Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:
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«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.
L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza.
Come è noto, la memoria tende a privilegiare la modalità selettiva, vuoi per l’ampiezza di quanto costituisce il suo oggetto di cui non è semplice registrazione, vuoi per la tendenza a rimuovere o sfocare quanto ha causato sofferenza. E così, proprio nella sua giornata ufficiale – il 27 gennaio – ha fatto i conti con un evento oltremodo fastidioso, per non dire scandaloso che ormai da anni turbava la celebrazione di una giornata altrimenti memorabile che vede l’Europa tutta ribadire il proprio rifiuto di ogni forma di persecuzione. Infatti, la Russia è stata esclusa dalla cerimonia di commemorazione organizzata dalla direzione del museo di Auschwitz, in ricordo dell’anniversario della liberazione del campo di sterminio ad opera dell’Armata Rossa. Sulle spalle dell’U.E. al traino americano pesava da tempo questo vergognoso vizio d’origine, questo incidente di percorso che offuscava il medagliere democratico ed antifascista orgogliosamente esibito, al punto che lo stesso Parlamento europeo era dovuto intervenire nel 2019 con una dichiarazione in cui nazismo e comunismo venivano equiparati, liquidando con un sol tratto di penna e qualsiasi serio dibattito storiografico e 20 milioni di Russi morti nella guerra contro il nazismo. Oggi, con un semplice sgarbo all’etichetta il museo polacco, per celebrare la liberazione del campo cancella i liberatori, da sempre presenza ingombrante, anzi indigeribile per il corpo tronfio, autoreferenziale e dal tentacolare appetito delle democrazie sedicenti liberali.
L’operazione, tanto rozza quanto dirompente, esprime al massimo grado quella tendenza piuttosto diffusa a piegare la storia alle convenienze e alle direttive politiche del momento che finisce per annullare la storia stessa e, con essa, ogni preoccupazione di verità e di decenza. E la leva su cui si appoggia la destoricizzazione sta proprio nel rapporto squilibrato tra memoria e storia, tutto spostato attualmente sull’asse della prima.[1] La Giornata della memoria che si svolge ogni anno a scuola intorno al 27 gennaio è, a tale proposito, esemplare, combinando insieme spettacolarizzazione del dolore e destoricizzazione della Shoah. Evento ormai rituale del calendario scolastico tra l’assemblea di Natale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie) e l’assemblea di Carnevale (leggi: tornei di giochi di carte e palla e consumo di cibarie con eventuali travestimenti) cade la visione di un film giocato sul doppio registro dello straziante e del macabro, o la lettura di brani commoventi, o – sempre più raramente, vista l’età dei sopravvissuti – l’ascolto di qualche testimonianza che, per quanto significativa, resta interna per sua natura al perimetro dell’esperienza individuale. In definitiva, sempre più emozioni e sempre meno logos nell’ambito del quale anche l’emozione potrebbe trovare una indispensabile disciplina, se vuole trasformarsi in forza morale.
La crescente valorizzazione della memoria impostasi a partire dalla fine del secolo scorso sembra, per diversi storici, costituire in realtà un arretramento della storia stessa, un suo surrogato laddove è divenuto difficile servirsi di una prospettiva meramente storiografica. Ciò che risulta evidente in ambito formativo e sembra cristallizzarsi nelle due ricorrenze della Giornata della Memoria e in quella più recente del Ricordo, rappresenta in effetti la punta dell’iceberg di una tendenza ben più generale che si fonda sulla destoricizzazione sia delle vite individuali, sia delle società, ancorate su un eterno presente dove galleggiano segmenti di memorie che faticano a trovare quelle coordinate all’interno delle quali acquisire un senso compiuto.
I limiti di un approccio prevalentemente giocato sulla memoria – soggettività e frammentarietà innanzitutto – quando non risolti entro una cornice rigorosa di contestualizzazione storica, si prestano ad ogni manipolazione, di cui rimozione e negazionismo rappresentano gli esiti estremi. La ventata di cancel culture (non casualmente un vento di provenienza atlantica) che mira a fare tabula rasa del passato per minare ogni consapevolezza culturale e azzerare la storia dell’essere umano come una miserevole sequela di errori, colpe, follie, violenze con il suo nichilismo assoluto e il suo patologico rifiuto della realtà, autorizza le più fantasiose ed arbitrarie ricostruzioni, lasciando di fatto il campo aperto ad ogni strumentalizzazione ideologica e politica, sostituendo alla conoscenza storica o i pii desideri delle anime belle o il brutale colpo di spugna a mano di compiaciuti e compiacenti servitori di questa o quella istituzione, naturalmente sempre depositaria indiscussa ed autoproclamatasi dell’ultimo residuo di verità permesso. Dopo le teorie negazioniste dello sterminio nazista, ecco profilarsi, nel seno stesso di quel mondo che ama presentarsi come misura universale di libertà, democrazia e diritti umani, la rimozione del contributo fondamentale dato dall’Unione Sovietica alla liberazione dal nazifascismo, attraverso l’esclusione della Russia dalla cerimonia tenutasi il 27 gennaio ad Auschwitz.
Il quadro geopolitico in cui è maturata una tale decisione è fin troppo chiaro, meno forse le sue conseguenze. Oltre l’aspetto più generale che è quello, come si è appena accennato nei limiti del presente lavoro, di una progressiva e quasi ultimata destoricizzazione, va osservato, nello specifico, che amputare dall’Europa la Russia – la sua straordinaria cultura, la sua presenza vitale nella storia del continente – significa innanzitutto colpire a fondo l’Europa (che è poi uno degli obiettivi del conflitto in corso, per interposta Ucraina), legandola irrevocabilmente al padrone americano, in affanno un po’ ovunque.
Questa presenza, così come si manifestò nel 1945, vorrei ricordarla con le parole di Primo Levi per il quale la fine dell’inferno e la speranza della libertà presero, in quel gennaio, il volto di quattro soldati dell’Armata Rossa che, dopo la fuga dei Tedeschi da essa incalzati, entrarono nel campo dove era stato spedito in quanto ebreo e partigiano. Se memoria deve essere, che almeno non sia mutilata, a sfregio della verità storica.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: i quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.[2]
[1] È quanto sostiene lo storico Davide Bidussa, citato da Francesco Germinario nel suo Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017, che sviluppa una lunga riflessione sul rapporto storia- memoria cui faccio qui un rapido riferimento e su quello tra destoricizzazione delle vite individuali e destoricizzazione del Passato.
[2] P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1989.
VILLACHIARA – I DISEGNI DI TEREZIN
Mostra tenutasi dal 27 gennaio al 1 febbraio 2009
«Affetto e rispetto per un amico di Roberto Benigni, l’italiano più amato negli Stati Uniti» (La Repubblica, 27/4/99). Con queste parole Bill Clinton accoglieva Massimo D’Alema al Summit della NATO, rievocando lo show del comico alla cerimonia di conferimento dei tre Oscar a La vita è bella (e, guarda caso, nessuno a The Truman show): i mass-media americani e i servizi di intelligence USA coglievano nel film una straordinaria occasione per rendere funzionali agli interessi imperiali i messaggi subliminali incuneati nella tessitura narrativa del soggetto firmato da Cerami e Benigni. Si ricordi la chiusa del film: il giovane soldato americano apre la torretta del carro armato americano e saluta Giosuè – nel silenzio del campo di sterminio deserto – con un «Hi Boy! … vieni ti diamo un passaggio». E Giosuè alla madre ritrovata grazie alla posizione “alta” sulla torretta: «Mamma, si torna a casa col carro armato [americano] … abbiamo vinto!».
Sembra proprio che Benigni abbia vinto i tre Oscar piroettando su quello stesso carro armato che nel suo film è equivoco emblema e improbabile – certamente oggi – metafora della “liberazione” e della “vita”. L’italiano «più amato negli Stati Uniti» (ma si sa che Clinton non eccelle in sincerità), ha piegato – forse non cogliendone le implicazioni – alla scena finale del carro armato americano liberatore molte scene del film, a partire dalla scena 38 del Soggetto, che introduce per la prima volta il carro armato come immagine subliminale: un primo stimolo forse troppo debole per essere percepito e immediatamente riconosciuto nel suo tragico significato, ma non tanto debole da non riuscire ad esercitare una qualche influenza sui processi psichici del recettore-spettatore.
Alla scena 38 siamo già in piena guerra, e non è indifferente che un genitore regali al figlioletto «un piccolo carro armato di latta». Per chi scrive La vita è bella è davvero stridente non aver scelto un altro gioco per Giosuè: poteva essere un “piccolo camion”, un “piccolo trattore”, una “macchinina”, ecc. Ma è evidente che il «piccolo carro armato di latta» della scena 38, che ancora nella scena 41 Guido indica al figlioletto come «finto», deve diventare nella scena 53 il «primo premio», un «carro armato vero, nuovo nuovo», e nella scena 82 il «carro armato verde, con la stella bianca degli americani», il carro armato americano con cui «si torna a casa» (scena 83). L’immagine insistita del carro armato è del tutto strumentale ai fini della chiusa, ed è questa la sottile violenza fatta dagli autori al bambino, perché il gioco costruito dal padre Guido-Benigni sull’immagine del carro armato non è il vero gioco di Giosuè (il suo gioco di bambino); e dunque spesso non è contento del “gioco” paterno e chiede, invece del «primo premio», di «andare dalla mamma» accontentandosi della «merenda» al posto del carro armato (scena 53). Il “gioco” paterno è per lui a volte insopportabile e violento: «E poi sono cattivi cattivi, urlano» (scena 53). Ma Guido deve legittimare la durezza e la severità: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri… Il carro armato vero fa gola a tutti».
Sull’analisi psicologica della funzione del gioco nell’infanzia Cerami avrebbe potuto studiarsi almeno i testi di Bruno Bettellheim, uno psicanalista ebreo viennese che fu rinchiuso per un anno nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald e che poi si dedicò completamente alla psicoterapia dei bambini (cfr. Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani 1976; Il mondo incantato, Feltrinelli, 1978; ecc.).
A coloro che hanno visto La vita è bella e che vogliano davvero riflettere consigliamo l’attenta lettura del Soggetto edito da Einaudi. Potranno cogliervi, specie nella seconda parte, oltre ad un’equivoca operazione culturale, anche sciatteria di linguaggio e miseria espressiva (si pensi alle ultime battute messe in bocca a Giosuè) appena mascherate dall’indubbia capacità istrionesca del Benigni non a caso dichiarato amico del D’Alema interventista e osannato dallo spergiuro Clinton come «l’italiano più amato negli Stati Uniti», con il suo «carro armato americano»,vessillifero della «guerra umanitaria»: si premi dunque Benigni e La vita è bella, a febbraio. Ad aprile dello stesso anno le bombe “intelligenti” con la stella bianca americana giungono sul territorio della Federazione Jugoslava. A Benigni, considerata la sua enfasi sul «carro armato americano», consigliamo di leggere il romanzo Amatissima, della scrittrice nera americana Toni Morrison (Premio Nobel 1993): sulla prima pagina del volume campeggia la seguente dedica: «Agli oltre sessanta milioni» (il riferimento è alle vittime della schiavitù in America).
Per quanto ci riguarda preferiamo far volare la Colomba della Libertà di Picasso per ricordare altri bambini vittime dell’olocausto: i bambini di Terezín. Terezín: una città fortezza e di frontiera costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II e dedicata alla madre Maria Teresa, da cui appunto il nome. Diventò tra il 1942-1944 il «ghetto dell’infanzia». Vi furono rinchiusi circa 15.000 bambini, tra i 7 e i 13 anni. A gruppi furono trasportati ad Auschwitz e qui avvelenati o bruciati nei forni crematori, le loro ceneri disperse. Dei quindicimila ragazzi soltanto un centinaio erano ancora vivi al momento della liberazione da parte delle truppe sovietiche.
Uomini e donne di straordinaria sensibilità, anch’essi deportati, destinati alla sorveglianza dei ragazzi, in quella allucinante situazione riuscirono a mantenere vivo in essi il senso della vita e della speranza facendoli lavorare e studiare, distribuendo a tutti quel calore umano e affettivo tanto necessari nell’età infantile. È merito loro se oggi possiamo porre alla riflessione di tutti noi le testimonianze di questa incredibile vicenda della storia moderna. 4.000 disegni e 66 poesie ci sono così pervenute, e sono oggi custodite nel Museo Ebraico di Praga. Renzo Vespignani, il grande artista italiano, nel donare un suo dipinto dedicato ai bambini di Terezín, scriveva nel 1982: «Che io dovessi aggiungere qualcosa alla visione di questi martiri-bambini mi sembrò impossibile. Del resto come rinunciare all’onore di legare il mio nome ai loro nomi dimenticati? Ho cercato di ingombrare il foglio il meno possibile; il resto dello spazio l’ho lasciato ai loro dolcissimi, strazianti addii».
Leggiamo insieme quanto scrivono Cerami-Benigni nel Soggetto.
Scena 38. Giosuè «si tira dietro, con lo spago, un piccolo carro armato di latta» (Benigni-Cerami, La vita è bella, Einaudi, 1998, p. 100). Il suo gioco è interrotto dal richiamo della madre («Lascia il carro armato!», ibidem) che lo aiuta a sedersi sul manubrio della bicicletta. Il bambino dice al padre: «Vai forte, babbo!» e, così dicendo, «lascia cadere il carroarmato» (ibidem).
Scena 41. Guido, davanti alla pasticceria Ghezzi, dice a Giosuè: «Lascia fare … quella torta è finta, è come il tuo carro armato!» (ibidem, p. 103).
Scena 53. Nel Lager Guido cerca di spiegare a Giosuè i termini del gioco che si è inventato per lui: «E chi vince prende il primo premio». «Che si vince babbo?». «… Un carro armato!». «Ce l’ho già il carro armato!», dice Giosuè. E Guido: «Un carro armato vero, nuovo nuovo!». Giosuè si ferma con la bocca aperta: «Vero? … E come si fa ad arrivare primi?» (ibidem, pp. 126-127). Ma Giosuè non è contento di questo gioco e invoca: «Voglio andare dalla mamma! […] E poi sono cattivi cattivi, urlano». E Guido: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri … Il carro armato vero fa gola a tutti». Giosuè: «Non ci credo che si vince un carro armato vero!». Guido: «Ti dico di sì!». Giosuè: «E che bisogna fare? La posso vedere la mamma?». Guido: «Quando finisce il gioco». Giosuè: «E quando finisce?». Guido: «Bisogna arrivare a … mille punti. Chi ci arriva vince il carro armato». Giosuè: «Il carro armato? Non ci credo. (piagnucola) Ce la danno la merenda?» (ibidem, pp. 128-129).
Scena 56. Giosuè è ancora perplesso. Guido: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi?». Giosuè: «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato». Guido: «Lo sanno lo sanno. Sono furbi come volpi, non ci cascare. Il carro armato
fa gola a tutti. Non c’è il carro armato, ma scherzi?» (ibidem, p. 141).
Scena 82. «Non c’è più nessuno. […] improvvisamente qualcosa rompe il silenzio. È il rumore sordo di un motore […]: da una strada tra due costruzioni sbuca imponente un enorme carro armato verde, con la stella bianca degli americani. […] I cingoli si bloccano a pochi passi dal bambino […]. La torretta del carro armato si apre e compare un giovane soldato americano, che vede il bambino e sorride. […] Giosuè fissa l’enorme carro armato, che è in moto. Fa un passo avanti: “È vero!”. È pazzo di felicità. […] Carrista: “Sei solo bambino? […] Ti diamo un passaggio …vieni … sali …» (ibidem, pp. 187-188).
Scena 83. «I sopravvissuti del campo stanno camminando verso la strada […] Tra loro si fanno largo i mezzi motorizzati dell’armata americana. Il panorama è visto da sopra il carro armato, che scende giù lentamente… Sul carro, accanto alla torretta, attaccato al carrista americano, c’è Giosuè, eccitato, incantato, che mette in bocca l’ultimo pezzetto di cioccolata. Il carro sorpassa i poveretti […]. D’improvviso il bambino si volta: il carro armato è passato vicino a qualcuno che lui conosce: “Mamma!” […] “Abbiamo vinto! Mille punti! Da schiantare da ridere. Primi! Si torna a casa col carro armato … abbiamo vinto» (ibidem, pp. 188-189).
Tanto per ricordare:
Ricorre, tra le pagine di questo intenso scritto, la domanda rousseauiana, se sia ancora possibile perdere tempo per educare le nuove generazioni. Come si può uscire dallo schiacciamento sul presente dando futuro con il passato? Partendo dalla quotidiana esperienza pratica di docente e formatore, l’autore sviluppa una riflessione teorica sulle difficoltà dell’educazione odierna segnata sempre più dalla velocizzazione, dalla perdita di autorità delle figure educanti, dalla perdita di mediazione umana dovuta all’espansione del tempo-schermo, del démariage e della crisi del matrimonio, tutti aspetti che mostrano le conseguenze sulla salute psico-fisica dei più giovani. Il saggio propone di risemantizzare parole quali autorità, testimonianza, limite, mediazione, ordine, disciplina, regole in una pedagogia dell’utopia. Pensate lontano dall’accademia e dalla formazione come scienza, ma scritte con spirito divulgativo e rigore scientifico, le riflessioni si rivolgono a insegnanti, genitori, nonne, educatori, animatrici, logopedisti, catechisti, e allenatrici, a chiunque, nella comunità educante, abbia ancora a cuore la questione politica della relazione tra generazioni
Presentazione Streaming del 11 dicembre 2020. Discute con l’autore Piero Flecchia.
Intervista Radio Popolare, 1D2 del 9 dicembre 2020:
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«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762
Simone Lanza, Perdere tempo per educare
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La compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).
Viviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?
«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]
Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.
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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play
Viviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.
Ecco i rischi maggiori:
«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».
E ancora:
«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».
Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.
La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?
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Tempo-schermo
Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.
Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?
La più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).
Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.
– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.
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Invisibilità della gerarchia
Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.
Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.
Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.
Per Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:
«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».
Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo
«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».
In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.
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L’antiautoritarismo del mercato
Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.
Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).
C’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.
Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.
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Vie di uscita
Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.
Nel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):
«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».
La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».
Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.
La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.
Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]
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Per concludere
Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).
Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?
Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.
Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.
Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.
Simone Lanza
Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/
[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.
[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.
[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».
[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.
[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.
[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.
[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.
[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.
[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.
[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.
[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.
[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.
[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).
[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.
[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.
[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.
Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti
«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».
Alessandra Filannino Indelicato, Introduzione
Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco
Prefazione di Claudia Baracchi
Mimesis Edizioni, Milano 2019, pp. 216, Euro 20
«Pochi sanno che Dioniso, il nume tutelare del teatro antico, è padre tanto della tragedia quanto della commedia, e che nel teatro della vita, proprio come durante uno spettacolo, abbiamo il compito di guardare, capire e fare spazio a ciò che succede, nostro malgrado. […] Coprendo e ricoprendo l’autentica densità del mito in se stesso, ammutolendolo e assottigliandone la profondità, non facciamo che seguire una modalità consumistica, anche di ricercare e di studiare».
Ancora sentiamo levarsi dall’Antica Grecia il terribile pianto di un capro sacrificale. Alle urla strazianti di dolore si uniscono i canti commossi e le danze sfrenate in onore di Dioniso: la tragedia nasce come un sacro rituale di compartecipazione al ciclo di vita, morte e rinascita. Nell’epoca del consumismo e del “tutto subito”, abbiamo urgente bisogno di una filosofia del tragico, aperta alla complessità simbolica della vita. In questa direzione, l’Euripide di Baccanti ci consegna un Dioniso δαίμων (daimon), mediano, misterioso e contraddittorio; incarnazione dell’eccesso panico così come maestro di una puntuale presenza all’istante – l’autentico compito di ogni filosofia. Dioniso lo Straniero, ma secondo soltanto ad Atena nei festeggiamenti; Dioniso l’Androgino, l’irrazionale, l’addolorato: molteplici nomi tentano di definirlo, nessuno riesce mai a comprenderlo. Perché la filosofia dovrebbe dunque, e provocatoriamente, occuparsi del tragico? Cosa significa rispondere a una vocazione al dionisiaco? E perché questo ci riguarda?
Prefazione. Nello specchio di Dioniso
di Claudia Baracchi
Introduzione
Filosofie del tragico, mitologie e scienze umane
Prima parte
Capitolo I
La filosofia del tragico: scenografie rapsodiche, panorami insoliti
Capitolo II
Introduzione a Dioniso, il nume tutelare del teatro antico
11.1 Il Polinomio: innumerevoli nomi, innumerevoli identità
11.2 L’animale, l’agreste e il vegetale: simboli sacri e rappresentazioni mondane
11.3 Δίγονος (Dìgonos) e Πενθεύς (Penthéus):il “nato-due-volte” e il “dio dalle insopportabili sofferenze”
11.4 Sussurri e segreti sui misteri dionisiaci: gli ἀπòῤῥητα (apòrrhēta)
Seconda Parte
Capitolo III
Ermeneutica simbolica e filosofia del tragico Dioniso nelle Baccanti di Euripide
13.1 “Eccomi a Tebe”. Una divinità daimonica
13.2 “Dioniso, chiunque egli sia”. Un’identità inafferrabile
13.3 “Io lo vedevo e lui vedeva me” La disperante ambiguità dei dialoghi
13.4 “Un dio non dovrebbe assomigliare agli uomini nell’ira”. Dioniso, troppo umano
Conclusione. L’uscita danzante
Nel passaggio da εὐδαιμονία (eudaimonìa) a ἐνδαιμονία (endaimonìa)
Postfazione.
La tragedia che siamo, la tragedia che dovremmo essere consapevoli di essere
di Romano Màdera
Bibliografia
«[…] Alessandra Filannino Indelicato nella figura di Dioniso interroga la vita tragica, che è la vita in quanto tale, così come noi la conosciamo. Tragica perché sempre sul punto di andare in pezzi, tenuta insieme soltanto da uno sguardo che ne colga nessi e strutture là dove, nel fitto degli avvicendamenti e dei coinvolgimenti, ci adoperiamo ciecamente. Tenuta insieme da uno sguardo che ne colga l’unità narrativa, la sensatezza, la necessità. […] Ed è qui che la vita tragica, A. Filannino Indelicato ci mostra, si fa una con la vita filosofica, con l’impegno a una vita consapevole. E con la cura, l’accudimento. La vita tragica contemplata, attraversata con consapevolezza, è vita accompagnata, non lasciata allo stato brado ma coltivata, lavorata, esercitata: non lasciata sola ma seguìta, ricordata, riaccordata, raccontata, curata. […] La proposta di Alessandra Filannino Indelicato colpisce per audacia, urgenza e verità. Perché chiama a più livelli a un rinnovamento e a una serietà».
Claudia Baracchi, Prefazione.
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«Questo libro è un contributo serio e generoso alla rinascita e al rinnovamento della filosofia come modo di vivere e, quindi, come insieme di pratiche filosofiche. Un contributo che rinnova ritornando, secondo una lezione classica che riconosce la rivoluzione proprio mentre ne rintraccia la più oscura genealogia. Qui, a differenza del reperto archeologico, portare alla luce, esporre all’aria, non dissolve, ma fortifica e acuisce la capacità di vedere».
Romano Màdera, Postfazione.
RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento speciale va a tutti gli amici che mi hanno incoraggiato a portare a termine questo lungo lavoro, durato quasi sei anni. In particolare, a chi mi ha aiutato nella revisione del testo: Marina Barioglio, Elena Bartolini, Andrea I. Daddi, Donata Feroldi, Luca Grecchi. Grazie a Claudia Baracchi e Romano Màdera, maestri dalla grande anima e insostituibili, ai quali sarò grata per tutta la vita. Agli amici immensi: Amos Badalin, Carmen Cocco, Gloria Diffidenti, Fabio Galimberti, Tommaso Giovenzana, Giusi Negroni. E a tutti gli amici di Philo. Grazie della philia. Un anemone e una viola a D., e un grazie per accompagnarmi alla scoperta di Dioniso, grazie per essere rimasta. Anche a te, Chandra, donna sangue-carezza, alla tasca di cangura, perché le tue poesie salvano me e molte altre, anche se, forse, tu continui a non saperlo davvero. Ermione, quanto ti devo? Mi hai adottato, piccola e selvaggia felina, maestra d’altrove, famiglia. Fabrizio, grande anima, la tua umiltà e il tuo cuore mi hanno insegnato a temere meno l’esposizione, e a legittimarmi l’arrivederci: e ora guarda, guarda tutto questo e il nuovo e l’America e tu, la tua America e le nostre gatte. Alle Filannino, donne che corrono coi lupi, in special modo alle mie sorelle Michela e Manuela, a mia cugina Marilena e, ovviamente, alla grande Lena, mia madre, che avrebbe voluto studiare psicologia e greco antico. Ai miei nipoti, tutti quanti, con la preghiera che si involino all’ascolto appassionato del loro daimōn. In ultimo, un grazie a chi, pur non conoscendomi, deciderà di spendere un po’ del suo tempo per leggermi.