Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto

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«Io non parlo dei piaceri carnali, anche se in proposito ci sarebbe molto da dire, né dell’innamoramento, su cui c’è meno da dire. Con questi due fenomeni il mondo tirerebbe avanti, ma l’amore deve essere considerato separatamente […]. Esso modifica l’amante e l’amato, che sia in meglio o in peggio. Già dall’esterno gli amanti appaiono […] come produttori di un ordine elevato. Essi rivelano la passione e l’irrefrenabilità, sono molli senza esser deboli, sono sempre in cerca di atti cortesi che potrebbero compiere (nella forma compiuta dell’amore non soltanto verso l’amato). Essi costruiscono il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. Per loro la differenza tra nessun errore e un solo errore – una differenza che il mondo può tranquillamente ignorare – è enorme. Se fanno del loro amore qualche cosa di straordinario, lo devono solo a se stessi, se falliscono possono tanto poco scusarsi con gli errori dell’amato quanto, ad esempio, i capi del popolo con gli errori del popolo.
Gli impegni che si assumono sono impegni verso se stessi; nessuno potrebbe giungere alla severità cui essi giungono di fronte alle trasgressioni degli impegni. È essenziale per l’amore […] che gli amanti prendano sul serio molte cose che altri trattano alla leggera, gli infimi contatti, le sfumature meno avvertibili. I migliori riescono a armonizzare pienamente il loro amore con altre attività produttive; allora la loro cortesia diventa universale, il loro spirito inventivo diventa utile a molti, ed essi favoriscono tutto ciò che è produttivo.

[…]

Me-ti disse a Lai-tu: “Ti ho visto accendere il fuoco. Se non ti conoscessi, mi sarei certo offeso. Avevi l’aria di qualcuno che è costretto ad accendere il fuoco, e siccome ero presente soltanto io, dovevo supporre di essere io quello sfruttatore”. Lei disse: “Volevo scaldare la stanza il più presto possibile”. Me-ti disse sorridendo: “Quel che volevi, io lo so. Ma tu lo sai? Tu volevi che io, il tuo ospite, me ne stessi a mio agio, al calduccio; si doveva fare alla svelta, perché si potesse cominciare a conversare; io dovevo amarti; il legno doveva cominciare a bruciare; l’acqua del tè doveva bollire. Ma di tutto questo riuscì appunto solo il fuoco. Lattimo andò perduto. Si fece alla svelta, ma la conversazione dovette aspettare; l’acqua del tè bollì, ma il tè non fu pronto; ogni cosa fu fatta per l’altra, ma nessuna per se stessa. E quante cose si sarebbero potute esprimere nell’accendere il fuoco! Vi è dentro un antico costume, l’ospitalità è qualche cosa di bello. I gesti con cui la bella legna viene accesa possono essere belli e suscitare amore; l’attimo può essere sfruttato, e non ritorna. Un pittore che avesse voluto dipingerti mentre accendevi il fuoco al tuo maestro avrebbe avuto ben poco da dipingere. Non c’era gioia in questo modo di accendere il fuoco, era solo schiavitù”».

 

Bertolt Brecht, Me-Ti. Libro delle svolte, Einaudi, 1975, pp. 176-178.

Me-Ti

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) – Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda

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“Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda”.

“La nostra destinazione nella società è un perfezionamento comunitario, un perfezionamento di noi stessi grazie all’uso della libera azione degli altri su di noi e un perfezionamento degli altri mediante l’influenza della nostra azione su di essi come enti liberi”.
                                           J.G. Fichte, La missione del dotto.

“Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi”.
                                         J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca

“L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fine assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera”.
                                         J.G. Fichte, Sistema di etica
J.G. Fichte

Marcel Proust (1871-1922) – Leggere è comunicare

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«Ho cercato di sostenere che la lettura non dovrebbe essere assimilata ad una conversazione, sia pure con l’uomo più sapiente; la differenza essenziale tra un libro e un amico, non consiste nella loro maggiore o minore saggezza, ma nel modo in cui comunichiamo con loro; la lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ognuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando in pratica a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali».

Marcel Proust, Sur la lecture.

Rudolf Nurejev (1938-1993) – L’essenza della vita è nel suo divenire e non nell’apparire: si ama perché si sente il bisogno di farlo.

Rudolf Nurejev

«[…] dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.

Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica […].
Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, la fatica.

Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi.

Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi.

Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.

Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine coso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta.

Era questa la differenza tra me e lei.
Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna.
Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.

Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi.
Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso.

La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare.
Ero pittore, poeta, scultore.

Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. Ero e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte.
Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza.

Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso.
Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere.

Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore.

Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire.

Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.

Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera.

È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità.

Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita…».

Rudolf Nurejev, Lettera alla danza.

Primo Levi (1919-1987) – Ogni tempo ha il suo fascismo

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«Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti».

Primo Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, in: Corriere della sera, 8 maggio 1974.

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