Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.

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Jean-François Millet, L'Angelus novus

J.-F. Millet, L’Angelus della sera

«Sono felice che ti piaccia Millet, perché “ci siamo proprio”. Sì, quel quadro di Millet L’angelus della sera “ci siamo proprio”. È ricco, è poesia. Come vorrei parlare con te ancora di arte, ma ora possiamo solo scrivene spesso l’uno all’altro: “trova cose belle” più che puoi, la maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura, perché è questo il vero modo per imparare ad amare l’arte sempre meglio. I pittori comprendono la natura e la amano e “ci insegnano a vedere”. E poi ci sono pittori che non fanno altro che cose buone, che non possono mai sbagliare, così come ci. sono persone normali che non combinano mai nulla di buono».

 

Vincent van Gogh a Theo van Gogh, Londra, inizio di gennaio 1874.

V. van Gogh, I primi passi

V. van Gogh, I primi passi

 

V. van Gogh, Il seminatore al tramonto

V. van Gogh, Il seminatore al tramonto

 

V.van Gogh, Contadini che seminano patate

V. van Gogh, Contadini che seminano patate

 

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V. van Gogh, Contadina che lega fascine di grano

 

V. van Gogh, Contadina che scava patate

V. van Gogh, Contadina che scava patate

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi
Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà
Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

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Punti Critici N° 3 (Maggio 2000) – Scritti di Vladimir I. Arnold, Laura Catastini, Franco Ghione, Sandro Graffi, Pietro Greco, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Emanuele Narducci, Lucio Russo.

Punti Critici n. 3

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Comitato di direzione: Franco Ghione, Sandro Graffi, Paolo Maddalena, Angela Martini, Lucio Russo, Giovanni Stelli.
Comitato scientifico: Alberto Giovanni Biuso (Liceo Beccaria di Milano), Laura Catastini (Istituto Statale d’Arte, Pisa), Antonio Gargano (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Franco Ghione (Università di Roma Tor Vergata), Sandro Graffi (Università di Bologna), Antonio La Penna (Università di Firenze), Paolo Maddalena (Corte dei Conti per il Lazio e Università di Viterbo), Emanuele Narducci (Università di Firenze), Lucio Russo (Università di Roma Tor Vergata), Paolo Serafini (Università di Udine), Augusto Schianchi (Università di Parma), Giovanni Stelli (IRRSAE dell’Umbria, Perugia).

Segretaria di redazione: Carla Russo.

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   Presentazione

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   In questo numero

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 11-39 

Angela Martini,
Abitare le rovine.
Il destino dell’educazione liberale nell’epoca della globalizzazione


Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 41-56

Emanuele Narducci,
Umberto Eco. le Guerre Puniche e la luna rossa, nonché I Baluba

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 57-59

Giovanni Lombardi,
Formarsi sui videogiochi o progettarli? Il caso del Giappone

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 61-70  

Lucio Russo,
Due libri sulla scuola italiana

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Vladimr I. Arnold,
Sull’insegnamento della matematica

Logo Adobe Acrobat   Freccia rossa   pp. 87-98    

Lucio Russo,
L’articolo di Arnold e i rapporti tra storia della cultura e scienza esatta

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 99-128  

Laura Catastini e Franco Ghione,
Immagini, analogie e sassolini nei pitagorici

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Pietro Greco,
Ideali scientifici mediterranei

Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   pp. 143-171    

Sandro Graffi,
Sull’origine dell’interpretazione statistica della meccanica quantistica

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Notizie sugli autori

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Per leggere le pagine

del n° 1.

coperta 01_pic

Punti Critici N° 1 (Maggio 1999) – Scritti di Fabio Acerbi, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Giovanni Lombardi, Paolo Radiciotti, Lucio Russo, Maria Sepe, Giovanni Stelli.

Per leggere le pagine

del n° 2.

Coperta N- 2

Punti Critici N° 2 (Settembre/Dicembre 1999) – Scritti di Paolo Maddalena, Alberto Giovanni Biuso, Giovanni Gallavotti, Sandro Graffi, Lucio Russo, Stefano Isola, Marco Mamone Capria, Angela Martini.

Per leggere le pagine

del n° 4.

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Punti Critici N° 4 (Febbraio 2001) – Scritti di Fabio Acerbi, Piero Brunori, Giovanni Lombardi, Angela Martini, Paolo Maddalena, Lucio Russo, Ledo Stefanini, Mauro Zennaro.

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Alberto Jori – La responsabilità ecologica. Con la «colonizzazione» concettuale e tecnologica della natura, la cultura moderna ha perduto la capacità di apprendere i limiti.

Alberto Jori
La responsabilità ecologica

La responsabilità ecologica

 

La «colonizzazione» concettuale e tecnologica della natura

Dall’«umanizzazione» della natura si è […] passati alla sua sistematica «colonizzazione» concettuale e tecnologica. Di tale processo si possono scoprire gli inizi nel nuovo atteggiamento verso la creazione che viene teorizzato da Francesco Bacone e, soprattutto, nella proposta, formulata da Cartesio, di un nuovo metodo d’indagine, imperniato sui principi della ragione analitico-deduttiva (ossia matematica).[1] Contestualmente si verifica un significativo spostamento di accenti e d’interesse, dalla dimensione del prattein a quella del poiein, dall’agere al facere.[2] Ed è precisamente lungo tale itinerario che l’uomo giunge a costituirsi come detentore di un potere assoluto sulla natura. Egli anzi diviene ai propri occhi la realtà assoluta in riferimento alla quale tutti gli altri enti acquisiscono il loro effettivo statuto ontologico: il progetto di un sapere «totale», inteso come equivalente alla capacità di produrre ogni genere di effetto (e, in fondo, ogni sorta di realtà), si accompagna infatti alla pretesa che l’uomo possa diventare simile a Dio, ossia all’auspicata sostituzione del regnum hominis al regnum Dei. Tutto ciò è chiaro già in Bacone.

Per i Greci antichi le attività tecnico-scientifiche avevano un codice etico interno

[…] Nel mondo greco, al quale appunto dobbiamo l’elaborazione della nozione di techne (ossia di scienza-tecnica), fu convinzione comune, almeno per un certo periodo, che ognuna delle attività tecnico-scientifiche avesse una sorta di codice etico interno, vale a dire un momento di autonormatività alle cui indicazioni l’operatore professionale doveva assolutamente attenersi sul piano pratico. In caso contrario, infatti, egli si sarebbe posto al di fuori dell’ambito medesimo di esercizio della propria techne. Così, nel quadro dell’autocoscienza delle technai si aveva una chiara consapevolezza non solo degli obiettivi-cardine (i telai) che andavano perseguiti dai technitai, ma anche e correlativamente dei limiti al di là dei quali per l’operatore professionale era impossibile o comunque inopportuno procedere: chi avesse compiuto tale tentativo sarebbe stato tacciato di hybris, ossia di tracotanza, di presunzione, mentre il suo comportamento sarebbe stato ritenuto obbiettivamente «atecnico».
In parallelo, i Greci manifestarono sempre una diffidenza pressoché insuperabile per quella forma di ingegnosità o di «astuzia» che permette all’uomo di aggirare gli ostacoli frapposti dalla natura e di carpirne i suoi segreti. Tale diffidenza costituì anzi, presumibilmente, una delle cause, se non addirittura la causa principale, del fatto che essi non giunsero né a conoscere né tantomeno a teorizzare l’impiego sistematico dell’ esperimento.

 

Cosmo ed etica «contestuale»

Determinante, nel quadro dell’esperienza greca della realtà – così di quella naturale come pure di quella sociale – fu la nozione di ordine, di armonia, di regolarità: in una parola, il concetto di kosmos. Il carattere «cosmico» (nel senso precisato) della totalità degli enti era inteso come preesistente all’iniziativa conoscitiva e pratica dell’uomo: esso veniva dunque a identificarsi con una gerarchia ontologica e valoriale dotata di significato oggettivo.
All’uomo spettava il compito essenziale di interpretare in modo adeguato l’ordine della realtà: è appunto da qui che scaturiva la centralità del ruolo che i Greci attribuivano all’investigazione «ermeneutica» della natura.
Proprio dall’ordine che struttura il dominio dell’esistente – puntualmente riflettendosi nella regolarità e nell’armonia dei processi che si verificano all’interno delle differenti «regioni antologiche» in cui tale dominio si articola – derivano, secondo i Greci, i criteri di autolimitazione inerenti alle diverse technai, ciascuna delle quali assume come proprio oggetto, teorico e operativo insieme, un differente ambito del mondo naturale. Si comprende agevolmente, allora, per quale motivo i principi etici cui facevano riferimento le technai, soprattutto nella loro fase applicativa, fossero intesi come principi ad esse interni, vale a dire intrinseci alla stessa ricerca e operatività tecnico-scientifiche, e non come «leggi» imposte da un’autorità esterna o, in generale, come norme contesto-indipendenti. La loro validità veniva infatti a fondarsi sull’ordine oggettivo e normativo della stessa realtà indagata. Quella dei technitai era dunque un’etica che potremmo chiamare «contestuale».

La cosiddetta «legge» di Hume

Le considerazioni ora svolte non sembrano del tutto prive di significato, in ordine a una valutazione di taluni rilevanti aspetti del pensiero moderno. Se, infatti, non si riconosce l’esistenza di un ordine naturale oggettivo – o comunque non si ammette la sua effettiva conoscibilità da parte dell’uomo –, inevitabilmente si arriverà a negare che la realtà possa, attraverso l’«ostensione» della struttura teleologica presente nelle sue varie «regioni», fondare la validità di determinate leggi «naturali» di carattere contestuale.
Non pare casuale, a tale proposito, che sia stato Hume a negare la legittimità del passaggio dalle proposizioni descrittive a quelle prescrittive, con la formulazione di quella che viene ricordata come la sua «legge». Lo stesso Hume, com’è noto, nega, infatti, in sostanza, anche l’intelligibilità del reale, o comunque la legittimità dell’impiego dei concetti – in particolare quelli di causa e di sostanza – mediante i quali si era tradizionalmente presunto di riuscire a comprendere la struttura oggettiva dell’esistente. E il mito maxweberiano dell’«avalutatività» della scienza, al quale è connessa l’elaborazione dell’immagine – e dell’ideale – dello scienziato «neutrale», trae la propria origine, in ultima analisi, precisamente dalla frattura, consumatasi nel quadro del pensiero humiano, tra descrizione e prescrizione, tra «fatto» e «valore».

La cultura moderna ha perduto la capacità di apprendere i limiti

Come scrive P. Donati, «non soltanto la cultura moderna ha perduto il senso del limite, ma ha anche perduto in buona misura la capacità di apprendere i limiti». Ciò finisce col configurare una situazione di notevole gravità, perché, com’egli ancora osserva, «i valori e l’autocoscienza possono emergere solo attraverso processi di autodelimitazione, di auto-imposizione, di auto-preclusione».[3] In tale prospettiva, potrebbe essere utile recuperare oggi almeno una parte dei contenuti concettuali che i Greci associavano alla nozione di techne. Questa nozione infatti implicava, come si è visto, la consapevolezza di avere a che fare con un ordine naturale-oggettivo dotato di una precisa portata normativa, che marcava anche i limiti entro i quali doveva porsi l’intervento del technites. Pertanto, con il recupero di tale visione e delle sue implicazioni si riproporrebbe, al livello della stessa attività tecnico-scientifica, l’esigenza di un approccio profondamente responsabile al mondo naturale, visto come un complesso da investigare nel suo ordine e nella sua interna articolazione, ma anche da rispettare nella sua fondamentale realtà di «cosmo». Questo significherebbe anche – ed essenzialmente – mettere nuovamente a fuoco il ruolo particolarissimo che la vita umana riveste nella totalità del reale.

Alberto Jori, La responsabilità ecologica, Edizioni Studium, 1990, pp. 27-48.

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Note

[1] Cfr. E. BERTI, Ragione scientifica e ragione filosofica nel pensiero moderno, Roma 1977, p. 43 ss.

[2] Va ricordato, a tale proposito, che negli ultimi decenni si è andato manifestando, soprattutto in Germania, un particolare interesse per la problematica relativa all’eclissi, nel quadro della cultura moderna, della dimensione della prassi. In quest’ottica, è stata riscoperta la filosofia pratica classica, con espliciti richiami al pensiero greco e soprattutto ad Aristotele: cfr. E. BERTI, Le vie della ragione, Bologna 1987, p. 55 ss. e p. 271 ss.; si veda anche F. VOLPI, Spaesamento postmetafisico? Per una contestualizzazione dell’attuale diballito sulla razionalità pratica, in AA.VV., La ragione possibile. Per una geografia della cultura, a cura di G. Barbieri e P. Vidali, Milano 1988, pp. 75-87. Ancora E. Berti fornisce un’analisi eccellente del metodo della filosofia pratica in Aristotele nel volume Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari 1989 (p. 113 ss.); cfr. anche P. RICOEUR, Dal testo allazione. Saggi di ermeneutica (tit. or.: Du texte à l’action. Essais dherméneutique II), trad. it. G. Grampa, Milano 1989, soprattutto pp. 238-39 (appunto dedicate al concetto aristotelico di praxis).

[3] P. DONATI (a cura di), La cultura della vita. Dalla società tradizionale a quella postmoderna, Milano 1989, p. 26.

 


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Romeo Castellucci – «ETHICA. Natura e origine della mente». Il teatro è nato nella polis, è un mondo sperimentale, scuote, fa inciampare, cambiare direzione. Costringe a riconfigurare lo sguardo. L’essenza del teatro è stupore primario.

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ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari

«Il teatro è un pugno nello stomaco, necessariamente. […] Politico lo è per natura. Il teatro è nato nella polis, la tragedia greca è espressione della politica e della città, ha a che fare con il vivere comune, non c’è niente di mistico o di naturale: è un mondo sperimentale, un laboratorio in cui si constata la disfunzione dell’essere. Quindi sì, il teatro è politico. Ma quando i contenuti sono politici, per me è un fallimento. […] Il teatro deve scuotere necessariamente lo spettatore […]. È il lascito della tragedia greca […] Per questo lo spettacolo scuote, fa inciampare, cambiare direzione. Costringe a riconfigurare lo sguardo […] Nel teatro ci sono elementi viscerali che scavalcano la funzione stessa del linguaggio ed entrano nel corpo in modo diretto. Esattamente come fa la musica. […] Il teatro ha a che fare con una dimensione primaria che tocca corde profonde. […] L’essenza del teatro è stupore primario».

 

Intervista a cura di Annachiara Sacchi, pubblicata su la lettura, 18-06-2017, p. 34.

ETHICA. Natura e origine della mente

ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari

 

 

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ETHICA. Natura e origine della mente

Fotografie di Guido Mencari


Romeo Castellucci, ETHICA. Natura e origine della mente.

 

È il titolo del secondo dei cinque libri che compongono Ethica di Baruch Spinoza (1632-1677) e ispira l’azione.
In scena una giovane donna è sospesa a un cavo, a diversi metri dal suolo e impersona la Luce. Guardando più attentamente, lo spettatore si accorge che è tenuta solo dal dito indice della mano sinistra. Sembra che per poco possa essere vittima di una caduta vertiginosa. In mezzo al pubblico si aggira un cane poliglotta: parla sia il linguaggio dei gatti, sia quello umano. Il cane impersona una Telecamera. C’è poi un terzo personaggio, composto da una moltitudine di presenze, che dà voce alla Mente.
Lo spettacolo ha l’obiettivo di congelare questo pensiero nell’atto di ricevere l’immagine, non da un punto di vista scientifico, ma per consacrare la fusione tra la ricezione dello spettatore e la creazione dell’immagine d’orgine.
Il titolo è tratto dal libro secondo dell’Etica di Spinoza, nel quale il filosofo esplora la natura del pensiero superiore e la potenza dello spirito, ossia “la sorgente della mente”.

Romeo Castellucci nasce nel 1960 a Cesena. Si diploma in Pittura e Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 1981 insieme a Claudia Castellucci e a Chiara Guidi fonda la Socìetas Raffaello Sanzio. Da allora realizza numerosi spettacoli come autore, regista, e creatore delle scene, delle luci, dei suoni e dei costumi. Noto in tutto il mondo – i suoi lavori sono stati presentati in più di cinquanta nazioni. Le sue regie propongono linee drammatiche non soggette al primato della letteratura, facendo del teatro un’arte plastica, complessa, ricca di visioni. Questo ha sviluppato un linguaggio comprensibile come possono esserlo la musica, la scultura, la pittura e l’architettura. Il suo lavoro è regolarmente invitato e prodotto dai più prestigiosi teatri di prosa, teatri d’Opera e festival internazionali.

Nel 1998 riceve il Premio Europa come nuova realtà teatrale, Taormina

Nel 2013 è insignito del Leone d’Oro alla Carriera da La Biennale di Venezia.

 

 

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

Epopea della polvere, Ubulibri, 2001

 

 

Intervista a cura di Matteo Marelli, pubblicata su il manifesto, 03-03-2017, p. 12.

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Epitaph, Ubulibri, 2000

Epitaph, Ubulibri, 2000


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Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

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Minima moralia

Minima moralia

Nei giorni del consumo totale le parole sembrano sparire, sono consumate dall’industria culturale. Diventano flatus vocis, sono mezzi per la pervasività mercantile, sono parole per un soggetto preda dei crampi del pensiero. La capacità e la motivazione allo scandaglio con il pensiero sembrano ridursi: il tramonto dell’occidente è il silenzio della sua identità. Gli autori che hanno rimasticato per creare nuovi possibili scenari non parlano con il presente, sono reliquie polverose a cui si irride e nel migliore dei casi sono documenti del passato a cui non ci si relaziona: semplicemente si archiviano.
La dimenticanza è la dimensione del presente: l’attività dev’essere rivolta al presente, al consumo immediato senza memoria.
Il pensiero è elaborazione di esperienza, vive nella prassi, ma necessita della sospensione del tempo del consumo per rappresentarsi il vissuto su cui operare ed essere metacognizione.
Si assiste invece ad una avversione preconcetta verso ogni attività che esiga ripensamenti, riconfigurazione, ricategorizzazione di mappe del pensiero. L’imperativo è ormai oltre il consumo per il consumo: è l’attività per l’attività, anche quando questa non consuma o non produce in modo da impedire che il soggetto emerga e possa diventare consapevole del suo esistere e porsi domande.
L’attività per l’attività è un mezzo ideologico di controllo. Il tempo è sempre pieno di attività con cui si impedisce la metariflessione e si educa ad essere disponibili “sempre” all’eterno movimento della globalizzazione. La globalizzazione del capitale finanziario – già descritta da Marx nel terzo capitolo del Capitale – ha la sua triste paideia, la sua diseducazione alla dialettica, mediante la costrizione all’attività: lo smanettare su pc, smartphone mentre si è seduti, spesso ha la sola funzione di formare alle dipendenze, mascherata da educazione digitale. Adorno, in Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, ci dona concetti per la comprensione dei tempi attuali. Il capitalismo finanziario è il regno dell’astratto. Adorno, invece, coerente con l’elaborazione marxiana, ci insegna che il soggetto non è un accidente sostanziale da cui avviare l’indagine; piuttosto bisogna spiegare il soggetto partendo dalle condizioni materiali e dunque dai modi di produzione per capire il processo di soggettivizzazione e giudicarne la qualità. L’epoca dei diritti individuali per i quali si bombarda e si trasforma il pianeta Terra in inferno realizzato compiutamente, l’epoca dell’assoluta peccaminosità, ha favorito il regno dell’astratto: si parte dall’individuo astratto, astorico per poter affermare i diritti individuali universali in nome dei quali perseguire interessi di parte. Adorno mostra quanto l’industria culturale formi le opinioni con inganno mefistofelico. Ovvero, prima crea campagne capillari per la scelta di prodotti o di altro, e poi spinge a scegliere, decantando la libera scelta dell’individuo, il quale diviene paradigma ideologico delle libertà dell’occidente:

«La triste scienza, di cui presento alcune briciole all’amico, si riferisce ad un campo che passò per tempo immemorabile come il campo proprio della filosofia, ma che, dopo la trasformazione dei metodi di quest’ultima, è caduto in preda al disprezzo intellettuale, all’arbitrio sentenzioso, e infine all’oblio: la dottrina della retta vita. Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Parlare immediatamente dell’immediato significa fare come quei romanzieri che adornano le loro marionette, quasi con vezzi a buon mercato, con le pallide imitazioni della passione di un tempo, e fanno agire personaggi che non sono – ormai – che pezzi di un macchinario come se fossero ancora in grado di agire come soggetti, e come se dal loro agire dipendesse ancora qualcosa. Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna. Ma il rapporto tra vita e produzione, che abbassa la prima, nella realtà, ad una manifestazione effimera della seconda, è perfettamente assurdo. Mezzo e fine sono invertiti. Il sospetto di questo assurdo “quid pro quo” non è ancora del tutto cancellato dalla vita. L’essenza ridotta e degradata si ribella tenacemente contro l’incantesimo che la trasforma in facciata».[1]

La vita è offesa quando il soggetto ha come essenza solo la società, quando i pensieri non sono soltanto alienati ma molto di più: sono rubati. La mutazione antropologica che oggi il capitale assoluto tenta di realizzare esige utilizza l’abbattimento di ogni resistenza. Il soggetto si forma nella dialettica costellativa, ovvero nella relazione dinamica in cui l’alterità non è intombata nella gabbia delle logiche verticali di dominio. Se prevale la logica identificativa in cui l’altro è ridotto ad ente, ed è dunque fagocitato, il prigioniero è tale senza esserne consapevole e dunque finisce con l’amare la propria gabbia. È più realista del re perché il suo io è minimo, abituato alla sopravvivenza ed alla sopraffazione ama la sua gabbia e vorrebbe essere come il dominatore:

«Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento, che, per poter sopravvivere nell’orrore del mondo, attribuisce realtà al desiderio e senso al controsenso della costrizione. Non meno che nel credo “quia absurdum”, nell'”amor fati”, nell’esaltazione di ciò che è più assurdo, la rinuncia si umilia davanti al dominio. Alla fine la speranza, come si sottrae, negandola, alla realtà, è la sola figura in cui si manifesta la verità. Senza speranza l’idea della verità sarebbe difficilmente concepibile, ed è la falsità capitale spacciare per verità l’esistenza riconosciuta come cattiva, solo perché è stata una volta riconosciuta. In questo, piuttosto che nel contrario, è il delitto della teologia, contro il quale Nietzsche intentò il processo, senza mai pervenire all’ultima istanza. In uno dei passi piú forti della sua critica, egli ha accusato il cristianesimo di mitologia. “Il sacrificio espiatorio, e nella sua forma più raccapricciante e barbarica, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei colpevoli!”». [2]

È possibile per il sistema di controllo giungere ad un tale risultato in cui le vittime collaborano con i carnefici inquinando le sorgenti di vita. Adorno ipotizza la genesi di un tale processo nella divisione del lavoro, nella specializzazione spinta, nella parcellizzazione dei saperi che favoriscono la formazione di uomini a dimensione unica e minima. Il risultato dell’atomizzazione sociale diventa atomizzazione dello spirito, per cui si recidono le relazioni interne al soggetto il quale non pensa perché non sente, il suo pensiero ha perso la profondità della genealogia pulsionale per divenire semplice azione meccanica irriflessa. In questo modo il soggetto non sente l’umiliazione a cui è quotidianamente esposto ed abbraccia un volgare amor fati consolatorio e specialmente non pensato, oltre il confine della gabbia non vi è nulla perché il gesto a guardare oltre è stato necrotizzato:

«Credere che il pensiero abbia da guadagnare una superiore obbiettività, o, perlomeno, non abbia nulla da perdere dalla decadenza delle emozioni, è già espressione del processo d’inebetimento. La divisione sociale del lavoro si ripercuote sull’uomo, per quanto possa promuovere l’operazione a comando.
Le capacità che si sono sviluppate in un processo d’azione e reazione reciproca, si atrofizzano non appena vengono separate l’una dall’altra. L’aforisma di Nietzsche “Grado e qualità della sessualità di un individuo penetrano fino nella sommità del suo spirito” non riflette solo uno stato di fatto psicologico. Poiché anche le più remote oggettivazioni del pensiero traggono alimento dagli impulsi, il pensiero, distruggendoli, distrugge la condizione di se stesso. Non è la memoria inseparabile dall’amore, che vuol conservare ciò che passa, ed ogni moto della fantasia non è generato dal desiderio, che trascende ciò che esiste e pur gli resta fedele, in quanto traspone i suoi elementi? E la più semplice percezione non si modella sull’angoscia di fronte all’oggetto percepito o sul desiderio del medesimo? Certo, con la crescente oggettivazione del mondo, il senso oggettivo delle conoscenze si è sempre più svincolato dal loro fondo impulsivo; e la conoscenza manca al suo compito, quando la sua attività oggettivante resta sotto l’influsso dei desideri. Ma se gli impulsi non sono superati e conservati nel pensiero che si sottrae a questo influsso, non si realizza conoscenza alcuna, e il pensiero che uccide suo padre, il desiderio, è colpito dalla nemesi della stupidità».[3]

Se la comunità è solo la somma di funzioni si può proclamare la vittoria del capitale assoluto e la morte della filosofia e dell’uomo. Malgrado i tempi siano terribili, l’umanità ridotta a vagabondi alla ricerca di emozioni fugaci e poco compromettenti, la Filosofia vive. In essa è possibile trovare contenuti per la resistenza, per formarsi e formare persone capaci di dono (e non solo del “libero” scambio). La speranza non è solo anelito ma motivazione alla resistenza logicamente fondata oltre che sentita.
La rilettura degli autori che paiono scomparsi dall’orizzonte culturale può essere un buon inizio per osservare il mondo con un rinnovato sguardo che possa alimentare con nuovo pensiero vitale la prassi. Ci sono autori che invitano ad uscire dal privato, a superare l’osmosi tra tempo libero e tempo lavorativo, per smascherare quanto il tempo libero è l’altro volto della manipolazione in continuità con il tempo gerarchizzato del lavoro. Si può favorire l’uscita dal privato, dal monadismo mercantile, anche con il semplice invito spontaneo al domandare, ad un agere che si riteneva impossibile e che può dare nuovo senso e densità al quotidiano. La lettura di Adorno oggi ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci, la necessità di guardare la Gorgone, la quale ci pone quesiti sul destino personale e del tempo storico condiviso. Non dobbiamo temere di essere trasformati in statue di sale, poiché è il non guardarla che ci fa essere semplice copia dell’umanità, creature scambiabili, perché funzioni consumanti. Colui che pensa si riappropria della qualità del suo essere umano e dunque rompe il ciclo quantitativo della facile scambibilità.

Salvatore Antonio Bravo

[1] Theodor Ludwig Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, pp. 48-49.

[2] Ibidem, p. 113.

[3] Ibidem, pp. 128-129.

 


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Henry Giroux – La gioventù nell’epoca dell’autoritarismo: per un’opposizione alle politiche neoliberali della dispensabilità

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Henry Giroux

La gioventù nell’epoca dell’autoritarismo:
per un’opposizione alle politiche neoliberali
della dispensabilità

Traduzione a cura di Steven Cenci

«Dobbiamo fare e pensare l’impossibile. Se è solo il possibile a dover accadere, non accadrebbe più niente. Se mi limito a fare solo ciò che so già fare, non farei più niente». Jacques Derrida

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«La speranza è la volontà di mantenere, anche nel tempo del pessimismo, la possibilità della sorpresa». Howard Zinn


Indice

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L’assenza di riflessione occupa il posto privilegiato
delle strutture culturali dominanti

Il cittadino è spinto a divenire un consumatore
I politici sono i portavoce del denaro e del potere
Gli intellettuali del dominio mediatico, sono i nemici intransigenti
della compassione, del bene comune e della democrazia stessa

Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro

”Individui problematici“

La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente

La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti

La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva

La ”guerra morbida“ alla gioventù

La “guerra forte“ alla gioventù

Infanzie rubate

La via d’uscita


L’assenza di riflessione occupa il posto privilegiato delle strutture culturali dominanti

Seguendo il discorso di Hannah Arendt, una grande pensatrice politica del totalitarismo del ventesimo secolo, la nuvola oscura dell’ignoranza politica ed etica si è abbattuta sugli Stati Uniti. L’assenza di riflessione, una delle condizioni necessarie per le politiche autoritarie, occupa in questo momento un posto privilegiato, se non celebrato, nell’orizzonte politico e all’interno delle strutture culturali dominanti. Un nuovo tipo di infantilismo regola la vita odierna, con gli adulti che si comportano sempre più da bambini sconsiderati, e i bambini che sono spinti a comportarsi da adulti, derubati della loro innocenza e sottoposti ad un insieme di pressioni disciplinari che li sommerge nei debiti e riduce la loro capacità immaginaria. In queste condizioni, l’agire si riduce ad un anti-intellettualismo acefalo, evidenziato dalle banalità prodotte nell’info-spettacolo di Fox News, dalla cultura delle celebrità, e dalla furia cieca emanata da politici populisti che sostengono il creazionismo, si battono contro il cambiamento climatico e inveiscono contro l’immigrazione, i diritti delle donne, i lavoratori dei settori pubblici, gli omosessuali e molti altri. Qui si va ben oltre la forma letale di un infantilismo intellettuale, politico ed emotivo. Si scorge innanzitutto una catastrofica indifferenza e noncuranza che generano pericolosi rapporti con l’irrazionale, alimentano lo spettacolo della violenza, creano un’incapacità incarnata nella gente e promuovono la disintegrazione della vita pubblica.

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Il cittadino è spinto a divenire un consumatore
I politici sono i portavoce del denaro e del potere
Gli intellettuali del dominio mediatico, sono i nemici intransigenti della compassione, del bene comune e della democrazia stessa

Il cittadino è spinto a divenire un consumatore, i politici sono i portavoce del denaro e del potere e il crescente esercito di intellettuali del dominio mediatico, contrari alla sfera pubblica, si presentano come i nemici intransigenti della compassione, del bene comune e della democrazia stessa. Il sistema educativo non è più concepito come un bene comune ma come un diritto privato, e il pensiero critico non è più considerato come una necessità fondamentale per la creazione di cittadini partecipi e socialmente responsabili. Il disprezzo che il neoliberalismo prova nei confronti della sfera sociale si rispecchia nell’odio totale per il bene comune. Le istituzioni pubbliche che un tempo ispiravano lo sviluppo di idee progressive, politiche sociali aperte, valori democratici, un dialogo e un confronto critico, sono state sostituite da entità aziendali la quale fedeltà finale risiede nell’aumentare i profitti e nel promuovere un’ampia cultura commerciale, che tende a cancellare tutto quello che è essenziale. Uno dei risultati di questi intrecci di forze è che abitiamo in un’epoca dove le istituzioni che si promettevano di limitare la sofferenza umana in difesa della sua dignità e di proteggere la sfera pubblica dai cicli di espansioni e frenate tipiche dei mercati capitalisti, sono andati indebolendosi o sono stati aboliti. Le politiche, i valori e le pratiche del mercato libero, con la loro incessante predica sull’importanza della privatizzazione della ricchezza pubblica, tramite la minimizzazione della protezione sociale e la deregolamentazione dell’attività economica, influenzano a livello pratico ogni istituzione di controllo politico ed economico dell’America del Nord. Il capitalismo finanziario manovra la politica e la governance come mai prima d’ora ed è prontamente disposto a sacrificare il futuro dei giovani in cambio di guadagni politici ed economici di breve durata.

Questa condizione ha permesso l’affiorare di un fecondo elenco di prove dimostrando che gli Stati-Nazione organizzati da programmi neoliberali hanno implicitamente dichiarato guerra ai propri giovani, offrendo il quadro preoccupante di società che si trovano nel pieno di una profonda catastrofe morale e politica. Troppi giovani oggigiorno vivono in un’epoca di speranze precarizzate, dove è difficile immaginarsi una vita al di là delle regole imposte dal mercato, o superare il terrore che provandoci si possa finire in una situazione ancora peggiore. Come disse Jennifer Silva, questa generazione, soprattutto di «giovani uomini e donne di classe lavoratrice … tentano di capire cosa voglia dire essere adulti in un mondo dove il lavoro sta sparendo, i costi dell’istruzione salgono e i gruppi sociali di sostegno stanno diminuendo… Vivono con i propri genitori più a lungo, si prendono più tempo per laurearsi, cambiano lavoro più spesso e aspettano prima di crearsi una famiglia».

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Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro

I giovani oggi non sono solo tormentati dalla fragilità e incertezza del presente, ma sono anche la «prima generazione del dopo-guerra a confrontarsi con una mobilità sociale in discesa, dove la disperazione dell’emarginato arriva ad abbracciare una generazione intera». Non è coincidenza che «a questi giovani venga assegnato il nome di Generazione-Zero: una generazione con Zero opportunità, Zero futuro», e zero aspettative. Oppure, usando la formula di Guy Standing, «il precariato», che definisce come «la parte crescente della nostra società nel suo insieme» costretta ad «accettare il lavoro instabile e una vita instabile». Troppi giovani e altri gruppi sociali vulnerabili abitano quella che potremmo definire come una geografia dell’esclusione definitiva, uno spazio di dispensabilità che si estende per comprendere un maggior numero di individui e gruppi sociali.

Il volto umano degli abitanti di questa geografia dell’esclusione viene immortalato in una storia raccontata da Chip Ward, ex-bibliotecario di Salt Lake City, che descrive in modo commovente la storia di una donna senza-tetto da lui chiamata con il nome di Ophelia che, come molti altri senza-tetto, si rifugia in biblioteca perché non sa dove andare se deve usare la toilette, per ripararsi dal maltempo, o semplicemente per riposarsi. Esclusa dal sogno americano e trattata sia come sacrificabile che come una minaccia, Ophelia, a scapito della sua evidente infermità mentale, definisce la propria esistenza con un linguaggio che offre una metafora agghiacciante riguardo alla sua sofferenza e a quella di molti altri:

«Ophelia sta seduta vicino al camino e borbotta con voce sommessa, sorridendo e gesticolando a nessuno di specifico. Fissa fuori dalla grande finestra da dietro due paia di occhiali che porta, un paio dalle dimensioni di un parabrezza, posti sopra un paio più piccolo che tiene appoggiato in modo instabile sul suo piccolo naso. Forse le quattro lenti le sono d’aiuto per vedere meglio la persona invisibile con la quale sta parlando. Quando la sua conversazione ‘al nessuno che ha di fronte’ infastidisce la lettrice che le siede a fianco, Ophelia si gira, sogghigna dell’imbarazzo della donna, e le spiega, ‘Non faccia caso a me, io sono morta. Non si preoccupi. Sono morta da un pezzo.’ Fa una pausa, poi aggiunge in modo rassicurante, ‘Non è poi così male. Ci si abitua.’ Per niente rassicurata, la donna raccoglie le sue cose e si defila velocemente. Ophelia alza le spalle. La comunicazione a voce alta è impegnativa. Preferisce far ricorso alla telepatia, ma questo è difficile, visto che noi tutti, si appresta a informarmi, ‘non conosciamo le regole».

Ophelia rappresenta solo una delle 3.5 milioni di persone che si ritroveranno senza tetto negli Stati Uniti nel corso dell’anno, molte delle quali faranno uso di biblioteche pubbliche e di qualsiasi altro spazio pubblico accessibile da utilizzare come rifugio. Molti di questi sono donne e bambini; sono spesso malati, disorientati e soffrono di dipendenza da sostanze stupefacenti o di malattie mentali, e molti non sanno affrontare lo stress, l’insicurezza e i pericoli di tutti i giorni. E mentre le parole di Ophelia potrebbero passare come il discorso farneticante di una donna malata di mente, risaltano qualcosa di più profondo che riguarda la situazione presente della società statunitense, e del suo abbandono di interi gruppi sociali che vengono considerati come i rifiuti umani di un sistema economico neoliberale.

Gli individui che un tempo venivano considerati vulnerabili e in bisogno di protezione sociale, oggi sono trattati come un problema che minaccia la società. Questo appare evidente quando la battaglia a favore dei poveri si trasforma in una battaglia contro i poveri, quando la disperazione dei senza-tetto viene definita non come un problema politico ed economico richiedente una riforma di tipo sociale, ma come un problema di criminalità e di ordine pubblico; oppure quando i fondi per l’edificazione di nuove prigioni superano di gran lunga quelli per l’istruzione.

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”Individui problematici“

La trasformazione dello stato sociale in uno stato d’impresa punitivo si percepisce chiaramente da come i giovani, citando W.E.B. Du Bois, vengono trattati come individui problematici invece che come individui che risentono di problemi. I giovani, e in particolare quelli delle fasce più basse e i poveri di colore, vengono trattati come se fossero il problema piuttosto che come persone che risentono di problemi. Di conseguenza, questi si ritrovano ad essere maggiormente sottoposti alle leggi del sistema penale invece di ricevere un’assistenza da parte dei programmi sociali che potrebbero soddisfare i loro bisogni più basilari.

Oltre che a dimostrare la corruzione morale di una società che ha fallito nel tentativo di sostenere la propria gioventù, la violenza simbolica e reale praticata contro molti giovani rappresenta niente di meno che un desiderio di morte collettivo – che si vede benissimo quando i giovani protestano per le condizioni in cui si trovano. Come dice Alain Badiou, viviamo in un’epoca nella quale non vi è quasi più tolleranza per la resistenza democratica, mentre vi è una «tolleranza infinita per i crimini commessi dai banchieri e dai politici corrotti che rovinano la vita di milioni di persone». Come si spiegherebbe altrimenti la scelta dell’FBI di definire come «minaccia terroristica» i giovani attivisti che si oppongono alle malefatte delle grandi imprese e dei governi, mentre allo stesso tempo si rifiuta di perseguire il gigante bancario HSBC per il riciclaggio di miliardi di dollari provenienti dai cartelli di droga messicani e da gruppi terroristici affiliati ad al-Qaeda? Altrettanto preoccupante è la constatazione che il Dipartimento della Sicurezza Interna, che fu «creata principalmente per combattere il terrorismo», ha posto sotto sorveglianza i membri del movimento Black Lives Matter [Le Vite dei Neri Contano; ndt] che hanno manifestato contro il razzismo promotore della violenza esercitata dalla polizia sui neri negli Stati Uniti.

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La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente

Se la gioventù una volta rappresentava l’incarnazione dei sogni della società, ora non è più così. I giovani sono maggiormente visti come la causa di disordine pubblico, come sogno divenuto incubo. Parecchi giovani sono costretti ad accettare un’ordinanza sociale tipica delle tattiche post-11/settembre e che li identifica come i bersagli principali del modello ”governing through crime“ (“governare nella criminalità”, ndt). Si pensi alle politiche a tolleranza zero che riducono i giovani a dei criminali, mentre allo stesso tempo vengono privati di un servizio sanitario adeguato, di un’istruzione e di servizi sociali. La punizione e il terrore hanno sostituito la compassione e la responsibilità sociale come mediatori dei rapporti tra i giovani e il resto della società, come ben evidenziato dall’aumento di leggi a tolleranza zero praticate nelle scuole e dall’ampliamento del sistema punitivo negli Stati Uniti.

Quando la criminalizzazione dei problemi sociali si trasforma in un metodo di amministrazione, e la guerra diviene la sua strategia principale, i giovani vengono ridotti a dei soldati o utilizzati come bersagli – non come una risorsa sociale. Come suggerisce l’antropologo Alain Bertho, «La gioventù non è più considerata come il futuro del mondo, ma come una minaccia al suo presente».

Oggi l’unico discorso politico accessibile ai giovani proviene dai regimi privatizzati dell’autodisciplina e dall’autogestione emotiva. La gioventù è stata rimossa da ogni registro di rilevanza democratica. La loro assenza è sintomo di una società che si è rivolta contro se stessa, che punisce i suoi figli al costo di far crollare l’intero apparato politico. Ció che definisco come la guerra ai giovani emerse nella sua forma contemporanea quando il contratto sociale, per quanto esso fosse compromesso e fragile, si frantumó proprio mentre Margaret Thatcher ”sposó“ Ronald Reagan. Entrambi erano accaniti sostenitori di un fondamentalismo di mercato, annunciando rispettivamente, che la vera società non esiste e che il governo non è la soluzione alle crisi ma è il problema. Nel giro di un decennio, la democrazia e il processo politico sono stati presi d’assalto dalle grandi imprese e la richiesta di effettuare manovre di austerità divenne una scusa per indebolire lo stato sociale, i valori e il commercio pubblico. Gli effetti del nascente regime neoliberale furono la crescita della divisione fra i ricchi e poveri, la promozione di una cultura della crudeltà, e lo smantellamento delle strutture sociali. Uno dei risultati fu che la promessa di un futuro di giovani fu sostituito da un’epoca di angosce indotte dal mercato, da una concezione della gioventù come fascia sprecata su cui è rischioso investire e che costituisce una minaccia all’interesse personale e al profitto illimitato.

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La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti

La guerra alla gioventù si sta diffondendo negli Stati Uniti. Come si spiegherebbe altrimenti la trasformazione delle scuole statunitensi in istituti di formazione, modellati sui centri per ex-detenuti, oppure il promuovere di pedagogie di repressione che utilizzano metodi d’insegnamento standardizzati e test a forte impatto (high-stake), tutto nel nome di una riforma della scuola? Che parte puó svolgerel’istruzione all’interno di una democrazia, quando la società fa gravare il peso di tasse e prestiti di studio sempre più elevati sulle spalle di un’intera generazione? Penso che David Graeber abbia ragione quando dice «I prestiti di studio stanno distruggendo l’immaginazione della gioventù. Se esistesse il modo per una società di suicidarsi in massa, cosa ci sarebbe di meglio che prendere i membri più giovani della società, quelli con più energie, i più creativi e felici, e affibbiarli con un debito di circa $50.000 rendendoli schiavi? La musica è finita. La cultura è finita… Facciamo parte di una società divenuta incapace di includere i soggetti interessanti, creativi ed eccentrici». Ciò che non dice è che, inoltre, gran parte dei giovani sono depoliticizzati perché la loro sopravvivenza è in crisi, non solo materialmente, ma anche a livello esistenziale. In queste circostanze, ci si potrebbe rassegnare riguardo al futuro della democrazia. Ciò che viene tralasciato dalla presente congettura storica è l’idea di responsabilità intersoggettiva, l’impegno verso il bene comune, la concezione democratica di popolo, l’idea di collegare l’istruzione allo sviluppo sociale, e la promessa di una salda democrazia che possa dedicarsi al perseguimento di diritti civili, politici ed economici. In questa condizione di spietato darwinismo economico, stiamo assistendo allo sgretolarsi dei rapporti sociali e al trionfo dei desideri individuali sui diritti sociali, come ben evidenziato dalla crescita dell’analfabetismo civico, dalle menti ingabbiate in comunità ingabbiate, dall’intolleranza semplicistica, dalle capacità relazionali atrofizzate, da culture della crudeltà e da una spirale verso i meandri oscuri di un ordine sociale oligarchico. In tutto questo i bambini pagano il prezzo più alto. Si pensi che gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo ad essersi rifiutato di ratificare la convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, la quale «si esprime per promuovere e rispettare i diritti umani dei bambini, compreso il diritto alla vita, alla salute, all’istruzione e al gioco, e inoltre il diritto alla vita familiare, di essere protetti dalla violenza e da ogni forma di discriminazione».

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La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva

La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva altamente diffusa che reca il messaggio secondo il quale se si vuole sopravvivere nella società è necessario ridurre i rapporti sociali a forme di guerriglia sociale. Sono troppi i giovani oggi che imparano troppo presto che il loro destino dipende da una responsabilità individuale, indipendentemente da relazioni strutturali più ampie. In questo senso la politica è divenuta un’estensione della guerra, proprio quando «l’insicurezza economica e l’ansia sistemica» e la violenza promossa dallo Stato trovano maggiore legittimità nei discorsi dell’austerità, delle privatizzazioni e demonizzazioni, che a loro volta provocano ansia, panico e paura, minimizzando qualsiasi senso di responsibilità comune per il benessere altrui. La maledizione della privatizzazione nella società guidata dal consumismo viene peggiorata dal presupposto, ispirato dal mercato, che annuncia che l’unico obbligo di cittadinanza da parte dei giovani è quello di consumare. Qui peró, oltre ai meccanismi di depoliticizzazione, vi è qualcos’altro; c’è anche una fuga dalla responsabilità sociale, se non dalla politica stessa. Ciò che è andata persa è anche l’importanza di quei rapporti sociali, dei metodi di ragione collettiva, delle sfere pubbliche e apparati culturali essenziali per la creazione di una società democratica sostenibile.

Come sostiene un importante sociologo [Zygmunt Bauman], «oggi le aspettative sono scese in basso e ci sentiamo compiaciuti di ciò che dovrebbe imbarazzarci». I politici, come ad esempio l’ex vicepresidente Dick Cheney, non solo si rifiutano di scusarsi per l’immensa miseria, lo spostamento e la sofferenza arrecati al popolo iracheno – principalmente ai bambini iracheni – ma addirittura si auto compiacciono nel difendere queste misure. La Doppialingua prende nuove forme con il presidente Obama che annuncia il discorso sulla sicurezza nazionale per giustificare lo stato di sorveglianza, una lista di assassinii mirati e il continuo massacro di bambini e famiglie da parte dei droni. Questo dilagante orizzonte di menzogne ha prodotto non solo una guerra al terrorismo illegale e globale, e torture approvate dal governo anche a danno di bambini; ma ha anche fornito la giustificazione per la discesa degli Stati Uniti ad una condizione di barbarismo a fronte degli eventi tragici del 11 Settembre. Eppure, questi atti di violenza da parte dello Stato sembrano non far provare nessun tipo di vergogna agli apostoli di questa guerra eterna.

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La ”guerra morbida“ alla gioventù

Ora vorrei affrontare il tema dell’intensificante presa d’assalto ai giovani che avviene tramite la ”guerra morbida“ e la “guerra forte“, due concetti che sono connessi tra di loro. L’idea di guerra morbida comprende le condizioni mutevoli della gioventù all’interno della sfrenata espansione di una società di mercato globale. Affiancata da una potente macchina pubblicitaria, la guerra morbida prende di mira tutti i bambini e i giovani, li svaluta trattandoli come un altro ”mercato“ da mercificare e sfruttare, sottoscrivendoli al sistema tramite l’inarrestabile volontà di creare una nuova generazione di superconsumatori.

Questa guerra a bassa-intensità viene condotta da varie istituzioni collegate alle grandi imprese, utilizzando la spinta educativa di una cultura che commercializza ogni aspetto della vita dei bambini, e che oggi sfrutta la rete ed altre tecnologie mediatiche, quali gli smartphone, per far sì che i giovani si immergano in un mondo di consumo di massa, utilizzando metodi molto più diretti e costosi di quanto lo fossero prima d’ora. Bombardato commercialmente da un’industria pubblicitaria che negli Stati Uniti nel 2012 ha investito 189 miliardi di dollari, il bambino viene esposto in media a circa 40.000 spot pubblicitari all’anno, e già all’età di 10 anni i bambini avranno memorizzato il nome di 300 o 400 marche di prodotti.

Un’intera generazione viene attirata in un mondo consumistico nel quale le merci e la devozione alle marche diventano i segni più importanti di identificazione personale e le strutture principali per regolare il rapporto dell’individuo con il mondo. In modo sempre più crescente, molti giovani, ripensati come merce, possono solo riconoscersi nei termini stabiliti dal mercato. Come fa notare il sociologo Zygmunt Bauman, i giovani sono allo stesso tempo “i promotori delle merci e le merci stesse che promuovono“ – cioè definiti contemporaneamente sia come merci che come agenti di mercato.

Quali sono gli effetti della guerra morbida? Gli spazi pubblici sono divenuti aree di disimmaginazione neoliberale che rendeno sempre più difficoltoso per i giovani trovare sfere pubbliche nelle quali possono identificarsi per poter tradurre le metafore della speranza in azioni sensate. I paesaggi immaginari edificati sulla promessa del consumo di massa vengono abilmente riprodotti come spot pubblicitari, promuovendo incessantemente e naturalizzando un ordine neoliberale nel quale i rapporti economici oggi rappresentano il copione sul quale i giovani, le loro relazioni con gli altri e il mondo intero, devono modellarsi.

Il sistema mercatistico dei numeri induce i giovani a credere che essi contino, mentre infatti “tutto quello che desidera è di poter contarli.“ L’ecologia oppressiva consumistica della cultura dominante si sta impegnando per selezionare, cancellare e riordinare i termini del linguaggio politico, sociale e morale a disposizione dei giovani. Le esperienze più intime dei giovani sono sottoposte ad una colonizzazione etica di tipo consumistico che deforma il loro senso d’azione, i loro desideri, i loro valori e speranze. Intrappolati nello spettacolo del mercato, la loro capacità di impegno critico e possibilità di diventare cittadini socialmente responsabili viene così ridotta in modo significativo.

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La “guerra forte“ alla gioventù

La guerra forte si contraddistingue per la serietà e pericolo che comporta per lo sviluppo dei giovani, in particolare per quelli emarginati secondo la loro provenienza etnica, razza, sesso e classe. La guerra forte comprende tutti quei metodi più estremi tipici di un sistema di controllo della criminalità giovanile e che opera in maggior aumento utilizzando una logica punitiva, di sorveglianza e di controllo. I giovani presi di mira da queste misure punitive sono in maggior parte poveri giovani di colore che vengono considerati come dei consumatori falliti e che possono permettersi di vivere solo ai margini di una cultura commerciale che esclude chiunque sia senza denaro, risorse e tempo libero. Sono giovani considerati al di fuori di possibilità di istruzione e di lavoro, e quindi rappresentano un problema, se non una minaccia all’ordine esistente.

Le origini del sistema di controllo della criminalità giovanile risalgono all’uso di pratiche, ora divenute standard, per organizzare la vita nelle scuole attraverso l’uso di metodi disciplinari, che sottopongono gli studenti ad una sorveglianza continua con tecnologie di sicurezza ad alta prestazione, e allo stesso tempo sottoponendoli a demenziali politiche a tolleranza-zero, spesso troppo rigide, che sembrano più le misure adottate dal sistema penale. Sotto questo aspetto, la gioventù povera e di colore diviene l’oggetto di una nuova forma di governance basata sulle tattiche di controllo più rozze. Puniti se non si presentano a scuola e puniti anche se si presentano, molti di questi studenti vengono incanalati in ció che è stato definito il «percorso scuola-prigione» (ndt). Se i ragazzi delle classi medie e più agiate vengono sottoposti alle seduzioni delle pubbliche relazioni manovrate dal mercato, i giovani delle classi inferiori si ritrovano presi di mira persi tra il desiderio di soddisfazione commerciale e la imponente rigidità di misure di sicurezza, sorveglianza e controllo.

Come si spiegherebbe se no il fatto che ogni anno negli Stati Uniti vengono incarcerati 500.000 giovani e ne vengono arrestati 2.5 milioni, e che all’età di 23 anni, “quasi un terzo degli americani sarà già stato arrestato per aver commesso un crimine“? Che tipo di società permette a 1.6 milioni di bambini di rimanere, durante il corso di un anno, senza una dimora? O permette la creazione di una società moralmente e socialmente alienante tramite disuguaglianze di ricchezza e di reddito pazzesche, con il «45% di tutta la popolazione degli Stati Uniti che fa fatica ad arrivare a fine mese“? Le statistiche mostrano una situazione deprimente riguardo ai giovani della nazione più ricca del mondo. Secondo la Bureau of Labor Statistics, “il numero di giovani disoccupati nel luglio del 2015 era di 2.8 milioni»; 12.5 milioni non possono permettersi da mangiare; e al culmine di questa sciagura nazionale si constata che negli Stati Uniti un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà. Quasi la metà di tutti i bambini negli Stati Uniti e il 90% dei giovani di colore dovranno far ricorso ai buoni pasto durante la loro infanzia.

Cosa dovremmo pensare di una società che ha permesso che nel 2001 ci fossero più giovani uccisi per le strade di Chicago che soldati americani uccisi in Afghanistan? Per essere più precisi, 5000 persone furono uccise da armi da fuoco a Chicago, mentre 2000 soldati furono uccisi tra il 2001 e il 2012. Che tipo di società rimane indifferente di fronte al fatto che questo paese “assiste in media a 92 morti per armi da fuoco al giorno – con il numero di bambini…uccisi con armi da fuoco essendo superiore a quello dei poliziotti uccisi durante il servizio“? A parte queste stragi ormai settimanali, ciò che è passato inosservato è il fatto che negli ultimi quattro anni più di 500 bambini sotto i 12 anni sono rimasti vittime di omicidi da arma da fuoco.

Mentre la guerra al terrorismo arriva in casa, gli spazi pubblici sono stati trasformati in vere e proprie zone di guerra con la polizia locale che riveste il ruolo di esercito di occupazione, in particolare nei quartieri dei poveri di colore, tutto questo esaltato dal fatto che oggi la polizia dispone di veicoli di trasporto blindati, fucili con cannocchiali per la visione notturna, Humvee, fucili automatici M-16, lancia-granate e altre armi progettate a fini militari. Agendo come una forza paramilitare, la polizia è divenuta il nuovo simbolo di un terrorismo domestico, perquisendo i giovani di colore e infiltrandosi nelle loro comunità con lo scopo di criminalizzare una moltitudine di comportamenti.

Questo è vero in particolare per le pratiche di stop-and-frisk (fermare-e-perquisire; ndt) così ampiamente utilizzate sotto l’ex sindaco Michael Bloomberg nella città di New York. A Ferguson, nello stato del Missouri, l’intera popolazione fu sottoposta ad una forma di illegalità legale in ciò che potrebbe essere definita come una pratica di estorsione razzista. Invece di essere definiti come una popolazione in bisogno di protezione, i cittadini della città, in gran parte di colore, di Ferguson, furono arrestati e multati per non poter saldare i propri debiti, in violazione di regole banali del tipo far lasciar crescere l’erba troppo in alto, oppure attraversare la strada fuori dalle strisce, rendendoli così i bersagli principali del sistema penale. L’effetto fu che la polizia concepì gli abitanti di colore di Ferguson «come dei potenziali bersagli di una pratica di ricatto per avvalersi dei denaro dei più poveri e vulnerabili, usando ogni mezzo disponibile, con il risultato che la maggior parte dei cittadini di Ferguson divennero i destinatari di un’ordinanza di custodia».

La creazione dello Stato punitivo e la guerra al terrorismo hanno incoraggiato le forze di polizia in tutto il paese, aumentando così l’uso di una violenza razzista contro i giovani di colore, in ciò che è stato definito come una “epidemia di brutalità poliziesca.“ Purtroppo, neanche i bambini sono protetti da questa violenza, come testimonia l’uccisione del 12enne Tamir Rice il 22 Novembre 2014 da parte di un poliziotto bianco. Ciò che rende la storia ancora più tragica è che la polizia di Cleveland tentò di incolpare il ragazzo per la propria morte. Rice stava maneggiando una pistola giocattolo ad aria compressa quando fu ucciso a colpi di pistola da un agente di polizia che solo due anni prima era stato dichiarato inadatto al servizio. L’uccisione di giovani e adulti di colore sembra aver preso le sembianze di uno sport crudele, indicativo di una forza di polizia che sta discendendo vorticosamente verso una specie di autoritarismo che unisce l’illegalità con una forma pericolosa di militarismo.

Contro la retorica idealista di un governo che finge di venerare la gioventù, si nasconde la realtà di una società che concepisce i giovani attraverso l’ottica dell’ordine pubblico, una società che troppo facilmente è disposta a trattare i giovani come dei criminali, e che quando necessario li fa “sparire“ nei luoghi più cupi del sistema penitenziario. Cosa si dovrebbe pensare di una società che permette a degli agenti del dipartimento di polizia di New York di entrare in una scuola e arrestare, ammanettare e trascinare una studentessa 12enne per aver disegnato sul banco? Ed inoltre, di un sistema scolastico che permette ad un bambino di 6 anni nel Georgia e ad una bambina d’asilo di 5 anni nel Florida di essere ammanettati e portati al distretto di polizia per aver fatto dei capricci? Dov’era il dissenso pubblico quando due agenti di polizia chiamati da un centro educativo dell’Indiana per controllare un bambino scalmanato di 10 anni decidono di usare il Taser? Oppure quando un’amministrazione scolastica permette ad un agente di polizia dell’Arkansas di usare una pistola all’elettroshock per disciplinare una bambina di 10 anni che apparentemente era fuori controllo?

Una risposta pubblica a questo caso è arrivata da Steve Tuttle, un portavoce della Taser International Inc., che ha insistito che la «pistola all’elettroshock può essere usata in modo sicuro anche sui bambini». Purtroppo, questi sono solo alcuni esempi del modo in cui i bambini vengono puniti nelle scuole americane invece di essere istruiti, in particolare nelle scuole delle grandi città. Questi casi dimostrano l’insensibilità sociale verso i giovani e la volontà di molti istituti educativi di adottare misure di punizione per reati, ed insieme costituiscono non solo una crisi del sistema educativo, ma anche la creazione di un nuovo modo di fare politica che Jonathan Simon ha definito «governare nella criminalità».

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ManchildInThePromisedLand

Manchild in the Promised Land

Infanzie rubate

Ovviamente abbiamo già assistito a questa visione intollerante della criminalità durante periodi storici precedenti, ma almeno alla criminalità si rispondeva con tentativi di riforma e riabilitazione, non con la vendetta, come avviene nel presente sistema penale. Come esempio storico dell’effetto più ampio di questo sistema punitivo, vorrei soffermarmi su Claude Brown, lo scrittore afro-americano che capii pienamente l’effetto di questa guerra alla gioventù nel suo svolgersi di mezzo secolo. Anche se il suo romanzo, Manchild in the Promised Land (Uomobambino nella Terra Promessa; ndt), si svolge nella Harlem degli anni ’40 e ’50, c’è molto da trarre da questa descrizione autobiografica. Si prenda per esempio il passaggio seguente:

«Se Reno era di pessimo umore – se non aveva denaro e non era su di giri – diceva, ‘Sonny, amico, non ci sono bambini ad Harlem. Non ne ho mai visti. Ho visto della gente molto piccola comportarsi come dei bambini, ma non ci sono bambini ad Harlem, perché non c’è tempo per l’infanzia. Amico, hai qualche ricordo d’esser mai stato un bambino? Io no. Merda, i bambini sono felici, i bambini ridono, i bambini si sentono al sicuro. Non hanno paura di niente. Sei mai stato un bambino Sonny? Maledizione, sei fortunato. Io non sono mai stato un bambino, amico. Non ho nessun ricordo d’esser mai stato felice e senza paura. Non so cosa mi sia successo, amico, ma penso di non aver vissuto quella cosa che chiamano infanzia, perché non ricordo di esser mai stato un bambino».

Nel suo libro, Brown racconta delle vite spacciate dei suoi amici, delle loro famiglie e dei vicini di quartiere. Il libro si figura come un brillante ma anche sconvolgente ritratto di una Harlem sotto assedio – una comunità devastata e distrutta dall’eroina, dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla criminalità e dalla brutalità poliziesca. Ma ciò che Brown ha veramente evidenziato, è che furono la violenza barbarica e un’ esistenza senza uscita che segnarono la rovina di così tanti giovani di Harlem, non solo li derubò del loro futuro ma anche della loro infanzia. Nella condizione di collasso sociale e di esperienze psicologiche traumatiche creati dalla sistematica fusione tra il razzismo e lo sfruttamento di classe, i bambini di Harlem furono assediati da forze che li derubarono dell’innocenza tipica dell’infanzia, forzandoli ad affrontare i rischi e i problemi della sopravvivenza quotidiana dalla quale gli adulti non hanno saputo difenderli.

Al centro della narrativa di Brown, scritta nel pieno della lotta per i diritti civili degli anni ’60, c’è il ”manchild“ (l’uomobambino), una metafora che mette sotto accusa una società che sta dichiarando guerra sui bambini poveri di colore costretti a crescere troppo in fretta. La parola “uomobambino“ segnava un confine tra l’innocenza perduta e un’infanzia rubata, e il punto in cui ogni tipo di azione sensata ed autonoma da parte degli adulti veniva messa a rischio. Harlem rappresentava un contenitore chiuso, una colonia domestica, e la vita di strada creò le condizioni e la necessità per un’insurrezione. Ma le tante forme di ribellione che i giovani poterono esprimere – dall’attività pubblica e progressiva fino a quella interiorizzata e autodistruttiva – avevano un prezzo, che Brown annuncia verso la fine del libro: «Era come se tutti i fratelli con i quali siamo cresciuti non ce l’avessero fatta. Quasi tutti erano morti o finiti in prigione».

Un’infanzia rubata non poteva essere recuperata semplicemente aiutando sé stessi – come voleva l’insensibile e mendace richiesta che finì col definire i tentativi di riforma reazionaria degli anni ’80 e ’90, dall’odio per il governo da parte di Reagan fino all’attacco di Clinton contro la riforma del welfare e al suo «ruolo decisivo nella creazione di uno dei sistemi penitenziari più grandi del mondo». In quel momento, era necessaria una forte richiesta d’intervento contro un ordine sociale che negava ai bambini una possibilità di un presente e un futuro più prosperi. Mentre Brown affrontava la vita quotidiana di Harlem più da poeta che da rivoluzionario politico, la politica era improntata in ogni frase del suo libro – non una politica demagogica, di odio e ortodossa, ma una politica che mostrava il danno creato da un sistema sociale caratterizzato da enormi disuguaglianze e da una divisione razziale inflessibile. Il suo libro creò l’immagine di una società priva di bambini, per fare appello al futuro di un paese che scelse di abbandonare i suoi membri più vulnerabili.

Come per il grande critico teorico C. Wright Mills, il lavoro di Brown seppe ridefinire i confini tra i problemi pubblici e la sofferenza privata. Per Brown, il razzismo aveva a che fare con il potere e l’oppressione – non con l’ignoranza, o con la paura – e non poteva essere separato da contesti più ampi di tipo sociale, economico e politico. Invece di negare le cause sistemiche dell’ingiustizia (come fecero le discussioni sulla patologia individuale e sul cura-te-stesso), Brown insistette nel denunciare che le forze sociali dovevano essere incluse all’interno di ogni tentativo di comprendere sia la sofferenza di gruppo che la disperazione individuale. Brown esploró la sofferenza dei giovani di Harlem, ma lo fece rifiutandosi categoricamente di renderla privata, di drammatizzarla o di porre la vita privata al di sopra dei problemi pubblici, o del porre le speranze dei singoli, i loro desideri ed una possibile attività al di là delle sfere della politica e della vita pubblica.

A cinquant’anni dalla pubblicazione del libro, la metafora dell’uomobambino di Brown è ancora più pertinente di quanto non lo fosse stato in precedenza , e l’immagine de “la Terra Promessa“ più preveggente che mai, mentre la rivelazione della disperazione dei poveri bambini di colore assume un significato ancora più ampio nel tempo della presente crisi economica e delle speranze svanite di un’intera generazione, che viene vista come una generazione senza la speranza di un futuro migliore. I giovani oggi sono costretti a vivere un’esistenza dura deprivati di un’infanzia, schiacciati sotto il carico materiale ed esistenziale di problemi che non riescono più a sopportare.

*********

La via d’uscita

La disperazione dei poveri giovani di colore si estende anche al di là della gravità delle privazioni materiali e violenza alla quale sono sottoposti quotidianamente. Molti giovani sono stati costretti a concepire il mondo e a ridefinire la propria natura nelle sfera della disperazione e dell’insicurezza. E’ difficile immaginare un futuro migliore quando si è confinati dagli spazi restrittivi della mercificazione. L’austerità contro le spese sociali imposta dal sistema neoliberale significa che un’intera generazione di giovani non avrà le opportunità di un lavoro decente, di comodità materiali, di un livello di educazione e sicurezza che erano disponibili alle generazioni precedenti. Questa è una nuova generazione di giovani che deve pensare, agire e parlare come da adulti. Molti di loro si preoccupano costantemente dell’impossibilità da parte dei loro familiari di trovare lavoro oppure dell’incarcerazione di un genitore.

Negli Stati Uniti, inoltre, i giovani vivono fasi di estrema povertà, mettendo a rischio la garanzia di essere nutriti e di avere accesso ad un’assistenza sanitaria basilare, nelle comunità che sono maggiormente afflitte da malattie e che necessitano di interventi speciali durante condizioni di povertà. Questi giovani vivono in una nuova e preoccupante fase di disperazione, una zona morta dell’immaginazione, che costituisce uno spazio di esclusione finale – che rivela non solo le grandi e destabilizzanti differenze proprie del sistema economico neoliberale, ma inoltre mostra un futuro che non vuole investire sulla speranza tipica di una democrazia dinamica.

Il compito degli insegnanti, individui, artisti, intellettuali e altri movimenti deve essere di svelare i meccanismi del fondamentalismo di mercato “in tutte le sue forme, che esse siano personali, politiche, o economiche… e ricostruire una piattaforma“ e un insieme di strategie per contrastarlo. Evidentemente, ogni formazione politica rilevante deve opporsi ai brutali effetti sociali che il capitalismo d’azzardo ha portato, e lavorare per fermare le forme di violenza sociale, politica ed economica che i giovani stanno subendo quotidianamente. Ciò richiede di più che le dimostrazioni che durano una sola giornata. Ciò di cui si necessita è l’organizzazione di nuove sfere pubbliche nelle quali viene stimolata una memoria pubblica, un alfabetismo e un coraggio civili – cioè, una volontà di «analizzare con efficienza le strutture e i meccanismi del potere capitalistico per formulare soluzioni politiche sofisticate» e la volontà di costruire movimenti d’opposizione permanenti. Alcuni esempi di questi tipi di movimenti stanno già emergendo negli Stati Uniti, sorti dai lavoratori dei Fast Food e dagli studenti che protestano contro debiti soffocanti e la brutalità poliziesca. Queste forme iniziali sono anche presenti nei movimenti sociali di paesi quali la Spagna e la Grecia che si stanno battendo contro le rigide pratiche neoliberali dell’austerità imposte dai banchieri e dalla classe finanziaria globale dominante.

Nell’America del nord, assistiamo ad importanti, anche se inefficienti, prove da parte di giovani che tentano di rompere con l’irresponsabilità del potere governativo e finanziario. Questo si è visto con il movimento Occupy, il movimento studentesco di Quebec, il movimento Idle No More (Mai Più Passivi: ndt) e il movimento Black Lives Matter (Le Vite dei Neri Contano; ndt). Il New York Times ha riportato recentemente che il livello di fiducia mondiale nella democrazia sta diminuendo. Cosa non ci dice è che i giovani non si lamentano della democrazia, ma della sua assenza. Negli Stati Uniti, vi è un nuova opportunità politica di rivendicare una vera democrazia, una che si occupa di garantire a tutti gli americani un salario minimo adeguato o il reddito di cittadinanza; toglie denaro alla politica; rivendica il bene comune contrastando la natura nociva delle privatizzazioni; tiene sotto controllo gli effetti sfrenati del capitalismo d’azzardo; abolisce il concetto demenziale di personificazione dell’azienda; demolisce lo stato di guerra permanente; inverte il riscaldamento globale; ridistribuisce il benessere nell’interesse di una democrazia pulsante; nazionalizza il servizio sanitario; riduce la grandezza delle banche; elimina lo stato punitivo carcerario di massa; sradica lo stato di sorveglianza, ed attua altre riforme ancora.

Questo è un linguaggio che dice che nessuna società deve semplicemente bastare e che occorrono nuove lotte collettive, con la speranza di creare un futuro che si rifiuta di essere definito dalle forze distopiche che oggi deformano la società americana. Queste riforme sono allo stesso tempo profonde e istruttive per il nostro tempo perché rimandano al bisogno di pensare al di là di ciò che è dato, e di pensare oltre la visione distorta basata sul mercato offerta dai sostenitori del capitalismo d’azzardo. Questo modo di pensare radicato nella libertà dell’immaginazione è un obbiettivo centrale dell’educazione civica, che nelle parole del poeta Robert Hass è «di rinfrescare l’idea di giustizia che sta morendo dentro di noi un po’ alla volta».

Oggigiorno, le proteste negli Stati Uniti dimostrano che i giovani devono contare su tutte le fasce generazionali in modo da creare movimenti politici veramente globali con la possibilità di rivendicare gli spazi pubblici, di utilizzo progressivo delle tecnologie digitali, di produrre nuovi metodi educativi e salvaguardare gli spazi dove l’espressione democratica, nuovi valori civici, sfere pubbliche democratiche, nuovi metodi di identificazione e la speranza collettiva possono essere coltivati e sviluppati. E’ necessario adottare una cultura formativa a livello pedagogico e istituzionale in tutte le sfere come le parrocchie, i centri di istruzione pubblica e tutti quegli apparati culturali impegnati nella produzione del sapere, desideri, identità e valori democratici collettivi. Perché ogni lotta collettiva possa avere successo, è necessario concepire il sistema educativo come al centro della politica e come all’origine di una visione embrionale della possibilità di una vita giusta al di là dell’illimitatezza del capitalismo e del libero mercato.

Insegnanti, giovani, artisti ed altri appartenenti ai settori culturali dovranno mettere a frutto un linguaggio critico e di speranza che possa permettere di affrontare le condizioni storiche, strutturali e ideologiche inerenti alla violenza utilizzata dagli Stati-impresa repressivi, e di evidenziare come il governo, sempre più subalterno alla sovranità del mercato globale, non è in grado di soddisfare i bisogni più essenziali dei giovani. Questa lotta sarà maggiormente difficile sul campo educativo, un campo sul quale dovrà essere edificato un lavoro organizzativo permanente per cambiare le coscienze e convincere i giovani che il capitalismo e la democrazia non sono la stessa cosa – ed infatti si trovano in conflitto nel maggiore dei casi – offrendo una nuova visione della democrazia, e creando la spinta ideologica e collettiva necessaria per edificare un’ampio movimento sociale che si muove al di là delle politiche monotematiche.

Il problema di a chi spetterà di ridefinire il futuro, del condividere il benessere della nazione, rimodellare i parametri dello stato sociale, controllare e proteggere le risorse globali, e creare una cultura formativa per produrre membri della società socialmente responsabili e impegnati, non è un problema retorico. Questa sfida offre la formazione di nuove categorie per ridefinire come gli ambiti rappresentativi, educativi, di giustizia economica e politica devono essere costruiti e difesi. Questo compito non è semplice, ma stiamo assistendo a come nelle città quali New York, Atene, Quebec, Parigi, Madrid e altri centri del mondo dove regnano enormi disuguaglianze, sia iniziata una lunga lotta per le istituzioni, i valori e le infrastrutture che sono alla base delle comunità e al centro di una forte democrazia radicale.

Viviamo in un’epoca nella quale è importante immaginare un futuro che non ripeta il presente. Vista l’urgenza dei problemi che stiamo affrontando – l’aumento di disuguaglianze economiche, la graduale sottrazione dei diritti civili, l’edificazione dello stato-penitenziario, il razzismo radicato, l’ampliamento dello Stato-sorveglianza, la minaccia della guerra nucleare, la devastazione ecologica e in particolare negli Stati Uniti, il collasso del governo democratico – penso sia sempre più importante prendere seriamente la sfida posta dalla frase di Jacques Derrida: «Dobbiamo fare e pensare l’impossibile. Se è solo il possibile a dover accadere, non accadrebbe più niente. Se mi limito a fare solo ciò che so già fare, non farei più niente».

Il mio amico Howard Zinn aveva ragione quando insistette che la speranza è la volontà «di mantenere, anche nel tempo del pessimismo, la possibilità della sorpresa». La storia è aperta, e lo spazio del possibile è più grande di quello che ci viene presentato.

Henry Giroux

Traduzione a cura di Steven Cenci.

Il testo inglese è reperibile a questo indirizzo: www.truth-out.org/news/item/33312-youth-in-authoritarian-times-challenging-neoliberalism-s-politics-of-disposability, ed è apparso sul sito TruthOut.


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Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica

Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica


Henry A. Giroux
 La Critical Pedagogy statunitense tra scuola e cultura popolare

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Arthur Schopenhauer (1788-1860) – Non solo la filosofia, ma anche le arti belle mirano a risolvere il problema dell’esistenza.

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Il mondo come volontà e rappresentazione

Il mondo come volontà e rappresentazione

«Non solo la filosofia, ma anche le arti belle mirano, in fondo, a risolvere il problema dell’esistenza. Infatti, in ogni spirito che arrivi al punto di abbandonarsi alla contemplazione puramente oggettiva del mondo, si è risvegliata, anche se nascosta e inconscia, un’ aspirazione ad afferrare la vera essenza delle cose, della vita e dell’esistenza […]. Perciò iI risultato di ogni concezione puramente oggettiva, e quindi anche estetica, delle cose è, per lo più, un’espressione dell’essenza della vita e dell’esistenza, è, per lo più, una risposta alla domanda: “Che cos’è la vita?”. A questa domanda ogni opera d’arte, autentica e riuscita, dà a modo suo la risposta perfettamente giusta».

Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, 1989, pp.1267-1268.

Arthur Schopenhauer ritratto da Ludwig Sigismund Ruhl (1815-1818)

Arthur Schopenhauer ritratto da Ludwig Sigismund Ruhl (1815-1818)

 


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Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.

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Gustav Klimt, L'albero della vita, 1905-1909)

Gustav Klimt, L’albero della vita, 1905-1909).

«La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione.

La Tristezza è il passaggio dell’uomo da una maggiore ad una minore perfezione.

Dico passaggio. Infatti la Letizia non è la perfezione stessa. Se infatti l’uomo nascesse con la perfezione alla quale perviene, ne sarebbe in possesso senza l’affetto della Letizia; cosa che appare più chiaramente dall’affetto della Tristezza che gli è contrario. Infatti nessuno può negare che la Tristezza consista nel passaggio ad una minor perfezione, ma non nella minor perfezione stessa, poiché l’uomo non può rattristarsi nella misura in cui è partecipe di una certa perfezione. Né possiamo dire che la Tristezza consista nella privazione di una perfezione maggiore; infatti la privazione non è nulla; invece l’affetto della Tristezza è un atto, il quale perciò non può essere altro che l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata».

Baruch Spinoza, Etica e Trattato teologico politico, 3, II-III, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, UTET, 1972, p. 248.

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B. Spinoza, Etica.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.

 


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Juan Goytisolo (1931-2017) – La letteraura è il territorio del dubbio. Il romanzo non serve a dare risposte ma a fare domande. La censura prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile.

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«La censura prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile, perché gli editori pensano che se un’opera non venderà più di duemila copie non vale la pena di pubblicarla. E con questo criterio si rischia di perdere metà della letteratura migliore». Juan Goytisolo

«La letteraura è il territorio del dubbio. Una volta tenni un corso su Le mille e una notte. Mi piace moltissimo quando Sherazad dice «si dice che…», «si narra che…», ma poi c’è una contraddizione in quel che si dice, in quel che si narra. È il territorio del dubbio. Io non credo nel Corano, né nella Bibbia, né nella Torah o nei Vangeli. Credo invece ne Le mille e una notte. Lì tutto è dubbioso. Il romanzo non serve a dare risposte ma a fare domande, perché il lettore si faccia delle domande nuove. Tutti danno risposte. Tutti i governi, tutti i partiti, tutti i sistemi danno risposte. La maggior parte false, però comunque si tratta di risposte. Invece bisogna fare domande».

«La mia vita è stata una emigrazione costante: dalla Spagna a Parigi, da Parigi agli Stati Uniti, dagli Stati Uniti all’interesse per il mondo arabo, per la Turchia, per il Marocco; interesse che in gran parte deriva dalla mia permanenza a Parigi, possiamo dire. Non lo so, uno non sa mai in anticipo quale sarà il suo destino. È il destino che va tracciando le cose. L’importanza dell’oralità, tutto ciò che ho scritto a partire da Don Julián… che ho incorniciato in Don Julián, in Juan sin tierra, in Makbara, e soprattutto in Las virtudes del pájaro solitario, ma anche in Telón de boca, è tutto scritto per essere letto a voce alta. È allo stesso tempo prosa e poesia. Niente a che vedere con la cosiddetta “prosa poetica”, che mi inorridisce, mi pare spaventosa. Invece è allo stesso tempo prosa e poesia: vuol dire che all’interno del testo è presente quella che si chiama oralità secondaria. Conta molto per me, tanto quanto la gestualità. Prendiamo degli esempi. Quando stavo preparando il saggio sull’Arciprete di Hita capii un episodio che nessuno aveva mai capito vedendo un narratore della piazza che raccontava qualcosa di simile, però facendo una serie di gesti. La gestualità è molto importante nell’oralità. Lo capì bene anche Diderot. In Jacques il fatalista di Diderot il lettore interviene sempre, interviene e dice: «Bene, e che hai fatto della storia?». Gli viene risposo: «Non aver fretta, lettore!». Ma alla fine la storia non viene raccontata. Il lettore interviene sempre in maniera molto creativa nel romanzo. Per me l’esperienza dell’oralità nella piazza fu molto importante. Capii come un episodio del Libro de buen amor acquistava significato vedendo e ascoltando uno dei migliori narratori, che poi morì. Tutto questo mi ha sempre suscitato molto interesse per le culture antiche. Ricordo di aver letto un saggio sui versi di Omero, un Omero che veniva letto a voce alta e il cui ritmo veniva adattato in base alla gente che stava ascoltando. Per esempio ci sono passaggi dei miei romanzi che sono scritti assolutamente in funzione della loro lettura a voce alta, con un ritmo molto preciso e marcato. La stessa cosa si ritrova in Carlo Emilio Gadda, per esempio. Purtroppo non padroneggio l’italiano. Una volta provai a leggere la Via Merulana, che è una meraviglia. È tradotto molto bene in spagnolo. Quando non capivo il testo in italiano ricorrevo alla traduzione spagnola. Chiaramente era un po’ difficile, non era come leggere un romanzo italiano normale. Per me Calvino, Gadda e Svevo sono i tre grandi italiani del secolo scorso».

Juan Goytisolo, Intervista a cura di Ferdinando Guadalupi, in “Zibaldoni e altre meraviglie”, 5-9-2013.


Scrittore e poeta spagnolo, che si ascrive alla corrente letteraria dei “nuova ola”.
Nato in una famiglia aristocratica, da giovane si avvicina al Partito Comunista. Il padre viene imprigionato e ucciso durante la Guerra Civile Spagnola, e la madre rimane vittima del primo raid aereo sulla Spagna nel 1938.
Il giovane Juan scrive il suo primo libro a 25 anni, a Parigi, dove lavora come “lettore” per Gallimard e conosce Guy Debord.
A causa del regime franchista infatti, è costretto ad espatriare; e vive in Francia per molti anni, dove approfondisce il tema dell’immigrazione e dell’Islam.  Si sposa con Monique Lange (anche lei scrittrice) e continua a risiedere in Francia, pur recandosi spesso a Marrakech per le sue ricerche.
Tra i suoi titoli più importanti in traduzione italiana ricordiamo Oltre il sipario (L’ancora del Mediterraneo, 2004), Le settimane del giardino (Einaudi, 2004), Paesaggi dopo la battaglia (Cargo, 2009), Esiliato di qua e di là. La vita postuma del Mostro del Sentier (Mimesis, 2014).
Juan Gotysolo vince il Premio Cervantes 2014.


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Pubblicato per la prima volta nel 1982, “Paesaggi dopo la battaglia” è considerato il capolavoro di Goytisolo, oltre a essere un romanzo incredibilmente attuale, tanto che l’autore ne ha ripreso il protagonista per il suo ultimo romanzo, appena uscito in Spagna. Lo scenario è Parigi, l’ambiente è il Sentier, quartiere a forte immigrazione; il protagonista è Charles, alias il Reverendo, alias “II mostro”, oscuro personaggio che ha tutti i tratti dell’antieroe: brutto, grassoccio, pederasta e misantropo, cerca relazioni tramite annunci pornografici sui giornali e, per il resto, si isola sistematicamente dal genere umano. I temi sono quelli attualissimi dell’immigrazione e della difficile convivenza di culture diverse. Che rappresentano anche, per Goytisolo, un punto di partenza per una dissacrante satira dei valori occidentali, una critica feroce che non risparmia niente e nessuno, dai movimenti rivoluzionari al terrorismo, alle ideologie politiche e religiose.


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Adam Schaff (1913-2006) – L’uomo, nella filogenesi e nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà. La lingua si è formata socialmente in base a una determinata prassi sociale. Il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza.

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«Sulle orme di Marx, diciamo che l’uomo, tanto nella filogenesi quanto nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà, e che perciò la conoscenza non è un «riflesso speculare», ma il modo attivo in cui l’uomo coglie la realtà oggettiva. La conoscenza mette dunque in moto la prassi umana in tutte le sue forme ed è in un certo senso una proiezione dell’uomo». A. Schaff

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«L’esame del rapporto linguaggio-pensiero ci ha condotto alle seguenti conclusioni: parlare è sempre pensare nel senso che i significati verbali hanno sempre la forma dei concetti o delle rappresentazioni che li accompagnano: il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza». A. Schaff

 

 

 

 

«[…] in Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità». A. Schaff

 

[…] Sulle orme di Marx, diciamo che l’uomo, tanto nella filogenesi quanto nell’ontogenesi, conosce agendo, trasformando la realtà, e che perciò la conoscenza non è un «riflesso speculare», ma il modo attivo in cui l’uomo coglie la realtà oggettiva. La conoscenza mette dunque in moto la prassi umana in tutte le sue forme ed è in un certo senso una proiezione dell’uomo. Ciò significa che il modo in cui l’uomo si appropria della realtà oggettiva – dalla sua articolazione nella percezione sensibile fino alla comprensione concettuale del fatto che essa si sviluppa secondo leggi determinate – non dipende soltanto dal modo d’essere della realtà, ma anche dal modo d’essere dell’uomo che conosce. Infatti che cosa e come l’uomo percepisce e conosce dipende dal tipo di prassi, accumulata nella filogenesi e nell’ontogenesi, di cui egli dispone, oltre che dal bagaglio di cognizioni ed esperienze con cui si accosta al processo conoscitivo. Così, una stessa realtà può essere e di fatto viene percepita in modo diverso da uomini diversi. Per tale via irrompe nel processo conoscitivo la grande corrente della soggettività, quel fattore cioè che attribuisce alla conoscenza le caratteristiche individuali del soggetto.
Dopo aver introdotto con la prassi un elemento di soggettività nel processo gnoseologico, dobbiamo ora cercare di intendere in modo concreto la categoria generale di «fattore soggettivo»: a tal fine mettiamo in risalto l’influsso della lingua sulla conosoenza o, in altre parole, il suo influsso sul rispecchiamento della realtà nello spirito umano.
Nel parlare dell’azione esplicata dalla prassi umana nella conoscenza, abbiamo sottolineato con energia che si tratta di una prassi accumulata dall’uomo sia nell’ontogenesi che nella filogenesi, che non si tratta soltanto, e neppure principalmente, delle trasformazioni della realtà operate dal singolo individuo ed entrate a far parte della sua esperienza personale, ma soprattutto della prassi sociale, i cui prodotti vengono in vario modo trasmessi ai componenti della società. Tra questi prodotti il primo posto spetta alla lingua, che per mezzo soprattutto dell’educazione trasmette il bagaglio di esperienze della società ai singoli individui del presente e dell’avvenire. Torniamo di nuovo al problema della lingua, intesa come prodotto della prassi sociale.
Come abbiamo visto, l’uomo pensa sempre in una lingua: in tal senso il suo pensiero è sempre linguistico, e la sua lingua è sempre una struttura segnica e semantica, una lingua che nello stesso tempo è pensiero. Come abbiamo già rilevato, il pensiero, in quanto ha la funzione di risolvere problemi, racchiude anche in sé elementi del modo prelinguistico di orientarsi nel reale, la percezione sensibile e i meccanismi che le sono connessi; senonché, nella fase del pensiero linguistico, tutti quei momenti assumono una funzione subordinata. Il modo di pensare di un uomo dipende soprattutto dall’esperienza sociale filogenetica, contenuta nelle categorie linguistiche trasmessegli dalla società nel processo dell’educazione. Da questo punto di vista è giusta l’affermazione di Humboldt che l’uomo pensa come parla. Impostando in modo un po’ diverso il problema, possiamo dire che l’individuo singolo guarda e sintetizza nel pensiero il mondo attraverso «lenti sociali»: «sociali» tanto nel senso degli influssi attuali quanto nel senso dell’influsso esercitato dalle esperienze accumulate dalle generazioni precedenti.
Ma questo è solo un aspetto della funzione della lingua nel processo di rispecchiamento della realtà da parte dell’intelletto conoscente. Bisogna avere ben chiaro che la lingua stessa è a sua volta il prodotto di tale rispecchiamento, il prodotto della prassi sociale nel senso più ampio del termine. E pertanto anche la seconda parte della tesi di Humboldt – che l’uomo non solo pensa come parla, ma anche parla come pensa – si dimostra vera. Soltanto quando ci siamo resi conto del senso di quest’integrazione, riusciamo ad avere un quadro completo del problema e a comprendere la dialettica delle sue relazioni interne. Perveniamo a una nuova impostazione del problema del rispecchiamento e, di conseguenza, della questione del ruolo attivo della lingua nella conoscenza.
Quando parliamo dell’influsso della lingua sul rispecchiamento della realtà nello spirito umano, in fondo trattiamo la lingua come un sistema compiuto di segni. Ma questo sistema, tanto essenziale per la nostra conoscenza, è a sua volta un prodotto di carattere nettamente sociale. Spesso, per mettere in rilievo l’influsso della lingua sulla conoscenza, si parla ad esempio del gran numero di nomi esistenti presso certi popoli per designare determinati aspetti della realtà per loro particolarmente importanti: si pensi alla varietà di nomi usati dagli esquimesi per definire la neve in rapporto ai suoi vari stati; o alla ricchezza di nomi usati dai popoli del deserto per le varie sfumature del marrone e del giallo; o al gran numero di nomi di pesci fra i popoli marinari, di piante fra quelli delle steppe, ecc. Ma proprio quest’esempio conferma in maniera evidentissima che la lingua si forma nella prassi sociale degli uomini. È chiara la ragione per cui gli esquimesi hanno tanti nomi per la neve e gli abitanti del deserto per le varie sfumature del giallo, ed è chiaro perché non si verifica il caso contrario. Gli uomini parlano come impone loro la vita, la prassi. Il fenomeno non riguarda, del resto, solo i nomi degli oggetti, ma anche i termini che indicano attività e forse persino la designazione dei rapporti di tempo e di spazio. Secondo l’ipotesi marxista è possibile dimostrare l’influsso della prassi sociale su intere configurazioni linguistiche e sul loro sviluppo, sulla sintassi e sulla morfologia.
Una cosa è comunque indubbia: il sistema linguistico condiziona in qualche modo la nostra visione del mondo. Se abbiamo non uno ma trenta termini per designare la neve, questo fatto non rivela soltanto una particolare ricchezza lessicale, ma anche la nostra capacità di percepire la neve in modo molto differenziato. È stato, del resto, dimostrato che non siamo noi a creare arbitrariamente le diverse specie di neve, le quali sono invece oggettivamente presenti nella natura; solo che, in precedenza, le trascuravamo, concentrando il nostro interesse sulle caratteristiche comuni a tutte le specie di neve, sulla consistenza, sul colore, sulla temperatura. Che una comunità abbia cominciato a tener conto delle differenze nel suo lessico non è il frutto d’una scelta convenzionale, ma un’imposizione della prassi: la differenziazione è diventata per i componenti di questa comunità una questione di vita o di morte; sulla base di tale prassi si e sviluppata storicamente la loro lingua, nella cui genesi non vi è dunque niente di misterioso o di speculativo. Altra cosa è che l’esperienza sociale fissata nella lingua domini in seguito inevitabilmente lo spirito di una determinata comunità umana. Gli esquimesi vedono trenta specie di neve, e non la neve «in genere», non perché lo vogliano, non perché l’abbiano concordato insieme, ma perché non possono più percepire la realtà in modo diverso.

[…]

Grande è la forza con cui la filogenesi opera sull’ontogenesi, l’esperienza di generazioni scomparse da lungo tempo sulla nostra esperienza individuale. Ciò che la lingua, che è nello stesso tempo pensiero, distingue nella realtà esiste oggettivamente, ma l’immagine del mondo può considerare questo qualcosa in varia maniera oppure può non tenerne conto affatto: in questo senso moderato la lingua «crea» per davvero l’immagine della realtà.

[…] Nonostante tutte le differenze ambientali, climatiche, culturali, le società umane sono legate tra loro da comuni destini biologici, e inoltre la prassi si riferisce sempre a una realtà oggettiva che è analoga, pur se non è la stessa. Nella lingua, insieme con le differenze, si conservano quindi anche le affinità, e in tal senso si può supporre che gli studi intrapresi di recente sui cosiddetti «universali linguistici» saranno coronati da successo. I sistemi linguistici non sono sistemi chiusi, ossia tali da non avere alcun elemento in comune, da essere impenetrabili e quindi anche intraducibili. Sotto il profilo filosofico è interessante domandarsi se destini biologici radicalmente diversi di esseri pensanti – ammesso che tali esseri esistano su qualche pianeta – renderebbero del tutto intraducibili i relativi linguaggi, nel caso in cui questi linguaggi fossero un rispecchiamento determinato della realtà, essendo pensieri fondati sul principio del riflesso elettromagnetico o pensieri realizzati mediante i raggi Rontgen. Gli ottimisti, che sono già all’opera nella costruzione dei relativi linguaggi, asseriscono che tutti gli esseri intelligenti hanno in comune i rapporti numerici. Quest’affascinante problema, che arricchirebbe di nuovi elementi il dibattito odierno sul linguaggio, potrà essere tuttavia risolto empiricamente solo in avvenire, quando l’uomo potrà entrare di fatto in rapporto con esseri intelligenti di altri pianeti.
Se tiriamo le somme della nostra analisi, possiamo dire che la teoria del rispecchiamento è caratterizzata dall’interazione del lato oggettivo e di quello soggettivo nel processo gnoseologico. La conoscenza umana deriva sempre da qualche cosa che esiste oggettivamente e si pone di fronte all’intelletto conoscente. Il processo di rispecchiamento è però anche soggettivo, in quanto si produce nel soggetto dato, i cui tratti individuali (carattere dell’apparato percettivo, grado di cultura, ecc.) determinano le peculiarità del rispecchiamento. Esso è inoltre soggettivo perché si compie in una lingua data, che è al tempo stesso pensiero, perché le sue caratteristiche, dipendenti anch’esse dall’esperienza sociale, esplicano un influsso determinato sul carattere del rispecchiamento. Come la verità acquisita mediante la conoscenza, anche il rispecchiamento è oggettivo-soggettivo. Solo se ci rendiamo conto di questo fatto, siamo in condizione di comprendere la tesi propria del marxismo circa il carattere processuale della conoscenza e della verità. Nei processi di rispecchiamento della realtà nello spirito umano dobbiamo quindi analizzare la funzione del fattore soggettivo e, in special modo, l’influsso esplicato dalla lingua. In tal modo potremo impostare su una nuova base i problemi della sociologia della scienza e vedere con occhio nuovo la questione della funzione attiva della lingua nel processo gnoseologico.

[…]

Per concludere, ritorniamo sulla questione posta all’inizio. «E la lingua a creare l’immagine della realtà?»: la risposta non può che essere decisamente negativa nel quadro del sistema da noi accettato. «La lingua crea la realtà o è invece il rispecchiamento della realtà oggettiva?»: anche qui la risposta non può che essere negativa. Dall’intero corso della nostra analisi risulta che la lingua non crea in senso letterale l’immagine della realtà e non è neanche, sempre in senso letterale, il rispecchiamento di tale realtà. Si tratta di un rispecchiamento che ha sempre un lato di soggettività, il quale dunque «crea» (nel senso moderato del termine) l’immagine della realtà. Il rispecchiamento della realtà oggettiva e la creazione soggettiva della sua immagine nel processo conoscitivo si integrano tra loro e formano un tutto. Questa visione è adeguata al carattere soggettivo-oggettivo del processo gnoseologico e costituisce un buon punto d’avvio per l’esame della funzione attiva del linguaggio in tale processo.
L’esame del rapporto linguaggio-pensiero ci ha condotto alle seguenti conclusioni: parlare è sempre pensare nel senso che i significati verbali hanno sempre la forma dei concetti o delle rappresentazioni che li accompagnano: il linguaggio, in quanto struttura astratta di pensiero, è ex definitione pensiero in potenza, perché il segno linguistico significa ex definitione. Il linguaggio è pertanto un linguaggio che è al tempo stesso pensiero. Il pensiero, o meglio il pensiero umano (e non la capacità umana di orientarsi nel mondo, di cui dispone il neonato e anche l’adulto in condizioni patologiche), si realizza sempre per parte sua in un linguaggio dato, perché il pensiero concettuale non può esistere senza i segni della lingua fonetica o una sua trascrizione in altra forma. Da ciò non segue tuttavia che il pensiero umano sia riducibile ai soli concetti, che sono sempre connessi col segno linguistico: nel pensiero umano è infatti presente, a livello sia genetico che attuale, un complesso di immagini che, pur dipendendo sempre in varie forme dal linguaggio, non si identifica tuttavia con esso. Il rapporto pensiero-linguaggio ha quindi un carattere complesso, e i due elementi, benché siano indissolubilmente connessi, non possono essere identificati. L’affermazione secondo cui il pensiero umano è indissolubilmente legato al linguaggio non ha carattere analitico.
Su questa base la tesi della funzione attiva del linguaggio nel processo conoscitivo può assumere quanto meno tre sensi.

  1. a) Nel primo senso diciamo che senza linguaggio, come sistema segnico determinato (cioè come sistema di norme grammaticali e semantiche, senza di cui non si potrebbe parlare di un sistema di segni linguistici), il pensiero concettuale sarebbe imposs1bile. In altri termini, possiamo affermare che i sistemi segnici detti linguaggi sono portatori del pensiero concettuale. La nostra tesi può essere quindi ricondotta alla constatazione fondamentale che la presenza del linguaggio è conditio sine qua non del pensiero concettuale. Che cosa ciò significhi possono spiegarlo la fisiologia, la psicologia, la linguistica, ecc.
  2. b) Il senso essenziale, specifico della tesi del ruolo attivo del linguaggio nel processo conoscitivo è però un altro. Noi riscontriamo infatti che il linguaggio, in quanto prodotto di tipo particolare, costituisce la piattaforma sociale del pensiero individuale. Il linguaggio è innato nell’individuo umano normale solo in quanto facoltà di imparare a parlare. Ciò è connesso alla struttura ereditaria del cervello, dell’apparato vocale, ecc. Ma il linguaggio come tale non è innato e non si sviluppa senza l’intervento della mediazione linguistico-sociale. Ora, poiché il pensiero concettuale è impossibile senza il linguaggio, l’uomo nel processo della sua educazione sociale non impara soltanto a parlare, ma anche a pensare. Egli apprende, accogliendo dalla società una struttura compiuta, il linguaggio, che è contemporaneamente pensiero, come esperienza fissata nelle categorie del linguaggio e accumulata nella filogenesi, come ciò che la società sa del mondo. Ebbene, questa cristallizzazione dell’esperienza sociale è il punto di partenza e la piattaforma di ogni pensiero individuale, una piattaforma che la società trasmette all’individuo in un modo imperativo, che sfugge al controllo dell’individuo e che in genere non viene da lui percepito, tranne i rari casi di un’autoriflessione particolarmente penetrante. Il pensiero individuale è creativo e si rinnova continuamente: non sarebbe altrimenti possibile il progresso della scienza e della cultura. Ma l’individuo singolo raramente è in condizione di riconoscere – e raramente è incline a farlo – che sta guardando il mondo con gli occhi delle generazioni precedenti, che, con tutte le sue novità, si situa su un terreno ben delimitato, da cui nessuno può staccarsi del tutto, se non di rado e in piccola misura.

Il linguaggio, in quanto punto d’avvio del pensiero individuale, è l’elemento mediatore tra il dato sociale, tramandato, e quello individuale, creativo, nel pensiero umano. E ciò vale non soltanto nel senso che esso trasmette ai singoli uomini l’esperienza e il sapere delle generazioni passate, ma anche nel senso che avoca a sé incondizionatamente i nuovi risultati del pensiero individuale, per trasmetterli, già sotto forma di prodotto sociale, alle generazioni future.
Così il linguaggio si trasforma, nel processo del pensiero umano, in un fattore creativo. In tale processo esso funziona come trasmissione sociale della filogenesi, che si attualizza nell’ontogenesi dell’individuo umano. Il contenuto della trasmissione non è arbitrario, poiché nelle esperienze delle generazioni precedenti è racchiusa una somma di cognizioni oggettive sul mondo, senza le quali l’uomo non potrebbe adattarsi al suo ambiente, agire in modo adeguato ad esso e continuare a esistere come specie. Imparando a parlare, e contemporaneamente a pensare, ci appropriamo con relativa facilità il retaggio spirituale che ci è stato tramandato, non dobbiamo scoprire ogni volta l’America (con il che sarebbe esclusa ogni possibilità di progresso intellettuale e culturale). Ma anche questo retaggio agisce potentemente, in modo dispotico, sulla nostra visione del mondo, a partire dall’articolazione di esso nella percezione sensoriale fino alla coloritura emozionale del nostro pensiero conoscente. Ripetiamolo, per precauzione, ancora una volta: non è questo l’unico fattore da cui sia determinato il pensiero, e tuttavia è un fattore di enorme importanza e di grandissima efficacia.
Quando parliamo di un senso specifico della funzione attiva del linguaggio nel processo del pensiero, intendiamo dire che il linguaggio socialmente trasmesso all’individuo umano crea il fondamento indispensabile per il suo pensiero: il fondamento che collega l’individuo con gli altri componenti della comunità linguistica e su cui si svolge l’attività spirituale creativa dell’individuo stesso. Se si accantona il misticismo dello «spirito nazionale», dell’«energia vitale nazionale», ecc., concetti che vengono spesso messi in campo quando si spiega questo fenomeno, si riscoprono in quanto si è appena detto alcune idee che percorrono come un filo rosso le scienze morali europee a partire da Herder e Humboldt. In ciò che abbiamo detto sinora è racchiuso infatti il nucleo razionale della tesi secondo cui il linguaggio è l’elemento mediatore tra l’individuo umano e il mondo degli oggetti, nonché della tesi secondo cui ogni lingua contiene una data «visione del mondo », uno schema o struttura del modo di vedere il mondo delle cose. Liberate dal misticismo, queste concezioni forniscono indicazioni geniali sul ruolo del fattore soggettivo nel pensiero umano.

  1. c) Su questo sfondo il terzo senso della tesi che stiamo analizzando assume contorni più precisi. Si tratta, per così dire, di una modificazione o di un caso particolare del secondo senso, ma, in considerazione della sua portata, si rende tuttavia indispensabile una sua analisi specifica. Il linguaggio non è soltanto il punto d’avvio e la piattaforma del pensiero individuale, in quanto agisce anche allivello a cui questo pensiero può giungere nell’astrazione e nella generalizzazione.

E ben noto che lingue si differenziano tra loro non soltanto per la fonetica, la morfologia, la sintassi, il lessico, ma anche per la qualità di questo lessico, per il suo carattere di rispecchiamento più o meno generalizzato del mondo. Se ci domandiamo quale lingua abbia raggiunto un alto grado di sviluppo e quale invece sia ancora primitiva, non ci è facile dare una risposta, perché una valutazione di questo genere presuppone sempre un punto di riferimento, che cambia a seconda del sistema scelto. È tuttavia indubbio che le lingue possono essere distinte tra loro a seconda del carattere dei nomi di cui dispongono e che alcune di esse mancano di designazioni più generali, che sono sostituite da serie di nomi concreti. Anche la sintassi, com’è noto, può operare in questa direzione, agevolando o intralciando il discorso su determinate cose, attività, ecc. Si manifesta qui l’influsso attivo della lingua sul pensiero, ma di tale influsso si può avere una comprensione effettiva solo quando si sappia che geneticamente il pensiero e il linguaggio sono un prodotto della prassi umana.
Una nuova problematica si apre quando dalla considerazione del pensiero in generale si passi a quella della conoscenza, cioè di un pensiero qualificato in modo specifico. Per conoscenza intendiamo qui un processo di pensiero e il suo prodotto, ossia la descrizione della realtà, e per descrizione della realtà intendiamo un’informazione non solo sui fatti singoli, ma anche sui loro molteplici nessi, tra cui sono da annoverare anche i rapporti nomici coesistenti e dinamici. Il problema della funzione attiva del linguaggio si situa nel punto focale nel momento stesso in cui viene messo in relazione con la conoscenza.
Il processo conoscitivo è legato indissolubilmente e in vari modi con la prassi. Il cammino della conoscenza comincia dalla prassi o, più esattamente, dai bisogni pratici e dalla necessità di conoscenza che ne scaturisce. Spesso si rintraccia in questo campo un legame immediato, ma perfino nei settori più astratti e automatizzati della ricerca scientifica si può dimostrare l’esistenza di un legame genetico, quanto meno indiretto, con la prassi. È evidente che per questa via stabiliamo non solo in che modo si generi la conoscenza, ma anche quale sia il suo scopo: la conoscenza serve – direttamente o indirettamente – alla prassi umana, anche se alcuni pensa tori non sempre se ne rendono chiaramente conto e addirittura rifiutano una simile possibilità. Tuttavia, in questa sede c’interessa un altro tipo di collegamento tra la conoscenza e la prassi, un collegamento che è il più occulto proprio perché è il più diffuso, il collegamento che si realizza tramite il linguaggio.
Torniamo così di nuovo all’idea che proprio nella lingua sono racchiuse e conservate l’esperienza e il sapere delle generazioni passate: ovviamente nella lingua, in quanto è al contempo pensiero, in quanto sistema dei veicoli materiali di determinati significati, ossia in quanto sistema di norme grammaticali e semantiche che collegano a determinati suoni o ad altri veicoli materiali significati determinati. In tal senso la lingua è, per così dire, una prassi condensata, che per questa via semplice e suggestiva penetra nella nostra conoscenza attuale.
La lingua influenza anzitutto il modo in cui percepiamo la realtà. Come risulta da quanto abbiamo detto sopra, oggi esistono molti dati sperimentali a sostegno della tesi secondo cui il nostro modo di percepire la realtà è soggetto all’influsso innegabile della lingua in cui pensiamo. Questo significa soltanto che la lingua, che è una particolare forma di rispecchiamento della realtà, è a sua volta la creatrice della nostra immagine del mondo: e lo è nel senso che il nostro articolare il mondo, perlomeno fino a un certo grado, è una funzione non soltanto dell’esperienza individuale, ma anche di quella sociale, trasmessa all’individuo mediante l’educazione e soprattutto mediante la lingua. La questione è però più complicata di quanto non sembri, perché l’esperienza cosiddetta individuale è in effetti ordinata secondo schemi e strutture di origine sociale. Formulando il problema in questo modo, rendiamo pertanto ragione dell’influsso della lingua sulla percezione sensibile, senza cadere tuttavia negli estremi opposti del soggettivismo del realismo ingenuo. Se, come si è detto, l’esquimese vede molte specie di neve, mentre il nostro montanaro ne vede soltanto alcune e l’abitante dei paesi meridionali uno solo, ciò non significa che ognuno di essi si crei un’immagine soggettiva del mondo, ma semplicemente che egli opera un’articolazione diversa del mondo oggettivo, basata sulla prassi sociale e individuale. È però vero che l’esquimese percepisce il mondo in modo diverso e più concreto dell’abitante dei tropici. Lo fa, tra l’altro, sotto l’influsso della lingua che gli è stata insegnata e che lo costringe a un’articolazione così complicata, mettendo a sua disposizione, invece di un nome unico, generale, tutta una serie di nomi concreti per vari tipi di neve. La nostra affermazione dev’essere certo precisata accuratamente con argomenti contrari al soggettivismo, ma la funzione attiva della lingua nel processo della conoscenza emerge qui in modo chiaro e convincente.
Una situazione analoga si ha per ciò che concerne la sintassi. È noto, per esempio, che nelle lingue di alcune tribù indiane d’America non si può dire genericamente che uno viaggia, uccide selvaggina, ecc., perché bisogna caratterizzare più concretamente l’espressione, ad esempio con complementi di tempo, luogo, modo, ecc. Com’è evidente, qui non si tratta solo del tipo di espressione, ma anche del modo di percezione della realtà, inscindibilmente connesso col modo in cui se ne parla. Poiché il nostro indiano d’America pensa in una data lingua, che, attraverso le sue norme grammaticali, lo costringe a osservare la realtà in modo da rilevare in essa una serie di particolarità concrete, che per solito rimangono inavvertite per chi faccia parte di una comunità linguistica europea, egli non solo parla, ma anche percepisce in modo diverso.
In questo non c’è tuttavia niente di misterioso o di arbitrario. La lingua si è infatti formata socialmente in base a una determinata prassi sociale. Essa è il rispecchiamento di una data situazione di fatto e insieme la risposta alle necessità pratiche derivanti da tale situazione. Una volta che si sia formata, la lingua esercita il suo influsso sulla conoscenza umana, svolgendovi una funzione attiva.

Adam Schaff, Linguaggio e conoscenza, Editori Riuniti, 1973, pp. 160-173.

 


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