«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Il buon vivere racchiude in sé una prospettiva di armonia quale scopo primario della società. Una società in cui è la totalità armonica ad essere il fine dell’umanità. L’armonia sociale è il senso profondo della nuova Costituzione, dove vi è misura nell’uso delle risorse, i diritti sociali e i diritti individuali non sono semplici espressioni linguistiche ma prassi culturale di un intero popolo
Il 20 ottobre 2008 è entrata in vigore in Ecuador la nuova Costituzione. L’Occidente è rinchiuso in un fortilizio bellicoso, il mondo intorno ad esso è già mutato, come testimonia la Costituzione dell’Ecuador, ma continua a vivere in una tragica illusione di onnipotenza.
L’Ecuador ha metabolizzato secoli di ingiustizie e ingerenze ed ha trovato la forza etica e politica di deviare dal percorso storico determinato dagli Stati Uniti che da sempre hanno considerato l’America del Sud come il ”cortile di casa”. Il paese andino è, ora, alla ricerca di un percorso politico e culturale autonomo. La Costituzione del 2008 è il punto di arrivo di un processo di presa di coscienza collettiva, e nel contempo inaugura un lungo cammino: è l’incipit per ritrovarsi dopo lo smarrimento coloniale. I tempi di materializzazione del progetto costituzionale non sono prevedibili, ma esso dona la speranza al popolo andino dopo la disperazione del colonialismo.
L’autonomia e la sovranità nazionale sono i fondamenti della nuova Costituzione, senza di esse non si possono difendere gli interessi, la lingua e la cultura del popolo di Ecuador dalle oligarchie transnazionali. Un popolo è tale se si riconosce non in astratto nel suo territorio, ma lo vive in una relazione olistica. L’Ecuador è il paese al mondo con il più alto numero di biodiversità per metro quadro. Non a caso la Costituzione dell’Ecuador difende la Pachamama, ovvero la madre terra, la quale non è materia da saccheggiare, ma è vita da conservare senza la quale l’Ecuador sarebbe solo un’espressione geografica. Giustizia sociale ed ambientale formano il connubio che porta al buon vivere comunitario (buen vivir in spagnolo, sumak kawsay in lingua indigena) con la realtà concreta costituita dalle persone e dall’ambiente. Nella lingua indigena del paese andino non vi sono parole che indicano lo sviluppo in senso proprietario e crematistico. Il buon vivere racchiude in sé una prospettiva di armonia quale scopo primario della società. Una società in cui è la totalità armonica ad essere il fine etico dell’umanità. L’armonia sociale è il senso profondo della nuova Costituzione, dove vi è misura nell’uso delle risorse, i diritti sociali e i diritti individuali non sono semplici espressioni linguistiche ma prassi culturale di un intero popolo che si ritrova nella sua storia dopo secoli di sfruttamento:
«Art. 1. – L’Ecuador è uno Stato Costituzionale di diritto e giustizia, sociale, democratico, sovrano, indipendente, unitario, interculturale, plurinazionale e laico. Si dà come forma organizzativa la Repubblica e si governa in modo decentralizzato. La sovranità ha le sue radici nel popolo, la cui volontà è il fondamento dell’autorità, e si esercita attraverso gli organi del potere pubblico e le forme di partecipazione diretta previste dalla Costituzione. Le risorse naturali non rinnovabili del territorio dello Stato appartengono al suo patrimonio inalienabile, irrinunciabile e inviolabile».
L’uguaglianza sociale per essere concreta deve riconoscere le differenze senza omologarle in categorie che nei fatti la negano. Le differenze sono riconosciute nella comune umanità all’interno della specificità di ogni persona. Non esiste la persona astratta, ma l’essere umano è concreto nella sua unicità armoniosa con se stesso, con la comunità e con l’ambiente:
«Art. 11. 2. – Tutte le persone sono uguali e godranno degli stessi diritti, doveri ed opportunità. Nessuno potrà essere discriminato per ragioni di etnia, luogo di nascita, età, sesso, identità di genere, identità culturale, stato civile, lingua, religione, ideologia, appartenenza politica, trascorsi legali, condizione socioeconomica, condizione migratoria, orientamento sessuale, stato di salute, sieropositività, invalidità, differenza fisica, né per nessun’altra distinzione di carattere individuale o collettivo, temporaneo o permanente, che abbia come obiettivo o come risultato la riduzione o l’annullamento del riconoscimento, del godimento o dell’esercizio dei diritti. La legge sanzionerà ogni forma di discriminazione».
Acqua ed educazione
La qualità di vita etica e sociale di un popolo si deduce dal suo rapporti con i beni essenziali. L’acqua non è un bene da vendere sul mercato, da essa dipende la vita di tutti gli esseri viventi, pertanto la Costituzione del 2008 l’ha sottratta dagli appetiti delle plutocrazie. L’alimentazione non è business ma esperienza vitale di un popolo, anch’essa dev’essere difesa dall’omologazione delle multinazionali che vorrebbero trasformarla in un mercato ad uso e consumo dei potentati. Un popolo che non controlla la propria acqua e la propria alimentazione non è tale, ma è solo un gregge al comando dei cattivi pastori della colonizzazione. La Costituzione del 2008 difende la vita del popolo favorendo «la buona alimentazione e il controllo dell’acqua»:
«Art. 12. – Il diritto umano all’acqua è fondamentale e irrinunciabile. L’acqua costituisce un patrimonio nazionale strategico di uso pubblico, inalienabile, imprescrittibile, irrinunciabile ed essenziale per la vita.
Art. 13. – Le persone e le collettività hanno diritto all’accesso sicuro e permanente a alimenti sani, sufficienti e nutrienti; preferibilmente prodotti localmente e conformemente alle loro diverse identità e tradizioni culturali».
Nell’Occidente a trazione oligarchica ogni aspetto dell’esistenza è merce. L’integralismo fanatico e compulsivo del mercato ha trasformato le scuole in costole del mercato. Si proclama la difesa dei diritti individuali, ma nella prassi le persone sono offese nella loro dignità, in quanto come consumatori o come lavoratori sono al servizio del mercato, sono pietre di scarto da usare fino all’usura. L’alienazione è la patologica normalità dell’Occidente.
Nella Costituzione del 2008 l’educazione è difesa dagli interessi particolari. La libertà educativa ha quale fine lo sviluppo integrale della persona; la famiglia ha il compito di educare in libertà e responsabilità. Stato e famiglie collaborano per garantire nella pluralità delle scelte lo sviluppo della persona. Negli articoli della Costituzione si difende e si favorisce la difese delle lingue della nazione, in quanto esse conservano la cultura e la sovranità culturale del popolo:
«Art. 28. – L’educazione risponderà all’interesse pubblico e non servirà interessi privati o corporativi. Sarà garantito l’accesso universale, la permanenza, la mobilità e il ritorno senza discriminazione alcuna e l’obbligatorietà della scolarità elementare e superiore o di livello equivalente. È diritto di ogni persona e di ogni comunità l’interazione tra culture e la partecipazione in una società che apprende. Lo Stato promuoverà il dialogo interculturale nelle sue molteplici dimensioni. L’apprendimento si svilupperà in forma secolarizzata e non secolarizzata. L’istruzione pubblica sarà universale e laica ad ogni livello, e gratuita fino al terzo livello di istruzione superiore incluso.
Art. Art. 28. – Lo Stato garantirà la libertà di insegnamento, la libertà di docenza nell’istruzione superiore, e il diritto delle persone ad apprendere nella propria lingua e nel proprio ambito culturale. Le madri e i padri o i loro rappresentanti avranno la libertà di scegliere per le loro figlie e i loro figli un’educazione conforme ai propri principi, credenze e opinioni pedagogiche».
Comunità e mobilità
La mobilità migratoria è garantita. Lo Stato dell’Ecuador nel progetto costituzionale non recide le proprie responsabilità verso i cittadini che emigrano, ma conserva con essi un legame comunitario di assistenza e riconoscimento della comune cultura di provenienza. Chi è distante a livello spaziale continua ad essere parte della comunità:
«Mobilità umana, Art. 40. – È riconosciuto alle persone il diritto di migrare. Nessun essere umano sarà identificato né considerato come illegale per la sua condizione migratoria. Lo Stato, attraverso le entità preposte, svilupperà tra le altre le seguenti azioni per l’esercizio dei diritti delle persone di nazionalità ecuadoriana all’estero, quale che sia la loro condizione di migranti: 1.Offrirà assistenza a loro e alle loro famiglie, che risiedano all’estero o nel paese. 2. Offrirà assistenza, servizi di consulenza e tutela integrale perché possano esercitare liberamente i propri diritti. 3.Tutelerà i loro diritti qualora, per qualsivoglia ragione, siano private della propria libertà all’estero. 4. Promuoverà i loro legami con l’Ecuador, faciliterà la riunificazione familiare e stimolerà il ritorno volontario».
Vi è il diritto ad emigrare, se in patria non vi sono le condizioni per una vita dignitosa. Lo Stato non può restare indifferente dinanzi alla sofferenza di coloro che emigrano per una condizione disagiata, pertanto deve favorire lo sviluppo armonioso della comunità, in modo che coloro che lo desiderano possano tornare in patria e ricongiungersi alla propria comunità. L’emigrazione è il sintomo di un malessere, uno Stato giusto deve intervenire per limitare la mobilità migratoria economica.
Modello economico
Il modello economico ecuadoriano ha quale fine l’essere umano. Vi sono nella Costituzione specifiche sezioni dedicate a giovani e anziani, i quali devono essere assistiti e curati nei momenti di fragilità (Capitolo terzo. Prima e Seconda sezione). Nessun essere umano dev’essere lasciato solo, la cura e il bene sono il fine della comunità.
Si fonda una economia umanistica, in quanto il mercato deve essere per l’essere umano: per cui non deve cannibalizzarlo. Attività pubbliche e private in armonia con l’ambiente hanno lo stesso fine, ovvero ilbuon vivere. Nulla di più distante dall’integralismo acefalo dell’aziendalizzazione della vita dell’Occidente. L’Ecuador ha vissuto i guasti e le lunghe tragedie dell’economia di mercato, pertanto ha pensato e rielaborato i modelli economici del Novecento all’interno della cultura andina di origine:
«Art. 283. – Il sistema economico è sociale e solidale; riconosce l’essere umano come soggetto e fine; tende a una relazione dinamica ed equilibrata tra società, Stato e mercato, in armonia con la natura; e ha l’obiettivo di garantire la produzione e riproduzione delle condizioni materiali ed immateriali che consentano il buon vivere. Il sistema economico sarà costituito dalle forme di organizzazione economica pubblica, privata, mista, popolare e solidale, e le restanti stabilite dalla Costituzione. L’economia popolare e solidale sarà regolata in accordo con la legge e includerà i settori cooperativi, associativi e comunitari».
Identità e sovranità non significano nazionalismo, ma indipendenza e autonomia. Tale fine è realizzabile solo nel reciproco riconoscimento delle altrui sovranità nazionali. L’Ecuador inaugura l’internazionale della collaborazione e, dunque, della pace. Ogni forma di xenofobia è rigettata:
«Art. 416. – Le relazioni dell’Ecuador con la comunità internazionale risponderanno agli interessi del popolo ecuadoriano, al quale renderanno conto i loro responsabili ed esecutori, e di conseguenza lo Stato ecuadoriano: 1. Proclama l’indipendenza e l’uguaglianza giuridica degli Stati, la convivenza pacifica e l’autodeterminazione dei popoli, così come la cooperazione, l’integrazione e la solidarietà. 2. Sostiene la risoluzione pacifica delle controversie e dei conflitti internazionali, e rifiuta la minaccia e l’uso della forza per risolverli. 3. Condanna l’ingerenza degli Stati negli affari interni di altri Stati, e qualsiasi forma di intervento, sia incursione armata, aggressione, occupazione o embargo economico o militare. 4. Promuove la pace, il disarmo universale; condanna lo sviluppo e l’uso di armi di distruzione di massa e l’imposizione di basi o installazioni con finalità militari di alcuni Stati sul territorio di altri. 5. Riconosce i diritti dei distinti popoli che coesistono all’interno degli Stati, specialmente il diritto di promuovere meccanismi che esprimano, preservino e tutelino il diverso carattere delle loro società, e rifiuta il razzismo, la xenofobia e ogni forma di discriminazione. 6. Sostiene il principio di cittadinanza universale, la libera circolazione di tutti gli abitanti del pianeta e il progressivo abbandono della condizione di straniero come elemento di trasformazione delle relazioni diseguali tra i paesi, specialmente Nord-Sud. 7. Esige il rispetto dei diritti umani, in particolare dei diritti dei migranti, e favorisce il loro pieno esercizio mediante l’osservanza degli obblighi assunti con la ratifica delle convenzioni internazionali sui diritti umani. 8. Condanna ogni forma di imperialismo, colonialismo, neocolonialismo, e riconosce il diritto dei popoli alla resistenza e alla liberazione da ogni forma di oppressione. 9. Riconosce il diritto internazionale come codice di condotta, ed esige la democratizzazione degli organismi internazionali e l’equa partecipazione degli Stati all’interno degli stessi. 10. Promuove la creazione di un ordine globale multipolare con la partecipazione attiva dei blocchi economici e politici regionali, e il rafforzamento delle relazioni orizzontali per la costruzione di un mondo giusto, democratico, solidale, diverso e interculturale».
Intorno al piccolo Occidente il mondo è in trasformazione, si stanno effettuando progettualità alternative all’integralismo crematistico bellicoso e aggressivo della società della sola economia di mercato. L’esperienza dell’Ecuador non è unica, ma è una delle più apprezzabili e sconosciute. L’informazione attuale occidentale è simile ad un bunker, deve impedire alla popolazione la riflessione collettiva sulle potenziali alternative, le quali sono già in atto in un mondo nei fatti multipolare e a cui si reagisce con la logica del bunker e della guerra.
Il preambolo della Costituzione è un appello a tutti i popoli a trasformare il loro modo di vivere e a fare “tesoro” delle differenze e dell’esperienza storica:
«PREAMBOLO NOI TUTTE E NOI TUTTI, il popolo sovrano dell’Ecuador RICONOSCENDO le nostre radici millenarie, forgiate da donne e uomini appartenenti a popoli diversi, CELEBRANDO la natura, la Pacha Mama, della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza, INVOCANDO il nome di Dio e riconoscendo le nostre diverse forme di religiosità e spiritualità, APPELLANOCI alla saggezza di tutte le culture che ci arricchiscono come società, COME EREDI delle lotte sociali di liberazione da ogni forma di dominazione e colonialismo, e con un impegno profondo verso il presente ed il futuro, Decidiamo di costruire Una forma nuova di convivenza civile, nella diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere, il “sumak kawsay”; Una società che rispetta, in ogni dimensione, la dignità delle persone e delle collettività; Un paese democratico, impegnato nell’integrazione latinoamericana – sogno di Bolívar e Alfaro –, la pace e la solidarietà con tutti i popoli della terra; e Nell’esercizio della nostra sovranità, a Ciudad Alfaro, Montecristi, nella Provincia di Manabí, approviamo quanto segue».
Anche noi “occidentali” dovremmo elaborare nuovi preamboli per uscire dalla trappola bellicosa in cui siamo caduti. Siamo ad un bivio: si può intraprendere la via della conservazione, e quindi, trasformare il nostro futuro in uno stato di guerra per difendere un modello sociale ed economico antiumanistico o si può tentare di percorrere la via più difficile, elaborando una nuova progettualità umanistica del vivere da tradurre in prassi. Per calcare la via dell’esodo da un sistema tossico per l’essere umano e inquinante per l’ambiente, l’Occidente deve fondare una nuova metafisica umanistica. Il futuro è potenzialità da pensare nel presente. La guerra e la mercificazione della vita sono i segni degli sforzi dei potentati per mantenere la loro supremazia. A questa loro lunga agonia occore dare una risposta. L’Ecuador ha redatto la sua risposta per non precipitare nell’abisso del consumo totale. Il confronto con i processi di emancipazione in atto negli “Stati altri” non può che favorire la speranza e la prassi nell’Occidente a cui la mercificazione oscena di ogni vita ed esperienza ha tolto la dimensione della speranza.
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Diario da Niamey: «Voci dal sottosuolo – I tre naufragi africani dell’Occidente – Geopolitiche di sabbia nel Niger e dintorni – La Pasqua, di sabbia, di Niamey – I buoni e i cattivi delle rivoluzioni».
Voci dal sottosuolo
Parla poco o nulla inglese e niente francese. Mohammed si presenta una mattina col foglio plastificato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati rilasciatogli dall’ufficio di Niamey. Da allora passa ogni due settimane per salutare e ottenere di che sopravvivere qualche giorno in più. Invece di continuare ad alloggiarsi in strada, presso l’ufficio delle Nazioni Unite, tra polvere, vento e pioggia quando sarà la stagione, ha trovato un posto presso la Casa del Togo. I responsabili delle Casa accolgono anche migranti o rifugiati originari di altre nazionalità e offrono l’alloggio, i servizi igienici e un minimo di decenza per il riposo. Per ragioni comprensibili non sono in grado di nutrire gli ospiti che, in qualche modo, devono darsi da fare in un contesto complicato per tutti e in particolare per uno straniero che è incapace di comunicare.
Le segnalazioni all’Ufficio, per vari motivi, non hanno prodotto nessun risultato apprezzabile. Mohammed possiede un documento delle Nazioni Unite e un altro dell’Ufficio Nazionale di Eleggibilità che lo riconosce, per ora, come richiedente asilo. Dopo un anno circa, fatte le debite indagini, detto ufficio deciderà se Mohammed potrà essere riconosciuto come rifugiato a pieno titolo. Nel frattempo Mohammed non esiste per nessuno. Non ha una casa, un minimo di aiuto finanziario e neppure un futuro che vada oltre l’infinita e temibile attesa quotidiana del cibo. Mohammed, è stato battezzato in Egitto col nome di Gabriele o Jibril. Passa talvolta la domenica mattina per la preghiera presso la piccola comunità di credenti cattolici nel quartiere di Niamey chiamato Francofonia, a causa dei giochi omonimi celebrati nel lontano 2005.
Nella lettera che recapita stamane, debitamente tradotta in lingua francese, si intravvede meglio il tipo di avventura che l’ha condotto fino a Niamey l’anno scorso. Nato a Sabha al sud di Tripoli in Libia, ivi ha vissuto con la famiglia composta dai genitori, una sorella minore e due fratelli maggiori. Trasferitosi a Tripoli coi genitori torna in seguito a Sabha per completare gli studi universitari e nel 2009, all’età di 19 anni, unico della famiglia, si converte al cristianesimo. La famiglia, musulmana, accetta la scelta del figlio e il padre gli consiglia di conservare discrezione sul fattore religioso. Quando può parte in Tunisia per unirsi a comunità cristiane più o meno clandestine finché il padre lo manda in India per una tesi e un master in economia. Fine 2013 torna in Libia per la morte della sorella a causa di una malattia.
Nel frattempo alcuni membri della famiglia paterna ‘scoprono’ la sua nuova affiliazione religiosa e lo tacciano di Kafir, non credente o infedele. Ciò lo porta ad essere imprigionato e violentato. La sua famiglia non può visitarlo ed è solo grazie ad un conflitto tra milizie che può evadere dalla prigione. Sua padre lo spinge a lasciare il Paese e a rifugiarsi in Egitto dove Jibril conosce le Chiese copte ed è battezzato. Apprende la morte del padre e dei fratelli, uccisi in prigione. Nel 2018 si trova in Turchia e torna in Tunisia nel 2022 per qualche mese prima di entrare in Algeria e chiedere assistenza presso l’Ufficio per i Rifugiati di Algeri. L’anno seguente è informato della morte di sua madre e nel mese di settembre i militari, malgrado il documento che lo riconosce come rifugiato, lo deportano e, con altri come lui, lo abbandonano nel deserto.
Da allora Mohammed Jibril si trova a Niamey tra timori, ansietà e incertezze di un futuro che non offre, per ora, gli orizzonti sperati. Tornare in Libia sarebbe la sua morte. Termina la lettera con i ricordi di violenze carnali subite in carcere che non passano mai e dice di immaginare ciò che significhi quando qualcuno, dietro voi vi dice che siete suo. Jibril ringrazia e sorride prima di partire a rinnovare il documento di richiedente asilo per altri tre mesi. Malgrado la vita sia difficile ringrazia il Niger per l’accoglienza.
Mauro Armanino, Niamey, maggio 2024
I tre naufragi africani dell’Occidente
A fare naufragio nel Mediterraneo o nell’Atlantico non sono solo i migranti o i richiedenti asilo che allungano l’elenco dei scomparsi nelle acque che uniscono (e separano) i continenti. Lo sono invece, forse meno palesemente ma non con minori conseguenze, i naufragi del continente europeo in Africa o, meglio, nelle Afriche che la costituiscono. Un osservatorio privilegiato di questi processi storici è, tra gli altri, il Sahel dove chi scrive si trova da oltre 13 anni. Un tempo che, ‘abitato’ da avvenimenti come le chiese bruciate di Zinder e Niamey nel 2015, il rapimento dell’amico Pierluigi Maccalli nel 2018 e l’ennesimo colpo di Stato del luglio scorso ha offerto emozioni, riflessioni e ricerca di senso. Come tutto qui, peraltro, è un pensiero di ‘sabbia’.
Dopo aver spinto i militari francesi ad abbandonare il Niger è adesso la volta della presenza militare americana e le sue due basi militari ad organizzare una ritirata ‘ordinata e responsabile’ dal paese. Rimangono, patetici, un gruppo di militari tedeschi e, più numerosi, italiani in ‘vigile attesa’ delle decisioni della giunta militare al potere (e dei russi ormai bene installati). Appare surreale quanto l’ambasciata italiana ha organizzato nella capitale Niamey. Si tratta di una conferenza prevista all’università e di una mostra su Pinocchio sullo sfondo del «Design italiano come forza motrice dell’innovazione e creatività». Già nel passato erano state organizzate le giornate della cucina italiana oltreché dei film italiani d’autore.
C’è naturalmente di peggio nella vita diplomatica di una Paese e nondimeno quanto citato lascia presagire qualcosa del dramma a cui facevo allusione nella premessa. Essi si manifestano, dall’osservatorio di ‘sabbia’ del Sahel, con tre tipi di naufragio.
Il primo naufragio si trova nello ‘sguardo’. In effetti, malgrado le critiche, i lavori degli antropologi e i cambiamenti occorsi nell’interpretazione delle culture, lo sguardo dell’Occidente sulle Afriche non riesce a liberarsi dal passato ‘coloniale’. Uno sguardo, quello occidentale, che continua a presumersi unico e dunque in grado di giudicare, dal ’suo’ centro e dal ‘suo’ punto di vista, ogni differenza in fondo intesa come inferiorità rispetto al modello unico europeo. Forse non si è capito ancora che anche gli africani hanno smesso di parlare con la bocca degli altri e di guardare con gli occhi degli altri. Hanno scelto di usare la propria bocca e i propri occhi per raccontarsi.
L’incapacità di mettersi all’ascolto dell’altro è proprio ciò che ha costituito il secondo naufragio dell’Occidente. L’arroganza del potere della tecnica, dell’economia e, non dimentichiamo, delle armi, ha creato la temibile malattia della sordità europea che parla di se stessa e a se stessa senza mai uscire da se stessa. In tutti questi anni di progetti di sviluppo, assistenze umanitarie e accordi bilaterali il grande assente è stato l’ascolto attento e umile di chi avrebbe potuto salvare l’Europa da se stessa.
Infine, alla radice dei naufragi giace il grande tradimento che avrebbe comportato lo smarrimento del pensiero e dell’etica ad esso conseguente. Si tratta della drammatica separazione della spiritualità dalla vita quotidiana, la mutilazione non casuale di ogni interiorità, la perdita del sacro, dell’anima e di quanto costituisce la dignità della persona.
L’espropriazione di questa dimensione essenziale è stata l’opera fondamentale del capitalismo che il neoliberismo continua a completare. Le Afriche e gli africani non accetteranno facilmente di essere svenduti alle ideologie dominanti nell’Occidente. Per chi ‘ogni giorno in più è una vita’ non è credibile che il cambiamento di sesso dei bimbi o le bandiere arcobaleno LGBT siano una priorità.
Mauro Armanino, Niamey, aprile 2023
Geopolitiche di sabbia nel Niger e dintorni
Nelle definizioni la geopolitica è lo ‘studio dei rapporti tra i fattori geografici e le azioni o le situazioni politiche’. Dette relazioni non sono qualcosa di meramente ‘contemplativo’ quanto finalizzate ad un potere militare, politico, economico e culturale. Nel nostro Paese il Niger e nei dintorni, entrambi i fattori in gioco sono essenzialmente costituiti dalla ‘sabbia’. La geografia e la politica, in un contesto di concorrenza o egemonia per il potere, si articolano e sviluppano attorno a questo elemento unico che ne definisce l’identità e l’immaginario. Il putsch di fine luglio dell’anno scorso era stato lui stesso di sabbia e, strada facendo, le scelte operate dalla giunta militare al potere, non hanno fatto che confermare e rendere più certa questa evidenza. L’Alleanza degli Stati del Sahel, Burkina Faso, Mali e Niger. L’annunciata fuoriuscita dal consesso della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale. L’espulsione dei militari francesi e americani con le rispettive basi dal territorio nigerino sono andate di pari passo con trattati di cooperazione militare, tecnica ed economica con la Federazione Russa. Le bandiere di quest’ultima, apparse in modo quasi aneddotico fin dall’inizio delle manifestazioni pro-giunta, non erano dunque casuali.
L’idea di sovranità, rivista, tradotta e applicata in questi mesi, continua ad apparire come idea motivante di una parte della società civile e del popolo stesso. Anni di frustrazione, di svendita del Paese all’Occidente e di violazione dei dettati costituzionali in particolare nell’ultimo decennio, hanno facilitato il processo di dissoluzione delle istituzioni per lasciare il posto al un ‘regime di sabbia’. Quest’ultimo, accaparratosi del potere grazie alla detenzione del presidente nella sua dimora, ha operato le scelte di cui sopra senza che la tanto decantata sovranità del popolo sia stata presa in considerazione. Un popolo che la sabbia ha creato, modellato, formato e reso a sua immagine e cioè silenzioso, resiliente e capace di sopravvivere in ogni circostanza e prova. Un popolo di sabbia che osserva, giudica, soppesa i regimi che si susseguono nella sua storia e, reso cosciente dalla sofferenza e le privazioni, custodisce il sapore antico della dignità. Proprio quest’ultima, confiscata da una élite politica che il potere ha corrotto e reso servile alle geopolitiche occidentali, ha trovato l’opportunità di risorgere dalla dimenticanza nella quale era stata sepolta. Non accada, dunque, che venga una volta di più tradita da chi pensa di detenere la chiave della verità.
Ognuno, nel Sahel come altrove nel mondo, fa il suo gioco e cerca i propri interessi. Di questo parlano e raccontano le geopolitiche di sabbia che si fanno concorrenza e che prendono questa porzione d’Africa come luogo di un’altra spartizione di potere o corsa per chi svilupperà la propria influenza. Di certo il Sahel non è semplice vittima o passivo osservatore della nuova identità regionale quanto interessato attore fin dove e quanto esso è possibile. Persino l’Italia, nel suo piccolo, con la presenza diplomatica, militare e di cooperazione, cerca di ritagliare la propria giustificata presenza nel Sahel. La retorica del ‘controllo’ o quanto meno di una certa canalizzazione dei movimenti migratori rimane un miraggio. I Paesi confinanti il Niger, in effetti, persistono e radicalizzano le politiche di esclusione, deportazione o internamento dei migranti nel loro spazio nazionale. In tutto questo infernale gioco che porta alla sconfitta annunciata dei popoli, permane lo spazio esiguo eppure decisivo per ciò che da tempo la congiura del sistema ha espunto. Si tratta del ritorno all’ascolto del silenzio dei poveri che la sabbia, nella sua umiltà, ha nascosto ai potenti e ai saggi che organizzano le geopolitiche che torneranno alla sabbia da cui sono nate.
Mauro Armanino, Niamey, 14 aprile 2024
La Pasqua, di sabbia, di Niamey
Questa festa interessa le poche migliaia di cristiani che vivono in città e dei quali la maggior parte è originaria dei Paesi della costa atlantica che il commercio degli schiavi rese famosa e temuta. C’è in cambio il ‘lunedì di Pasqua’ che il calendario ufficiale delle festività riconosce, assieme al Natale, a livello nazionale. Sono le due festività accolte, almeno finora, nel calendario dello Stato. Si tratta di una Pasqua di sabbia, precaria e fragile come si conviene e in sintonia con la transizione che il Niger abita da fine luglio dell’anno scorso. È la conseguenza del colpo di stato che ha deposto e imprigionato nel palazzo presidenziale l’eletto in circostanze dubbiose Mohammed Bazoum. Anche la transizione del Paese è di sabbia. Azzardarsi a domandare la meta del viaggio significa esporsi ad un imbarazzante silenzio che la polvere copre di pudore. Il sentiero che il Niger e l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) percorrono è ancora poco frequentato.
Eppure, nel suo piccolo, la festa di Pasqua è latrice di un messaggio, difficile a decifrare nel contesto, di una liberazione possibile per tutti. Se Pasqua indica, nell’etimologia popolare, ‘passaggio’ allora l’avvenimento pasquale che la festa attualizza, indica almeno due liberazioni conseguenti. La prima ricorda il mito fondatore del popolo di Israele che, tramite un esodo durato anni, abbandona la terra della schiavitù del Faraone d’Egitto per rischiare l’indigenza e l’incertezza della libertà. Il cammino nel deserto, tra stenti, paure e tentazioni di un ritorno al passato che rassicura, diventa la metafora della transizione attuale del popolo nigerino. Come per il popolo di Israele la realtà degli idoli fabbricati continua a sedurre l’immaginario della gente e in particolare dei ‘capi’. Il potere, il prestigio e l’arroganza del dio denaro sono l’attuale vitello d’oro che il popolo si è fabbricato nel deserto. L’acqua della roccia è difficile a trovare.
C’è poi l’altra liberazione possibile, ancora più pericolosa per il disordine stabilito, che, in relazione con la Pasqua afferma che i sepolcri si sono svuotati e le tombe sono trasformate in giardini. Questa seconda promessa di liberazione è ancora più sovversiva delle precedente perché, dopo il silenzio della notte e all’albeggiare, ci si accorge che l’anelito per un mondo nuovo non era vano. Ciò significa che la violenza, la menzogna del potere, il cinismo dei commercianti di parole e d’armi, i fabbricanti di illusioni e gli imprenditori del sistema di dominazione, sono finalmente inermi e spodestati. Le tombe dei cimiteri nelle quali i potenti volevano chiudere la storia umana, litania infinita di guerre e ribellioni al sistema, sono svuotate. Le pietre che le coprivano servono ormai per costruire il mondo assente che tanti cercavano a tastoni. Passare dalla schiavitù fisica e mentale, ricordava un certo Bob Marley, è proprio ciò che permetterà di cantare assieme agli amici resi liberi, il suo ‘Redemption Song’, il canto della libertà, di sabbia.
Mi aiuterai a cantare Questi canti di libertà? Perché tutto quel che ho sempre avuto Sono i canti di redenzione, Tutto quel che ho sempre avuto Sono i canti di redenzione Questi canti di libertà, Canti di libertà
Mauro Armanino, Niamey, Pasqua 2024
I buoni e i cattivi delle rivoluzioni
Arrivano i buoni Arrivano, arrivano
Il Niger ha vissuto il suo primo putsch nel 1974. Fu organizzato da un quartetto di ufficiali guidati dal tenente colonnello Seyni Kountché il quale giustificò la sua presa di potere con le difficoltà sociali evidenziate dalla carestia. ‘Dopo15 anni di regno segnati da ingiustizia, corruzione, egoismo e indifferenza nei confronti del popolo al quale pretendeva di assicurare benessere, non possiamo più tollerare la permanenza di questa oligarchia’. Ci troviamo nello stesso anno nel quale Edoardo Bennato lanciava una canzone il cui testo inizia come enunciato sopra e continua come segue.
Finalmente hanno capito che qualcosa qui non va Arrivano i buoni e dicono basta A tutte le ingiustizie che finora Hanno afflitto l’umanità
L’ultimo (per ora?) della serie dei putsch è stato giustificato dal discorso dal presidente della transizione, il generale Abdourahamane Tiani, all’occasione degli auguri per la festa dell’indipendenza nel passato mese di agosto…’ È questa la sede per ribadire con estrema chiarezza che l’unica ragione dell’azione del CNSP è e rimane la salvaguardia della nostra patria, il Niger… Semplicemente, sono in gioco le vite del popolo nigerino e l’esistenza stessa del Niger come Stato … vi sono i problemi ormai endemici della corruzione diffusa e dell’impunità, della cattiva gestione, dell’appropriazione indebita di fondi pubblici, del clanismo di parte, della radicalizzazione delle opinioni e delle posizioni politiche, della violazione dei diritti e delle libertà democratiche, della deviazione del quadro statale a vantaggio di interessi privati e stranieri, dell’impoverimento delle nostre popolazioni laboriose’… Stesse cose, cinquant’anni dopo.
Quanti sbagli, quanti errori Quante guerre e distruzioni Ma finalmente una nuova era comincerà
La storia umana è una mescolanza di sabbia. Ivi si rincorrono imperi, regimi di eccezione, repubbliche, monarchie, dittature e rivoluzioni. Alcune più note e altre meno ma tutte con l’inconfessata speranza di un mondo differente, nuovo o semplicemente migliore del precedente. Solo che nella storia succede come nella vita perché nulla si crea e nulla si distrugge del vissuto. Si girano le pagine del libro le cui pagine sono scritte dalla sabbia, cancellabili e, proprio come la vita, fragili. Troppe volte le promesse dei fautori di rivoluzioni non erano che colpevoli miraggi. Altre volte le legittime aspirazioni del popolo si trovano poi tradite dalla realtà del quotidiano. L’esperienza insegna infatti che bene e male, saggezza e follia, verità e menzogna si mescolano e confondono a seconda delle stagioni e dei rapporti di forza. Allora da uno stato di eccezione si passa alla normalità o. se vogliamo, è la banalità del male che anela ad un ulteriore putsch con altri giusti che, finalmente, metteranno i ‘cattivi’ in grado di non nuocere.
Arrivano i buoni ed hanno le idee chiare Ed hanno già fatto un elenco Di tutti i cattivi da eliminare
Le liste sono flessibili e sfuggevoli perché, anch’esse, di sabbia e dunque mutevoli. Non casualmente si celebrano processi sommari di delinquenti notori. Vengono istituiti spesso comitati di salute pubblica, di protezione della rivoluzione e si salveranno dal ripudio solo coloro che danno assicurazioni di trasparente onestà, gente con ‘le mani pulite’. Sono loro i prescelti per governare o comunque orientare e conservare lo spirito della rivoluzione. La giustizia mostra in tutta evidenza ciò che ci sia aspetta da lei e dunque l’asservimento volontario al potente di turno. Spariscono cittadini, attivisti, corrotti e corruttori del sistema. Liste che si aggiornano in continuazione sotto la guida di gente ‘illuminata’ dallo spirito del tempo e dal senso della storia dei vincitori. Naturalmente questo processo di identificazione dei ‘cattivi’ si apparenta ad un cantiere permanente per vocazione e soprattutto domanda tempo, anni ed è ciò che si definisce come ‘rivoluzione permanente’. Tutto ciò durerà finche i nuovi padroni saranno, prima o poi, loro stessi vittime del loro tempo di transizione. Arriveranno altri buoni, migliori dei precedenti per completare il lavoro.
Così adesso i buoni hanno fatto una guerra Contro i cattivi, pero hanno assicurato Che è l’ultima guerra che si farà Finalmente una nuova era comincerà
Difficile affermare se quelle che abbiamo finora designato col nome pomposo di ‘rivoluzioni’ lo sono state davvero. Oppure sono state le cronache di tradimenti annunciati fin dal loro germe sapendo che tra i mezzi adoperati e il fine perseguito c’è complicità e continuità inscindibile. Forse l’unica e autentica rivoluzione che meriti questo nome è quella che non sa di esserlo, consapevole della sua intrinseca e umana fragilità. La sola che si avvicini a questa utopia è quella che la sabbia, gelosamente, nasconde agli occhi dei ‘buoni’.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.
Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono” eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla sua naturalizzazione mediante l’addestramento all’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo. Il capitalismo è divenuto “il sistema”, l’unico pensabile, ha lobomotizzato gli aggiogati alla macchina-sistema. “Produrre e lobomotizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano.
La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Da tale processo le oligarchie traggono le eccedenze finanziarie per la competizione globale e per investire i proventi in scalate finanziarie e in nuovi prodotti da vendere sul mercato. Tutto è morte. La natura è l’immagine più vera e immediata della verità del ciclo di valorizzazione, essa è solo res extensa da riconvertire in denaro. Un intero pianeta è minacciato dalla monetarizzazione di ogni vita e di ogni elemento naturale.
Marx descrive l’incapsulamento della forza lavoro nel ciclo produttivo. Il lavoro, espressione della creatività umana e della produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari, è reso esperienza di annullamento e di cosalizzazione del lavoratore. Il lavoratore è incastrato in automatismi che determinano la morte dell’uomo e la nascita di un ibrido: l’uomo-macchina. Il trasumanesimo non è che il punto finale di tale processo di disumanizazione, il salariato è valutato in rapporto alle macchine, è una macchina tra le macchine, in disperata competizione con esse:
«Dalla parte dell’operaio: la messa in opera produttiva della sua forza lavorativa non è possibile se non quando, dopo essere stata venduta, essa viene posta in rapporto con i mezzi di produzione. Essa esiste prima d’essere venduta distinta dai mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive della sua messa in opera. Così isolata non può essere utilizzata direttamente nella produzione di valori d’uso per il suo proprietario, né nella produzione di merci, che gli darebbero di che campare con la loro vendita. Ma allorchè tramite la sua vendita essa è posta in rapporto con i mezzi di produzione, diviene, al pari dei mezzi di produzione, una parte costitutiva del capitale produttivo del suo acquirente».[1]
Il fuco del capitale
Il capitalista è anch’egli una funzione del sistema, che con le sue leggi e con il suo gigantismo globale diviene “assoluto”, ovvero si autonomizza con la smisurata espansione. In tale sistema, in cui tutto dev’essere convertito in produzione, il capitalista è improduttivo, è il fuco del sistema, egli prospera senza produrre, si è installato all’interno dell’alveare-industria. Egli è l’addetto-funzione alla compra-vendita delle anime vive per farne anime morte. Il capitalista è il Cerbero-fuco del modo di produzione capitalista, traghetta le vite dei lavoratori verso “la loro mortale usura”. Il capitalista è sterile, non produce e non crea concetti, è la tragica e pericolosa funzione che muove masse umane verso l’inferno della negazione di sé; gli aggiogati sono solo forza muscolare-intellettuale da vendere-comprare o da licenziare-distruggere:
«Per il capitalista il quale faccia lavorare altri al suo posto, la compra-vendita diviene una funzione fondamentale. Dato che egli si appropria il prodotto di molti in una misura sociale più grande, deve anche venderlo in tale misura e convertirlo poi di nuovo da denaro in elementi di produzione. In ogni caso il tempo di compra-vendita non dà luogo a valore alcuno. […] Tuttavia, senza approfondire, oltre, sin dall’inizio è evidente: qualora per mezzo della divisione del lavoro una funzione che è in se stessa improduttiva, ma è un momento necessario della riproduzione, viene trasformata da compito secondario di molti in compito esclusivo di pochi, viene trasformata nel loro affare particolare, non muta tuttavia il carattere della funzione stessa».[2]
I fuchi-padroni del capitale gestiscono il sistema produttivo e la politica. Gli improduttivi sono idrovore di plusvalore che come re Mida convertono ciò che toccano in oro, ma l’immensa ricchezza prodotta uccide la vita e affama corpi e spirito, perché il capitale nega la relazione comunitaria dell’economia, l’unica in grado di umanizzare, la vuota di ogni componente dell’umanità. I fuchi-padroni sono i vampiri dell’umanità. Per essi gli esseri umani sono solo numeri; si estraggono da essi numeri da vendere alle aziende per organizzare il consumo. Si è ad un un passo dalla riproduzione delle medesime logiche di funzionamento già sperimentate nei campi concentrazionari nel Novecento. Per i fuchi-padroni tutto è numero, niente è vivo.
Svelare il “feticcio capitale”
Il lavoratore è così cosalizzato, è solo quantità muscolare attraverso cui il processo di valorizazione si decuplica. Similmente al processo di trasustanzazione, dalla sostanza uomo – attraverso un processo apparentemente oscuro e velato da parole e pubbliche liturgie – si ottiene per “merito miracoloso” il prodigio (il profitto). Il processo va riportato alla sua verità storica e reale. Il capitalismo è un “feticcio”, non è la verità ultima, esso è esperienza storica posta dalle oligarchie, che i subalterni – caduti nella rete della propaganda e della violenza organizzata – hanno divinizzato. Marx, invece, dimostra che il dio capitale è umano troppo umano, e dunque, il divelamento dei meccanismi non può che liberare le vite intrappolate nell’ingannevole ordito. Il capitalismo con il salario schiavile paga al lavoratore il sufficiente per riprodurre la forza lavoro, ciò che non è pagato è il bottino del capitalista, è il “merito del Cerbero/fuco” che ha condotto le anime dei lavoratori nell’inferno del capitalismo. Il lavoratore è disumanizzato, è soltanto energia da usare secondo le leggi del mercato. L’essere umano è solo corpo, a cui si concede di usare le facoltà intellettuali che consentono al sistema di funzionare fatalmente. La morte è in questa negazione della natura sociale, creativa ed etica di ogni essere umano:
«Come abbiamo già osservato, il denaro che il capitalista paga all’operaio per l’uso della forza lavorativa non è in realtà che la forma generale di equivalente per i mezzi di sostentamento indispensabili all’operaio». [3]
Obbedienza
Il processo di valorizzazione non è controllato dai capitalisti, essi sono gli obbedienti esecutori delle leggi che hanno innescato e che si sono rese autonome. Il capitalismo – con suo accrescersi smisurato – imprigiona nelle sue maglie e nella sua gabbia d’acciaio gli stessi capitalisti. La rete del capitalismo per sopravvivere produce la guerra globale. Per il capitalismo e i capitalisti la guerra è un prodotto utile ad attrarre investimenti e a liberare energie monetarie accumulate. il capitale non può che volere nuove guerre di conquista dei popoli da sacrificare ai processi di accumulo. La globalizzazione del profitto è il fine aspansivo del capitalismo. Come il dio spinoziano il capitalismo non può non obbedire alle sue leggi. La libertà è solo un orpello giuridico per consentire al sistema di proliferare senza impedimenti.
Nulla deve sopravvivere, ogni sistema di produzione dev’essere annichilito, solo il capitalismo deve sopravvivere. A tale logica il capitalista deve attenersi: ecco che il Cerbero/fuco diventa il manager della vita e della morte, deve vendere il “progresso” che il capitalismo apporta con la menzogna, deve illudere per conquistare fette di mercato da cannibalizzare. Il processo non ha katechon, perché non ha fondamento metafisico e assiologico, deve mettere in atto solo la hybris:
«Quanto più acute e continue si fanno le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore resosi autonomo, automatico, agente con l’irruenza d’un processo elememtare della natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più l’andamento della produzione normale viene sottomesso alla speculazione anormale, tanto più grande si fa il rischio per i singoli capitali. Queste rivoluzioni di valore periodiche danno la riprova proprio di quello che, come si vorrebbe, dovrebbero confutare: il rendersi autonomo del valore in quanto capitale, condizione che esso conserva e rafferma attraverso il suo movimento». [4]
Qual è dunque l’essenza del capitale?
Marx è chiaro e inequivocabile nella risposta: il capitalismo è nel segno della morte. La mercificazione e la quantificazione sono gli unici processi pensabili e possibili, esse sono la morte in Terra.
Con il vivo lavoro scambiato con la morte il processo risorge, esso procede per salti quantitativi ed estensivi. Ad ogni salto l’esperienza della morte diviene sempre più incombente fino al punto, lo viviamo nel nostro tempo, da minacciare la vita nella sua interezza. La morte è parte del paradigma ideologico del capitalismo, per cui “l’uccidere” non reca scandalo, è la normalità della vita negata al tempo del capitale. L’automatismo non arretra neanche dinanzi al pericolo dell’autodistruzione del sistema-capitale. Il collasso di un pianeta non turba il capitalismo con i suoi fedeli sicari, anzi il pericolo diviene un affare potenziale da manovrare attentamente per estrarne plusvalore. Il tempo del capitalismo è inchiodato alla sola produzione di profitto:
«La materia reale del capitale investito in forza lavorativa è proprio il lavoro, la forza produttiva che si pone in movimento, che crea valore, il vivo lavoro che il capitalista ha scambiato con il lavoro morto, oggettivato, incorporandolo al proprio capitale, al quale soltanto è dovuta la trasformazione in valore autovalorizzantesi del valore che si trova nelle sue mani».[5]
La perversione del “senso” è il sostrato che dà il movimento al capitalismo. L’economia, come la sua etimologia indica (οἶκος “casa” e νόμος “legge”), è attività che consente la vita, è prassi che deve soddisfare i bisogni della comunità, in primis la famiglia. Il capitalismo muta la qualità dell’economia in crematistica (quantità senza misura) della morte. Sull’altare del profitto si sacrificano uomini e popoli. I subalterni sono sfruttati sul lavoro e nel tempo libero. La catena del capitale è invisibile, non molla mai le sue vittime, non dà loro mai pace, deve incutere inquietudine per dominare. I lavoratori sono chiamati al sacrificio perenne. A prescindere dalla classe sociale di origine tutti devono restituire al mercato ciò che “hanno guadagnato” nella forma del consumo per sopravvvire o per soddisfare desideri e voglie che il mercato ha indotto. Tutto ritorna al capitale; il saccheggio non conosce pause. I lavoratori nel tempo libero sono erosi dai desideri infiniti e dall’infelicità indotta. Essi sono macchine desideranti che con la loro abissale insoddisfazione nutrono la crematistica. Ancora una volta per poter riprendere le fila della storia è necessario smascherare il capitale nelle sue metamorfosi. La prassi non può che “passare” per la definizione del senso dell’economia e, quindi, del bene.
La politica di opposizione senza la chiarezza del fine dell’economia, non può inaugurare una “nuova stagione di lotta”. Senza il giudizio etico e la chiarezza del “senso” nulla può iniziare, si è condannati a subire il giogo del capitale.
L’economia capitalistica uccide “rubando” la gioia di vivere e il tempo di ogni singola vita, le divora mai sazio.
Nel tempo di Marx uomini, donne e bambini erano negati con lo sfruttamento lavorativo. Oggi prevalgono l’adattamento coercitivo ai desideri del mercato e l’addestramento al narcisismo che preparano ad un’esistenza di solitudine e di impotenza politica compensate dal consumo vorace. Il capitalismo somministra il consumismo alle sue vittime per “curare” il dolore, le avvelena con il male (consumismo) per destrutturarle e renderle obbedienti schiavi. La strumentalizzazione dell’essere umano assume nuove forme, ma in modo sempre eguale si scambia la vita con la morte:
«Le macchine, dando la possibilità di fare a meno della forza dei muscoli, divengono il mezzo per impiegare operai senza forza muscolare o dal fisico non ancora sviluppato, ma di membra maggiormente flessibili. Lavoro di donne e bambini, questo è stato il primo grido del capitale quando iniziò ad usare le macchine!».[6]
Il grido del capitale ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi. Quel grido attende una risposta che possa donare giustizia ai vivi e ai morti. Al linguaggio dell’impero grondante di fango, sudore e sangue, bisogna opporre un nuovo linguaggio, che possa aprire scenari e prospettive che riportino “l’anticapitalismo e la lotta agli sfruttamenti” nella progettualità politica. Solo in tal modo le grida di coloro che invocano giustizia saranno ascoltate. L’antiumanesimo dev’essere ribaltato in un nuovo Umanesimo, nel quale l’essere umano deve riportare la cura dove vige la violenza organizzata dell’incuria pianificata dal mercato.
[1] K. Marx, Il Capitale, Libro II, Newtin Compton Editori, Roma 2015, p. 583.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Edipo, Antigone e Tiresia, ma anche Giocasta, Laio, Creonte, Ismene, Polinice, Eteocle, Emone, Dioniso, Penteo, Agave, Cadmo: i personaggi del ciclo mitico legato alla città di Tebe e alla dinastia dei Labdacidi svolgono un ruolo centrale nella produzione artistica antica e moderna. La loro apparizione nella letteratura greca è attestata fin dai primordi nell’epica omerica e i perduti poemi Edipodia e Tebaide raccontavano in modo sistematico le gesta di Edipo e dei suoi figli maschi Eteocle e Polinice. La materia tebana è stata oggetto anche della poesia lirica, ma fu il teatro tragico ateniese del V secolo a.C. il genere artistico nel quale i miti tebani trovarono una rielaborazione particolarmente efficace in forme che divennero presto modelli canonici di riferimento per la ricezione antica e moderna. Il volume raccoglie vari contributi di Gherardo Ugolini, pubblicati nell’arco di quattro decenni, che spaziano dall’interpretazione dei drammi antichi all’analisi di casi significativi della ricezione moderna (Alfieri, Nietzsche, Hofmannsthal) e delle messinscene contemporanee.
Introduzione
Edipo, Antigone, Tiresia, ma anche Giocasta, Laio, Creonte, Ismene, Polinice, Eteocle, Emone, Dioniso, Penteo, Agave, Cadmo: i personaggi del ciclo mitico legato alla città di Tebe e alla dinastia dei Labdacidi sono numerosi e affascinanti. Alcuni di essi hanno un ruolo centrale nella produzione artistica antica e moderna, altri svolgono una funzione piuttosto secondaria, ma non per questo meno significativa. La loro apparizione nella letteratura greca è attestata fin dai primordi. Nell’Odissea viene tratteggiato, in forma sintetica e al contempo alquanto efficace, lo svolgimento di un episodio centrale del mito, il suicidio di Giocasta (lì denominata con la forma alternativa di Epicasta) dopo la scoperta dell’incesto col figlio Edipo il quale, per altro, continua a regnare sulla città di Tebe.1 E vi compare anche l’indovino Tiresia che nell’Oltretomba ha la prerogativa di conservare l’intelletto; egli non solo impartisce a Odisseo le opportune istruzioni per entrare in contatto con le anime dei defunti, ma formula anche una profezia ambigua ed enigmatica sul ritorno a Itaca dell’eroe acheo e sulle modalità della sua morte.2 In un breve passo dell’Iliade si accenna ai giochi funebri organizzati a Tebe in onore di Edipo, ai quali presero parte numerosi eroi della Grecia,3 mentre Esiodo rievoca la comparsa della Sfinge che teneva in scacco la città cadmea.4 L’elaborazione epica conosce anche la saga di Dioniso, per lo meno l’episodio della vendetta del dio ai danni del re Licurgo.5
Sono andati perduti, salvo pochissimi frammenti, i poemi epici che trattavano le vicende del ciclo tebano: nell’Edipodia e nella Tebaide dovevano trovare una sistematizzazione articolata le gesta di Edipo e dei suoi figli maschi Eteocle e Polinice (che forse non erano frutto dell’incesto con Giocasta, ma di un precedente matrimonio) fino alla guerra fratricida. La materia tebana è stata oggetto anche della poesia lirica, come era naturale che fosse, oltre che delle rappresentazioni visuali nella pittura vascolare. Un componimento di Stesicoro, riscoperto alcuni decenni orsono, cui è stato dato il titolo di Tebaide, attesta un’interessante versione del mito nella quale la regina Giocasta, sconvolta dalle rivelazioni di Tiresia sul futuro dei figli, cerca di evitare il compiersi delle profezie suggerendo un accordo di suddivisione dell’eredità di Edipo.6 Pindaro, dal canto suo, fa riferimento alla “saggezza” (σοφία) di Edipo,7 e attesta l’avvenuta attrazione del mito nell’orbita dell’ideologia delfica nel momento in cui presenta il parricidio come avveramento di un antico oracolo di Delfi.8
Il teatro tragico ateniese del V secolo a.C. non solo eredita dalla precedente tradizione poetica temi e motivi del ciclo tebano, ma si afferma come il contesto ideale nel quale i miti di quell’ambito possono essere rielaborati e offerti al pubblico. La presenza del mondo tebano sulla scena teatrale attica è impressionante per quantità e qualità. Tra i drammi che la tradizione ci ha conservato basta citare Edipo re, Antigone e Edipo a Colono di Sofocle, Sette contro Tebe di Eschilo, Fenicie e Baccanti di Euripide. Ma accanto a questi titoli, tra i più celebrati della tradizione e tra i più accolti nel repertorio delle messinscene antiche e moderne, vi sono parecchie altre tragedie che sono andate totalmente perdute salvo il titolo e qualche frammento. Eschilo compose un Laio, un Edipo e un dramma satiresco Sfinge (che insieme ai Sette componevano una tetralogia unitaria andata in scena alla Grandi Dionisie del 467 a.C.). Euripide compose un proprio Edipo, come anche una propria Antigone, seguendo strutture drammaturgiche molto differenti da quelle dei suoi predecessori. Ma anche vari altri poeti tragici si cimentarono con il tema edipico: tra il V e il IV secolo a.C. sono attestati drammi intitolati Edipo o Edipodia di Acheo, Nicomaco, Senocle, Filocle I, Melezio, Teodette, Carcino e Diogene di Sinope. Discorso analogo, anche se con dimensioni meno clamorose, si può fare per le rappresentazioni drammatiche di Antigone (la già ricordata Antigone di Euripide, ma anche quella di Astidamante) o di Dioniso (due tetralogie di Eschilo erano dedicate al dio Dioniso e al suo scontro con Penteo a Tebe e con Licurgo in Tracia).
Non è questa la sede per discutere le ragioni che determinarono tanta fortuna della saga tebana. Sono sufficienti due considerazioni di fondo. La prima riguarda la profonda rielaborazione che le vicende e i personaggi del ciclo tebano ricevettero nel loro trattamento drammaturgico sulla scena del teatro di Dioniso ad Atene: Edipo diventa il campione del conoscere e del ricercare la verità a qualunque costo, Antigone la ragazza che senza esitazione reclama il dovere di seppellire il corpo del fratello morto Polinice, indipendentemente dall’accusa di essere stato un traditore della patria, Tiresia il mantis vecchio e cieco che si esprime ambiguamente e si scontra costantemente con il reggitore della città mettendone in crisi le certezze. Soprattutto l’ambientazione tebana funge da universo distopico rispetto al cosmo ateniese. Nella Tebe del mito succede tutto quello che non deve accadere nell’Atene del V secolo a.C.: tirannide, violenza, sopraffazione, inganno, incesto. Quello di Tebe è un mondo sottosopra nel quale lo spettatore è condotto dal tragediografo-regista a identificare un sistema di valori totalmente negativo, un modello di città da respingere in toto.9 Da questo punto di vista i drammi di argomento tebano svolgono un ruolo politico fondamentale in quanto perseguono l’effetto di compattare il copro civico ateniese confermando la bontà del proprio assetto politico.
La seconda considerazione è la seguente: è attraverso la forma drammaturgica assunta ad Atene nel V secolo a.C. che le figure del ciclo tebano sopravvivono nei secoli seguenti. Da allora in poi, fino ad oggi e sicuramente anche nei prossimi secoli, il “nostro” Edipo è quello fissato da Sofocle nei suoi due drammi dedicati a quel personaggio. Tutti gli Edipo moderni – da Dell’Anguillara a Tesauro, da Corneille a Voltaire, da Dryden-Lee a Hofmannsthal, da Cocteau a Gide, da Dürrenmatt a Pasolini – si misurano sul modello dell’Edipo re sofocleo che, pur sconfitto nell’agone delle Grandi Dionisie dal semisconosciuto Filocle I,10 s’impose presto, almeno a partire dalla Poetica di Aristotele, quale tragedia esemplare sotto molteplici punti di vista. La stessa rielaborazione freudiana della figura di Edipo, tanto potente da affermarsi sia nella pratica ermeneutica sia nelle rielaborazioni artistiche, muove dai versi sofoclei, puntualmente citati nell’Interpretazione dei sogni.11 La forza normativa e stabilizzante con cui i tragediografi attici hanno riscritto il mito, vale anche e soprattutto per il caso di Antigone, figura letteraria pressoché inesistente nella tradizione greca precedente al dramma sofocleo del 442 a.C.12 Sofocle ne fa la protagonista del dramma, una donna ribelle che sfida il potere costituito di Creonte e le sue leggi in nome di norme sacre in materia funeraria alla cui obbedienza non può sottrarsi. E così è stata recepita nel corso dei secoli nelle innumerevoli rappresentazioni e rielaborazioni, pur con tutte le attualizzazioni e le mutazioni di significato che registi e artisti moderni hanno voluto realizzare. In tutti i casi – da Garnier a Trapolini, da Watson a Rotrou, da Racine ad Alfieri, da Hölderlin a Hasenclever, da Brecht a Grete Weil – chi ha riscritto la vicenda di Antigone ha dovuto fare i conti col dramma di Sofocle, anche laddove l’esito è un sovvertimento radicale di quel testo.
Nella mia attività di studioso mi sono dedicato intensamente alle saghe mitiche del ciclo tebano, ai personaggi che le costellano, ai nodi ermeneutici che la tradizione dei testi, specialmente quelli tragici, ci ha consegnato fin ad oggi e sui ci si arrovella da sempre: qual è la vera ‘colpa’ di Edipo? Quale il modello di conoscenza che lo contraddistingue? Fino a che punto Antigone ha ragione a ribellarsi contro le leggi della città? Perché i tragediografi modificano sensibilmente la figura di Tiresia facendone un indovino-sacerdote legato al culto di Apollo e alla religione delfica? Quali sono le qualità etico-psicologiche di Giocasta? Con tali cruciali questioni, e anche con molte altre, mi sono misurato nel corso dei decenni, senza mai avere la pretesa di giungere a risposte definitive, ma accontentandomi di inquadrare e possibilmente fare luce su alcuni aspetti particolari di un insieme che è destinato a rimanere problematico. A questi argomenti ho dedicato nel corso del tempo articoli, conferenze, interventi a convegni, libri e corsi universitari: tanti materiali sparsi che mi fa piacere poter presentare in questa raccolta. La strutturazione è molto semplice e intuitiva: la sezione “Antico” raccoglie studi specificamente dedicati all’interpretazione dei drammi ateniesi del V secolo a.C.; quella “Moderno” prende in considerazione lavori che spaziano dal Rinascimento al Novecento ed esaminano casi di ricezione in autori moderni (per esempio l’interpretazione di Nietzsche del mito di Edipo, l’Antigone di Vittorio Alfieri, il Vorspiel zur Antigone des Sophokles di Hugo von Hofmannsthal); la terza e ultima sezione, denominata “Contemporaneo”, riunisce varie recensioni di spettacoli teatrali andati in scena al Teatro Greco di Siracusa e altrove tra il 2017 e il 2023.
Guardando all’indietro nel tempo posso dire che l’interesse per la tragedia Edipo re e per le figure del ciclo tebano è sbocciato nell’ultimo anno di liceo, all’Arnaldo di Brescia, grazie soprattutto alla fortuna di avere avuto una formidabile insegnante, Rosanna Bertoli, una di quelle docenti capaci di coniugare grande dottrina con una instancabile attitudine formativa; la mia riconoscenza per quanto ho imparato da lei è enorme. È accaduto poi nell’ambiente dell’ateneo pavese, sotto la guida di un maestro esemplare quale è stato per me Diego Lanza, che gli interessi di ricerca sulla tragedia greca d’ambientazione tebana hanno assunto una direzione scientifica attraverso la tesi di laurea (sull’Edipo re) e le prime pubblicazioni accademiche. Da Hellmut Flashar, mio Doktorvater del dottorato tedesco alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, ho imparato, tra le tante cose, ad apprezzare e valutare con l’occhio vigile del filologo classico le messinscene contemporanee. «Sofocle era prima di tutto un uomo di teatro e non si possono capire i suoi drammi se non li si vedono rappresentati sul palcoscenico», era solito affermare Flashar spronando gli allievi a frequentare il più possibile le sale teatrali per impratichirsi dei meccanismi della comunicazione drammaturgica che la semplice lettura del testo non fa trasparire. Un insegnamento che ho fatto mio e che cerco di trasmettere a mia volta ai miei allievi. Luciano Canfora è stato tutor del mio dottorato presso la Scuola Superiore di Studi Storici di San Marino, oltre che un punto di riferimento constante per la mia formazione scientifica e culturale. Da lui ho imparato a leggere i testi teatrali indagando tra le righe i risvolti politici e ideologici che vi sono sottesi, senza schematismi, ma nell’ottica di inquadrare storicamente ogni testo nel preciso momento in cui fu prodotto e rappresentato. A tutti i maestri che ho elencato va la mia massima gratitudine. Resta l’ovvia considerazione che eventuali errori nei saggi qui presentati, rivisti e corretti rispetto alla pubblicazione originaria, ricadono sotto la mia responsabilità.
Devo all’incitamento entusiasta di Carmine Fiorillo, direttore editoriale della casa editrice «petite plaisance», l’idea di raccogliere in un volume i frutti di decenni di studio, sparsi su riviste e miscellanee non sempre facilmente accessibili. Sulle prime tale proposta mi aveva sorpreso e lasciato perplesso. Pubblicare le proprie Kleine Schriften è un’incombenza che si addice solitamente a chi ha concluso o è in procinto di concludere la carriera, traguardo che al momento sento ancora molto lontano nel tempo. Poi le discussioni con amici, colleghi e allievi mi hanno fatto ricredere e ho deciso di aderire al progetto. In fondo questo volume può essere visto, anzi dal mio punto di vista deve essere visto, come tappa intermedia di un percorso che si spera possa essere ancora lungo e fecondo.
Dedico il volume alla memoria di Marinella, Bruno, Rosa e Nicoletta che mi hanno sempre accompagnato con affetto incondizionato e continuano a farlo.
Gherardo Ugolini
1 Omero, Odissea, XI, vv. 271-280.
2 Si tratta dell’episodio della Nekyia, in Omero, Odissea, XI, vv. 23 ss.
3 Omero, Iliade, XXIII, vv. 677-680. Cfr. anche Esiodo, Catalogo delle donne, fr. 192 Merkelbach-West.
4 Esiodo, Teogonia, vv. 326-330.
5 Omero, Iliade, VI, vv. 128-143.
6 È il cosiddetto Papiro di Lille: cfr. Stesicoro, fr. 97 Davies-Finglass = PMGF 222(b).
7 Pindaro, Pitiche, IV, v. 263.
8 Pindaro, Olimpiche, II, vv. 35-42.
9 Su questo rimane fondamentale lo studio di F. Zeitlin, Thebes: Theater of Self and Society in Athenian Drama, in Nothing to Do with Dionysos? Athenian Drama in its Social Context, ed. by J.J. Winkler and F.I. Zeitlin, Princeton University Press, Princeton 1990, pp. 130-167.
10 Cfr. Hypothesis II all’Edipo re di Sofocle = TrGF 4 T 39 = Dicearco, fr. 80 Wehrli.
11 S. Freud, Die Traumdeutung, Deuticke, Leipzig-Wien 1900, pp. 180-183.
12 Da quanto risulta, Antigone prima di Sofocle non è mai nominata nell’epica e nella lirica. Compare nel finale dei Sette contro Tebe di Eschilo (467 a.C.), ma si tratta certamente di una parte del dramma interpolata sulla base dell’Antigone sofoclea. Curiosamente, invece, è Ismene a comparire, per esempio in un frammento di Mimnermo (fr. 19 Gentili-Prato), citata come amante dell’eroe tebano Teoclimeno, uccisa insieme con il marito da Tideo durante la guerra tra argivi e tebani. Inoltre, in un ditirambo di Ione di Chio (datato verosimilmente dopo il 443 a.C.) le due sorelle finivano bruciate nell’incendio del tempio di Era provocato da Laodamante, figlio di Eteocle. Si può ipotizzare che si trattava di una punizione per avere infranto la legge della città dando sepoltura a Polinice. In tal caso Ione avrebbe ripreso Sofocle, ma facendo di Ismene una complice attiva della sorella, punita con lei (cfr. l’Hypothesis all’Antigone del grammatico Salustio).
Indice
Premessa
Tra Edipo e Antigone
Antico
L’Edipo tragico sofocleo e il problema del conoscere
L’ethos di Giocasta tra Stesicoro e i tragici
Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio
L’immagine di Atene e Tebe nell’Edipo a Colono di Sofocle
Quello che Edipo sapeva.
Note al commento «anamorfico» all’Edipo re di Franco Maiullari
Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea
Le sette metamorfosi di Tiresia secondo il poeta ellenistico Sostrato
Φόβος φυτεύει τύραννον: The Tyrant’s Fears on the Attic Tragic Stage
A Wise and Irascible Hero: Oedipus from Thebes to Colonus
Un’altra Antigone e un altro Edipo sono possibili?
Alla ricerca delle tragedie perdute
Tra Edipo e Antigone
Moderno
Edipo e la Poetica di Aristotele in alcuni trattati del Cinquecento
Recensione di R.W. Bushnell, Prophesying Tragedy. Sign and Voice in Sophocles’ Theban Plays
Nietzsche, il mito di Edipo e la polemica con Wilamowitz
Il tiranno di Alfieri e i modelli greci: osservazioni sull’Antigone
Le metamorfosi di Tiresia tra cultura classica e moderna
Un re smarrito nel labirinto del proprio palazzo.
Sulla figura di Penteo nelle Baccanti di Hofmannsthal
Il Genio della tragedia. Antigone nel Vorspiel di Hofmannsthal
Hugo von Hofmannsthal, Prologo all’Antigone di Sofocle
‘Una parabola meravigliosa’: Peter Stein traduttore e regista dell’Edipo a Colono
Edipo e la peste – Edipo è la peste
Antigone e la questione giuridica
Tra Edipo e Antigone
Contemporaneo
The Seven at War from Thebes to Aleppo.
On Two Performances at the Greek Theatre of Siracusa
When Heroism is Female. Heracles at Syracuse
La resistenza di Antigone, migrante algerina in Canada.
Note sul film Antigone di Sophie Deraspe
“Man is a terrifying miracle”: Sophocles’ Antigone Staged by Massimiliano Civica.
An Interview with the Director
La notte di Antigone
Edipo Re in virtual reality
Volano le Baccanti sul teatro greco di Siracusa
Edipo sopra Berlino.
ödipus di Thomas Ostermeier alla Schaubühne
Quando Creonte è donna.
Antigone di G. Cordova al Teatro Olimpico di Vicenza
L’indovino che cambiò sesso. Tiresias di Kae Tempest
Un Edipo fuori dal tempo.
Oedipus di Ulrich Rasche al Deutsches Theater di Berlino
Tebe come Kiev? Le Baccanti di Laura Sicignano
Edipo re. Una favola nera
Edipo sulle scale di Siracusa
Edipo nella Londra di Margaret Thatcher. Alla greca da Steven Berkoff a Elio De Capitani
Edipo, dal Citerone a Potsdamer Platz.
Una nuova rielaborazione cinematografica del mito nel film Music di Angela Schanelec
Nel fango di Berlino la ribellione di Antigone
Antigone, cerimonia con canzoni.
La tragedia di Sofocle secondo il Teatro dei Borgia
Antigone dei barconi
Adesso parla Ismene. Nota su Ismene, Schwester von in scena al Deutsches Theater di Berlino
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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