Sergio Rinaldelli – Vento di sogni. Note di pittura (1976-2018). Una conoscenza che si alimenta in un divenire ciclico nel quale si realizza la pienezza dell’espressione.

Rinaldelli, Vento di sogni

Sergio Rinaldelli,

Vento di sogni. Note di pittura (1976-2018).

ISBN 978-88-7588-170-2, 2020, pp. 120, Euro 10.

In copertina: Sergio Rinaldelli, Vento di sogni sulla parete antica, 2005, olio su faesite, 70×80.

La riflessione è un complemento importante del mio lavoro; da sempre ho l’abitudine di annotare – quasi una sorta di ‘diario di lavoro’ – pensieri e sensazioni che accompagnano la genesi dei quadri, con esiti d’importanza variabili in relazione all’esperienza maturata nel corso del tempo, ma comunque essenziali per la genesi di un percorso. Pensieri e sensazioni talvolta immagini essi stessi, ma sempre utile strumento di verifica, di conoscenza che si alimenta di se stessa in un divenire ciclico nel quale si realizza la pienezza dell’espressione.

Ricollegandomi idealmente alla precedente pubblicazione, Come una foglia a primavera, nella quale le note di pittura erano parte del tessuto narrativo generale, i testi raccolti nel presente volume rappresentano un itinerario specifico nell’insieme delle riflessioni riguardanti la mia pratica pittorica.

Itinerario che, partendo dal bizantinismo della figurazione degli anni ’70, snodandosi attraverso stilemi gotico-quattrocenteschi e simbolisti negli anni ’80 per uno sguardo personale sul mito greco delle origini in chiave junghiana, approda al progressivo superamento della figurazione, che ancora all’inizio degli anni ’90 vede una breve, quanto intensa immersione nelle atmosfere oniriche di una Venezia della mente e del cuore, tra suggestioni alchemiche e orientali che si risolvono, verso la metà degli stessi anni, in senso luministico e decisamente esoterico.

Successivamente l’attenzione si concentra sui soli elementi naturalistici, espressi secondo una disposizione spaziale che prelude all’astrazione simbolica degli anni 2000 e costituisce l’essenza del linguaggio attuale.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Paul-Ludwig Landsberg (1901-1944) – In Heidegger il “con-essere” è e rimane una categoria estremamente formale. La sua filosofia non contiene l’amore.

paul ludwig landsberg - Martin Heidegger

È stato pubblicato il prezioso piccolo libro sulla morte di Landsberg, volume di apertura di una nuova collana della casa editrice trentina «Il Margine», “Piccola biblioteca”. Il testo, ritenuto da molti il più intenso lavoro filosofico sulla morte uscito nel Novecento, ha conosciuto una storia travagliata legata alle vicende drammatiche della biografia dell’autore in fuga dalla persecuzione nazista (uscirà nel ’35 in spagnolo, nel ’36 in francese e – finalmente – nel ’37; su quest’ultima versione si basa la traduzione a cura di Fabio Olivetti). Paul-Ludwig Landsberg, filosofo tedesco di origine ebraica approdato al cattolicesimo ed esponente di punta del personalismo francese (Mounier lo riteneva l’intellettuale più brillante del circolo di “Esprit”), nasce a Bonn nel 1901 e muore nel campo di sterminio nazista di Sachsenhausen nel 1944. Allievo di Scheler e di Husserl, Landsberg era destinato ad una brillante carriera accademica stroncata dall’avvento del nazismo. Nel ’33 gli viene negata la possibilità di continuare a insegnare all’Università di Bonn dove aveva una cattedra dal ’28; riparò a Barcellona e poi a Parigi. Di lui rimangono molte opere, ora sistematiche ora frammentarie, ma certamente quella sulla morte è la più celebre e tradotta.

In essa si cerca di superare le tesi del maestro Scheler e di replicare ad Heidegger.

Tutto, nella visione di Landsberg, ruota intorno al concetto di “esperienza della morte”. Non è vero, come sosteneva Epicuro, che la morte è al di fuori del nostro esperire, che finché viviamo essa per noi non esiste. Per Landsberg, sulla scia di Agostino, è la morte dell’altro cui sono relazionato, il momento davvero rivelatore della mia stessa morte. Il cuore della sua tanatologia è una filosofia dialogica della morte. A monte vi è la sua concezione di persona: l’uomo non è una monade isolata, ma si attua solo nella sua relazione con l’altro, nella rete di rapporti vitali entro una comunità. In connessione con una profonda filosofia dell’amore: «L’amore è l’esperienza di una realtà fondamentale: Io e Tu, diversi, legati nella differenza e diversi nel legame». Landsberg applica la metodica dialogica all’evento in apparenza radicalmente antidialogico: la morte. In realtà la morte dell’altro è sempre ed essenzialmente anche la mia morte poiché determina una lacerazione in radice dell’originaria realtà spirituale costitutiva del mio Io nella sua relazione con un Tu. Relazione non accidentale per l’Io ma ontologicamente auto-costituente.

Landsberg rileva in Heidegger un limite insuperabile: «In lui il con-essere è e rimane una categoria estremamente formale. La sua filosofia non contiene l’amore». Il silenzio dell’altro che si è consegnato alla morte evoca e anticipa l’orrore dell’analogo silenzio mortale che io consegnerò a chi mi è prossima. La desolazione che io provo nel suo inaccettabile abbandonarmi nella morte anticipa anche il mio sempre possibile «non-esser più risposta» alle parole che l’altro mi rivolgerà, il mio futuro silenzio mortale. Diversamente da Heidegger, è questa la vera “anticipazione” della morte. In un passaggio fulminante Landsberg illumina questa nuova prospettiva: «Una chiara coscienza della necessità della morte si desta solo attraverso la partecipazione e attraverso l’amore personale in cui questa esperienza era completamente immersa. Noi abbiamo stretto un patto con colui che muore, abbiamo costituito un noi con il morente. In questo noi, tramite la forza di questo nuovo essere d’ordine personale, siamo condotti alla conoscenza vissuta del nostro proprio dover morre . Seguiamo il “noi” che spezza, vivendo tale spezzarsi fino agli estremi confini dell’aldilà; sì, per un istante approdiamo al paese della morte e siamo investiti proprio dall’atmosfera che da lì proviene, entriamo nell’estremo estraniamento che subito porta via la persona amata dal mondo conosciuto del rapporto con noi. Subito dopo siamo già rientrati dal regno delle tenebre. Ma in quell’istante il gran freddo non ci ha forse colpiti? Siamo ancora gli stessi? Potremo essere ancora gli stessi dopo averlo provato?».

 

Silvano Zucal, Landsberg, l’anti Heidegger. Recensione al libro di Paul-Ludwig Landsberg, L’esperienza della morte, Il Margine, Trento 2011, recensione pubblicata su Avvenire, 21-05-2011, p. 29.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Madame de Staël (1766-1817) – Non c’è nulla di più dolente che l’istante che succede all’emozione; il vuoto ch’essa lascia dietro di sé è sofferenza più grande ancora che la privazione stessa dell’oggetto la cui attesa vi teneva in tensione.

Madame de Staël 01
Manuscrits déguisés. Dix années d’exil, Portaparole, 2017

«Non c’è nulla di più dolente che l’istante che succede all’emozione; il vuoto ch’essa lascia dietro di sé è sofferenza più grande ancora che la privazione stessa dell’oggetto la cui attesa vi teneva in tensione».

Madame de Staël (Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein, meglio nota con il nome di Madame de Staël), Manuscrits déguisés. Dix années d’exil, Portaparole, 2017.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Koinè – Il nostro invito augurale: A COSA SIAMO CHIAMATI ? La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Koinè - Resistenza culturale - Fiorillo Carmine

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Il nostro invito augurale:
A COSA SIAMO CHIAMATI ?

L’alternativa del futuro è  quella tra una società diventata libera comunità senza capitalismo, e una società capitalistica senza più alcuna comunità.

Il valore della libera comunità è il principio costitutivo della verità delle cose umane e del giudizio morale su di esse.

L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore. Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale.
Se si ha capacità di amare e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?

La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.

Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:

– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;

– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;

– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;

– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;

– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani, guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

 

La contraddizione
Amici
Amore
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Roberto Andreotti – Esiste un altro modello di rappresentazione nel quale la memoria è concepita come corredo funzionale in grado di interferire nel profondo con il nostro vissuto, con il nostro modo di concepire e organizzare il mondo hic et nunc.

Roberto Andreotti 01

«Esiste un altro modello di rappresentazione, assai più articolato e prospettico, nel quale la memoria è concepita come corredo funzionale in grado di interferire nel profondo con il nostro vissuto, con il nostro modo di concepire e organizzare il mondo hic et nunc. In questa seconda cornice gli antichi paiono balzare fuori dalla vetrina delle cose morte e sepolte per diventare di fatto nostri contemporanei. Saperi, testi, immagini, istituti, comportamenti – ma anche il lunghissimo dossier delle loro edizioni, cioè delle loro successive interpretazioni – configurano una sorta di codice antropologico, la cui formulazione non è mai definitiva e il cui significato dipende anche dal modo in cui esso viene riorganizzato, interattivamente, all’interno delle reti contemporanee: codice aperto, quasi in divenire. (Resta esemplare, in questo senso, l’insegnamento di Eric R. Dodds, la cui ricerca dell’«irrazionale greco», alla fine degli anni Quaranta, nacque sotto la spinta di una forte motivazione contemporanea: un approccio che definiremmo appunto antropologico, non necessariamente paradigmatico, o agonistico – come anni dopo ricorderà anche l’allievo Bernard Williams, opponendosi con tutte le sue forze al luogo comune dei greci come stadio primitivo dell’evoluzionismo occidentale.)».

Roberto Andreotti, Ritorni di Fiamma. Augusto, Virgilio, Ovidio e altri classici, Rizzoli, 2009.

Roberto Andreotti

Nato a La Spezia nel 1959, vive e lavora a Roma. Studioso di letteratura latina e greca, è stato allievo di Maurizio Bettini. È uno degli editor di “Alias”, il supplemento culturale de “Il manifesto”.  Ha scritto Classici elettrici. Da Omero al tardo-antico (Rizzoli 2006), Resistenza del classico (BUR Rizzoli 2009) e Ritorni di fiamma. Augusto, Virgilio, Ovidio e altri classici (BUR Rizzoli 2009).

Classici elettrici. Da Omero al tardoantico, Rizzoli, 2006
Almanacco Bur 2010. Resistenza del classico, Rizzoli, 2009

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Homo consumens– Libertà astratta
Salvatore Bravo
Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens

La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

A. Gramsci

La parola libertà è tra le parole il cui significato è maggiormente inflazionato. Alla parola libertà si associano azioni e comportamenti astratti. O meglio, la libertà è astratta poiché nell’opinione generale essere liberi significa non avere vincoli sociali, non avere vincoli con se stessi, non avere un destino, ma solo attività desideranti. Il limite è vissuto come l’antitesi alla propria libertà individuale. Il diritto a tutto è la chiave di lettura della libertà del liberismo attuale. Libertà da. La libertà è così una corsa verso la disintegrazione di sé, degli altri: si ascoltano i propri desideri, li si concretizza a prescindere dalle loro conseguenze e dalla loro qualità. Libertà diviene cecità dinanzi a se stessi ed agli altri. La libertà astratta coincide con la negazione di sé, della storia, della razionalità. Libertà diviene immediatezza della soddisfazione, un gioco in cui emozionarsi senza conoscersi e conoscere. La razionalità è così negata, per diventare calcolo veloce, algoritmo per la soddisfazione immediata.

Libertà senza congedo
La libertà, vessillo dell’Occidente consumistico, è la malinconia dell’usura di se stessi e dell’altrui presenza. Il liberismo – nell’attuale fase – deve inneggiare alla libertà da ogni vincolo non solo per chiare cause ideologiche dietro cui si celano lapalissiane ragioni economiche, ma specialmente deve nascondere la verità della libertà liberista, il nichilismo che divora l’occidente, cannibalizza le persone, le istituzioni, la storia concreta di ogni identità nazionale. La libertà da ogni limite diviene azione nel nulla e per il nulla, poiché l’agire non è legato ad alcun paradigma di riferimento, non è integrato nella storia personale che dialoga con l’identità comunitaria a cui ogni soggetto inevitabilmente appartiene. La libertà da ogni vincolo non ha inizio, un punto solido da cui prendere l’abbrivio, perché non vi è storia personale, famigliare, comunitaria, linguistica da cui congedarsi, ma è libertà senza congedo. L’ebbrezza, il fascino della libertà astratta ormai realizzata è il brivido di venire dal niente e di potere tutto, volontà di potenza che si autocrea e si autogenera. La libertà diviene il mito di sé, l’autocelebrazione senza comparazioni e legami che dona la percezione di un’autonomia che, in quanto appare assoluta, comporta la percezione di sé come assoluto (dal lat. absolutus, sciolto da ogni vincolo). Pertanto non c’è bisogno di visioni del mondo, di religioni, di prospettive ideologiche consapevoli: ci si sente divinità planate sulla terra, e ciascuna è pronta a mettere in pratica il desiderio, la grandezza di un io astratto ed autoreferenziale. Il sistema liberista ha la sua forza, il consenso generalizzato, nell’illusione, nella potenza dell’autoillusione di massa.

La libertà dell’homo consumens
All’homo oeconomicus è succeduto il narcisismo di massa, il disimpegno dei consumatori costantemente alla catena del mercato. Quest’ultimo può sopravvivere solo incentivando l’assurdo di massa, elevando la tensione del desiderio di consumare in un’esaltazione egocentrica di massa. L’homo oeconomicus, col suo pensiero calcolante, conosceva l’impegno, la fatica del calcolo e dell’accumulo quotidiano, viveva la tensione della difesa della proprietà, bellicoso nei suoi pensieri, ma impegnato in un progetto atomistico; l’homo consumens, divora i suoi stessi desideri, non ha impegni costanti, ma solo immediati appetiti. Il salto dall’homo oeconomicus all’homo consumens è svolto, è compiuto.

Tempo circolare della frustrazione
La libertà di perseguire bisogni indotti implica l’incapacità di attendere, un basso livello di frustrazione che si esplica in una temporalità vissuta in modo frammentato ed è incapace di pensare, di vivere il pasto del momento. L’accelerazione tormentata del momento ribalta la libertà da in violenza, in incapacità di controllare i morsi del desiderio. La violenza capillare che si infiltra in ogni legame scindendolo ha come fondamento veritativo la cultura della soddisfazione immediata: la rigidità – mentre tutto fluisce – del desiderio che non vuole che se stesso. La regressione infantile di massa al pensiero magico, la corsa-rincorsa di ciascuno a vivere il mondo immaginato, e l’apparir del vero inevitabile, causa violenza, poiché non si è nelle condizioni emotive – e spesso non si hanno gli strumenti cognitivi – per costruire le relazioni di causa-effetto. L’irrazionale trionfa, la realtà diviene incomprensibile, per cui la libertà da ogni vincolo diviene percezione di essere oggetto di una violenza senza ragione. La libertà astratta dell’homo consumens si rovescia in violenza, il mondo non sta al gioco, le speranze tradite non sono comprese, la colpa della tragedia, ovvero della verità storica, che entra nella vita è proiettata sugli altri, sui colpevoli di turno. Il sistema liberista si nutre di tali circuiti, alimenta la violenza circolare dell’ homo consumens, lo destabilizza, lo invita a compensare la sconfitta con un altro desiderio di onnipotenza. Il tempo circolare della frustrazione senza uscita è la gabbia d’acciaio in cui si rinchiudono le persone ed i popoli.

Pianeticidio
La politica dovrebbe rispondere alle esigenze della comunità, dovrebbe trovare risposte condivise ai grandi temi che il proprio tempo vive drammaticamente. Le istituzioni e la politica sono i invece grandi assenti, i grandi complici della condizione attuale, anzi consolidano – con il loro esempio vissuto, con il linguaggio, con i comportamenti – la pedagogia dello spreco e del disprezzo di ogni vincolo, da ogni legge istituzionale ed etica. La libertà astratta è la violenza resa istituzionale: poiché – in assenza del concetto – non resta che il vilipendio costante delle parole usate come croci frecciate contro il nemico di turno. La libertà soggettiva violenta la realtà storica, perché non ne cerca la verità e con essa le leggi della storia e le sue contraddizioni. Eppure, malgrado il trionfo della libertà soggettiva contro la libertà oggettiva, non vi è possibilità di aggirare l’ostacolo, le contraddizioni divengono sempre più minacciose, il pericolo di un collasso del pianeta è ineludibile. La libertà soggettiva può sopravvivere solo a prezzo di un nuovo tipo di genocidio quale mai è apparso nella storia dell’umanità “il pianeticidio”, il neologismo può essere improprio, ma è la verità a cui porta la libertà soggettiva globalizzata.

Che fare?
La domanda che bisognerebbe introdurre nella politica che non c’è è sul tipo di libertà che si vuole realizzare per il presente e per il futuro del pianeta, nel quale vi sono le comunità umane e non umane. La Filosofia può esserci di ausilio. Hegel e Marx ci hanno insegnato la libertà oggettiva, la quale riporta gli esseri umani a rispondere alle contraddizioni del presente ed al problema delle prospettive e delle possibili soluzioni a partire dalle condizioni storiche in cui ci si trova, e specialmente responsabilizza collettivamente verso le potenzialità che il momento storico ha in sé. La libertà oggettiva è capace di convergere il campo di forze verso un obiettivo comune, e specialmente elabora percorsi collettivi di consapevolezza ed azione rilevando razionalmente che classi e comunità trasversali condividono interessi e contraddizioni che esigono soluzioni, al fine di dare una prospettiva partecipata ed universale. La libertà oggettiva scioglie le rigidità regressive della libertà soggettiva per sublimarla verso l’universale. Quest’ultimo è costituito dalle condizioni materiali, economiche, culturali che i soggetti condividono, ponendoli come soggettività collettiva che può dar vita alla prassi rivoluzionaria. Spetta ai singoli ricominciare, creare ponti con le possibilità presenti nella contemporaneità. La libertà soggettiva è libertà senza legami, senza storie, senza prospettive, per uscire dalla malinconia senza fondamento è necessario il coraggio di un no razionale che si configura come una corrente calda capace di catalizzare forze, persone, pensieri, al fine di capire la verità del presente per poterne immaginare una possibile alternativa storicamente fondata. Per un nuovo inizio è necessario guardare la libertà soggettiva con occhi critici, essa è l’istituzionalizzazione del lupo che alberga in ciascun soggetto, a quel lupo è necessario dare una razionale risposta e visione del mondo:

«Una contessa affittacamere, un sacerdote commerciante, banchiere, sensale; un impiegato a duecento lire al mese che spende seicento lire per l’appartamento nella grande città; lo scontro belluino. Basta. Il modo è antico: la scure, non il cloroformio o l’ipnotismo. Il lupo è rimasto l’antico, l’antidiluviano lupo in tanto trionfo di modernità: squarta, immerge le mani nel sangue, e a ciò la gente si interessa, prende gusto. Il ognuno della folla è un po’ del lupo che dilata le narici all’acre odore del sangue. E la modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita». [1]

La libertà soggettiva è il lupo già descritto da Fedro il cui agire è indotto solo dal desiderio di consumare e autopercepirsi come onnipotente. Contro ciò la libertà oggettiva deve far valere le ragioni di un mondo umano, a misura di comunità e persone.

Salvatore Bravo

[1] Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, chiarelettere, 2016, pag. 45.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josè Saramago (1922-2010) – Marx ed Engels hanno scritto nella “Sacra famiglia”: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Il comunismo è per me uno stato dello spirito.

José Saramago comunista

Josè Saramago

Di come il personaggio fu maestro e l’autore suo apprendista.
Discorsi di Stoccolma – 7 e 10 dicembre 1998.
Testo portoghese a fronte. Traduzione e cura di Simonetta Masin.
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Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent’anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale.

Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso.

La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico.

Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo – e a maggior ragione il comunismo – è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.

José Saramago, da «Comunista a chi?», numero speciale il manifesto, 17 dicembre 2009.

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Josè Saramago

Di come il personaggio fu maestro e l’autore suo apprendista.

Testo già edito da Editorial Caminho, nel 1999; si ringrazia la Fondazione José Saramago per averne autorizzato la pubblicazione; traduzione e cura di Simonetta Masin, pp. 40.

Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia
José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.
Josè Saramago (1922-2010) – Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Italo Calvino (1923-1985) – Classici sono quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Italo Calvino - i classici

«Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati».

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

Italio Calvino, Perché leggere i classici, 1991

Italo Calvino (1923-1985) – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.
Italo Calvino (1923-1985) – Cavalcanti si libera d’un salto “sì come colui che leggerissimo era”. L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi appartiene al regno della morte.
Italo Calvino (1923-1985) – Leggere significa affrontare qualcosa che sta proprio cominciando a esistere.
Italo Calvino (1923-1985) – … il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento …
Italo Calvino (1923-1985) – Questo è il significato vero della lotta: Una spinta di riscatto umano da tutte le nostre umiliazioni. Questo il nostro lavoro politico: utilizzare anche la nostra miseria umana per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Peter Watkins – La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese. Le questioni che i comunardi affrontarono erano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi.

Peter Watkins La comune di Parigi01
Jules Vallès

L’insorto

indicepresentazioneautoresintesi

 

«La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese, nonostante – o forse perché – è un evento chiave nella storia della classe operaia europea, e quando ci siamo incontrati la maggior parte del cast ha ammesso di conoscere poco o nulla sull’argomento ed è stato molto importante che le persone si siano coinvolte direttamente nella nostra ricerca sulla Comune di Parigi, acquisendo così un processo esperienziale nell’analisi di quegli aspetti dell’attuale sistema francese che stanno fallendo nella loro responsabilità di fornire ai cittadini un processo veramente democratico e partecipativo. Migliaia di Comunardi morirono per i loro ideali nel 1871. Speriamo che prima di vedere la fine del film capirete perché, e quanto le questioni che affrontarono siano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi».

Peter Watkins

 

La Commune (Paris, 1871) è un film storico-drammatico del 2000 diretto da Peter Watkins sulla Comune di Parigi. Come rievocazione storica in stile documentaristico, il film ha ricevuto molti consensi dalla critica, per i suoi temi politici e per la regia di Watkins. La Comune (Parigi, 1871) è stata girata in soli 13 giorni in una fabbrica abbandonata alla periferia di Parigi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Sergeevič Turgenev (1818-1883) – Don Chisciotte esprime l’ideale della verità, vive per estirpare le forze del male.

van Sergeevič Turgenev 01

«Che cosa esprime Don Chisciotte? Considerandolo non con lo sguardo frettoloso che si ferma alla superficie delle cose, che tien conto delle minuzie; vedremo in Don Chisciotte non solo il cavaliere dalla triste figura, creato per deridere i vecchi romanzi cavallereschi; è noto che il significato di questo personaggio si è allargato sotto la mano del suo immortale creatore, e che il Don Chisciotte della seconda parte, cortese interlocutore di duchi e di duchesse, saggio consigliere di un governatore armato, non è lo stesso Don Chisciotte che ci appare nella prima parte del romanzo, specialmente all’inizio, non è quello strano e ridicolo originale sul quale si abbattono così abbondantemente i colpi della sorte; per questo, cerchiamo di penetrare bene in fondo.
Ripetiamo: che cosa esprime Don Chisciotte?
Prima di tutto la fede; la fede in qualche cosa di eterno e incrollabile: nella verità insomma, nella verità che si trova al di fuori del singolo uomo, che non gli si dà facilmente, che chiede di essere servita che chiede vittime, ma che è accessibile a colui che la serve fedelmente, e che si sacrifica. Don Chisciotte è tutto compenetrato della devozione all’ideale per il quale è pronto a sottoporsi a tutte le possibili privazioni; e la sua stessa vita egli apprezza e valuta solo in quanto può essere un mezzo per incarnare l‘ideale, perché regni la verità e la giustizia sulla terra. Ci diranno che la sua eccitata e guasta immaginazione attinge questo ideale al mondo fantastico degli ideali cavallereschi; siamo d’accordo; e l’aspetto comico di Don Chisciotte consiste in questo; ma l’ideale rimane in tutta la sua intangibile purezza. Don Chisciotte avrebbe ritenuto vergognoso vivere solo per se stesso, preoccuparsi solo di sé. Egli vive completamente, se così si può dire, fuori di sé, per gli altri, per i suo fratelli, per estirpare il male, per contrapporsi alle forze ostili all’uomo, ai maghi, ai mostri, cioè agi oppressori. In lui non c’è nemmeno un’ombra di egoismo; egli n pensa mai a sé; è l’assoluto sacrificio di se stesso – valutate bene queste parole! Egli crede, crede fortemente senza tentennamenti! […] Don Chisciotte può sembrare un perfetto folle, perché persino la più indubitabile materialità sparisce davanti ai suoi occhi, si fonde come cera al fuoco del suo entusiasmo; ed egli effettivamente nelle marionette di legno vede degli autentici mori, e scambia i montoni per cavalieri; può sembrare limitato perché non sa facilmente comprendere né rallegrarsi; ma, come un albero secolare, ha affondato le sue radici nella terra, e non può in nessun modo mutare le sue convinzioni, né passare da un oggetto all’altro; il vigore della sua struttura morale (osservate che questo folle cavaliere errante è l’essere più morale del mondo) conferisce e una particolare forza e maestosità a tutti i suoi giudizi e discorsi, a tutta la sua figura, non tenendo conto delle situazioni comiche o umilianti o nelle quali continuamente cade… Don Chisciotte è un entusiasta, devoto al’idea, per questo circondato dal suo splendore».

Ivan Sergeevič Turgenev, Amleto e Don Chisciotte, in I. S. Turgenev, Tutte le opere, vol. IV, pp. 720-23, Mursia Editore, Milano, 1964; traduzione di Eridano Bazzarelli.

Alonso Quixano (non ancora Don Chisciotte) nella sua biblioteca, tra i romanzi cavallereschi.
Don Chisciotte e Sancho Panza in un ritratto di Gustave Doré
Don Chisciotte e Ronzinante, dipinto di Honoré Daumier
El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Copertina della prima edizione (1605)
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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