Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri

Luca Grecchi_Scuola elementare

Nei tempi antichi, Eraclito scrisse che colui che sa non è chi conosce tante cose in modo superficiale e disordinato, ma chi conosce poche cose essenziali, in modo profondo ed ordinato. Questo messaggio risulta a mio avviso particolarmente importante per chi si trova agli inizi del percorso conoscitivo, ossia per i bambini della scuola elementare. La scuola “elementare” infatti, come dice la parola stessa, deve fornire proprio gli elementi primi, i mattoncini, su cui poi si costruisce l’intero sapere educativo. Così come la fisica si apprende partendo dagli atomi, o meglio dalle componenti più piccole della materia, che poi formano le molecole; così come la matematica si impara inizialmente dai numeri, su cui poi si strutturano le operazioni; così come la lingua si impara partendo dalle lettere dell’alfabeto, su cui poi si costruiscono le parole, è importante che ai bambini delle scuole elementari vengano fornite soprattutto solide conoscenze di base sulle materie fondamentali (italiano, storia, matematica, scienze, geografia), le quali consentiranno poi loro, appunto, di costruire uno stabile edificio di sapere.
Questa idea di fondo è già presente nella filosofia antica. Nel suo De rerum natura  ad esempio, Lucrezio, basandosi sulla precedente opera di Democrito ed Epicuro, esplicitò chiaramente il principio della formazione degli enti, ponendolo in stretta connessione col principio della formazione delle parole. Così come nel I libro egli scrisse infatti degli elementi primi fisici, ossia degli atomi, che formano i corpi, nel II libro trattò con gli stessi termini degli elementi primi grafici, ossia delle lettere, che formano le parole. Tale parallelismo è peraltro favorito proprio dalla parola latina elementum, che, al pari della parola greca stoicheion, indica sia l’atomo che la lettera. Così dunque come, unendo gli elementi fisici secondo precise modalità si formano le cose, unendo gli elementi grafici secondo precise modalità si formano le parole. Tale parallelismo fu presente anche in Platone, che nel Teeteto considerava le lettere dell’alfabeto come quegli elementi visibili e noti, in grado forse di farci conoscere gli elementi invisibili ed ignoti del cosmo. In maniera analoga Aristotele, nella Metafisica, indagando la causa materiale dei fenomeni fisici, scrisse che occorre innanzitutto indagare gli elementi costitutivi degli enti che strutturano tali fenomeni; significativamente, egli comunque intese la causa materiale in un senso molto ampio, tanto che, citando qualche esempio della medesima, lo Stagirita menzionò appunto le lettere dell’alfabeto, costitutive delle parole, e le premesse dei sillogismi, costitutive delle conclusioni.
I paradigmi che mostrano la necessità, per progredire nel sapere, di conoscere bene gli elementi primi della realtà, si potrebbero ampliare. Nella chimica ad esempio, già Empedocle, e dopo di lui la maggior parte del pensiero scientifico greco, ritenne che i 4 elementi costitutivi del cosmo (acqua, aria, terra, fuoco) fossero la base per comprenderne le trasformazioni; dalla loro combinazione infatti, in base alle loro caratteristiche strutturali, derivano tutti gli enti ed i fenomeni del cosmo fisico. Dopo Mendeleev il sistema periodico degli elementi ha raggiunto la cifra di 109, e non più di 4, ma mantenendo lo stesso ragionamento di fondo: gli elementi sono i principi costitutivi della materia sicché, se si vuole comprendere la realtà fisica, composta di materia, occorre conoscere bene gli elementi.
Il pensiero antico, filosofico e scientifico, mostra dunque un parallelismo fra materia e linguaggio. Così infatti come nella materia gli atomi formano le molecole, queste ultime i sistemi supramolecolari, da qui le cellule e con esse gli organi, gli apparati ed infine il corpo, nel mondo linguistico le lettere formano prima le sillabe, poi le parole, poi le frasi, i libri, le enciclopedie ed infine l’intera biblioteca del sapere. La realtà è in effetti sistematica, ossia interconnessa, sicché è fondamentale comprenderne gli elementi costitutivi, ossia le parti, in quanto esse sono i mattoni su cui si strutturano le connessioni della realtà medesima. Senza conoscere gli elementi primi e le connessioni di base, dunque, non si può comprendere la realtà.
Ho svolto questa lunga premessa non tanto per ribadire cose ampiamente conosciute dagli studiosi del pensiero antico – ma non, ovviamente, da tutte le persone –, quanto per rendere più agevole la comprensione di come le riforme della scuola degli ultimi anni, comprese quelle della scuola elementare (con il recente cospicuo apporto della cosiddetta “buona scuola”), stiano andando in una direzione totalmente opposta rispetto a quella concordemente auspicata dai più grandi filosofi della Grecia classica: autorità, se me lo si concede, degne sempre di un certo ascolto. Anziché, infatti, rinsaldare gli elementi primari del sapere, in una visione unitaria – che peraltro la figura del maestro unico favoriva – facilitante la comprensione dell’intero, la scuola elementare propone oggi al contrario proprio quella polymathia criticata da Eraclito, ossia quel presuntuoso voler sapere tante cose (che poi, semplicemente spiluccate, non vengono interiorizzate, e vengono per questo rapidamente dimenticate), che alla fine non lascia in mano nulla. Non è infatti un segreto, ma è anzi per le attuali forze politiche un motivo di vanto, che nelle scuole elementari siano non solo insegnate – in maniera differenziata, ma comunque diffusa – materie come inglese, informatica, economia, ma che vengano anche svolte, nelle ore di lezione, attività tipo corsi di scacchi, o simili, che sottraggono tempo e considerazione alle materie di base, solitamente alla lingua italiana.
La maggior parte dei genitori, che risente del clima culturale del nostro tempo, tende di solito a ben considerare queste novità, che si ritiene da un lato alleggeriscano i figli dalla presunta seriosità della scuola, e dall’altro li avvicinino da subito alle esigenze del mercato del lavoro (l’inglese, l’informatica, tra qualche anno l’impresa…). Dal mio punto di vista, ossia dal punto di vista di un papà che insegna anche Storia della filosofia alla università statale, mi pare invece che in questo modo si stia arrecando ai ragazzi un danno, i cui effetti – queste riforme essendo in corso da una ventina d’anni – sono già visibili nelle attuali generazioni di studenti.
Chiunque infatti si trovi a leggere elaborati scritti dei giovani universitari, sa che la qualità degli stessi è negli anni notevolmente peggiorata, anche a livello delle più elementari (appunto) norme grammaticali: ortografia, sintassi, punteggiatura. Non parlo poi della poca capacità di approfondire con originalità i contenuti, della precaria coordinazione logica delle proposizioni, della esigua povertà del lessico: anche gli esami orali mostrano sovente – salvo eccezioni, come ovvio sempre presenti – un quadro desolante. Naturalmente, come emerge analizzando l’intero sistema scolastico italiano (sul quale i libri di Massimo Bontempelli e Lucio Russo continuano ad essere insuperati),  non tutte le colpe sono da far risalire alle scuole elementari. Tuttavia, il fatto che sin dall’inizio si punti non a rendere stabili le fondamenta, le pietre d’angolo, i mattoni del sapere, ma si disperda il tempo in molte materie/iniziative che non hanno come finalità primaria l’educazione (il favorire la formazione della persona), ma solo, quando va bene, la istruzione (il fornire, appunto, strumenti ai futuri lavoratori/consumatori: a questo servono l’inglese, l’informatica e l’economia spicciola), non è una buona cosa. I bambini infatti non sentono più di stare costruendo a scuola il proprio futuro – cosa particolarmente importante soprattutto per chi viene da famiglie non agiate –, ma solo di stare passando il proprio tempo facendo varie cose non sempre collegate fra loro. Tuttavia, per una vera educazione, una solida struttura di base è necessaria: solo così, in futuro, cresceranno infatti persone stabilmente in grado di ragionare con la propria testa, di comprendere la realtà e di appassionarsi ad essa, cercando di mutarla per il meglio. Viene talvolta il dubbio purtroppo, alla luce delle argomentazioni qui presentate, che le riforme della scuola degli ultimi anni, peraltro simili in tutti i paesi occidentali, abbiano come fine proprio la riduzione della possibilità che si formino, nel tempo, persone siffatte.

Luca Grecchi
13/02/2017

 

 

Già pubblicato su “Diogene Magazine” del 13-02-2017.

Diogene Magazine

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Luca Grecchi

Luca Grecchi (1972), direttore della rivista di filosofia Koinè e della collana di studi filosofici Il giogo presso la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia, insegna Storia della Filosofia presso la Università degli Studi di Milano Bicocca. Da alcuni anni sta strutturando un sistema onto-assiologico definito “metafisica umanistica”, che vorrebbe costituire una sintesi della struttura sistematica della verità dell’essere. Esso rappresenta, nella sua opera, la base teoretica di riferimento sia per la fondazione di una progettualità sociale anticrematistica, sia per la interpretazione dei principali pensieri filosofici. Grecchi è soprattutto autore di una ampia interpretazione umanistica dell’antico pensiero greco, nonché di alcuni studi monografici su filosofi moderni e contemporanei, e di libri tematici su importanti argomenti (la metafisica, la felicità, il bene, la morte, l’Occidente). Collabora con la rivista on line Diogene Magazine e con il quotidiano on line Sicilia Journal. Ha pubblicato libri-dialogo con alcuni fra i maggiori filosofi italiani, quali Enrico Berti, Umberto Galimberti, Costanzo Preve, Carmelo Vigna.

Libri di Luca Grecchi

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L’anima umana come fondamento della verità (2002) è il primo libro di Grecchi, che pone, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati i suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema metafisico costituisce la base per una analisi critica della attuale totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze della natura umana. (Invito alla lettura: Scarica alcune pagine del libro)

Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dell’autore compiuti negli anni novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale.

Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx costituisce in un certo senso una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi originale, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, Grecchi propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico. Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007.

La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004) con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura poetica ed umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana.

Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005) con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano.

Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura umana. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista.

Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore.

Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimento imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro «una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo» in esame.

Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani. .

Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale. (Invito alla lettura: Scarica alcune pagine del libro)

Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale «risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa».  

Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, in maniera insieme divulgativa ed originale, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo.

La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “togliere” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.

Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico.

Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. Il testo rispecchia la tendenza dell’autore a prendere sempre seriamente in carico le altrui posizioni; secondo Grecchi, infatti, di fronte a critiche intelligenti, sono solo due gli atteggiamenti filosofici possibili: o fornire argomentate risposte, o prendere atto della correttezza delle critiche e rivedere le proprie posizioni. Il tema caratterizzante il testo è dunque la “lotta amichevole” per la emersione della verità.

L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è un libro in cui Grecchi effettua, in sintesi, la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi principali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione politico-sociale. L’uomo infatti assume centralità, in vario modo, in tutti i vari filoni culturali della Grecità, dal pensiero omerico a quello presocratico, dal teatro fino all’ellenismo.

L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone, da Grecchi in quegli anni ritenuto come il più rappresentativo della Grecità. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale e della totalità sociale.

L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele, che sarà poi da Grecchi ripreso negli anni successivi come struttura teoretica di riferimento. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale della totalità sociale.

Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) la centralità dell’uomo; b) la ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta essere Socrate.

Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso che avrebbe potuto essere tenuto da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.

Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.

Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2009), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in cui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore.

L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese.

L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano.

L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico.

A partire dai filosofi antichi (2010), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto – anche se soprattutto – dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che «questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana».

L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore colma una distanza temporale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico della Roma imperiale. Il testo si divide in due parti. Nella prima, in ossequio alla tesi per cui ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso spesso “deduce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello romano, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino.

Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata.

La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita dei tronchi di pressoché tutte le discipline filosofiche e scientifiche tuttora studiate nella modernità (con varie ramificazioni). Tradizionalmente, tuttavia, la filosofia della storia è ritenuta essere disciplina moderna, senza precedenti antichi. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa.

Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di «una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa».

Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano gli antichi Greci come vicini alla xenofobia, mostra che, sin dall’epoca omerica, essi furono invece aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”, il quale possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”.

Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare.

L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza questo autore. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si distingue per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità.

L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori come “naturalisti”, e che li separano sia dalla poesia e dal teatro precedenti, sia dalla filosofia e dalla scienza successive. L’autore, facendo riferimento agli studi di Mondolfo, Capizzi, Bontempelli e soprattutto Preve, mostra il nesso di continuità del pensiero presocratico con l’intero pensiero greco classico. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora.

Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica ed, al contempo, di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, presente oramai solo in un numero limitato di studiosi.

Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti sterile ed inefficace. Assumendo come base principalmente il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori appunto definiscono – ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”.

Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero, che Grecchi assume invece ancora come centrale. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico.

La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. In esso Grecchi anticipa alcuni temi portanti del suo testo che sarà intitolato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere, cui sta lavorando dal 2003.

Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. Quest’ultimo è un tema poco indagato in quanto mancano, alla mentalità filologica – poco teoretica – tipica del mondo accademico di oggi, i necessari riferimenti testuali (i Greci non avevano nemmeno la parola “alienazione”); questo saggio tuttavia può aprire un filone di ricerca su una tematica tuttora inesplorata.

Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”.

Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul Bene tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il Bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del Bene.

Discorsi sulla morte (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo.

L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (solitamente poco considerati), nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’aristotelismo che ebbero il loro punto culminante nel 1277.

L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che critica la tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque, a suo avviso, la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.

In preparazione:

Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna (e contemporanea);

L’umanesimo greco-classico di Spinoza;

Il sistema filosofico di Aristotele;

Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere.

 

 

 

 


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Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola – Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)

Pietro Chiodi 01

 

Coperta 269

Giuseppe CambianoCesare Pianciola (a cura di), Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970). Hanno inoltre collaborato a questo volume: Gianluca Garelli, Pino Marchetti, Andrea Mecacci, Gabriele Pedullà, Cesare Pianciola, Aida Ribero, Francesco Remotti.

ISBN 978-88-7588-195-5, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [73]. In copertina: foto di Pietro Chiodi, di Aldo Agnelli, Alba (Archivio Aida Ribero).

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Banditi

Sartre and Marxism

L'esistenzialismo

L'esistenzialismo di Heidegger

Il pensiero di Immanuel Kant

I. Kant

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Hanno collaborato a questo volume

Giuseppe Cambiano (Torino, 1941)

dopo la laurea in Filosofia, sotto la guida di Nicola Abbagnano, nel 1965 presso l’Università di Torino, ha lavorato con Chiodi come assistente presso la cattedra di Filosofia della Storia. Ha insegnato Storia della filosofia e poi Storia della filosofia antica, all’Università di Torino dal 1975 al 2002 e dal 2003 al 2011 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui è ora professore emerito. È socio nazionale dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra le sue pubblicazioni: Platone e le tecniche, Laterza, 1991; Storia della filosofia antica, Laterza, 2009; Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura, il Mulino, 2010, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Laterza, 2016.

Gianluca Garelli (Torino, 1969)

ha studiato a Torino, Bologna, Heidelberg e Berlino; è professore associato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Si è occupato principalmente di filosofia classica tedesca e sua ricezione nel pensiero contem­poraneo; storia dell’estetica; ermeneutica filosofica; teoria del tragico. È autore fra l’altro di traduzioni italiane di scritti di Peter Szondi (Saggio sul tragico, 1996), Hegel (La fenomenologia dello spirito, 2008) e Kant (Lezioni di enciclopedia filosofica, 2002; Antropologia dal punto di vista pragmatico, 2010). L’ultimo libro che ha pubblicato è La questione della bellezza. Dialettica e storia di un’idea filosofica (Einaudi, 2016).

Pino Marchetti (Pontoglio, 1955) insegna filosofia e storia al Liceo “Veronica Gambara” di Brescia. Ha curato Pietro Chiodi. Bibliografia per la mostra documentaria presso la Biblioteca Queriniana di Brescia (2015) e P. Chiodi, Lettere (1955-1970), Corteno Golgi 2015.

Andrea Mecacci (Roma, 1972) è professore associato di Estetica presso l’Università degli Studi di Firenze. L’estetizzazione della contemporaneità, le sue declinazioni teoriche e operative e l’analisi di alcune categorie (il pop, il kitsch) compongono l’orizzonte delle sue ricerche attuali. Tra le sue pubblicazioni: Introduzione a Andy Warhol (Laterza, 2008); L’estetica del pop (Donzelli, 2011); Estetica e design (il Mulino, 2012); Il kitsch (il Mulino, 2014).

Gabriele Pedullà (Roma, 1972) insegna Letteratura italiana presso l’università di Roma 3 ed è stato visiting professor a Stanford e UCLA. Ha pubblicato monografie su Beppe Fenoglio (La strada più lunga, Donzelli, 2001), sul cinema e le altre arti (In piena luce, Bompiani, 2008) e su Machiavelli (Machiavelli in tumulto, Bulzoni, 2011). Ha curato: Aa. Vv., Racconti della Resistenza (Einaudi, 2005); Aa. Vv., Parole al potere. Discorsi politici italiani (Bur. 2011); Niccolò Machiavelli, Il principe (Donzelli. 2011); Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny (Einaudi. 2015) e, assieme a Sergio Luzzatto, l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi. 2010-12). Presso Einaudi ha pubblicato anche i racconti Lo spagnolo senza sforzo (2009) e il romanzo Lame (2017). Collabora con il supplemento culturale della domenica del «Sole 24 Ore».

Cesare Pianciola (Torino, 1939) è stato assistente presso la cattedra di Filosofia della storia dell’Università di Torino, docente di storia e filosofia nella Secondaria superiore fino al 1994 e di Analisi di testi filosofici dal 2001 al 2008 presso la S.I.S. di Torino. Fa parte del comitato editoriale de «L’Indice dei libri del mese» e del consiglio direttivo del Centro studi Piero Gobetti (al quale ha dedicato vari saggi, tra cui Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001). Ha pubblicato lavori su Hannah Arendt, sulla filosofia contemporanea italiana e francese, su Marx e il marxismo. Con Franco Sbarberi ha curato e introdotto la raccolta di inediti di N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile, Donzelli, 2014.

Aida Ribero (Buenos Aires, 1935) è stata insegnante; ha fondato il Telefono Rosa e il Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino. Ha organizzato mostre sulla storia del percorso di libertà delle donne del secolo scorso e scritto saggi sul femminismo (tra cui Una questione di libertà. Il femminismo degli anni settanta, Rosenberg & Sellier, 1999). Ha curato Glossario-Lessico della differenza, Regione Piemonte, Torino, 2007, e Procreare la vita filosofare la morte. Maternità e femminismo, Il Poligrafo, 2011.

Francesco Remotti (Pozzolo Formigaro, 1943) si è laureato con Chiodi con una tesi su Lévi-Strauss (su cui ha pubblicato Lévi-Strauss. Struttura e storia, Einaudi, 1972). È stato professore ordinario di Antropo­logia culturale, insegnando anche Etnologia dell’Africa, ed è professore emerito dell’Università di Torino. Dal 2002 è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Tra i suoi ultimi libri: Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, 2013; Per un’antropologia inattuale, Elèuthera, 2014.


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Massimo Ammaniti – Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Si può mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride.

Ammaniti 01

Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Ma si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita.

 

Massimo Ammaniti

La curiosità non invecchia

Massimo Ammaniti, La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età, Mondadori, 2017.

 

«Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Ma si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita.» Il nuovo libro di Massimo Ammaniti è una riflessione sulla terza e quarta età, e più in generale sulla vecchiaia, stimolata anche dalle testimonianze di ottantenni e novantenni protagonisti della vita culturale e politica del nostro paese (come Andrea Camilleri, Raffaele La Capria, Aldo Masullo, Mario Pirani, Alfredo Reichlin, Luciana Castellina, Angela Levi Bianchini) che ora raccontano di come e quanto è cambiato il loro modo di vivere i sentimenti e le esperienze propri della vita di ogni essere umano: la famiglia, l’amore, l’amicizia, il senso del tempo, i sogni, il desiderio, i ricordi, i lutti. Ammaniti ci mostra che non lasciarsi sopraffare dalla rabbia e dal rancore, non ripiegarsi su se stessi, ma continuare a coltivare affetti, interessi e passioni, a rimanere agganciati al presente e a fare progetti per il futuro, magari condividendo in modo partecipe quelli di figli e nipoti, è il segreto per far sì che la vecchiaia non corrisponda al tetro stereotipo di periodo di inquietudine e sconforto, di abulia e rassegnazione, insomma di vuota attesa della morte. Come l’anziano professor Borg, l’indimenticabile protagonista del film Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, anche le persone intervistate rivisitano la storia della propria vita per rintracciare il filo rosso che l’ha attraversata e, con esso, la direzione e il significato del percorso compiuto. Così la dimensione anagrafica ed esistenziale della vecchiaia ritrova la sua verità, quella di una stagione indubbiamente difficile, irta di insidie fisiche e psicologiche, di paure e di perdite, ma che, se affrontata accettando la propria condizione senza risentimento né eccessivi rimpianti, e con la lucidità dovuta a una maggiore consapevolezza di sé e a un minor coinvolgimento emotivo nelle vicende del mondo, può rivelarsi una fase di straordinario arricchimento interiore e affettivo. Come quando il giorno concede al tramonto la sua luce più intensa e più vera.

 

 

Massimo Ammaniti è professore onorario della Sapienza Università di Roma, psicoanalista dell’International Psychoanalytical Association ed è stato nel Board of Directors della World Association of Infant Mental Health. I suoi interessi di studio e di ricerca si sono orientati in prevalenza ai temi della genitorialità e della maternità, dello sviluppo infantile e dell’adolescenza. Autore di numerosi testi scientifici, tradotti anche all’estero, ha fra l’altro pubblicato: Nel nome del figlio (con N. Ammaniti, 1995), Crescere con i figli (1997), Pensare per due. Nella mente delle madri (2008), Noi. Perché due sono meglio di uno (2014), La nascita dell’intersoggettività (con V. Gallese, 2014), La famiglia adolescente (2015).

 


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Peter Sloterdijk – L’arte come baluardo di messa in crisi dell’attuale in favore di un possibile ancora non realizzato.

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Peter Sloterdijk, L’impeartivo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina, 2017.

 

L’estetica di Sloterdijk non è semplicemente una filosofia dell’arte, ma anzitutto un modo eminente di fare filosofia. Al centro della riflessione che attraversa i saggi qui raccolti è la questione dell’aisthesis – la sensazione o sensibilità – nella sua più ampia declinazione. Da un lato si attribuisce all’arte “in senso stretto” uno spazio eccentrico rispetto alla norma, dall’altro si fa valere un modo alternativo di guardare all’esperienza estetica, riconoscendole un ruolo guida nelle scelte consapevoli e nelle condotte inconsapevoli dell’essere umano. Così concepita, l’estetica possiede un profondo potere euristico: ci aiuta a capire che tipo di mondo ci siamo costruiti, come ci “sentiamo” in questo mondo e in che modo potremmo cambiarlo, cominciando da noi stessi.
Con lo stile incisivo e la profondità analitica che gli sono propri, Sloterdijk affronta un ampio spettro di questioni tradizionalmente assegnate alla dimensione estetica – dall’architettura alla musica, dal design alla pittura, dalla forma della città alla letteratura – inquadrandole nella sua originale e innovativa antropologia filosofica.



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Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.

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«La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo».

Giacomo Leopardi

 

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logo La vita felice

Giacomo Leopardi, Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, La Vits Felice, 2014, pp. 464; con uno scritto di Armando Massarenti e un’appendice di Laura Zampieri.

 

«Trecento pagine di erudizione densissima, in cui si ripercorre l’evoluzione della disciplina dall’antichità fino al presente, elencando con dettaglio puntiglioso tutte le fonti, con una completezza e una competenza che forse non ho incontrato (mi perdonino) nei miei collkeghi storici della scienza. E tutto questo composto da Giacomo Leopardi a … quindici anni».

Carlo Rovelli

Quarta di copertina

«La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo, e giunge a conoscere la causa dei fenomeni più straordinari. Una così utile scienza dopo essere stata per molto tempo soggetta alle tenebre dell’errore ed alle follie degli antichi filosofi, venne finalmente ne’ posteriori secoli illustrata a segno, che meritamente può dirsi, poche esser quelle scienze, che ad un tal grado di perfezione sieno ancor giunte». Esordisce così Giacomo Leopardi in questa opera giovanile (è del 1813) dalla quale riceverà riconoscimenti che salgono ben presto a un grado di ammirazione e che esaltano la eccezionale importanza del filologo. La Storia della astronomia, infatti, è senza dubbio un’opera di letteratura. Leopardi si avvale delle enormi cognizioni scientifiche di cui è in possesso e le usa per collegarle ovunque agli scrittori greci e romani della classicità, per sottolineare quanto anch’essi avessero fatto riferimento nelle loro opere alle scienze astronomiche e quindi se ne fossero fatti portavoce, attribuendo così una missione vaticinante e una funzione storico-conoscitiva al letterato.

Ancora su Giacomo Leopardi

Edoardo BoncinelliGiulio Gioriello, L’incanto e il disinganno: Leopardi. Poeta, filosofo, scienziato, Guanda, 2016.

Annalisa Strada, Leopardi e l’amore nascente, Raffaello Ragazzi, 2016.

Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, Solfanelli, 2015.

Giorgio Cosmacini, L’infinito di Leopardi, un impossibile congedo, Sedizioni, 2016.

Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, 2016.


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.

 


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Byung-Chul Han – La vita contemplativa è più attiva di qualsiasi iperattività, che rappresenta un sintomo di esaurimento spirituale.

Byung-Chul Han 01
La società della stanxhezza

La società della stanxhezza

Byung-Chul Han nella sua opera La società della stanchezza descrive la vita “dell’ultimo uomo”, l’uomo del mercato globalizzato, formato per la produzione H24 – a volere usare un’espressione in voga nel sistema dell’efficienza a tutti costi –, del risultato quale paradigma di giudizio per discriminare gli inclusi dagli esclusi.
È la società del poter fare: lo Stato non più garante dei diritti sociali ed individuali interviene per porre le condizioni perché possa essere possibile sempre la competizione. Il nuovo imperativo invita al poter fare, alla passività dinanzi all’iperstimolazione. La società del doping: tutto diviene lecito purchè il risultato sia possibile. L’ego ipertrofico raccoglie nel vuoto del proprio narcisismo ogni stimolazione all’azione con l’effetto di un io esponenziale che, con la sua ombra, oscura la comunità, il libero pensiero, ogni atto creativo. La gettatezza dell’iperattivismo comporta la passività. La libertà, invece, conosce la resistenza. Il riposo e la noia quali momenti imprescindibili della creazione del nuovo. ”Ci sono due forme di potenza. La potenza positiva è la potenza di fare qualcosa. La potenza negativa è invece la potenza di non fare – di dire no, per esprimerci con Nietzsche. Questa potenza negativa si distingue però dalla mera impotenza, dall’incapacità di fare qualcosa. L’impotenza è soltanto il contrario della potenza positiva. È essa stessa positiva nella misura in cui è vincolata a qualcosa. Essa, intatti, è un non poter fare qualcosa. La potenza negativa supera questa positività che è vincolata a qualcosa, è una potenza di non fare. Se possedessimo solo la potenza positiva di percepire qualcosa, senza quella negativa di non percepire, la percezione sarebbe esposta senza difese a tutti gli stimoli e gli impulsi che premono e s’impongono. Non sarebbe possibile, così, alcuna “spiritualità”. Se possedessimo solo la potenza di fare qualcosa e non la potenza di non fare, giungeremmo a un’iperattività mortale. Se avessimo solo la potenza di pensare qualcosa, il pensiero si disperderebbe nella serie infinita degli oggetti. Sarebbe impossibile riflettere, poiché la potenza positiva, l’eccesso di positività, ammette solo di prolungare il pensieri” [1]
Il paradosso è che la società che si presenta come la più libera in assoluto, modello oltre il quale non vi è che il nulla, fa dell’attività il suo integralismo che uccide la libertà. Quest’ultima necessita del tempo sospeso per aprirsi ai legami, alla cura del sé, al pensiero critico, mentre la produzione assume carattere di consenso e nel contempo mezzo per narcotizzare le masse.
Il nuovo “oppio dei poveri” è l’iperproduzione senza consapevolezza.
L’uomo dell’iperproduzione disimpara a vedere, a contemplare la ricchezza della vita, la sua problematicità creativa. Si vogliono uomini ciechi per il nuovo integralismo, oscurati dalla produzione, che anestetizzano il loro sentirsi nel mondo “La mancanza di spirito, la meschinità si fonderebbero sull’“incapacità di resistere a uno stimolo”, di contrapporgli un “no”. Reagire immediatamente e seguire ogni impulso sarebbe già una malattia, una decadenza, un sintomo d’esaurimento. Qui Nietzsche non esprime altro che la necessità di una rivitalizzazione della vita contemplativa. Questa non è un aprirsi passivo, che dice “sì” a tutto ciò che i viene e che accade. Al contrario, essa oppone resistenza agli stimoli che premono e s’impongono. Invece di abbandonare lo sguardo all’impulso esterno, essa lo guida sovrana. Come fare sovrano che dice no, la vita contemplativa è più attiva di qualsiasi iperattività, che rappresenta allora un sintomo di esaurimento spirituale.”[2]
Contro la pressione alla prestazione Byung Chul Han propone la stanchezza che cura. La noia come la stanchezza spostano l’asse percettivo, il soggetto nel tempo sospeso dalla produzione riconfigura i significati, coglie nella noia la percezione che il presente non è tutto, ma solo il frammento della possibilità, della storia multilineare che attende per essere rimessa in gioco “La stanchezza da esaurimento è una stanchezza della potenza positiva. Rende incapaci di fare qualcosa. La stanchezza che ispira è una stanchezza della potenza negativa, ossia del non-fare. Anche lo Shabbat, che in origine significava “smettere”, è un giorno del non-fare, un giorno libero da ogni fare-per, da ogni cura (Sorge) – per dirla con Heidegger. Non si tratta di un intervallo. Dopo la creazione, Dio designò il settimo giorno come sacro. Sacro non è, dunque, il giorno del fare-per, ma il giorno del non fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile. Il giorno della stanchezza. L’intervallo è un tempo senza lavoro, un tempo di gioco, diverso anche dal tempo di Heidegger, che è essenzialmente un tempo della cura e del lavoro. Handke descrive questo intervallo come un tempo di pace. La stanchezza è disarmante. Nel lungo, lento sguardo di chi è stanco sorge la risolutezza della quiete. L’intervallo è un tempo dell’in-differenza come cortesia: “Io qui sto raccontando della stanchezza in un momento di pace, nell’intervallo. E in quelle ore c’era pace […]. E la cosa sorprendente è che la mia stanchezza là pareva collaborare al momento di pace – acquietando? attenuando? – disarmando ogni volta già sul nascere con lo sguardo i gesti di violenza, di rissa o anche soltanto di scortesia”.[3]
La stanchezza è disarmante perché si orienta verso l’ascolto di se stessi e degli altri, la relazione riemerge nella sua dinamicità ed intenzionalità verso la trasformazione dei processi naturalizzati che in quanto tali sono portatori di violenza e passività. La dialettica del possibile non può più attendere, la società del doping descritta dal filosofo vive nella dimenticanza di sé , cela nel ventre dell’iperattività la sua disperazione. Solo la resistenza pensata e progettata può rivitalizzare un sistema ripiegato nel suo meccanicismo depressivo

Salvatore Bravo

[1] Byung Chul Han La società della stanchezza ( ed. nottetempo Roma, 2013-pag 20)

[2] Ibidem pag 19

[3] Ibidem pag 27

 

 


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María Zambrano (1904-1991) – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.

Maria Zambrano 025
Persona e democrazia

Persona e democrazia

«[…] tocchiamo il punto dolente della cultura moderna: la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita» (p. 56)

 

María Zambrano

Il nuovo totalitarismo per la Zambrano è la tirannia dell’attività illimitata che rende la persona cosa, frammento di natura, oggetto di leggi meccaniche.

Persona e democrazia di Maria Zambrano è il testo di una pensatrice eterodossa, sempre al limite dei sistemi ideologici che ha incarnato la filosofia nell’atto dl vivere. Eterodossa perché libera dai sistemi poteri rassicuranti, dalle verità pronte per l’uso. Cattolica senza chiesa e donna di sinistra senza partito, ha vissuto la libera scelta del pensiero con l’esilio e con la miseria materiale. Pensare per la Zambrano significava vivere la dimensione del tempo ricurvo, ritornare su se stessi per capire, ricategorizzare le possibilità della realtà storica vissuta, per cui vi è pensiero solo nel soggetto che ritorna in sé, in un movimento dialettico disalienante, per “sentire la propria identità” coagularsi attorno alla dimensione del pensare. La comunicazione è possibile nel tempo sospeso dalla prassi, nell’incontro che non vuole affascinare e predare ma accoglie la parola per sentirla nella profondità del pensiero in cui la densità emotiva mai è recisa dal piano della razionalità. In Persona e democrazia la Zambrano coglie con chiarezza il profilarsi del totalitarismo del tempo pieno delle democrazie liberiste. Filosofa senza pregiudizi a cui la marginalità ha donato la capacità di giudicare i pericoli che minacciano la comunità delle persone, la Zambrano giudica la democrazia liberista una nuova forma di totalitarismo. Le democrazie hanno fatto dell’azione e della produzione la metafisica del loro consenso, il loro feticcio, ma il tempo pieno osserva la Zambrano è tempo senza pensiero, perché il tempo non più ricurvo, è rettilineo, segue il ritmo naturale della produzione. Il tempo pieno dei totalitarismi dal nazionalsocialismo al tempo pieno delle democrazie liberale, annichilendo il pensiero vorrebbero eterizzare se stessi mediante un processo di naturalizzazione con il quale il sistema si sottrae al pensiero. E proclama la fine della storia. Solo il tempo vuoto consente la libertà e la democrazia autentica poiché è il tempo che ritorna su se stesso, emancipato dalla pratica coatta, dall’orizzonte delle sole cose, consente al soggetto di appartenersi, di andare verso se stessi e gli altri con intenzionalità spontanea. Il nuovo totalitarismo per la Zambrano è la tirannia dell’attività illimitata che rende la persona cosa, frammento di natura, oggetto di leggi meccaniche. Il suo appello – denuncia del nuovo totalitarismo – non deve coglierci impreparati ed inermi, ma motivarci all’attiva difesa del pensiero e dunque della comunità democratica e partecipata.

Salvatore Bravo

 

María Zambrano, Persona e democrazia, Bruno Mondadori, 2000.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita

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Marija Gimbutas (1921-1994) – L’inquietudine del «Pensatore» di Hamangia, metafisico contemplatore dell’universo di settanta secoli fa.

Il «Pensatore» di Hamangia

Il Pensatore di Crnavoda. Cultura di Hamangia, 500-4600 aC, Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania

Il «Pensatore».
Cultura di Hamangia, 500-4600 a.C., Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania.

«Questo libro splendidamente illustrato
 raccoglie una documentazione archeologica
 che difficilmente può essere trovata altrove».
Mircea Eliade

 

 

Le dee e gli dei dell'Antica Europa. Miti e immagini del culto

Le dee e gli dei dell’Antica Europa. Miti e immagini del culto

 

Marija Gimbutas (1921-1994), Le dee e gli dei dell’Antica Europa. Miti e immagini del culto, trad. e cura di Mariagrazia Pelaia, Stampa Alernativa, pp. 336, 2016.

 

Quarta di copertina

Scritto nel 1974 e riveduto e aggiornato nel 1982, questo volume determinò la notorietà dell’Autrice. La civiltà europea fiorita fra il 6500 e il 3500 a.C. – molto prima della civiltà greca e di quella giudaico-cristiana – non è stata un mero riflesso delle culture confinanti del Vicino Oriente, ma una cultura autonoma dotata di un suo carattere originale. L’immaginario mitico dell’epoca matrilineare rivela quali fossero le prime concezioni che l’umanità aveva del cosmo, dei rapporti tra uomo e natura e tra maschio e femmina: con al centro la Grande Dea che incarnava il principio creatore come fonte e scaturigine di tutto. Attraverso lo studio delle sculture, dei vasi e degli oggetti di culto provenienti dall’Europa sud-orientale, Gimbutas descrive una cultura che si strutturava intorno al villaggio, prima di essere travolta e dispersa dagli Indoeuropei patriarcali.

 

Marija Gimbutas, nata in Lituania nel 1921, dopo l’occupazione sovietica si trasferisce in Germania e poi nel 1949 come rifugiata negli Stati Uniti dove, alla Harvard University, si specializza nell’archeologia dell’Europa orientale, mettendo a disposizione dei colleghi testi e materiali altrimenti illeggibili. Nel 1963 le viene offerta la cattedra di Archeologia europea all’Università di California, che occupa fino al 1989. Dirige campagne di scavo nei Balcani e in Italia meridionale in siti dell’età neolitica. I suoi ultimi tre libri sono quelli che hanno suscitato maggiori reazioni in ambito accademico e culturale a livello mondiale: The Goddesses and Gods of Old Europe (1974, 1982; l’opera qui presentata è per la prima volta tradotta in italiano), The Language of the Goddess (1989; tr. it.: Il linguaggio della Dea, Longanesi) e The Civilization of the Goddess (1991; tr. it.: La civiltà della Dea – voll. 1 e 2, Stampa Alternativa). Con le sue intense ricerche sul significato sociale e simbolico delle antiche culture neolitiche ha ampliato in senso interdisciplinare il consueto approccio accademico fondando una nuova disciplina: l’archeomitologia.
Muore a Los Angeles nel 1994.



Oltre la linea che separa la Grecia dalle nebbie che la lambiscono, un retaggio ancestrale guida e mette in scena il pensatore mitico: ha l’aspirazione alla totalità, immagina spenditi vasi e statue, costruisce cosmogonie. Dal pullulare di forme appare la terracotta del “Pensatore” di Hamangia (Romania, 500-4600 a.C.). La figura maschile, forse un dio della vegetazione, sta seduta con il volto tra le mani, esprimendo un’inquietudine senza limiti profonda. Frutto di una convenzione già antinaturalistica, la statuina è una stenografia, una nota toroniana per il dolore del mondo. Questo contemplatore dell’universo, laliconico, metafisico di settanta secoli fa, è ltra le più struggenti testimonianze della presenza dell’uopmo nella storia.

Domenico Pinto, L’inquitudine della terracotta di Hamangia, “Alias”, il manifesto, 22-01-2017, p. 8.


 


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Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati

Dino Buzzati - Un amore

 

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Daniele Orlandi, Quell’amore di Dino Buzzati

 

Daniele Orlandi

Quell’amore di Dino Buzzati

 

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Taïde è, la puttana che rispuose
 al drudo suo quando disse “Ho io grazie
 grandi appo te?”: “Anzi maravigliose!” 

Dante, Inferno, XVIII, 133-135

 

Ci si può innamorare di una prostituta? Ragionavamo durante un corso illuminato del sempre caro professor Carmine Chiodo. Aula calda di corpi stipati e oltre i vetri la brina sui campi di mattine irreversibilmente perdute.
In termini di letteratura, ci dicevano – da Lesbia a Teodora[1], da Dulcinea del Toboso a Bocca di Rosa –, la risposta è affermativa. È possibile, anzi probabile, perdere la testa per una donna che, palesemente o sotto copertura, svolga la Professione. Oppure, e forse ancor di più, di una donna che non svolgendola ma guardandoci negli occhi, senza infingimenti alcuni dichiari: ebbene sì, in pensieri, parole, opere e omissioni io sono una puttana.

Un amore 02

Un amore 08

Un amore 07 A Love Affair

 

A questa antica domanda cercava di rispondere, con uno scavo interiore per l’epoca inaudito, anche Un amore. Libro coraggiosamente uscito nel 1963, anno straordinario in cui nelle patrie lettere venivano pubblicati romanzi epocali: da La cognizione del dolore di Gadda a La tregua di Primo Levi, da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg a Una questione privata di Beppe Fenoglio. E ci fermiamo, altrimenti dovremmo aggiungere Fratelli d’Italia di Arbasino, Teorema di Pasolini o La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino. Dovremmo disquisire sull’iconoclastia avanguardista del Gruppo ’63 e insomma, di questo ultimo anno del supposto boom economico di certo non verremmo più a capo.
Dicevamo: amare una donna imprendibile come la Fortezza Bastiani nel noto deserto di affettività. Una donna di facili costumi. Nell’Italia del Musichiere e delle prime lavatrici ma ancora nel paese della “Buon costume”. È fin troppo banale, per noi sopravvissuti al Novecento, costatare come il problema non stia nell’antinferno della promiscuità e della condivisione di lei con altri innumerevoli individui, quanto (nel caso non infrequente che la donna in questione del meretricio abbia sinanco la smaniosa indole) nella malebolgia della paura, nel panico di perderla, nell’insostenibile angoscia che da un momento all’altro possa dileguarsi, rendersi introvabile. Poiché qualcuno, prima o poi, le offrirà di più. Affitterà quella compagnia di carne e sangue a un prezzo maggiore (non migliore) lasciandoci tra le mani un amore di terra e pioggia.
Se poi, i due provenissero da incomunicabili umanità, voglio dire se lui fosse, mettiamo il caso un operaio o, peggio ancora, un intellettuale e lei una di quelle persone per cui una Mercedes SLK, una borsetta di Louis Vuitton e un ristorante blasonato contano incommensurabilmente di più di un romanzo, che so io, di Dino Buzzati, be’, in tal caso per lo sventurato amante l’approdo della sua ingestibile passione non potrebbe essere che la rinuncia o la rovina:

Intanto egli si sente precipitare sempre più giù, gli viene in mente il professore Unrath dell’Angelo azzurro. Oh come era vera quella storia […] Uno stimato professore di ginnasio degradarsi a quel punto. Oggi capisce. L’amore? È una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile[2].

Insomma, non serve che lei sia bella come Marlene Dietrich: un conto è saperla spregiudicata, altra storia è vederla puttana, essere osservatori partecipanti della sua inclinazione. C’è da impazzire. Perché lei, nel frattempo, è diventata simbolo vivo, quasi diremmo “logos incarnato” di un universo a te misterioso, fatto di cose che non sai, di locali proibiti, pubblicamente disprezzati ma oscuramente desiderati; ma, soprattutto, a te interdetto. Una vita che, pur a volerlo, non sapresti vivere. «Credete a chi n’ha fatto esperimento», direbbe l’Ariosto alle prese con la pazzia di Orlando, «che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa» (dal Furioso, XXIII, 114-115).
A siffatto tormento si può forse contraporre soltanto l’analgesico di una pregressa esperienza. Ma, per sua triste fortuna, il protagonista del libro a cui si invita, l’architetto cinquantenne Antonio Dorigo, entrava in questo amore con commovente inconsapevolezza. E fu

come se quella ragazza fosse diversa dalle solite. Come se fra loro due dovessero succedere molte altre cose […] Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non sa di che cosa né il motivo[3].

La squisita esattezza di queste righe. Una predestinazione, scrive l’autore e il personaggio inizia a crederci. Un po’ come la storia di quei due che «da sempre si cercavano nell’infinito dei mondi» e «all’ultimo s’erano una buona volta incontrati»[4], come racconterà, tre anni dopo, Giuseppe Berto, in un altro grande e dimenticato romanzo.
Se è così che ci s’innamora di una donna, sarà anche così che ci s’innamorerà di una prostituta.

***

Per noi bambini negli indomiti anni Ottanta, Dino Buzzati Traverso (Belluno, 1906 – Milano, 1972) era una firma in calce a qualche novella natalizia nel sussidiario di scuola elementare[5]. Con l’adolescenza venne anche il tempo di saperlo uno scrittore a tutti gli effetti e sarebbe con ogni probabilità finita lì se qualcuno tra noi non avesse commesso il fatale giovanile errore di intraprendere l’università e scoprire che razza di narratore fosse.
Uomo di molti mestieri. Giornalista di punta, grande elzevirista, del «Corriere della sera» (I misteri d’Italia, 1978), drammaturgo (Un caso clinico, 1953; Drammatica fine di un noto musicista, 1955), fumettista (Poema a fumetti, 1969; I miracoli di Val Morel, 1971), poeta (Tre colpi alla porta, 1965), critico d’arte e pittore egli stesso.

Bàrnabo delle montagne

Bàrnabo delle montagne

Attività ancelle di quella che lo ha reso celebre sia come romanziere (aveva, per dire, esordito con Bàrnabo delle montagne, 1933, seguito dalla mirabile storia del “Vento Matteo” in Il segreto del Bosco Vecchio, del 1935) sia come autore di short stories. Nel 1958, i Sessanta racconti, antologia che comprende fulminanti pezzi di bravura sull’indecifrabilità del reale come Qualcosa era successo, I sette messaggeri, Paura alla Scala, Sette piani, Il crollo della Balinverna, Il mantello, per citare soltanto i nostri prediletti, vincono il Premio Strega, distanziando di diciassette punti nientemeno che Carlo Cassola.
È qui, forse, che il cronista letterato – o letterato proprio perché cronista, con una lunga gavetta alla “nera” – dà il meglio di sé e grazie alle sue atmosfere fantastiche, a tratti oniriche ma soprattutto asfittiche e inquietanti, come di un’entità impalpabile che t’insegue o attende dietro l’angolo, va meritandosi l’appellativo di Kafka italiano che il Nostro ha tuttavia sempre fermamente rifiutato[6].
Eppure non ci piacciono le sinossi da libro di testo, i profili biografici da quarta di copertina. Un autore va letto nella sua interezza e a citarne due titoli a caso non si capisce nulla. Dunque è per necessità di sintesi se diciamo che per noi Dino Buzzati era sostanzialmente il suo capolavoro, ineliminabile riferimento e termine di paragone irrinunciabile in ogni discorso su di lui: Il deserto dei Tartari, cronaca di una guerra imminente nell’Italia in guerra per davvero, che Rizzoli pubblicava per i suoi tipi, nel funesto giugno 1940. Esattamente nel mese delle “decisioni irrevocabili” annunciate urbi et orbi da un balcone di Piazza Venezia.

Il deserto dei Tartari 00a

Il deserto dei Tartari

Era l’epopea dell’antiepos e della solitudine, enorme metafora della vita come attesa da riempire di un nulla che si ripete di continuo. Il deserto dei Tartari, certo. La storia senza tempo del sottotenente Giovanni Drogo, aspettando un nemico che non arriva, un messaggio che non giungerà. Mai. Era il 1976 quando Giancarlo Giannini prestava la sua voce a Jacques Perrin nel film di Valerio Zurlini, in cui entrava anche un sex symbol dell’epoca come Giuliano Gemma.
Tuttavia, ci sta a cuore una considerazione. Dino Buzzati, non v’è dubbio, è stato uno scrittore famoso e premiato. Basti dire che Albert Camus, il più giovane Nobel della storia, curò l’adattamento francese di Un caso clinico (Un cas intéressant, 1955), pièce teatrale tratta dal racconto Sette piani. Ciononostante, non sapremmo stabilire se questa notorietà sia stata presto dimenticata o sproporzionata alla caratura artistica dell’uomo. Pare, in sostanza, che non sia stata goduta fino in fondo, data quasi per scontata, poco scoperta. Negli inserti culturali dei quotidiani sembra che nessuno ne parli più.
Ci domandiamo chi in una breve lista di grandi autori italiani del XX secolo metterebbe senza esitare Dino Buzzati. Noi sì, ma la critica? Quella di ieri, sicuramente no. Quella di oggi, lentamente, pare stia lavorando per colmare questa lacuna. C’è ancora molto da fare, comunque, se ancora lo ricordiamo essenzialmente per Il deserto dei Tartari. «Sono tanti», è stato scritto a ragione, «gli scrittori-cronisti-pubblicisti-redattori-inviati che faticano ad avere un peso culturale duraturo, apparendo talora “satelliti” nel nostro canone letterario»[7].
Sono temi che lasciamo volentieri agli accademici e ai buzzatiani. Qui, ci limitiamo soltanto a sottolineare come il giovane soldato in camicia nera avesse fatto i conti col Ventennio in modo del tutto privato, senza giungere alla celebrità per la via mestra del neorealismo e senza divenire “organico” alla congerie culturale dei vincitori. Questo conservatorismo all’antica gli aveva inimicato i letterati marxisti, che nel secondo dopoguerra stavano a rappresentare quasi l’intera classe degli intellettuali italiani. Fino all’accusa di reazionarismo, ovviamente[8]. Buzzati continuava, nonostante questo, a rifiutare tanto la religione dell’impegno quanto le etichette (del fantastico o del realismo magico, del surrealismo) che la critica gli affibbiava nei tentativi di catalogare la sua sfuggente poetica.

***

Ma, chiediamo ostinati: avete mai provato a mettere da parte tutto quello che sapete di Dino Buzzati, tutte le nebulose, i sentito dire e ogni reminiscenza scolastica e leggere Un amore? L’esperienza è forte, drammaticamente gradevole. Senz’altro coinvolgente. Il libro non risente dei suoi cinquantanni. Non teme le mode del presente che ragionano su “anatomie” di sentimenti e passioni. Buzzati, questo sentimento – questo ronzio continuo e inaffidabile che dice “Senti? Mento!”, lo ha dissezionato come su un tavolo autoptico, contemporaneo prima dei contemporanei.
Per incontrare di nuovo certe atmosfere bisognerà attendere il secco Una spina nel cuore di Piero Chiara (1979), l’inevitabile Eutanasia di un amore di Giorgio Saviane (1976) o sbarcare sui lidi del postumo incompiuto, ossessivo L’odore del sangue, di Goffredo Parise (1997). Stupefacente come questi titoli, ma non solo, siano debitori all’introspezione di Un amore.
In poco più di duecentocinquanta pagine, Buzzati abbraccia tutti i generi senza farsene inglobare. È un romanzo rosa senza sentimentalismi, è uno psychological novel senza lettino, è un giallo senza colpevoli, un noir senza omicidio (certe ambientazioni urbane dei primi anni Sessanta ricordano la Milano scura e alevarica di Giorgio Scerbanenco) e certamente sì, è un romanzo erotico ma senza concessioni alla pornografia.
L’opera imporrebbe almeno due passaggi. Il primo, di occhi. Il secondo – dopo aver conosciuto la nostra personalissima Laide e, come Antonio, essere strati trascinati nel gorgo di un amore torbido e fraudolento -, di stomaco. Ma, direbbe Leopardi, “del cuore in nessun modo”. Perché non c’è cuore in questa malanovella, solo sabbie mobili che tirano giù senza soccorso. La condizione di Antonio, compiaciuto del suo dolore, nuovo heautontimorumenos, è stata descritta magistralmente da Eugenio Montale:

Il tema del libro è ancora la morte, non la morte fisica bensì la morte morale, la depravazione. L’abisso chiede, reclama, un abisso sempre peggiore e non c’è alcun possibile giudice che possa decretare una sentenza […] Anche una sola lacrima di pietà avrebbe reso indecente un libro che è soltanto vero, terribilmente vero [9].

Ideato e scritto a partire dal 1959, i biografi hanno visto in S. C., donna in quel periodo frequentata da Buzzati, l’ispiratrice e la protagonista di Un amore. Del resto, scriveva l’autore nei suoi diari: «L’unica per salvarmi è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia»[10]. Chiunuque abbia avuto una minima esperienza di scrittura sa quanto ciò sia l’operazione più difficile: far capire. Scrivere di una sofferenza, da dentro la sofferenza. Quando il dolore soffoca la prospettiva, la chirurgica precisione necessaria alla narrazione. Inutile dire che Dino Buzzati ce l’ha fatta. È il momento più eccentrico, in cui la biografia dell’autore coincide meglio con l’opera, non troveremo più in tutta la sua produzione un travaso simile a Un amore.
I luoghi di tolleranza erano stati aboliti cinque anni prima da un provvedimento noto come Legge Merlin. In Italia il paravento del decoro trovava realizzazione nell’ipocrisia. Le finestre cieche delle “case chiuse” affacciavano ora in appartamenti dal cuore sotterraneo, invisibile. È subito polemica, scandalo, il “caso Buzzati”. Il biasimo della più bieca, bigotta, ma trasversale ai ceti, sessuofobia cattocomunista.
In questa Milano color antracite, città parallela di clienti e “passioni recidive”, in questi palazzoni dove ogni portineria è un casellario politico, si svolge la storia di Antonio Dorigo e della ventenne Adelaide Anfossi, detta Laide (nomen omen). L’assonanza con Taide, mitologica sgualdrina, è fin troppo evidente. Non tanto la Taide dell’Eunuco terenziano né la ruffiana dantesca quanto piuttosto la Taïs di Anatole France, che danna le virtù del monaco Pafnuzio, lo stesso che l’ha fortemente voluta santa. Ma non scomodiamo il decadentismo: Laide non diverrà mai pia, nemmeno nell’ora della maternità che giunge, forse per entrambi, come una speranza fuori tempo massimo.
Antonio incontra Laide, consuma e se ne va. Come ha fatto molte altre volte, protetto dalla discrezione della signora Ermelina e dalla tariffa che garantisce e svincola dalle emozioni. Perché Antonio non concepisce, fino ad un momento prima di vedere Laide, altro amore che quello tra madre e figlio. Ma poi ci pensa su, vuole rivederla. La rivede, infatti, e qualcosa dell’oscuro fascino di lei lo attira e respinge, finché la prima ha il soppravento sulla seconda. Antonio si lascia girare dal mulinello improvviso che la giovinetta, con maestria e scolpita indifferenza, gli ha soffiato sulla superficie piatta e organizzata della sua vita.
Si è innamorato. Di una sconosciuta totale, tranne il corpo a ventimila lire l’ora. Ed eccolo discendere i ciglioni degli inferi tra mancanza, sospetto, gelosia attiva e retroattiva e un’inutilità diffusa si spalma sopra ogni cosa a cui mette mano nella vita, se lei non c’è. Perché ormai Antonio respira solo quando la vede o sa che tra poco la rivedrà. Le sue giornate si trasformano in una pausa tra un appuntamento e l’altro. Ma sa anche che Laide non è sua né di altri; come nel capolavoro pirandelliano, la giovane escort è uno, nessuno, centomila. Sicchè la commedia delle parti si muta in una tragedia shakespeariana. Misura per misura. Fino ad offrire a Laide una sorta di stipendio mensile per non vederla scomparire, per garantirsi la sua presenza. E la donna accetta.

Ascoltiamolo, in una delle pagine più derisorie e belle della letteratura italiana:

Eppure per lui è forse l’ora decisiva della vita, ed è un inferno. Se fosse malato, se gli capitasse una digrazia, se venisse messo in carcere, parenti e amici gli porterebbero l’aiuto. In questo caso no. È proibito. Anche se è terribilmente peggio. Gettato a terra, caplestato, devastato di dentro e di fuori, abbandonato nel fango, espulso a calci dalla sala. Ciononostante non c’è pietà disponibile per lui […] Ti sei creduto di poter tornare bambino? Ci voleva altra faccia che la tua. La partita è chiusa, il conto torna. Le porte si chiudono, la solitudine, il vuoto, il deserto, i muti singhiozzi che non udrà nessuno. Eccoti in porto, stupido uomo, che ti credevi chissà cosa[11].

Antonio ha inseguito una felicità inacciuffabile perché correva sulle gambe di gazzella un’altra persona. È dannato perché, come Ulisse, ha voluto provare il folle volo, andare oltre i limiti imposti dal tempo e dalla sua natura ma soprattutto dalla sua cultura: una cultura che sta storicamente perdendo.
No, pensa Antonio, in un passo struggente del libro, «l’amore non è bastato»[12].
Infine, sarà Laide a ribellarsi alla sua stessa necessità, gridando in faccia all’uomo tu mi hai sempre trattato come una puttana. Siamo al paradosso o lei in qualche modo – il suo modo, sciatto e indolente – lo ha amato? Ecco come Un amore metteva in scena il dramma del maschio italico davanti alla libertà, sia pure grossolana e arrogante, della donna; davanti alla sua consapevolezza, alla sua autodeterminazione. Un amore, ultimo romanzo italiano prima del femminismo (e prima dei Beatles), in questo senso chiudeva davvero un’epoca.
Sappiamo che l’autore confidava a un amico l’intenzione di un finale positivo[13]. Le ultime pagine restano ambigue. Ma noi ci auguriamo di no, che lei non lo abbia mai amato perché se così non fosse vorrebbe dire che davvero ogni cosa è perduta. La tragedia, non compiendosi, si ripeterebbe per sempre.

****

Se non è in grado di replicare negli occhi il film della storia e della vita, la letteratura non serve a un bel niente. Sono passati tanti anni da quella prima lettura. Il tempo ha più volte asciugato la brina di quelle fiabesche mattine universitarie. E tanti altri ne sono passati dalla seconda, quando il sole aveva ormai bruciato ogni filo d’erba di Tor Vergata e anche noi avevamo riletto Un amore dopo aver conosciuto una Laide, specifica e qualunque. Cosa resta, alfine, per noi che lo abbiamo seguito con accorata compassione, ai limiti del cordoglio? A noi che lo abbiamo sfogliato come un album di fotografie e circostanze così dolorosamente familiari?

Nulla. Se non, forse, una spietata confessione: Antonio Dorigo, c’est moi.

DANIELE ORLANDI

 

buzzati-5

 

[1] Teodora (Costantinopoli497548) è stata un’imperatrice bizantina, moglie di Giustiniano I. La sua vita dissoluta è raccontata da Procopio di Cesarea nel libello diffamatorio Anecdota (Storia segreta).

[2] D. Buzzati, Un amore, (1963), Milano, Mondadori, 200638, p. 144.

[3] Ivi, p. 37.

[4] G. Berto, La cosa buffa, Milano, Rizzoli, 1966, p. 19.

[5] D. Buzzati, Il panettone non bastò. Scritti, racconti e fiabe natalizie, a cura di L. Viganò, Milano, Mondadori, 2004.

[6] Cfr. l’elzeviro di D. Buzzati, Le case di Kafka, in «Il corriere della sera», 31 marzo 1965, scritto direttamente a Praga, dove l’autore era stato inviato dal giornale.

[7] A. R. Daniele, Satelliti del canone letterario: la “quaestio Buzzati” e la letteratura giornalistica, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-13.

[8] Celebre resta l’articolo di Giorgio Bocca, I rischi e i timori di un reazionario, in «Il Giorno», 21 ottobre 1971.

[9] E. Montale, «Un amore», in «Corriere della sera», 18 aprile 1963.

[10] Citato in D. Buzzati, Un amore, cit., p. XXVII.

[11] D. Buzzati, Un amore, cit., p. 240.

[12] Ivi, p. 221.

[13] Cfr., N. Giannetto, «Sono arrivato all’ultimo capitolo…»: una preziosa lettera di Dino Buzzati a Franco Mandelli a proposito di «Un amore», in «Studi buzzantiani», VI (2001).

Buzzati alpinista

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Fernando Eros Caro – In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile? Non smettete mai di sognare.

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Prigionieri dell'uomo bianco

Prigionieri dell’uomo bianco

«Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che da un’altra è “manipolazione”. […] Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare le indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è legge […] Poi c’è anche la tattica del “e se …”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dalla ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di istillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute. […] Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
Fernando Eros Caro

 

Non smettete mai di sognare

Non smettete mai di sognare

 

 

«La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita in un Paese che permette l’incremento dei senzatetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro all’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile?».

Fernando Eros Caro

 

 

 

Fernando Eros Caro

Fernando Eros Caro

FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO*

Il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da 35 anni nel braccio della morte di San Quentin, ci ha lasciato. Aveva 77 anni. Lo hanno trovato senza vita nella sua cella, il 28 gennaio. Non si sa come sia morto, al telefono il medico diceva che le sue condizioni di salute erano buone. La stranezza è che nel giro di pochi giorni è deceduto anche un altro detenuto a San Quentin. L’unica consolazione per Fernando è che adesso non dovrà più subire il degradante protocollo delle sentenze capitali. Qui una poesia che scrissi per lui nel 2007, il giorno successivo al nostro primo incontro in carcere…

***

FRATELLO NEL BRACCIO
(a mio fratello Fernando Eros Caro)

Sguardi ingabbiati
in tuguri vuoti di speranza
tombe di carne ancora sorridono
nella vergogna smarrita dell’umanità
fioriscono volti d’innocenza incompiuta.

Mi sento colpevole mille volte
per quanto non lo sia
per quanto non condivida
per quanto mi opponga in ogni modo
che ogni modo non è mai abbastanza.

Straniero in questo campo di morte
l’orizzonte chiuso di vite a perdere
gente! qui nessuno uccide o viene ucciso
soltanto burocrazia da smaltire
nell’immarcescibile banalità dell’orrore.

Ho stretto le tue mani dopo
un gelido click di manette
ci narriamo l’infinito dagli occhi
viaggiando in ogni possibile dove
passi invisibili oltre, oltre
oltre cancelli & secondini.

Un uomo a due gabbie da noi
barcolla come un grido spezzato
col suo dolore implorante dentro
gli occhiali più grandi del viso
prego lacrime nelle sue ferite.

Una bambina piange suo padre
forse per l’ultima volta
fuori di qui, al di là di questi muri
la libertà tace come un privilegio incompreso
ciascuno torna alla sua
quotidiana prigione.

ma tu, Yoeme, persona antica
tu, Saai Maso, popolo del cervo
fratello mio
tu, storia vivente
resistere da più di 500 anni
tu, davanti a me, come un’alba
non ti piegherai, non ti piegheranno
il tuo dono è il mio sogno

un saluto Yaqui da lasciare al vento
nello spirito che evade all’incubo
sul nostro abbraccio che non finisce
che non finisce
mai!

––––– Marco Cinque –––––––

(*) postato su Facebook e poi segnalato in rete.
Nella foto qui sotto Marco e Fernando insieme.

***

 

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Marco Cinque, Cha Cha (sorella di Fernando) e Farnando
nella cella delle visite del braccio della morte di San Quentin.

Saai Maso. Fratello Cervo

Saai Maso. Fratello Cervo




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