Jean Duvignaud (1921-2007) – L’immaginazione è molto di più dell’immaginario. Essa abbraccia l’intera esistenza dell’uomo.

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Sociologia dell'arte

Sociologia dell’arte

«L’immaginazione è molto di più dell’immaginario. Essa abbraccia l’intera esistenza dell’uomo. Perché attraverso i simboli offerti da un’opera dell’immaginazione non soltanto rispondiamo con sentimento o ammirazione, ma partecipiamo ad una società potenziale che sta al di là della nostra portata».

Jean Duvignaud, Sociologie de l’Art [1967], Sociologia dell’arte, tr. it. di Donatella Barbagli, a cura di Graziella Ungari Pagliano, il Mulino, 1969.

Sociologie de l'Art

Sociologie de l’Art

 

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Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.

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Minima moralia

Minima moralia

 

«L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà come superattività, attinge a quel concetto borghese della natura che è servito sempre e soltanto a sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità […]».

Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno, Meditazioni della vita offesa, Einaudi, 1979, pp. 184-185.

 

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Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana.

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Wilhelm Meister. Gli anni di apprendistato

Wilhelm Meister. Gli anni di apprendistato

«Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana, eppure tarda a spegnersi e mai del tutto si estingue. Tu non senti nell’animo la forza di soffiare su questa scintilla, non senti nel tuo cuore la ricchezza per attizzare la scintilla [?]».

Johann Wolfgang Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, in WA, Bde. 21-23, trad. it. di Traduzione di Anita Rho, Emilio Castellani, Wilhelm Meister. Gli anni di apprendistato, Adelphi, 2006.

Risvolto di copertina

Pubblicato per la prima volta fra il 1795 e il 1796, Gli anni dell’apprendistato cristallizza poeticamente l’inaudita ampiezza d’orizzonte del Goethe maturo, l’«uomo universale» che volle mostrare come un giovane, un carattere sentimentale e un alfiere dell’ideale qual è Wilhelm si educhi e si prepari alla vita, ponendo fine al suo apprendistato. Romanzo prodigioso e inesauribile nel quale, scrive Hermann Hesse, «tutto Goethe si rispecchia ... lo spirito infuocato e l’impeto selvaggio dei tempi del Werther vi echeggiano ancora, già prossimi a spegnersi, vi avvertiamo i frutti dell’amicizia con Schiller, le tracce degli influssi italiani, si respira – limpida e piena – tutta l’atmosfera dei migliori anni di Weimar».

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Non si può chiedere al fisico di essere filosofo; ma ci si può attendere da esso che abbia sufficiente formazione filosofica
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Qualunque sogno tu possa sognare, comincia ora.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.

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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – L’amore esclude ogni opposizione, non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. Nell’amore si trova la vita stessa. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto. L’amore è più forte della paura. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri.

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Scritti teologici giovanili

Scritti teologici giovanili

«Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di parti particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità; partendo dall’unità non sviluppata, la vita ha percorso nella sua formazione il ciclo che conduce ad un’unità completa. Di contro all’unità non sviluppata stavano la possibilità della separazione e il mondo; durante lo sviluppo la riflessione produceva sempre più opposizioni che venivano unificate nell’impulso soddisfatto, finché la riflessione oppone all’uomo il suo stesso tutto, l’amore infine, distruggendo completamente l’oggettività, toglie la riflessione, sottrae all’opposto ogni carattere di estraneità, e la vita trova se stessa senza ulteriore difetto. Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente.
Poiché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali, solo in quanto pensano questa possibilità di separazione, non in quanto siano realmente qualcosa di separato, non in quanto il possibile congiunto con un essere sia qualcosa di reale. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire. Che la pianta abbia sale e parti di terra le quali recano in sé leggi proprie del loro operare, lo dice la riflessione di un estraneo, e significa solo che la pianta può decomporsi. Ma l’amore si sforza di togliere anche questa differenza, questa possibilità come mera possibilità, e di unificare quel che è mortale, di renderlo immortale. Il separabile, finché prima dell’unificazione completa è ancora qualcosa di proprio, crea difficoltà agli amanti: vi è una specie di contrasto fra la completa dedizione, l’unico annullamento possibile, l’annullamento dell’opposto nell’unificazione, e l’autonomia ancora sussistente: la prima si sente impedita dalla seconda.
L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato, di ciò che è una proprietà: e questo sdegnarsi dell’amore di fronte ad un’individualità è il pudore, il quale non è una reazione subitanea di ciò che è mortale, non è una manifestazione della libertà di conservarsi e di sussistere. In un’aggressione priva di amore, un animo pieno di amore viene offeso da questa ostilità, il suo pudore diviene ira che ora difende solo la proprietà, il diritto. Se il pudore non fosse un effetto dell’amore, che ha la forma dello sdegno solo perché vi è qualcosa di ostile, ma fosse qualcosa per sua natura ostile che volesse salvaguardare una proprietà attuabile, si dovrebbe dire che il massimo pudore ce l’hanno i tiranni, o le ragazze che non concedono senza denaro le loro grazie, oppure le donne vanitose che vogliono incatenare con i loro vezzi. Né gli uni né le altre amano: la loro difesa di ciò che è mortale è il contrario dello sdegno che si ha per esso: essi attribuiscono a quel che è mortale un valore in sé, sono cioè senza pudore.
Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto: l’amore si rimprovera che vi sia ancora una forza, un qualcosa di ostile che ne ostacola il compimento. Il pudore subentra solo con il ricordo del corpo, con la presenza personale, col sentire l’individualità: esso non è paura per ciò che è mortale, che è solo proprio, ma è paura del mortale, del proprio, paura che svanisce via via che il sensibile è ridotto sempre a meno dall’amore. L’amore infatti è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma accompagnato da essa toglie le separazioni, temendo solo di trovare un’opposizione che gli resista o che resti addirittura salda. Esso è un prendere e dare reciproco; nel timore che i suoi doni possano essere sdegnati, nel timore che un opposto possa non cedere al suo prendere, vuol vedere se la speranza non lo ha ingannato, se trova in ogni modo se stesso. Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro: si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori. Giulietta nel “Romeo e Giulietta”: “Più ti do, tanto più io ho”.
L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabilità, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa e procrea, un vivente. L’unificato non si separa più, la divinità ha operato, ha creato. Ma questo unificato è solo un punto, un germe: gli amanti non gli possono partecipare nulla, sì che si ritrovi in lui un molteplice; infatti nell’unificazione non si è lavorato su un opposto, essa è pura da ogni separazione; tutto ciò per cui un molteplice può essere, può avere un’esistenza, il neo-generato deve averlo condotto a sé, opposto e unificato. Il germe si dà sempre più all’opposizione ed incomincia a svilupparsi; ogni grado del suo sviluppo è una separazione per riguadagnare l’intera ricchezza della vita. Così si danno ora: l’unico, i separati e il riunificato. Gli unificati si separano di nuovo, ma nel figlio l’unificazione stessa è divenuta inseparata.
Questa unificazione dell’amore è sì completa, ma può esserlo unicamente in quanto il separato è opposto in tal modo che l’uno è l’amante e l’altro è l’amato e che quindi ogni separato è un organo del vivente. Ma oltre a ciò gli amanti sono ancora legati con molti elementi morti; a ciascuno appartengono molte cose, cioè ciascuno è in relazione con opposti che anche per colui che vi si rapporta sono ancora opposti, ancora oggetti; così gli amanti sono ancora capaci di una molteplice opposizione nel loro molteplice acquisto e possesso di proprietà e diritti. Ciò che è morto ed è in potere dell’uno è opposto ad entrambi e l’unificazione sembra poter aver luogo solo se quel che è morto cade sotto il dominio di entrambi. L’amante che vede l’altro in possesso di una proprietà non può non sentire nell’altro questa voluta particolarità; né egli può da sé togliere l’esclusivo dominio dell’altro, perché ciò sarebbe di nuovo un’opposizione contro la potenza dell’altro, non potendovi essere altra relazione all’oggetto all’infuori della padronanza di esso; egli contrapporrebbe al dominio dell’altro una padronanza e toglierebbe una relazione dell’altro, l’esclusione di tutti gli altri. Giacché il possesso e la proprietà costituiscono una parte così importante dell’uomo, delle sue cure e dei suoi pensieri, neanche gli amanti possono trattenersi dal riflettere su questo lato dei loro rapporti; ed anche se l’uso fosse comune, resterebbe tuttavia indeciso il diritto al possesso; il pensiero di questo diritto non sarebbe certo dimenticato, perché tutto ciò che gli uomini possiedono ha la forma giuridica della proprietà; e se pure il possessore pone l’altro nel suo stesso diritto di possesso, tuttavia la comunanza dei beni è solo il diritto di ognuno dei due alla cosa.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, frammento n. 10 degli abbozzi ai Theologische Jugendschriften, noto come Frammento sull’amore, in: Scritti teologici giovanili, vol. II, Guida, Napoli, 1972 (traduz. di N. Vaccaro e E. Mirri).


Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.

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Daniele Orlandi – Attraverso il prisma dostoevskijano, Camilla Migliori ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti.

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Dostoevskj

Camilla Migliori, Dostoevskij. Il destino di uno scrittore, la libertà di una coscienza, Aracne, 2016, pp. 270, € 12.

Ai vertici della letteratura universale si incontra l’opera di Fëdor Dostoevskij (1821-1881). Una letteratura tanto grande quanto enormi sono i temi – il tema, a ben vedere – che essa affronta: l’indagine spietata sul senso dell’esistenza, dal “sottosuolo” dell’animo umano fino all’eventualità (e, talvolta, al rimpianto) di Dio. I frutti della strenua ricerca vengono declinati in romanzi filosofici imperituri – da Povera gente (1846) a I fratelli Karamazov (1880), passando per Memorie dal sottosuolo (1864) e Delitto e castigo (1866), solo per citarne alcuni – dove il grandangolo dello scrittore russo si allarga via via ad inglobare l’intero enigma-uomo. Chiavi d’accesso ne sono la povertà e la ricchezza, la colpa e l’espiazione, la fede e l’ateismo, perenni irrisolvibili dicotomie.
Se fosse possibile comporre in un’unica degna citazione le molte anime che formano il «magma dostevskiano» (p. 181), sceglieremmo senza dubbio alcuno un luogo dell’intercessione di San Bernardo alla Vergine: «[…] Questi, che da l’infima lacuna/ de l’universo infin qui ha vedute/ le vite spiritali ad una ad una» (Dante, Par., XXIII 22-24).
Dopodiché, per pudore, più non diremmo.
Siamo invece chiamati a parlare di Camilla Migliori – regista teatrale, drammaturga e pittrice, con una quarantennale carriera alle spalle – e del suo coraggioso e appassionato confrontarsi con il creatore di Ivan Karamazov. Un dialogo ininterrotto che approda, per ora, a questa raccolta di tre testi teatrali basati sulla biografia e sulla poetica dell’autore. «Ne sono stata influenzata», confessa l’autrice, «coinvolta, a volte perseguitata e in ogni mio lavoro c’è una traccia che rimanda al pensiero del grande scrittore» (p. 5).
Dostoevskij. Il destino di uno scrittore, la libertà di una coscienza. Si tratta, ripercorrendolo di propria mano, del tentativo di illuminare il percorso spirituale dell’uomo Dostevskij riverso nelle opere fino a coincidere con esse. Vorremmo dire, fin da subito, che si è altresì davanti a un esempio pregevole non solo di costruzioni dialogiche da parte di Camilla Migliori ma anche di un’immersiva investigazione e trasposizione dell’autrice nell’autore, sia pure sotto le mentite spoglie di un narratore-personaggio. In questo senso, si potrebbe affermare che il contributo di Camilla Migliori alla comprensione del messaggio dostevskiano sia anche questo: Fëdor è destinato a divenire il doppio autobiografico di ogni artista che abbia un altissimo concetto dell’arte, impossibile da svilire in mere indagini di mercato.
Non è la prima volta che l’autrice va ingaggiando un corpo a corpo con classici che hanno scoraggiato (e spesso sconfitto) molti suoi colleghi. Abbiamo già avuto l’onorevole occasione di parlarne e di apprezzare la profondità dello scavo nonché l’eleganza del suo tocco prefando La carriera di Edipo (2015), mise en abyme della tragedia sofoclea. Allora parlammo di gioiello letterario. Nel presente caso rinnoviamo convintamente l’impressione.
Fotogrammi di una vita è il primo e più cospicuo capitolo di questa trilogia. Vi sono rappresentate, con fluido montaggio, le più significative stazioni della vicenda biografica dello scrittore, inesauribili fonti d’ispirazione per le sue opere. I lutti genitoriali in tenera età, le prime letture di Puškin e Turgenev, il tormento dell’epilessia, le difficoltà economiche, la morte di due adorati figli, il primo romanzo e l’avvicinamento – mai acritico – al socialismo utopistico di marca fourieriana, fino all’arresto e alla condanna a morte per attentato allo Stato poi commutata in quattro anni di lavori forzati nelle lande siberiane e cinque di esilio. Nasce in tal grembo quel grande affresco dell’universo concentrazionario che è Memorie di una casa di morti (1861-1862). Esperienza, quest’ultima, che costituisce uno spartiacque nella vita dell’autore, nell’esatto momento in cui il plotone d’esecuzione lo sta consegnando al nulla: «La consapevolezza che ciò è inevitabile. Questa è la coscienza del vero dolore» (p. 188).
Particolarmente pregnante è la messa in scena della differenza tra i due maggiori scrittori russi del tempo, Dostoevskij e Lev Tolstoj. Per l’autore di Anna Karenina, lo scontro tra Bene e Male può essere descritto solo oggettivamente, come frutto dei conflitti interni alle società mentre per Dostoevskij è il cuore umano l’unico vero «campo di battaglia» (p. 212) della guerra tra Dio e Satana. Siamo davanti a un Dostoevskij che ha abbandonato la poetica del realismo puro in favore di uno sguardo introspettivo nel pozzo della psicologia umana, «capace di riunire in sé tutti i possibili contrasti e di contemplare a un tempo i due abissi» (p. 216) dell’ideale e della degradazione.
In Dostoevskij. Un uomo, una moltitudine, secondo tempo del trittico, protagonisti sono lo scrittore e i suoi personaggi, in un momento scenico onirico e metaletterario di grande suggestione. Qui emergono in straordinaria sequenza i nuclei tematici maggiori del suo pensiero. Colpisce particolarmente l’interrogarsi sul problema del Male e segnatamente nei confronti degli innocenti, che sembra sconfessare o di certo mettere in discussione i disegni divini. E non può non venire in mente la domanda principe che Primo Levi pone al mondo, quasi al termine della sua lunga riflessione su Auschwitz, nel capitolo Vanadio del Sistema periodico: «Perché i bambini in gas?».
Infine, in Conversazione. Da Dostoevskij a Tarkovskij, Camilla Migliori mette in scena un dialogo tra un editore affarista e uno scrittore iconoclasta di se stesso e dedito alla difesa del supremo senso dell’arte e non sarà casuale il riferimento a Tarkoskij, regista inviso al regime stalinista per la scelta di seguire la libera ispirazione contro il diktat di un’arte asservita alla costruzione dell’uomo nuovo sovietico. Il cerchio dunque va chiudendosi dove l’abbiamo aperto seguendo la medesima circonferenza tracciata da Camilla Migliori. Attraverso il prisma dostoevskijano, l’autrice ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti, nel senso più nobile del termine. Se non negli abissi del cielo e della terra, certamente in quello della complessa, mutevole personalità di Fëdor Dostoevskij, luogo nel quale l’opera di Camilla Migliori fa, ancora una volta, da affidabile guida e lucerna.

DANIELE ORLANDI


I libri di Camilla Miglori

Un cuore che non trema

Un cuore che non trema

Noie, paranoie, piccole manie

Noie, paranoie, piccole manie

Narrativa in scena

Narrativa in scena

Le donne e il loro dòimon

Le donne e il loro dòimon

L'era del granchio

L’era del granchio

Effetto Mozart

Effetto Mozart

Crimini, finzioni, misfatti

Crimini, finzioni, misfatti

Coperta 233_ISBN

La carriera di Edipo

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Daniele Orlandi – Costanzo Preve sulla «zona grigia» di Primo Levi
Daniele Orlandi – Nostalgie semiserie di un medievista senza Eco
Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati

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Claudio Lucchini – L’etica umana tra natura e storia. Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante.

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274ISBN

Claudio Lucchini

L’etica umana tra natura e storia

Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante

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L’esigenza di articolare unitariamente e dialetticamente le fondamentali determinazioni biologiche ed ontologico-sociali del campo problematico proprio dell’etica umana costituisce l’ossatura di fondo dei saggi qui proposti. Nel rifiuto sia di ogni radicale discontinuismo grossolanamente metafisico, sia di qualunque appiattimento riduzionistico, essi si propongono di abbozzare un discorso che ribadisca la validità universalistica di una prospettiva anticapitalistica e radicalmente democratica. Così facendo, si addita nella progettazione definita e attuabile di una quotidianità disalienata di libere individualità la difficile, non garantita ma indispensabile meta dell’arduo cammino volto a inverare le più alte potenzialità degli esseri umani, considerati nella loro intrascendibile determinatezza materiale-naturale.


I quattro capitoli

Sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Carrelli e moduli: i problemi delletica umana nellintreccio di biologia e storicità concreta

La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Negatività del male e nullificazione del morire: riflessioni sulla scorta di Jean Améry.



191-isbn

Il cervello e il bene

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Claudio Lucchini, Scritti su democrazia, comunismo e materialismo.

Claudio Lucchini, Il Bene come possibile processo concreto. Natura umana e ontologia sociale.


Claudio Lucchini – Alcune riflessioni sulle nozioni di felicità e di natura umana nel pensiero di Luca Grecchi.

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Staffan Nihlén – La prudenza del segno.

Staffan Nihlén

275 ISBN

Staffan Nihlén

La prudenza del segno

ISBN 978-88-7588-183-2, 2017, pp. 40, , Euro 5, Collana “Egeria [19]
Cura editoriale di Moreno Fabbri

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La prudenza del segno di Staffan Nihlén, edito in occasione della mostra omonima, tenutasi presso la Villa Castello Smilea di Montale (PT), nell’ambito delle manifestazioni di “Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017”, offre al lettore italiano la possibilità di stabilire un contatto con l’attività dell’artista scandinavo mediante la documentata e ben articolata presentazione di Moreno Fabbri, corredata da numerose foto delle opere recenti dell’autore: acquerelli, disegni, sculture e pitture di piccole e grandi dimensioni, una parte delle quali sono state presentate nella bella mostra di Villa Smilea.


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Villa Smilea

A Villa Smilea la mostra dedicata a Staffan Nihlén
A Villa Smilea con la musica si apre la mostra di Nihlén
MET – Una mostra a Villa Smilea di Staffan Nihlén
Staffan Nihlén, uno svedese a Montale – Report Pistoia
La prudenza del segno – Castello Villa Smilea

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Det bevingade ordet i Malmö

Det bevingade ordet i Malmö

Mänsklig åtbörds varsamhet i Lund

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Mediterraneo

 


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Massimo Mungai – Rendiamo la solitudine strumento per far germogliare le nostre emozioni e per dare nuovo valore al silenzio, atto preparatorio al comunicare con gli altri.

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«Il giorno in cui il potere dell’amore supererà l’amore per il potere
il mondo potrà scoprire la pace».
Gandhi

 

 

«Aspirando al superfluo si perde il necessario».
Proverbio persiano

 

276 ISBN

Massimo Mungai

Ombreggiature. Poesie. Racconti brevi

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Impronte di un uomo ordinario

Impronte di un uomo ordinario

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203_Isbn

Spicchi dìAglio

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Le menzogne della verità

Le menzogne della verità


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute.

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«La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono il desiderio, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita. Costoro non possono vivere soli, e l’uomo è sempre solo anche se si è posto dinanzi la propria natura e di questa rappresentazione ha fatto il suo compagno e in essa gode se stesso; egli deve trovare anche il rappresentato come un vivente. Lo stato dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere o soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un tendere a superare il negativo del mondo sussistente per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere. La sua sofferenza è legata con la coscienza dei limiti, a causa dei quali egli disprezza la vita così come essa gli sarebbe permessa: egli vuole il proprio soffrire; mentre invece il soffrire dell’uomo che non ha riflessione sul proprio destino è senza volontà, poiché egli onora il negativo, i limiti, solo nella forma della loro esistenza giuridica e autoritaria come insormontabili, e prende le proprie determinatezze e le loro contraddizioni come assolute, e ad esse, anche se persino esse ledono i suoi impulsi, sacrifica se stesso e gli altri.

Il superamento di ciò che riguardo alla natura è negativo, riguardo alla volontà positivo, non viene operato mediante violenza, né una violenza che si faccia noi stessi al nostro destino, né una violenza che si sperimenti dal di fuori; in ambedue i casi il destino rimane ciò che è; la determinatezza, il limite non viene separato dalla vita con la violenza; violenza straniera è particolare contro particolare, la rapina di una proprietà, un nuovo dolore; l’entusiasmo di un legato è un momento pauroso per lui stesso nel quale egli si perde, ritrovando la propria coscienza solo nelle determinatezze dimenticate, non divenute morte.

Il sentimento della contraddizione della natura con la sussistente vita è il bisogno che la contraddizione venga tolta, ed essa lo viene, quando la sussistente vita ha perduto la propria potenza e ogni sua dignità, quando è divenuta un puro negativo.

Tutti i fenomeni di questo tempo mostrano che la soddisfazione nella vecchia vita non si trova più; essa era un limitarsi a una signoria ordinatissima sulla nostra proprietà, un considerare e un godere il proprio piccolo mondo nella sua piena sudditanza e poi anche un autoannientarsi che conciliava questa limitazione e un elevarsi nel pensiero verso il cielo. Da una parte la miseria dei tempi ha intaccato questa proprietà, dall’altra i suoi doni hanno tolto nel lusso la limitazione, ed in ambedue i casi l’uomo è stato fatto Signore e il suo potere sulla realtà effettuale elevato al sommo. Sotto questa arida vita d’intelletto, per un verso è cresciuta la cattiva coscienza, che consiste nel rendere assoluta la nostra proprietà, – cose – e con ciò, per un altro verso è cresciuto il soffrire degli uomini; e il soffio di una vita migliore ha toccato questo tempo. Il suo impulso si nutre dell’agire di grandi caratteri di singoli uomini, di movimenti di interi popoli, della rappresentazione della natura e del destino da parte dei poeti; dalla metafisica le limitazioni ricevono i propri confini e la loro necessità nella connessione dell’intero. La vita limitata può soltanto allora, come potenza, venire con potenza aggredita dalla vita migliore, quando anche quest’ultima è divenuta una potenza e abbia da temer violenza. Come particolare contro particolare la natura nella sua vita effettiva è l’unico assalto o confutazione della vita peggiore, e una tale confutazione non può essere oggetto di un’attività intenzionale. Ma il limitato può essere assalito dalla sua propria verità, che in esso risiede e condotto in contraddizione con essa: la sua signoria si fonda non sulla violenza di particolari contro particolari, bensì su universalità; questa verità, il diritto, la quale esso rivendica a sé gli deve essere tolta e attribuita a quella parte della vita che viene richiesta.

Questa dignità di una universalità, di un diritto, è quella che rende così timida, come quella che vada contro coscienza, la richiesta posta dalla sofferenza e dagli impulsi che vengono in contraddizione con la sussistente vita, vestita di quell’onore. Al positivo del sussistente, che è una negazione della natura, viene lasciata la sua verità, che un diritto deve esserci.

Nello Stato tedesco l’universalità che ha potere, come fonte di ogni diritto, è sparita perché si è isolata facendosi particolare. L’universalità è perciò presente soltanto come pensiero, non come realtà effettuale. Riguardo a quello su cui l’opinione pubblica più chiaramente o più oscuramente ha deciso con la perdita della fiducia, ci vuol poco a rendere più universale una più chiara coscienza. E tutti i diritti sussistenti hanno il loro fondamento tuttavia solo in questo nesso col tutto, il quale nesso, non essendoci più da lungo tempo, li ha fatti divenire tutti dei particolari.

Ora, o si può prendere le mosse da quella verità che anche il sussistente ammette; allora tutti i concetti parziali che sono contenuti in quello di tutto lo Stato vengono concepiti come universali nel pensiero, e la loro universalità o particolarità nella realtà effettuale posta accanto ad essi; mostrandosi una tale unità-parte come particolare, salta allora agli occhi la contraddizione fra ciò che essa vuol essere, e soltanto per essa vien richiesta, e ciò che essa è».

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi,1972, pp. 9-11.


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Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Bravo Salvatore 05
Frammenti postumi

Frammenti postumi

La libertà di vivere i poliedrici colori del possibile

Il Nietzsche dei Frammenti postumi ci offre la sofferenza partecipata del filosofo alla comunità. Il processo di emancipazione passa attraverso l’esperienza dell’estraniamento, della distanza dal gusto plebeo per l’eccesso, per i cibi già confezionati ed offerti come insostituibili. L’abitudine ai cibi guasti diventa simile alla metafora clinica della condizione di coloro che abituati all’aria guasta hanno difficoltà a respirare l’aria buona. L’aria dei nostri giorni è perniciosa per coloro che vorrebbero respirare, vorrebbero, oltre l’orizzonte di un mondo delle sole cose, vivere l’esperienza umana della comunità. Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati. La violenza ideologica oscura la mente, incanutisce i pensieri, fa del grigiore la mortificazione quotidiana. La violenza capillare dell’utile e del calcolo ammorba e svuota la comunità dello spessore creativo che la rende viva. Epoca della sola crematistica, offre pensieri cattivi che come cibi intossicano con l’abitudine a gustare solo una tonalità, una nota di gusto. Allora può capitare che si respingano tutte le tavole, tutti i cibi preconfezionati, i pensieri del conformismo omologante che uccidono l’individuo e la comunità, per poter cominciare a vivere. Respingere i pensieri guasti ed i linguaggi edulcorati dal consumo coatto è un atto emancipativo che vuole coraggio, amore per se stessi e per gli altri. Si diventa un esempio, l’archetipo del possibile contro ogni determinismo pessimista. Nietzsche descrive la sua esperienza del rifiuto del conformismo ideologico ed accademico: [1] «Allora, furioso di disgusto, respinsi da me tutte le tavole a cui mi ero fino allora seduto e feci a me stesso promessa solenne di nutrirmi a caso e male, di erba e di erbaggi, lungo la strada, come un animale, addirittura di non vivere più, piuttosto che dividere i pasti con il “popolo degli attori” e i “cavallerizzi superiori dello spirito”: tali erano le dure espressioni che usavo».

Come non condividere l’effetto rabbioso dell’uscita dalla caverna e la rabbia nel sentirsi defraudati della vita, del possibile, dell’unicità dell’esperienza della vita mediante raggiri meramente mercantili. Ridotto a pura moneta sonante ogni pensiero si radica nel calcolo, ogni sentire se stessi diventa estraneo. La violenza che inquina le relazioni umane, i casi sempre più estremi delle nostre cronache, trovano la ragion sufficiente inespressa e che in pochi voglio esplicitare, nel clima di violenza scientemente organizzata dalla società della sola economia. Si urla allo scandalo, si fa appello alla denuncia ed ai diritti individuali lesi per non dire che l’unica denuncia vera è il rifiuto del cibo guasto che ha pervertito ogni etica ed ha trasformato l’imperativo categorico kantiano nel suo perverso doppio «Usa l’altro come mezzo mai come fine, anche te stesso».

L’uscita dalla caverna del capitale e dei mercanteggiamenti è rappresentato da Nietzsche come animale: divorare tutto, pensare tutto perché nulla si era pensato fino a quel momento. Dopo l’estraneamento, dopo il trauma della consapevolezza, non è finita, c’è ancora vita perché c’è ancora pensiero ed allora lontani dalla fuliggine dei giorni grigi si svela il possibile nel brillio dei molti colori, dei mondi possibili inesplorati nel proprio sé e di cui si vuol far dono: [2] «Allora aprii gli occhi per la prima volta, e subito vidi molte cose e molti colori delle cose, come non capita di vederne ai paurosi che stanno in un angolo, agli spiri preoccupati di sé, che se ne sono sempre stati a casa loro. Una specie di libertà da uccello, una specie di colpo d’occhio da uccello, una specie di mescolanza di curiosità e disprezzo come la prova chiunque abbracci con lo sguardo, senza parteciparvi, un’enorme verità di cose fu questo infine il nuovo stato raggiunto, nel quale resistei a lungo».

L’uscita dalla caverna della crematistica, da ogni idolatria, da ogni religione camuffata come libertà, è il mondo interiore, l’impegno alla cura di sé, alla libertà che rende leggeri perché libera dalla forza di gravità del pregiudizio, dal consumo illimitato che divora la possibilità di limare nuovi sguardi ed incontrare nuove parole.

Nietzsche ci insegna che il presente con i suoi muri invisibili possono essere abbattuti e la storia può tornare nelle nostre vite come nella comunità, ma dobbiamo trovare il disgusto pensato ed il coraggio di uscire dalle cucce che in cambio delle comodità ci restituiscono i ceppi e le catene.

Salvatore Bravo

 

[1] F. Nietzsche, Frammenti postumi, volume VII, Adelphi, Milano, 1975, p. 373.

[2] Ibidem, p. 374.


271 ISBN

L’epoca del PILinguaggio

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Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio.

ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità. L’epoca attuale destina ricchezza materiale ai pochi e povertà linguistica ai molti: povertà lessicale, manomissione dei significati delle parole, riduzione della parola a funzione calcolante, aggressione culturale imperialistica alle lingue nazionali. La povertà lessicale non è semplicemente una forma di regressione culturale legittimata dalla cultura del fare, della didattica breve, del problem solving, ma trova la sua ragion d’essere nel liberismo globale, per il quale ogni riflessione eccedente i bisogni dell’economia è già un limite per le logiche mercantili. La lingua deve tracciare il suo senso nella sola produttività, nell’immediatezza della sua spendibilità, dev’essere funzione dell’illimitatezza della valorizzazione. Ogni linguaggio non immediatamente spendibile è stigmatizzato come inutile. Diviene così funzione, calcolo per previsioni consumistiche, diventa la pietra di confine conficcata nella terra dei consumi oltre la quale vi è il nulla. Novello Crono, il capitale divora – con i figli – le parole, al fine di colonizzare ogni comunità e renderle atomizzate e dominabili. La comunità politica è sostituita dal modello azienda, ed ha il suo centro nella competizione.

La neolingua si struttura nell’atomizzazione dei pensieri, delle frasi, che si articolano in modo da perdersi nell’emozione dell’immediato della compravendita delle pseudo relazioni virtuali. Il nichilismo di massa è alimentato e vive attraverso l’incompetenza linguistica che derealizza la realtà in monconi fonetici. Il riduzionismo politico filosofico si sostanzializza attraverso un linguaggio la cui articolazione logica arretra per lasciare spazio unicamente alla naturalizzazione del solo presente.



Salvatore Antonio Bravo

Potere e alienazione in Foucault

238 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Gli scritti di Foucault testimoniano un’attenzione rara alla vita che scorre ai margini: folli, mendicanti, prostitute, omosessuali, oziosi popolano molti dei suoi saggi, in particolare Storia della follia e Sorvegliare e punire.

Vi è uno spostamento della prospettiva attraverso cui leggere il potere; tradizionalmente il potere risiede in una figura (ad es. il sovrano), una classe, un’istituzione. L’analisi tradizionale del potere individua il soggetto attivo depositario del potere, si pensi al Principe di Macchiavelli, ed un soggetto che ne subisce l’azione: il suddito.

Il potere è studiato mediante la ‘posizione della rana’, affermazione del filosofo. Il potere è analizzato da Foucault nel suo costituirsi, non dal vertice ma dalle forze interagenti dal basso il cui effetto è il potere.


Salvatore Antonio Bravo

Foucault e la razionalità debole

250 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Il modello di razionalità è parte integrante della prassi di una comunità, la riflessione su di esso è necessaria per un’operazione “archeologica” di consapevolezza, ovvero le strutture cognitive sono segnate nella lingua come nei modelli di comprensione. La pastorale dell’incontro, tanto in voga riesce solo parzialmente a portare nuova vita nell’atto del pensare, tale operazione dev’essere completata con un’analisi-riflessione dei fondamenti del pensiero. L’interrogativo a cui dovremmo rispondere è il perché tanto sapere critico abbia prodotto risultati tanto parziali, finanche a volte reazionari.


 

 

Salvatore Antonio Bravo

L’ultimo uomo

257 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

L’opera di Nietzsche è spesso associata al superuomo dannunziano o all’oltreuomo di Vattimo, letture che rischiano d’essere limitate e strumentali. Col presente saggio si vuole riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia: l’ultimo uomo. La produzione filosofica su Nietzsche è stata sterminata, ma titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressochè assenti.

La consapevolezza dell’importanza dell’ultimo uomo per decodificare un pensatore così complesso è stata rilevata da Costanzo Preve, che ha spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo. Nella letteratura come nella filosofia il superuomo ha trovato una facile spendibilità ed accoglienza in un secolo segnato da un autentico delirio di grandezza imperialistico e genetico.  Ne è conseguito il dibattito sull’identità del superuomo ed il suo successo mediatico è stato rafforzato dal facile accostamento al nazionalsocialismo ed ai fascismi in generale.

Inoltre l’operazione per ‘ritrovare’ il Nietzsche autentico è stata complessa (vedasi traduzione e la ricostruzione filologica di Colli e Montinari); pertanto, nel tentativo di dare autenticità interpretativa al superuomo, notevole ne è stata la fama ed il successo che ne è conseguito. Quest’operazione ha comportato un ridimensionamento di molti e più interessanti aspetti del filosofo.

L’ultimo uomo, come rileva Costanzo Preve, con la sua forza simbolica critica e dirompente verso il sistema ne è una testimonianza.

Si è cercato quindi di focalizzare l’azione di ricerca su questa figura inquietante al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità. L’ultimo uomo ci proietta nella mediocre quotidianità dell’integralismo capitalistico esprimibile con le parole di Musil («il vuoto dinamismo dei giorni»). Il vuoto produttivo e calcolante è la forma e la sostanza dell’ultimo uomo. La sostanza che per sua natura è pienezza ontologica si alligna nel vuoto del nichilismo disperato e ripetitivo.


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

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