Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Le stagioni del nichilismo. Un’analisi filosofica e una prognosi storica

Costanzo Preve

Le stagioni del nichilismo

Un’analisi filosofica e una prognosi storica

ISBN 978-88-7588-309-6, 2021, pp. 104, , Euro 10 – Collana “Divergenze” [79].
In copertina: Alberto Giacometti, L’Objet invisible (Main tenant le vide), 1934-35.

indicepresentazioneautoresintesi


Il 1998 è un anno particolarmente opportuno per iniziare un discorso critico complessivo sul nichilismo italiano, la sua origine storica ed ideologica, le sue divisioni interne, la sua dinamica di sviluppo. Il nichilismo filosofico italiano, vogliamo dirlo subito con chiarezza, non è un fenomeno da baraccone o una moda giornalistica. Si tratta di una cosa molto seria, ed anzi in senso assoluto di una delle correnti filosofiche più importanti nel panorama del Novecento culturale italiano. Parlando pacatamente, e pesando bene le parole, si tratta di un fenomeno complessivamente serio ed importante come lo fu il neoidealismo italiano di Croce e di G. Gentile. Il lettore potrà forse stupirsi di una valutazione tanto favorevole, avanzata da chi non si riconosce in questa corrente di pensiero, la respinge radicalmente e ne auspica esplicitamente il superamento. Ma la valutazione storiografica della rilevanza di una corrente filosofica non ha nulla a che vedere con la scelta filosofica personale di un pensatore. I criteri, per l’appunto, sono di tipo storiografico, e prendono in considerazione l’ampiezza, l’articolazione interna, l’influenza sociale e culturale di una determinata corrente di pensiero. In questo 1998 l’intellettuale-massa italiano, il lettore delle pagine culturali dei giornali, lo spettatore “colto” dei dibattiti televisivi, l’insegnante diviso fra degradazione crescente del suo ruolo sociale e velleità di rinascita sulla base della falsa onnipotenza e della concreta impotenza della “scuola-fai-da-te”, eccetera, è in media “nichilista” almeno come più di mezzo secolo fa era “crociano”.

Il nichilismo non deve dunque diventare oggetto di spiritose stroncature di costume, ma deve essere preso molto sul serio. Recenti pubblicazioni, che richiameremo ovviamente nella nota bibliografica in coda a questo saggio, ci invitano a farlo. È un peccato che queste pubblicazioni, in piccola parte anche per loro colpa, vengano fagocitate dalla chiacchiera giornalistica sugli schieramenti di destra e di sinistra nell’Italia dell’Ulivo. Il nichilismo debole di G. Vattimo è di destra, mentre il nichilismo forte di M. Cacciari è di sinistra, o non è piuttosto l’inverso? Ed ancora, è più di sinistra un nichilismo laico, postmoderno, debole e tranquillizzante, oppure un nichilismo più aperto all’esperienza religiosa, forte ed inquietante?

Nello stesso momento in cui pongo queste stupide domande, mi vergogno di fronte al lettore di queste note. In altra sede ho respinto radicalmente la pertinenza della dicotomia “destra”/”sinistra”, e lo ribadisco con forza anche qui. Tuttavia, se c’è un campo in cui questa dicotomia è particolarmente fittizia, pretestuosa ed inesistente, è proprio il campo delle oggettivazioni universalistiche, come la filosofia, l’arte, la scienza e la letteratura. Eppure, sono gli stessi pensatori “nichilisti” italiani che, su questo punto, danno corda alla curiosità classificatoria dei giornalisti, dal momento che la maggior parte di loro invece accetta integralmente la pertinenza della dicotomia destra/sinistra, e dunque nessuno di loro vuole essere classificato a “destra”, ma vogliono tutti invece essere fieramente riconosciuti come i “veri” pensatori di sinistra.

Tutto ciò avviene per tristi ragioni di congiuntura storica. Mentre al tempo della Prima Repubblica (1948-1992) il potere economico e politico stava maggiormente nelle mani della Democrazia Cristiana, ed il potere culturale invece gravitava maggiormente nell’area del defunto Partito Comunista Italiano e dei suoi alleati socialisti, nella presente incipiente Seconda Repubblica l’alleanza di centro-sinistra denominata Ulivo tende ad unificare il potere politico, il potere economico ed il potere culturale, e gli intellettuali si adeguano, anche perché gli “oppositori”, da S. Berlusconi a U. Bossi, vengono percepiti dall’intellettuale-massa conformista come esponenti della non-cultura, ed allora l’adesione simbolica all’Ulivo, o meglio ad un generico ulivismo, appare come uno status symbol culturale obbligato. La stragrande maggioranza dei filosofi “nichilisti” attivi è dunque tendenzialmente di area ulivista, ed ancor più precisamente di area PDS. Volendo scherzare un poco, ma non poi troppo, si potrebbe dire che la separazione fra nichilisti “deboli” e nichilisti “forti” duplica la scissione fra un PDS appagato ed un PDS inquieto, un PDS soddisfatto ed un PDS tormentato. Ma vogliamo rassicurare subito il lettore. Non ci metteremo su questa strada buffonesca. L’ulivismo è un fenomeno storico tragicomico da analizzare in altra sede e con altri strumenti. Qui è bene tornare al nostro proposito iniziale: prendere il nichilismo italiano sul serio. In un saggio breve come questo, in cui lo spazio è programmaticamente limitato, è indispensabile non perdersi troppo nei dettagli, e seguire una linea di ragionamento che non confonda il lettore, ma lo aiuti ad impadronirsi dei termini teorici essenziali della questione.

Lo faremo sviluppando il ragionamento in tre momenti successivi. In primo luogo partiremo dalla situazione culturale italiana attuale, in cui l’egemonia filosofica del nichilismo è un fatto, ed è un fatto che si è consolidato ed irrobustito gradualmente negli ultimi due decenni, a partire dalla metà degli anni Settanta circa. Cercheremo di fare alcune ipotesi di spiegazione di questa crescente egemonia, ipotesi peraltro abbastanza ovvie e di facile comprensione. In proposito, è importante capire che le odierne tensioni nel campo del nichilismo italiano, che la chiacchiera giornalistica più recente ha reso palesi, sono un segno di forza e non di debolezza del nichilismo, come a suo tempo era un segno di forza e non di debolezza del neoidealismo la tensione fra Croce e G. Gentile. Già Hegel aveva parlato di segno di “forza” di un partito filosofico il fatto di scindersi, e di poter sopportare la scissione rafforzandosi anziché scomparire. Nello stesso tempo, deve essere chiaro che restando nel circolo delle polemiche fra le varie correnti del nichilismo italiano si continua a girare in tondo senza alcun costrutto. È necessario prendere le distanze dall’immediatezza, ed affrontare il tema del nichilismo con una ben maggiore prospettiva storica e filosofica.

In secondo luogo, dunque, proporrò al lettore una simile presa di distanza storica e filosofica, attraverso tre punti distinti ma interconnessi. Primo, chiarirò che la nozione di nichilismo è una nozione squisitamente filosofica, che concerne dunque il significato esclusivamente filosofico di verità, ed è dunque una nozione il cui uso storico, ideologico e scientifico è fortemente sconsigliato, ed è anzi da evitare con forza. Secondo, distinguerò tre significati storico-filosofici di nichilismo assolutamente distinti, il nichilismo dell’Occidente, il nichilismo della modernità ed infine il nichilismo della contemporaneità postmoderna. L’importanza di questa distinzione è tale che vi dedicherò tre distinti paragrafi. Terzo, sosterrò che la maggior parte degli equivoci, che impediscono di impostare correttamente la questione del nichilismo, deriva dal fatto che il secondo significato è accuratamente evitato o radicalmente frainteso, ed in questo modo si crea un corto circuito interminabile fra il primo significato ed il terzo, che vengono connessi direttamente l’un l’altro senza mediazione alcuna, con il bel risultato di far saltare l’intero “impianto elettrico”.

In terzo luogo, per finire, tornerò alla discussione contemporanea sul nichilismo italiano alla luce del punto di vista espresso alla fine del secondo momento del mio ragionamento: la questione cruciale è il nichilismo della modernità, non il corto circuito fra il nichilismo dell’Occidente e l’attuale nichilismo della contemporaneità postmoderna. Se si assume questo punto di vista, la cui fecondità si tratta appunto di mostrare al lettore, molte cose altrimenti incomprensibili ed oscure “andranno al loro posto”. Sarà allora non solo possibile comprendere la logica delle scissioni e delle differenziazioni interne al nichilismo italiano, ma anche prendere finalmente una posizione radicalmente esterna ad esso. Non dico che sia una cosa facile. Dico soltanto che è una cosa in via di principio possibile.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Costanzo Preve (1943-2013) – Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi

Costanzo Preve

Le avventure dell’ateismo

Religione e materialismo oggi

ISBN 978-88-7588-307-2, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [78].
n copertina: René Magritte, Arte della conversazione, 1963.

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Questo breve saggio discute un tema estremamente “lavorato”, noto e diffuso, sul quale la bibliografia è enorme: il rapporto conflittuale e la connessa scelta preferenziale fra ateismo e religione.

È molto difficile dire qualcosa di nuovo su di un tema così “saturo”. Eppure vale la pena tentarlo, anche perché intendo sostenere una tesi in apparenza molto banale, che resta però sconcertante per la maggioranza: la dicotomia ateismo/religione non è una dicotomia essenziale né per comprendere il legame sociale contemporaneo né per indagare il senso individuale della vita oggi, e di conseguenza è impossibile stabilire a priori, con una scelta di campo – di affiliazione, di appartenenza e di identità – quale sia la posizione più valida.

Ateismo e religione sono diventati oggi involucri di contenuti eterogenei, conflittuali e contrastanti. In buona compagnia con le inutili dicotomie come borghesia/proletariato, destra/sinistra, materialismo/idealismo, eccetera, anche la dicotomia ateismo/religione deve essere sottoposta ad epoché, cioè a messa fra parentesi, a dubbio metodico, ad indagine ravvicinata. Le preventive etichette identitarie sono nemiche del chiarimento storico e filosofico dei termini impiegati.

Detto così, sembra molto semplice, ed anche un po’ banale. Tuttavia, la mia affermazione si scontra oggi con due tipi di pregiudizio estremamente robusti e profondi.

Da un lato, duecento anni di razionalismo illuministico, laicismo positivistico ed ateismo marxista ci hanno abituato a considerare la critica della religione, o più esattamente delle superstizioni e delle illusioni religiose, il presupposto irrinunciabile di una visione del mondo scientifica e coerente.

Dall’altro, l’evidente crisi attuale del razionalismo illuministico e del materialismo marxista, entrambi consumatisi per una dialettica di logoramento interno assai più che per un attacco esterno, ha portato molti a rivalutare la fede religiosa non solo per le vecchie e solide ragioni della consolazione individuale nei momenti cruciali della vita, ma anche per la diretta applicazione alla politica del linguaggio teologico e religioso (teologia della liberazione, secolarizzazione, messianesimo, eccetera).

Il segno di eguaglianza che intendo mettere in questo saggio fra ateismo e religione non è però un segno di indifferenza. Non intendo affatto sostenere che si tratta di sciocchezze, pseudo-problemi, crampi mentali, ed altre ingenuità frutto di una frettolosa applicazione delle categorie della filosofia analitica.

La mia tesi è assolutamente opposta: dietro l’apparenza fuorviante dello scontro identitario fra atei e credenti, che si autoclassificano preventivamente in campi conflittuali opposti in base ad una dichiarazione preliminare di adesione all’esistenza o all’inesistenza di Dio, ci stanno contenuti filosofici che vengono sfigurati e schiacciati dal giuramento di appartenenza. Sono questi i contenuti che intendo portare alla luce. Ma è appunto impossibile portarli alla luce se prima la fuorviante dicotomia identitaria non è razionalmente “superata”.

Come si vede, si tratta di una tesi semplice, nonostante le inevitabili contorsioni terminologiche ed i riferimenti culturali, teologici e filosofici colti, semicolti ed incolti cui accennerò in questo saggio, che ho diviso per brevità e chiarezza in soli dieci paragrafi, di valore teorico e filosofico ineguale.

I paragrafi 1, 9 e 10 propongono la mia tesi fondamentale presente nell’intero saggio: la dicotomia ateismo/religione è una dicotomia di tipo identitario, che sostituisce la professione preventiva di appartenenza, talvolta paranoica, al confronto sui contenuti filosofici. Ma affermando o negando Dio gli uomini prendono posizione su due cose interconnesse: il senso della loro vita individuale e la natura del loro legame sociale complessivo.

Sono queste, e solo queste, ed unicamente queste le cose interessanti e rilevanti, ed il fatto che vengano espresse in linguaggio materialistico e/o teologico è certo rilevante, sintomatico ed interessante, ma non è primario per la comprensione dei problemi. I paragrafi 1, 9 e 10 sono stati separati perché mi è sembrato giusto non esporli “in fila”, ma metterci in mezzo un ampio materiale di tipo storico e filosofico.

Il paragrafo 2 discute del difficile posizionamento della religione moderna (e dunque post-cinquecentesca, sia cattolica che protestante) nel triangolo sociale e culturale formato dalle classi signorili, dalle classi popolari e dalle classe borghesi. È in proposito fondamentale la distinzione fra l’ateismo e la scristianizzazione. Le chiese non hanno mai temuto l’ateismo, che è anzi l’interlocutore teorico ideale di ogni teologia intelligente, ma hanno sempre combattuto la scristianizzazione, che è un fenomeno sociale globale sostanzialmente irreversibile perché coincidente con il legame sociale capitalistico globalizzato. Ogni discussione sull’ateismo è dunque utile soltanto quando incorpora “in controluce” una discussione sulla scristianizzazione in Occidente. Ogni “professione di ateismo” è a mio avviso sempre una religione, una religione umanistica dell’immanenza assoluta, ed ogni “assoluto” è sempre implicitamente trascendente.

Il paragrafo 3 valorizza due pensatori cattolici italiani “reazionari”, del tutto estranei ed anzi avversi al cattolicesimo “progressista”, che però hanno saputo cogliere il nesso fra logica della modernità, sviluppo della scristianizzazione ed ateismo filosofico. I due pensatori, ormai entrambi scomparsi, sono Cornelio Fabro ed Augusto del Noce. A mio avviso si tratta di pensatori “tragici”, per un insieme di ragioni cui accennerò brevemente.

I paragrafi 4 e 5 sono dedicati alla distinzione cruciale fra la professione di ateismo (da D’Holbach a Engels e da Lenin a Geymonat), che a mio avviso è sempre una religione, cioè una rappresentazione del reale, e l’interpretazione dell’ateismo (da Hegel a Heidegger), che a mio avviso è sempre una filosofia, cioè una concettualizzazione del reale. Prego il lettore di considerare cruciale questa distinzione.

I paragrafi 6 e 7 sono dedicati a due distinte forme di “dialogo”, quella fra i cosiddetti “laici” ed i cosiddetti “credenti”, dialogo in cui personalmente non credo, e che infatti ho definito il dialogo simulato ed impossibile fra Voltaire e Gesù, ed il dialogo, oggi scomparso ma un tempo alla moda, fra “marxisti” e “cristiani”. Su questo dialogo si sono accumulati molti fraintendimenti, sui quali cercherò di fare un po’ di luce, o quanto meno di avanzare un’interpretazione nuova, e certamente contro corrente.

Infine, il paragrafo 8 è dedicato al fondamentalismo, cioè all’uso politico (e geopolitico) diretto di categorie teologiche. In questo momento l’Islam mi sembra l’unico fondamentalismo ancora parzialmente possibile, mentre non vedo alcuno spazio per fondamentalismi cristiani o ebraici, data la loro incorporazione subalterna nella globalizzazione capitalistica e soprattutto nell’americanizzazione.

L’intero saggio, per la sua brevità, non intende avanzare tesi assertorie, ma solo fornire materiale per un dibattito ancora da svolgere.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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