoca più o meno l’età dei suoi personaggi e non mancano nel libro gli spunti autobiografici. Ed il suo sguardo penetrante e chiaroveggente ha saputo individuare e cogliere nel suo tempo ciò che non era affatto transitorio, ma un modo di vita e di relazione al mondo che, nato sul terreno del boom economico del secondo dopoguerra, era destinato a germogliare con travolgente vigore fino a modellare la vita sociale e la psicologia individuale ben oltre quegli anni.
Rapporto stregato con le cose, si sottolineava: esse esercitano un moderno incantesimo su Jérôme e Sylvie, protagonisti del romanzo solo per semplicità espositiva, in quanto sono le cose stesse le autentiche protagoniste, sono esse ad invadere e strutturare lo spazio della narrazione, ad orientare l’esistenza della coppia, a calamitare i loro pensieri. Le cose non rinviano più a chi le possiede, non aiutano a comprenderne lo statuto sociale o la sfaccettatura psicologica, si fondano su se stesse, acquisiscono una potente individualità, tendono a sganciarsi dall’universo utilitario, dalla dimensione strumentale che dovrebbe essere di loro pertinenza, così come da quella simbolica.

Diventano segni, osserverà Baudrillard, esterni alla relazione con il possessore o ad una situazione vissuta. Ed ecco compiersi la logica formale della merce, già analizzata da Marx.

«Come i bisogni, i sentimenti, la cultura, il sapere, tutte le forze proprie dell’uomo sono integrate come merci nell’ordine di produzione, si materializzano in forza produttiva per essere vendute, oggi tutti i desideri, i progetti, le esigenze, tutte le passioni e tutte le relazioni si astraggono (o si materializzano) in segni e in oggetti per essere comperate e consumate».[5]

Baudrillard trova la storia di Jérôme e Sylvie davvero esemplare: la finalità oggettiva della coppia diventa il consumo di oggetti e proprio di quegli oggetti domestici tradizionalmente simbolo della relazione. Anzi, questi oggetti-segni perdono tale ruolo e descrivono piuttosto il vuoto della relazione, ancor prima di sostituirsi ad essa. La relazione è destinata a consumarsi negli oggetti, ad abolirvisi in quanto relazione vissuta. Il potere degli oggetti di riempire il vuoto si rivela un’illusione, perché essi sono presenti essenzialmente come idea ed è la loro idea sola ad essere consumata.
Infatti, le cose che si affollano nelle pagine di questo singolare romanzo-non romanzo sono, innanzitutto, immaginate in estatici sogni ad occhi aperti, ammirate dietro seducenti vetrine o sulle pagine di riviste alla moda, piuttosto che comperate, usate, amate. È, insomma, il rutilante, inesauribile, sempre uguale e sempre diverso spettacolo delle merci che si offre agli sguardi concupiscenti ed ammaliati della coppia e del lettore. È alle immagini delle cose che Jérôme e Sylvie votano il loro culto, più che agli oggetti stessi: in questo senso, Baudrillard evoca «una logica idealista del consumo», tanto estranea alla soddisfazione del bisogno quanto al principio di realtà, un processo sistematico che nasce da un’esigenza delusa di totalità.
Proprio in quegli anni, Guy Debord individua nel feticismo delle merci spinto al parossismo il carattere saliente del capitalismo avanzato e nella società dello spettacolo l’espressione compiuta della mercificazione della vita moderna. L’occupazione totale della vita sociale da parte dell’economico «conduce ad uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima».[6] Persa l’unità sul piano del reale, a causa della frammentazione sociale susseguente al dominio indiscusso di un settore – l’economia – su tutti gli altri, resta lo spettacolo che realizza sul piano delle immagini la ricomposizione dell’unità perduta. Il flusso delle immagini – immagini scelte e costruite da altri – diviene il perno della relazione dell’individuo con il mondo, al punto da sostituirsi alla realtà, mentre la visione dello spettacolo è un surrogato della vita che manca.

«Più egli [il consumatore-spettatore; N.D.A.] contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio».[7]

Non si potrebbe dare definizione più calzante della storia della giovane coppia del romanzo di Georges Perec, costruito sullo stridente contrasto tra l’enormità dei desideri indotti e dei sogni di accumulazione e la pochezza delle azioni messe in atto e condotte a termine per realizzare gli obiettivi agognati. I due psicosociologi (mestiere in voga in quegli anni e consistente nell’intervistare le persone sui soggetti più svariati per indagini di mercato) non sanno, infatti, comprendere la propria vita, né cosa veramente vogliono, al punto da rinviare anno dopo anno l’accettazione del rapporto ineludibile fra denaro e accesso al regno dell’abbondanza. Sognano di improbabili eredità o di miracolosi ritrovamenti di ingenti somme , quando non di spericolate rapine. In fondo, sono tipi simpatici, Jérôme e Sylvie: nessuna arroganza o sicumera, nessuna brutalità o perfidia da arrivisti, sembrano sensibili e alla mano, amano restare a letto sino a tardi a leggere romanzi gialli e di fantascienza e adorano le commedie americane. Prede indifese della società dei consumi nel suo momento di affermazione inziale, quando, rinforzata dal compromesso fordista fra capitale e lavoro, la sua brillante superficie non mostrava ancora le vistose crepe attuali, non sono talmente sprovveduti, tuttavia, da non percepire talora come disperatamente vuoti i loro valori, desideri e ambizioni. È, infatti, ai tesori del mondo intero che essi aspirano confusamente: i prodotti dei fertili campi e il bestiame delle ricche fattorie, i mari pescosi e le fabbriche immense, le vette innevate solcate dalle sciovie e le foreste dove camminare senza mai fermarsi, le camere confortevoli e discrete fatte per l’amore e le pianure percorse da cavalli sfrenati.

«Ma queste immagini scintillanti, tutte queste immagini che arrivavano in folla, che si precipitavano davanti a loro, che scorrevano in un fiotto irregolare, inesauribile, queste immagini di vertigine, di velocità, di luce, di trionfo, sembrava loro per prima cosa che si incatenassero con una sorprendente necessità, secondo un’armonia senza limiti, come se, davanti ai loro occhi meravigliati, si fosse innalzato improvvisamente un paesaggio finito, una totalità spettacolare e trionfale, un’immagine completa del mondo, un’organizzazione coerente che essi potevano finalmente comprendere, decifrare».

Il fatto è che, nel tempo storico in cui essi vivono, questa totalità si offre loro sotto la forma frammentaria e sviata di merce, di un oceano di merci, negando se stessa in quanto totalità. Eppure, questo tempo storico non è poi così piatto ed omogeneo, né esclusivamente dedito al culto mercantilistico: sono gli anni della guerra d’Algeria, con le sue pesanti ricadute sulla società francese. Tuttavia, è proprio il rapporto con questo evento – che avrebbe potuto imprimere una svolta alle loro vite, costituire il punto di non ritorno, orientarli verso una nuova consapevolezza del loro essere sociale – a confermarli nella loro routine desiderante. Studenti di vaghe simpatie gauchistes, hanno partecipato alle proteste contro l’inizio della guerra, per finire, più tardi, per condividere il disprezzo venato di superiorità verso la politica esibito dall’ambiente della pubblicità in cui lavorano, ambiente che si richiama, comunque, ad un generico progressismo. Nondimeno, il conflitto algerino per quasi due anni li ha «protetti da se stessi»: i gravi avvenimenti che segnarono in Francia il biennio 1961-1962 (il putsch di Algeri e i morti nella stazione della metropolitana di Chambronne, le violenze quotidiane) li hanno costretti a mettere in secondo piano le usuali preoccupazioni rispetto al loro avvenire e alle loro possibilità di riuscita. E a prendere posizione, per quanto in modo sporadico e superficiale, al limite del ridicolo per le immagini ingigantite dei pericoli che la partecipazione alle attività di un Comitato antifascista di quartiere avrebbe potuto loro procurare. Nessuna azione significativa, qualche volantinaggio e qualche manifestazione, senza eccessivo coinvolgimento, con la speranza di fare qualcosa di necessario per se stessi, prima ancora che per la causa, ma con la consapevolezza di fondo che la loro vera vita è altrove.
La Storia li sfiora, fa loro intuire le sue potenzialità, anche in rapporto alle loro esistenze individuali, ma essi vi passano a lato, ancora una volta catturati «dalle trappole affascinanti della felicità», prigionieri del loro universo. Rimpiangono di non avere vissuto gli eventi capitali del secolo, di non avere avuto vent’anni all’epoca della guerra di Spagna o della Resistenza, ma ancora una volta si appagano di immagini di un passato glorioso, dietro le quali giustificare le loro tiepide condotte nel presente.
D’altronde, il loro disincanto matura nel confronto con tutti quegli uomini che si sono battuti e continuano a battersi per il pane e a cui vanno le loro istintive simpatie: infatti, come ci si può battere – si chiedono con nascente cinismo – per dei divani Chesterfield? Al massimo, si sfidano i pericoli della viabilità parigina per arrivare sino ai mitici (ed interdetti al loro portafoglio) negozi in cui essi sono esposti …
Appiattiti sul presente, divorati da desideri la cui enormità e proliferazione ingenera una passività di fondo, incapaci di un progetto esistenziale coerente, alla soglia dei trent’anni Jérôme et Sylvie entrano nella vita adulta, lasciandosi alle spalle ogni tentazione bohème e prendendo posto alla tavola apparecchiata per loro dal tempo, dalle circostanze, dalle esigenze produttive della Francia delle Trente glorieuses.

Storia degli anni sessanta, recita il sottotitolo, ma di un’attualità sconcertante, attraversato da una chiaroveggenza che solo la letteratura può avere, il romanzo non si limita a tratteggiare un brillante quadro di un mondo alle prese con l’affermazione dei consumi di massa, ma individua in un processo spinto all’estremo di reificazione i tratti precipui di una nuova antropologia delle società a capitalismo avanzato. La semplicità narrativa, una certa impersonalità di scrittura e la pacatezza del tono, appena increspata qui e là da una vena di divertita ironia, che molto devono al flaubertiano souci d’exactitude sottolineano questa dimensione molto meglio di quanto avrebbero fatto gli accenti dell’apostrofe accorata o della veemente denuncia politica. Arrivano con indubbia efficacia a inoculare una salutare dose di dubbio nello sguardo che il lettore, portato ad identificarsi con i due protagonisti in virtù della loro medietà, proietta sulla quotidianità della sua stessa esistenza. Non solo: Les choses continuano a interrogare, senza concessioni e compiacimento, la coscienza di chiunque voglia esercitare – nella riflessione filosofica, nella prassi politica, nelle scelte di vita – un punto di vista anticapitalista, costringendolo a ripensare con serietà e senza infingimenti il suo stesso rapporto con la forma merce. Non si intende certo arruolare d’ufficio Georges Perec nel campo di coloro che mettono in discussione l’attuale modo di produzione e i rapporti sociali ad esso legati, dimenticando o nascondendo che a più riprese lo scrittore si è detto convinto non esserci alternativa alla società dei consumi di massa. Capita, tuttavia, che i libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicano molto di più di quel che dicono i loro autori.

 

Fernanda Mazzoli

 

Tutte le traduzioni dai testi in francese sono di Fernanda Mazzoli.

[1] G. Perec, Les Choses, Julliard, 1965, Paris.

[2] Cfr. il celebre sonetto di Charles Baudelaire, Invitation au voyage in Les fleurs du mal.

[3] J. Baudrillard, Le système des objets, Gallimard, 1968, Paris.

[4] Che il finale resti, comunque, aperto lo conferma Perec, commentando in un’intervista che lui per primo non sa se la loro sia stata una scelta felice o infelice: cfr. S.Henderson, Etude sur Les choses. Georges Perec, Ellipses, 2007, Paris, p. 41.

[5] J. Baudrillard, Le système des objets, op. cit., p. 278.

[6] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, 1997, Milano, p. 57.

[7] Ibidem, p. 63.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maura Del Serra – «Limbo virale». Non angelico o ascetico ma livido di sospettoso tremore il silenzio che ha inghiottito in paralisi città e continenti intanando i viventi nella bolla di un limbo assordato soltanto dal tamburo mediatico che bussa incessante alle anime serrate, alle confuse menti …

Maura Del Serra - coronavirus -pandemia
 

Limbo virale

 
Non angelico o ascetico ma livido
di sospettoso tremore il silenzio
che ha inghiottito in paralisi città e continenti
intanando i viventi
nella bolla di un limbo assordato soltanto
dal tamburo mediatico che bussa incessante
alle anime serrate, alle confuse menti.
È marzo, in questo secolo, il mese più crudele
che mischia turbinando memoria e desiderio
in una primavera non più umana;
fragili uccelli ci rigano i giorni
con note inascoltate di diamante;
fragili fiori spandono
il trionfo di un non raccolto miele
di là dal mondo sapiens divenuto
per minaccia invisibile
un’intangibile voce virtuale
dove il cuore comune in petto danza
a un metro di distanza.

 

 

Maura Del Serra

Maura Del Serra

Atro Teatro

Introduzione di Marco Beck

ISBN 978-88-7588-243-3, 2019, pp. 208, Euro 18, Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

In questo volume, complementare del precedente (Teatro, 2015) la dimensione del sacro, propria di Maura Del Serra […] ha preferito, senza dissimularsi, assumere il colore e il calore di una «pietas civile e culturale». Mescolarsi in modo ancora più fraterno e solidale con le ansie, le sofferenze, le paure, i sogni e le speranze di donne e uomini […] che attraverso la finzione del teatro tutti ci rappresentano nella realtà della nostra esistenza. Ma non ha affatto rinunciato a scandagliare, sulle orme di Pascal, con le ragioni della ragione e le ragioni del cuore, il mistero della vita e della morte. A perseguire l’ideale di una bellezza assoluta […]. Non dall’alto ma dall’orizzontalità cordiale della sua cattedra di “drammaturgia d’idee”, Maura Del Serra ci induce a pensare. Ci costringe, anzi, a pensare, meditare, introiettare. Ci insegna, mediante la sua parola affidata a personaggi fatti di carne e ossa e anima, a «contare i nostri giorni» […] per «arrivare alla sapienza del cuore». Traccia, per sé e per noi, un arduo eppure affascinante itinerarium mentis ad sapientiam cordis.

Dalla Introduzione di Marco Beck


 

Indice

Introduzione di Marco Beck

Tecnostar

Zelda pazza di gloria

Baci scritti per Milena

Voci dei Nessuno
da foto segnaletiche di prigionieri ignoti

Torquato Tasso
Libretto d’opera liberamente ispirato all’omonimo dramma in versi di J. W. Goethe


 

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Vedi pubblicazioni di Maura Del Serra


 

Maura Del Serra.
Maura Del Serra – Adattamento teatrale de “La vita accanto” di Mariapia Veladiano
Maura Del Serra, Franca Nuti – Voce di Voci. Franca Nuti legge Maura Del Serra.
Intervista a Maura Del Serra. A cura di Nuria Kanzian. «Mantenersi fedeli alla propria vocazione e all’onestà intellettuale, senza cedere alle lusinghe di un facile successo massmediatico»
Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole
Maura Del Serra – La parola della poesia: un “coro a bocca chiusa”
Maura Del Serra, «Teatro», 2015, pp. 864
Maura Del Serra – Quadrifoglio in onore di Dino Campana
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Maura Del Serra – Miklós Szentkuthy, il manierista enciclopedico della Weltliteratur: verso l’unica e sola metafora
Maura Del Serra – Al popolo della pace.
Maura Del Serra – «L’albero delle parole». La mia vita è stata un ponte per centinaia di vite, che mi hanno consumato e rinnovato, per loro libera necessità.



 
Maura Del Serra

Teatro

Introduzione di Antonio Calenda

ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, Euro 35. Collana di Teatro “Antigone”.

indicepresentazioneautoresintesi

I 23 testi inclusi nel volume – scritti dal 1985 al 2015 – sono preceduti dall’Introduzione di Antonio Calenda e accompagnati da un’Appendice contenente le Introduzioni che comparivano nelle singole edizioni. Il prezzo di copertina del libro (864 pagine) è di Euro 35,00.
I primi 100 lettori che faranno richiesta del volume direttamente all’editrice  (info@petiteplaisance.it) al momento dell’uscita del libro lo riceveranno al loro recapito al prezzo speciale di Euro 28,00.

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra, poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, ha riunito la sua opera poetica nei volumi: L’opera del vento e Tentativi di certezza, Venezia, Marsilio, 2006 e 2010. Ha tradotto dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo e ha dedicato monografie e saggi critici a numerosi scrittori italiani ed europei.


 

Indice

Introduzione di Antonio Calenda
Nota cronologica ragionata

La fonte ardente. Due atti per Simone Weil
L’albero delle parole
La Fenice
La Minima
Andrej Rubljòv
Il figlio
Lo Spettro della Rosa
Specchio doppio. Favola drammatica
Agnodice. Commedia drammatica
Guerra di sogni. Mito futuribile
Stanze. Versi per la danza
Trasparenze. Versi per la danza
Sensi. Versi per la danza
Kass
Dialogo di Natura e Anima
Trasumanar. L’atto di Pasolini
Isole. Poema scenico
Eraclito
Scintilla d’Africa
Specchi. Cellula drammatica
La vita accanto
Isadora
La Torre di Iperione. Hölderlin e gli altri

Appendice

Mario Luzi: Introduzione a La fonte ardente
Daniela Belliti: Introduzione a La fonte ardente
Nino Sammarco: Introduzione a L’albero delle parole
Mario Luzi: Introduzione a La Fenice
Daniela Marcheschi: Introduzione a La Minima
Ugo Ronfani: Introduzione a Andrej Rubljòv
Giovanni Antonucci: Introduzione a Agnodice
Giovanni Antonucci: Introduzione a Guerra di sogni
Misha Van Hoecke: Nota a Stanze
Ugo Ronfani: Introduzione a Isole
Jacopo Manna: Introduzione a Eraclito
Marco Beck: Introduzione a Scintilla d’Africa
Cristina Pezzoli: Nota di regia a La vita accanto



 

Galleria di copertine

e … passeggiando tra i suoi libri …

Ladder of Oaths

Ladder of Oaths

***

Scala dei giuramenti

Scala dei giuramenti

***

Tentativi di certezza

Tentativi di certezza

***

Voce di voci

Voce di voci

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Canti e pietre

Canti e pietre

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Scintille

Scintille

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Infinito presente

Infinito presente

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Infinite Present

Infinite Present

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L'opera del vento

L’opera del vento

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Adagio con fuoco

Adagio con fuoco

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Congiunzioni

Congiunzioni

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L'età che non dà ombra

L’età che non dà ombra

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Za solecem i nociju vosled

Za solecem i nociju vosled

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Aforismi

Aforismi

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Elementi

Elementi

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Dietro-il-sole-e-la-notte_b

Dietro il sole e la notte

 

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Corale

Corale

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Sostanze

Sostanze

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senza niente

senza niente

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Concordanze

Concordanze

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Meridiana

Meridiana

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La gloria oscura

La gloria oscura

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L'arco

L’arco


Teatro

 

Teatro

Teatro

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La vita accanto

La vita accanto

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Guerra di sogni

Guerra di sogni

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La fonte ardente

La fonte ardente

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Andrej Rubliòv

Andrej Rubliòv

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Eraclito. Due risvegli

Eraclito. Due risvegli

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Isole. Poema scenico

Isole. Poema scenico

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Scintilla d'Africa

Scintilla d’Africa

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Agnodice

Agnodice

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Dialogo Natura e Anima

Dialogo Natura e Anima

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Rosens ande

Rosens ande

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Lo spettro della rosa

Lo spettro della rosa

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La fenice

La fenice

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La Minima

La Minima

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L'albero delle parole

L’albero delle parole


Critica

 

Una rara pietà

Una rara pietà

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Simone Weil. 'intelligenza della santità

Simone Weil: l’intelligenza della santità

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Di poesia e d'altro, III

Di poesia e d’altro, III

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Di poesia e d'altro, II

Di poesia e d’altro, II

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Di poesia e d'altro, I

Di poesia e d’altro, I

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Crescita e costruzione. Immagini del giardino

Crescita e costruzione. Immagini del giardino

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Le foglie della sibilla

Le foglie della sibilla. Scritti su Margherita Guidacci

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L'uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

L’uomo comune. Claudellismo e passione ascetica in Jahier

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Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco

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Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

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Ungaretti

Ungaretti

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Dino Campana

Campana

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L'immagine aperta

L’immagine aperta

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Mostra bio.bibliografica su Dino Campana

Mostra bio-bibliografica su Dino Campana


Traduzioni

 

 

R. Ughetto, Poesie

R. Ughetto, Poesie

 

R. Tagore-V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

R. Tagore –  V. Ocampo, Non posso tradurre il mio cuore

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Tagore, Ricordi di vita

Tagore, Ricordi di vita

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Cicerone, Manualetto elettorale

Cicerone, Manualetto elettorale

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K. Mansfield, Poesie e prose liriche

K. Mansfield, Poesie e prose liriche

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Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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D. Barnes, Disincanto

D. Barnes, Disincanto

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Victor Segalen, Odi

Victor Segalen, Odi

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Le poesie di Simone Weil

Le poesie di Simone Weil

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F. Thompson, Il Segugio del Cielo

F. Thompson, Il Segugio del Cielo

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Orlando n

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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V. Woolf, Orlando

V. Woolf, Orlando

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K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield, Tutti i racconti

K. Mansfield, Tutti i racconti

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K. Mansfield. Tutti i racconti

K. Mansfield. Tutti i racconti

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Una stanza

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé

V. Woolf, Una stanza tutta per sé

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Molto rumor per nulla

W. Shakespeare, Molto rumor per nulla

 

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Shakespeare molto-rumore-per-nulla_1479_

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

W. Shakespeare, Molto rumore per nulla

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M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

M. Hamburger, Taccuino di un vagabondo europeo

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E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

E. LASKER-SCHÜLER, Caro cavaliere azzurro

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Vi. Woolf, Le onde

Vi. Woolf, Le onde

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M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto

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G. Herbert, Corona di lode

G. Herbert, Corona di lode

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E. Lasker-Sculer, Ballate ebraiche e altre poesie

E. Lasker-Schuler, Ballate ebraiche e altre poesie

 

 

Curatele

 

 

Kore. Iniziazioni femminili

Kore. Iniziazioni femminili

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M. Guidacci, Le poesie

M. Guidacci, Le poesie

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Poesia e lavoro

Poesia e lavoro

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Egle Marini, La parola scolpita

E. Marini, La parola scolpita

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G. Boine, La città

G. Boine, La città

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Gianna Manzini, Bestiario

Gianna Manzini, Bestiario

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P. Parigi, Noi lenti e le stelle

P. Parigi, Noi lenti e le stelle

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Benedetta e Luca Grecchi – Omero tra padre e figlia. Una piccola introduzione alla filosofia.

Omero tra padre e figlia

Luca e Benedetta Grecchi

Omero tra padre e figlia. Una piccola introduzione alla filosofia

ISBN 978-88-7588-103-0, 2014, pp. 64, Euro 5.

In copertina: Disegno di Benedetta Grecchi, 2014

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Questo piccolo dialogo si colloca a metà strada fra il ricordo ed il desiderio. Il ricordo, perché in termini assai vicini a quelli qui riportati esso si è effettivamente svolto, nel settembre 2013, fra me e mia figlia Benedetta, allora di cinque anni e mezzo. Il desiderio: spero infatti che questo sia uno dei primi passi della mia bimba verso una ricerca di verità e di bene, necessaria per una vita felice.
Ogni persona che si occupa di filosofia, e che ha dei figli, spera – se realmente ama la filosofia – che anche loro se ne interesseranno in futuro, una volta giunti ad una età adeguata. La filosofia, infatti, indica (o dovrebbe indicare) come riflettere sul senso e sul valore della vita, sicché si pone come una conoscenza imprescindibile e concreta, anche se oggi viene dipinta come una cosa inutile ed astratta. Soprattutto, chi si occupa di filosofia spera di poter dare ai propri figli – così come spera di poterla dare in generale – una “educazione filosofica”, ossia una capacità di aprirsi agli altri in modo benevolo, di ragionare in modo adeguato, di comportarsi in modo giusto. Tutto oggi, nel mondo, conduce nella direzione opposta: le attuali modalità sociali portano alla chiusura agli altri; la ragione non è sviluppata in modo dialettico; la giustizia, infine, è negata in un mondo che ruota tutto intorno al denaro. Per questo, specialmente oggi, serve la filosofia.
Un padre, o una madre, sebbene debbano nuotare controcorrente, possono fare molto. Con l’esempio personale, certo, ma anche cercando di avvicinare i piccoli alle letture; sempre, ben inteso, senza esagerare, perché i bambini devono innanzitutto giocare, e, quindi, devono approcciarsi ai testi in modo adeguato alla loro età ed alle loro attitudini. Il rischio è, altrimenti, che essi inizino ad odiare la filosofia ancor prima di quando solitamente accade, cioè al Liceo, dove talvolta questo effetto viene involontariamente prodotto da insegnanti poco educati e poco appassionati. Per il bambino, il primo approccio alla filosofia deve essere un gioco educativo, sicché essa non deve essere presentata come una cosa difficile e strana. Fatto questo danno, altrimenti, è poi difficile rimediare, perché appunto tutto conduce, nel mondo, contro una ripresa in età adulta della educazione filosofica.
Per chi scrive, come ricordato, la filosofia è molto importante, in quanto essa rappresenta la principale forma conoscitiva che consente di vivere in modo libero e felice, pur nei limiti ristretti concessi dalle attuali modalità sociali. Ciò nonostante, in questo libro, non intendo presentare un metodo generale, valido sempre, su come avvicinare i bambini alla filosofia. Questo scritto è semplicemente il mio modo, personale ed in larga parte intuitivo, con cui ho cercato di avvicinare mia figlia alla filosofia. Se poi, da questo approccio, si potranno trarre indicazioni più generali, ne sarò contento.
Una introduzione ad un libricino come questo non deve essere eccessiva; tuttavia, prima di lasciare al dialogo, vorrei solo brevemente rimarcare le mie perplessità nei confronti della vena anglosassone accademicamente dominante in questo campo, ossia la cosiddetta Philosophy for Childrens (P4C). Mi pare infatti, da quello che ho potuto leggere in merito, che essa intenda l’educazione filosofica dei bambini come una sorta di tentativo di sviluppo delle facoltà logiche, razionali, cognitive (come se il compito della filosofia fosse quello di far diventare i bambini più “intelligenti”, magari per prepararli al “successo” nel mondo del lavoro), anziché di sviluppo delle loro facoltà dialogiche, comunitarie, affettive.
Questo breve dialogo non vuole nemmeno essere una concessione alla moda, oggi assai diffusa, di trasformare la filosofia in un racconto esistenziale. Chi conosce i miei libri sa che non condivido questo orientamento, in quanto ritengo che la filosofia debba ricercare innanzitutto la verità ed il bene, con contenuti e forme proprie, e che quando si fa della “letteratura filosofica” (come pure anche a me è capitato di fare),1 occorre sapere che non si fa in senso proprio filosofia, ma qualcosa di differente. La filosofia non è, insomma, riducibile alla biografia ed alla narrazione.
Questo breve dialogo ha – se così si può dire – un solo fine generale, quello di indicare la priorità della educazione alla buona vita sulla istruzione alla vita professionale. Si tratta, mi pare, di una banalità, ma è una banalità disattesa – tranne che nelle dichiarazioni di intenti, sempre inosservate, dei pedagogisti – da parecchi anni, nelle scuole di ogni ordine e grado dei paesi occidentali, oltre che nella mentalità diffusa della gente comune. Nelle scuole elementari, e perfino nella scuola materna, si sono fatti entrare in pompa magna l’inglese (la lingua degli affari) e l’informatica (lo strumento degli affari); nelle scuole superiori e nelle università, poi, specialmente in Italia, si sono sempre più diffusi gli indirizzi tecnico-professionali rispetto a quelli storico-umanistici, con effetti disastrosi sia sulla qualità umana dei nostri giovani, sia sulla capacità generale di elaborare orizzonti fondati di senso e di valore.
Mi si potrebbe infine chiedere il motivo per cui, pur essendo tanti i miti ed i racconti antichi, e diverse le tradizioni cui attingere, io abbia deciso di cominciare con Omero. Sicuramente, si comincia sempre dal luogo che si conosce meglio. Ritengo, tuttavia, che ci sia di più. Considero infatti Omero, oltre che la migliore introduzione alla letteratura, anche la migliore introduzione alla filosofia,2 e dato che considero la filosofia la migliore forma di educazione, il lettore desideroso di sapere si sarà già risposto.
Concludo dicendo che sono stato a lungo incerto sul titolo. Non mi sembrano infatti rispettosi titoli del tipo “l’etica” (o “il razzismo”, o “altro”) “spiegato/a a mio/a figlio/a”, in cui sembra che ci si rivolga ai figli facendo lezione; non c’è modo migliore, peraltro, per non essere ascoltati. Inizialmente avevo pensato, come titolo, ad “Omero raccontato con”, o “compreso con” mia figlia, che ambedue contenevano un elemento di verità, perché nel rendere partecipe un figlio di questi contenuti, si è sempre costretti a raccontarli “con” lui/lei, ossia a (ri)comprenderli “insieme” a lui/lei. Tuttavia, mi sembrava in questo modo di torcere troppo il bastone dalla parte opposta, seguendo quella moda “amicale” nei rapporti fra genitori e figli che, specie se i bimbi sono piccoli, viene oggi giustamente (anche se a volte un po’ esageratamente) criticata. Per questo motivo il titolo è rimasto Omero tra padre e figlia, con il sottotitolo Una piccola introduzione alla filosofia.

Ringrazio infine la coautrice, Benedetta, per la gioia che ogni giorno mi dona.

 

Luca Grecchi

1 Rinvio, in merito, a L. Grecchi, Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane, Guida, Napoli, 2007 (collana autentici falsi d’autore); L. Grecchi, Vivere o morire. Dialogo fra Platone e Nietzsche sul senso della esistenza, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2007, con introduzione di Enrico Berti; L. Grecchi, Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso, Guida, Napoli, 2011.

2 L. Grecchi, L’umanesimo di Omero, Petite Plaisance, Pistoia, 2012, con introduzione di C. Preve.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Didattica a distanza

Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

Pensare la didattica alternativa e non subirla

 

In questi giorni concitati, in cui il coronavirus è diventato il protagonista, si alternano gli appelli alle cifre epidemiologiche in una sorta di ciclo ermeneutico che non spiega nulla. Ci si limita ai dati, ma si celano le verità che tale morbo sta evidenziando: le patologie istituzionali causate dai tagli indiscriminati alla spesa pubblica, e l’aggressione perenne da destra come da sinistra ai diritti sociali. Si ha così la chiara rappresentazione di una nazione che ha sostituito i diritti con i privilegi.
Vi è un aspetto poco discusso e ancora in ombra (non vi è pubblica riflessione anche da parte degli addetti ai lavori, professori e dirigenti): la didattica alternativa. La didattica a distanza con le piattaforme e le lezioni da svolgere anche dallo smartphone meriterebbero una debita riflessione. La scuola azienda ha insegnato agli alunni la dipendenza senza autonomia e responsabilità personale: è un dato acclarato che tutti possono verificare. Si pensi al concetto di inclusione che abilmente sostituisce quello di emancipazione. La scuola deve includere per formare individui, deve spingere al massimo l’individualizzazione della didattica per preparare il consumatore a percepirsi come depositario dei soli diritti civili, a cui si è aggiunto il diritto al consumo senza limiti. In tali circostanze serpeggia il timore che la distanza dalla scuola possa portare gli alunni a sviluppare l’autonomia nello studio e nel pensiero che tanto viene acclamata. Ma, di fatto, non la si persegue, anzi il concetto di autonomia è ammesso all’interno di spazi definiti, di scelte programmate dall’alto, scaltramente epurate dalle deliberazioni non funzionali al sistema mercato: si pensi all’orientamento preceduto da campagne informative che favoriscono l’olocausto personale, ovvero non conoscere se stessi, ma adeguarsi liberamente al mercato.

 

L’autonomia come problema
In tale contesto la didattica a distanza è un ottimo espediente per necrotizzare lo sviluppo di percorsi autonomi nello studio e la responsabilità sociale ed individuale. Le piattaforme e le videolezioni hanno l’obiettivo di raggiungere lo studente, la longa manus dell’istituzione. In realtà, non vuole la crescita responsabile dell’alunno e teme che la dipendenza mascherata da autonomia possa in taluni inclinarsi e che vi possa essere una fessurazione nel sistema delle dipendenze. L’alunno in questi giorni, sottratto all’incubo delle competenze, alla stimolazione perpetua dei progetti e delle certificazioni, può, se vuole, vivere un’esperienza inedita e kairologica,[1] che potrebbe segnare la sua rinascita: il tempo emancipato dall’attivismo e dal tecnicismo didattico potrebbe far emergere l’esperienza inaudita e trasgressiva del pensiero autonomo e indurre alla creazione concettuale. Lo sforzo personale tanto combattuto dai pedagogisti ha formato personalità incapaci di affrontare situazioni difficili che si vivono nel tempo personale e collettivo. Il pensiero dovrebbe riemergere dall’inverno del didatticismo, che insegna il fare senza il pensare. Affinché ciò sia possibile è necessario che il tempo sia vuoto in modo fecondo, cioè che ci si possa sottrarre alle logiche della stimolazione perpetua e soffocante per ritrovarsi con i testi, con i manuali e con le parole. Imparare a pensare il mondo ed il proprio tempo dovrebbe essere il fine della scuola e di ogni formazione, ciò è possibile all’interno di una didattica consapevole delle possibilità e dei limiti dei mezzi che utilizza, e specialmente, solo all’interno della consapevolezza dei fini è possibile far luce sui mezzi e sui rischi ad essi connessi. La didattica a distanza reca con sé non solo logiche già vissute nell’istituzione, ma specialmente il sospetto che la mediocre competizione tra “docenti” ed “aziende scuole” possa riprodursi anche in tale contesto. In questi decenni l’autonomia che la scuola doveva sviluppare era in realtà capacità imprenditoriale e individualismo. Il timore che gli alunni a casa possano far crescere l’autonomia concettuale e possano sottrarsi alle logiche solite forse è la verità nascosta della didattica a distanza.

 

Successo formativo?
In questi anni di successo formativo quasi assoluto con promozioni e voti notevolmente alti, se tali valutazioni fossero veritiere si dovrebbe pensare che gli alunni a casa continuino spontaneamente a studiare. Invece, il re è nudo, la didattica a distanza, in tale momento, svela il timore che gli alunni – abituati alla dipendenza ed alla promozione agevolata – possano in tempo breve “perdere” i radi contenuti acquisiti. La guerra contro i contenuti è stata una delle costanti di questi anni, i contenuti sono stati sostituiti dalle competenze. Naturalmente nessuna libertà di pensiero è possibile senza contenuti, mentre le competenze del fare ben rispondono ai bisogni del mercato e non della formazione umana. In questi giorni, che potrebbero diventare mesi, si dovrebbe riflettere sull’uso e le implicazioni della didattica a distanza, e specialmente si dovrebbero sollevare dubbi e domande. Forse, in tali circostanze, si vuole avviare un nuovo tipo di scuola e di didattica, la quale non arricchisce l’alunno con contenuti dialettici, ma rafforza forme di controllo e di dipendenza inclusiva. Vi è il rischio che la didattica a distanza divenga una costante anche dei periodi ordinari. La dialettica, vero centro dell’insegnamento, necessita dello spazio classe, in cui la relazione passa per lo sguardo, per il tono di voce, per l’esperienza vissuta che invita in modo spontaneo a sentirsi parte di un mondo di relazioni e di parole. L’alternativa è il dominio dell’astratto sul concreto. L’individualizzazione della didattica ai tempi privati dell’alunno e delle famiglie non può che favorire i processi di atomizzazione già largamente in atto. Se l’istituzione scolastica perde, in un momento di emergenza, la capacità di pensare il reale dimostra che non è luogo di formazione e problematizzazione, ma di esecuzione di ordini. Si tratta di avere il senso della misura, di discernere le contingenze e di pensare se l’attuale indirizzo didattico – fondato non sui contenuti e sull’impegno autonomo e responsabile – sia effettivamente valido. Se in questi decenni la scuola avesse puntato in primis sui doveri, sull’impegno quotidiano, sui contenuti concettualizzati, sul senso sociale, forse, sollevo un dubbio, avremmo più fiducia nei nostri alunni e non vi sarebbe la rincorsa alla didattica alternativa, anche, perché, e di ciò non si deve avere dubbi, se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazione, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

[1] Kairos (καιρός), traducibile con tempo cairologico indica il momento giusto o opportuno” o “momento supremo”.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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