Metafisica della domanda. L’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare. Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”. Dove vi è metafisica vi è umanità.

Salvatore Bravo

Metafisica della domanda

L’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare.

Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”.

Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico.

Filosofia è attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi.

Il concetto metafisico è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta.

Metafisica non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare.

La metafisica non importa mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità.

Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso.

 

 

***

 

 

Domandare tutto e tutto domandare

La filosofia è metafisica: non si può pensare la filosofia senza la metafisica, l’affermazione è solo apparentemente banale, poiché i dispregiatori della metafisica sono, in primis, nelle facoltà di filosofia, dove in generale – salvo poche eccezioni – si coltiva l’adattamento della filosofia ai voleri del mercato. L’universale e la verità sono rigettate in nome del relativismo funzionale alla globalizzazione della finanza. In questo contesto rileggere Marino Gentile[1] consente di deviare dalla chiacchiera accademica per ”incontrare” il logos. Sui filosofi dediti alla ricerca metafisica è caduta la scure del silenzio. La verità è avversata e da ciò si deduce la qualità etica del nostro presente.

Dove vi è logos, vi è l’intero e la ricerca dell’universale. L’intero è l’oggetto della filosofia, ma non un “intero” già disposto a priori: il filosofare è un processo critico e dinamico con cui si giunge all’intero senza codificarlo in dogmi. La filosofia – come afferma Marino Gentile – è domandare tutto e tutto domandare: la domanda è apertura alla problematicità dell’esistenza e dell’esperienza. Domandare significa capacità di cogliere la molteplicità focale con cui l’esperienza si rivela al soggetto. Domandare è, dunque, intenzionalità qualitativa con cui la parte è riposizionata alla sua materialità olistico. Non si tratta di svelare il tutto, ma l’intero. L’intero si costituisce come relazione viva tra le parti, mentre il tutto è svelamento della totalità conchiusa in sé. La metafisica è dunque un domandare che svela la struttura dell’intero all’interno dell’esperienza, la razionalizza per cogliere il senso che dà vita alle parti, le coniuga nella direzioni del “perché”:

«Invece l’esigenza iniziale della filosofia è del tutto unitaria, sicché il domandare tutto è insieme un tutto domandare. La totalità non si presenta ad essa come un complesso, ipoteticamente perfetto, di certezze da conquistare, ma come la reazione integrale di ogni certezza, che non sia giustificata da un integrale sapere».[2]

Il domandare per Marino Gentile è l’attività che umanizza, poiché senza “il domandare” l’essere umano non esprime nella prassi il logos dialogico che ne fa il vivente che, con la parola, pone “mondi” e li decodifica. Per creare bisogna domandare. Il possibile e il rischio del nuovo sono consustanziali alla domanda:

«Un domandare tutto, che sia come ho già proposto un tutto domandare, nel senso che esso non sia originariamente altro che domanda: non perché, se tutta la realtà, senza eccezione, non diventa problema, non c’è possibilità di parlare di metafisica».[3]

Il domandare nella metafisica ha la sua condizione nella “meraviglia aristotelica”. Il timor panico che si presenta all’essere umano mediante l’esperire con la sempre cangiante contingenza è ricchezza di sapere, poiché l’empirico presenta all’essere umano sempre nuove sfide, necessita di essere interrogato per cogliere in esso la potenza nascosta del senso. Il soggetto e l’oggetto trovano nella domanda il punto di mediazione e di unità, i due poli si ricongiungono nell’attività del soggetto che contempla l’empirico. Non vi è realtà empirica senza il soggetto, il polo soggetto e il polo oggetto sono uniti nell’eterna tensione della domanda:

«Il tema della “meraviglia” viene ripreso successivamente, a proposito della filosofia generale; a questo punto è necessario che il continuo riferimento all’esperienza venga inteso come un’indicazione non di povertà, ma di ricchezza, cioè come una sempre nuova possibilità di verificare la validità del concetto nei confronti delle manifestazioni più complesse, più singolari o più strane dell’esperienza sensibile ch’esso fa sapere».[4]

 

Concetto scientifico e filosofico

Il concetto filosofico si distingue dal concetto scientifico, poiché quest’ultimo è finalizzato all’operatività, è paradigma di azione finalizzato alla pura quantità ed è espresso in linguaggio matematico. Il concetto scientifico, dunque, disegna un ordito limitato, poiché è uno strumento per convogliare i dati verso l’efficienza dell’operatività e dell’accumulo. Non compare il giudizio qualitativo ma solo quantitativo. Esso problematizza al fine di verificare le procedure per ottenere i migliori risultati. Non vi è sospensione dell’utile, ma il suo potenziamento mediante la matematizzazione dei dati. Il concetto scientifico problematizza dei dati, ma mai i presupposti che restano “intoccabili”:

«I concetti scientifici moderni sono esemplati sui concetti matematici, cioè sono conoscenze, ma insieme modi di ordinare le conoscenze ai fini operativi dell’attività umana; si distinguono perciò nettamente dai concetti nel senso classico della parola, in quanto questi vogliono essere puramente e semplicemente conoscere».[5]

Il concetto filosofico sospende, invece, l’utile per individuare l’oggetto nella sua verità, lo lascia emergere in modo che si rivela nella sua sostanza. Il senso del suo esserci per svelarsi deve neutralizzare l’operatività, solo in tal modo la verità può emergere dalla frammentazione e dall’uso che impedisce allo sguardo di vivere, vedere e pensare l’intero:

«Il concetto, insomma, può essere simboleggiato come un baleno luminoso, per indicare, con un’approssimazione meno infelice delle altre, che, mentre non entra quale elemento costitutivo negli oggetti da esso rappresentati, è costitutivamente essenziale alla loro manifestabilità conoscitiva, cioè alla loro effettiva consistenza di oggetti».[6]

La filosofia-metafisica è uno scandalo per l’individualismo proprietario vigente, essa è trasgressione dell’ordine del discorso curvato al solo feticismo del risultato:

«Filosofia viene detta, dunque, giustamente l’attitudine a compiere qualunque atto di conoscenza autentica e genuina, cioè rivolto a capire le cose come sono, nella loro propria consistenza e non in rapporto all’uso che se ne voglia fare per altri scopi».[7]

 

Conoscere e sapere

L’accusa rivolta alla filosofia-metafisica è di essere “inutilmente astratta”, ovvero un vuoto ciarlare finalizzato al nulla, in realtà è un’accusa ideologica: l’individualismo proprietario deve necrotizzare ogni prospettiva altra per consolidare la sua dogmatica naturalizzazione. In realtà la metafisica è concretezza, poiché essa trae dall’esperienza la struttura veritativa occultata dal pragmatismo crematistico e dall’ansia del risultato. Il concetto metafisico, invece, è paideutico, in quanto insegna a guardare il mondo con lo sguardo profondo della civetta. In tal modo il soggetto vive la realtà empirica nella sua concretezza e problematicità, di conseguenza il conoscere si coniuga in modo fecondo al sapere

«Senonché la relazione tra l’esperienza e il principio metafisico può essere concepita come il rapporto tra la potenza e l’atto soltanto quando questi termini siano concepiti nella forma più assolutamente propria. Giacché se l’atto e la potenza venissero concepiti non nella forma pura, bensì in commistione reciproca, il rapporto stabilito non uscirebbe dai limiti dell’esperienza e perciò non avrebbe capacità e natura di rapporto metafisico».[8]

Metafisica, dunque, non è resecazione dalla materialità dell’esperienza, ma profondità conosciuta e pensata della stessa, in tal maniera il soggetto non è travolto dalla furia del dileguare, ma costruisce tra l’oti (il che) e il dioti (il perché) un ponte di senso che trascende la frammentazione astratta:

«La seconda condizione è, dunque, che la metafisica non importi mai esclusione del riferimento all’esperienza, e quindi alla sua costitutiva problematicità».[9]

Marino Gentile, con la sua opera finalizzata a fondare una metafisica che risponda al nuovo clima culturale affermatosi dopo Kant, ci insegna che ciò di cui necessitiamo è “il senso”. Tale necessità è connaturata all’essere umano, non può scaturire dalle scienze dure, ma dall’impianto metafisico. La problematizzazione del dato è già “fare filosofico”, in cui il domandare deve porre le risposte. Se tale attività viene a mancare l’essere umano è mutilo della sua profondità pensante e non può che lasciarsi travolgere dagli eventi e dai risultati scientifici pur se prodigiosi. La furia della produzione di informazioni e merci potrebbe ribaltarsi in terrore panico, in thauma, in quanto il soggetto – dinanzi alle potenze che ha scatenato e di cui non conosce il senso – non può che soccombere.
Dove vi è metafisica vi è umanità. Il solo conoscere non è sufficiente, l’umanità deve donare al conoscere il sapere, ovvero la consapevolezza dei fini e dei perché condivisi, altrimenti vi è il rischio sempre più palese che il conoscere senza sapere sia una forma di razionalità-irrazionale che può divorare l’intera umanità e il pianeta in un freddo baleno privo di senso:

«Il sapere, dunque, si distingue dalle altre forme di conoscere, in quanto imprime all’inquietudine dispersa delle rappresentazioni non collegate e non capaci di persistenza un orientamento e una direzione comune».[10]

L’inquietudine e la società dell’angoscia in cui siamo situati sono il sintomo della rimozione della metafisica funzionale al capitalismo che “forgia” consumatori onnivori e senza orizzonte qualitativo. Il malessere che si constata quotidianamente denuncia la drammatica assenza della metafisica. Senza di essa non vi è paideia, poiché l’essere umano è consegnato indifeso al mercato e alla spirale dei desideri illimitati che non possono che stritolarlo come i serpenti fecero con Laocoonte.

Salvatore Bravo

[1] Marino Gentile (Trieste9 maggio 1906 – Padova31 maggio 1991).

[2] Marino Gentile, Trattato di Filosofia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1987, pag. 53.

[3] Ibidem, pag. 97.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 27.

[6] Ibidem, pag. 32.

[7] Ibidem, pag. 229.

[8] Ibidem, pag. 181.

[9] Ibidem, pag. 178.

[10] Ibidem, pag. 18.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Claudio Lucchini – Singolarità corporea e universalismo: alcune riflessioni sulla pensabilità del comunismo come relazione tra individualità reali-naturali.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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George Steiner – Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

Salvatore Bravo

 

Lo spettro della diversità forma un continuum tra i più sottili e in  ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità. Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum.

 

 

Verità ed interpretazione

Vi sono opere imperiture, il cui significato polisemico racchiude segretamente la verità della condizione umana, la quale si offre ad una molteplicità di letture, condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa: pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.

La letteratura greca è fonte di verità, come lo è la filosofia greca: si utilizzano linguaggi differenti ma in entrambe si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo; essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è rizomatica, è una unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni.

La letteratura e la filosofia greca non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura. Tale consapevolezza era presente anche in Marx. La verità eccede la storia, pur vivendo in essa. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale, e l’irrazionale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.

Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo: vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:

 

«Nell’Introduzione alla critica dell’economia politica, Marx cerca di raffinare il modello ingenuo e sociologicamente rozzo delle relazioni tra la “sovrastruttura” estetico-ideologica di una cultura e la sua base economica sociale. Secondo Marx, non è possibile formulare un’equazione semplicistica e univoca di tali relazioni che sono molto più sottili sia in rapporto al carattere del clima ideologico o artistico di una determinata comunità, sia agli stadi temporali dell’evoluzione sociale».[1]

 

D’altra parte la verità di una “civiltà altra” non ci giunge nell’oggettività abbagliante del mattino, ma essa deve implicare uno sforzo ermeneutico e una tensione dialettica capaci di un doppio movimento: si arretra dinanzi ad essa, poiché consapevoli dell’alterità filtrata mediante schemi, giudizi e pregiudizi del proprio tempo storico al fine di approssimarsi alla sua presenza senza l’arrogante pretesa di possederla:

 

«Quando arriva a noi dall’Antigone di Sofocle, il “significato” è distorto nella sua struttura originaria proprio come la luce sellare è deformata quando arriva a noi attraverso il tempo e campi gravitazionali successivi».[2]

 

Dai Greci siamo distanti e vicini, le loro verità sono le nostre, ma nel contempo il vissuto storico le fa apparire in modo diverso e dona ad esse una diversa configurazione. Gli esseri umani sono proiettivi, pertanto per decodificare l’alterità e la verità è opportuno il lavoro dello spirito senza il quale nessuna interpretazione risulta razionale e ben fondata.

 

Le Antigoni

L’Antigone di Sofocle è un’opera eterna: si dispiega davanti a noi non una semplice tragedia, ma l’umanità nei suoi complessi conflitti dialettici. Il male è l’opposizione senza sintesi: se il particolare e l’universale guerreggiano senza la capacità di sintesi del concetto, si è colti dalla rovina. La vita sociale e politica è attività dialettica finalizzata a conciliare ciò che pare-appare opposto. Eraclito,[3] nel frammento 51, già affermava la necessità dell’unità degli opposti: la verità è l’unità nella quale gli opposti ridisegnano posizioni e significati. L’armonia non è nella sclerotizzazione della vita, ma nel confliggere fecondo e consapevole.

La tragedia del nostro tempo storico è la cultura della cancellazione degli opposti: il conflitto è sostituito dall’omologazione. La verità senza opposti riposizionati nel reciproco riconoscimento è solo “il niente” ideologico. Il conflitto concettuale è stato sostituito dal confliggere crematistico senza riconoscimento delle autocoscienze nella loro specificità materiale e di genere.

Hegel ha interpretato l’Antigone, ne ha colto un aspetto eterno, ovvero in Antigone il conflitto conduce alla rovina, poiché il polo femminile (Antigone) e il polo maschile (Creonte) non ammettono la sintesi. Il dialogo è solo un atto di forza, poiché entrambi non ascoltano e rifiutano il polo opposto che vive in ciascuno. Creonte non ascolta Antigone con le sue ragioni, poiché è distante dal suo polo femminile, e lo stesso avviene in Antigone. Entrambi sono irrigiditi dall’incapacità di pensare e vivere il proprio nucleo profondo nel quale vi è una sintesi che se pensata-vissuta favorisce l’ascolto e la comunicazione:

 

«I riti funerari, poiché rinchiudono letteralmente il morto nello spazio della terra e nella sequenza fantomatica delle generazioni, che sono alla base del mondo famigliare, sono un compito specificatamente femminile. Quando tale compito tocca a una sorella, qualora l’uomo non abbia né madre né moglie che lo riportino alla terra custode, i riti funebri acquistano la massima sacralità. L’atto di Antigone è il più sacro che una donna possa commettere. È anche ein Verbrechen: un crimine. Ci sono situazioni in cui lo stato non è pronto a rinunciare alla propria autorità sui morti».[4]

 

Per Hölderlin Antigone è una “santa pazza”, è il polo dionisiaco, è la verità aorgica che vive solo in relazione alla razionalità apollinea. Resecare i due poli significa spezzare la profondità della razionalità. Senza dualità nell’unità non vi può che essere irrazionalità e una pericolosa scissione in cui le parti prendono il sopravvento fino alla morte. L’unità è nella dualità dei poli: Antigone sente le potenze profonde della vita, la sua sacralità terrena e trascendente, ma è respinta dalla razionalità della polis e dai suoi poteri. Antigone mostra con la sua rivolta e il suo dolore la parzialità dell’altro polo, nella lotta palesa che vi è altro oltre l’ordine stabilito, nel contempo è sull’abisso dell’irrazionale, poiché in lei vi è il prevalere di un solo aspetto:

 

«Ella è la quintessenza dell’Antitheos, di cui il poeta aveva parlato nella lettera a Böhlendorff, nel dicembre 1801. Il che significa che Antigone fa parte di coloro che si pongono di fronte a Dio o agli dèi (Hölderlin usa alternativamente queste due espressioni) con atteggiamento contrario, avverso, polemico. Ma questa opposizione, questo attacco agonistico rappresentano una forma sublime di devozione. […] I punti di riferimento di Hölderlin sono di natura filosofica. Proprio come Empedocle e come Rousseau, secondo la descrizione che Hölderlin ne dà nell’ode “Der Rhein” (Il Reno), Antigone è una “pazza santa” (törig göttlich)».[5]

 

Maschile e femminile nell’Antigone

George Steiner individua il dramma e la verità dell’Antigone nel rifiuto della differenza profonda: ciascun uomo reca con sé il maschile con un fondo femminile e lo stesso accade nella donna. Una società sana consente l’ascolto del sottofondo che completa la disposizione di genere prevalente senza cancellarla. La comunicazione interiore non può che favorire e incentivare le relazioni positive tra i due generi. Antigone rappresenta il rifiuto di tale positiva ambiguità che non chiede la rinuncia o la negazione di nessun polo, ma consente una proficua comunicazione-sintesi. Nella tragedia di Sofocle è rappresentata la negazione, e l’incomunicabilità tra le due figure è il segno di una resecazione interiore proiettata all’esterno. Antigone e Creonte sono l’uno speculare all’altro:

 

«Il germe di tutto il dramma sta nell’incontro tra un uomo e una donna. Nessuna esperienza di cui abbiamo diretta conoscenza è portatrice di un maggiore potenziale conflitto. Essendo inalienabilmente una sola cosa, in virtù dell’umanità che li separa da ogni altra forma di vita, uomo e donna sono allo stesso tempo inalienabilmente diversi. Lo spettro della diversità. Come sappiamo, forma un continuum tra i più sottili. In ogni essere umano sono presenti elementi di mascolinità e di femminilità (ogni incontro, ogni conflitto è, di conseguenza anche una guerra civile all’interno del proprio io ibrido). Ma la maggior parte degli uomini e delle donne cristallizza la propria essenziale virilità o femminilità in qualche punto di questo continuum. Questa riunione della personalità divisa, questa composizione dell’identità, creano una breccia attraverso la quale le forze dell’amore e dell’odio si congiungono».[6]

 

Il tempo attuale è nel segno della separazione da sé e dall’alterità. le innumerevoli tragedie sono il sintomo di una realtà sociale ed economica che ha cancellato la bella unità nella differenza sostituendola con forme manierate e artefatte congegnali al sistema capitalistico. Ovunque si assiste ad una imitazione del femminile e del maschile senza autenticità e relazioni. Estetiche e scelte sono dettate dal sistema, sono curvate dall’industria del maschile e del femminile ad uso e consumo del mercato. La violenza non può che generare se stessa. Senza la letteratura greca e la filosofia l’Occidente è avviato alla decadenza, poiché si priva di opere in cui può guardarsi e pensarsi.

[1] George Steiner, Le Antigoni. Un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’Occidente, Garzanti, 2003, pag. 142.

[2] Ibidem, pagg. 232-233.

[3] Eraclito, frammento 51: «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira».

[4] George Steiner, Le Antigoni, cit., pag. 45.

[5] Ibidem, pag. 93

[6] Ibidem, pagg. 262-263.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«L’Aristotele di Enrico Berti». Convegno in onore del grande storico della filosofia: 10 gennaio 2023. Contributi di: Arianna Fermani, Luca Grecchi, Roberto Mancini, Maurizio Migliori, Linda Napolitano Valditara, Lucia Palpacelli, Cristina Rossitto, Emidio Spinelli, Marcello Zanatta.





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Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken. Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro. L’ontologia del non ancora è la comunità.

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende, le cose cercano il loro poeta […]. Ciò che è accaduto, è sempre accaduto solo a metà, e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare».

E. Bloch

Salvatore Bravo

Ernst Bloch e il concetto di Eingedenken

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

Nello Spirito dell’utopia di Ernst Bloch il concetto di Eingedenken, rammemorare il futuro, ha una portata teoretica che svela la sua pregnanza concettuale nel tempo presente segnata dalla “dimenticanza” del passato e del futuro. Il concetto di Eingendenk deriva dalla preposizione “in” e dal verbo “gedenken” (‘ricordare’), legato a sua volta a denken (‘pensare’): non a caso le forme più arcaiche presentano la forma ingedenk.

Lo sconfittismo del nostro tempo si connota per la neutralizzazione della memoria storica. La storia nelle sue vicende e vicissitudini, invece, con il concetto di Eingedenken non è consegnata all’oblio ma fonda la metafisica umanistica, la quale ha come centro l’essere umano nella sua concretezza comunitaria. Si intrecciano in un sinolo inestricabile la biografia personale e la storia collettiva che non è persa nel tempo, ma ha la possibilità di essere rivissuta, rammemorata e pensata nelle sue possibilità inespresse. L’ontologia del non ancora è la comunità che pensa il tempo trascorso, non si limita a conteggiare gli eventi sulla linea della storia, ma ne scorge con gli errori le potenzialità progettuali da attuare nel futuro.

In Ernst Bloch la metafisica umanistica vive dell’irraggiamento del passato verso il futuro. Senza la mediazione della coscienza nulla è possibile: le potenzialità sono disperse nel tempo o sono schiacciate dalla gravità dell’economicismo e del fatalismo.

Il futuro è una possibilità propriamente umana, non è un dato naturale. Pertanto solo l’umanità capace di leggere plasticamente il passato può scorgere nelle sue pieghe il futuro. Non si tratta di correggere ciò che fu, o di ripetere in modo ingenuo ciò che è stato, ma di pensare la distanza temporale al fine di poterla comprendere nella sua profondità per estrarne esperienze non completamente compiute o inespresse. Ciò che fu – in tale cornice intenzionale – è vivo nel pensiero che rammemora il passato per poter progettare il futuro a partire dal presente. La storia è il mondo degli uomini e delle donne nella quale la vita prende forma con le sue imperfezioni, deviazioni improvvise e scambi di binari che attendono di essere pensati in modo che possano vivere di nuova luce nel futuro. La prassi è orientata verso il futuro, ma la condizione ontologica del suo operare trasformativo non può che affondare creativamente il suo rizoma nel passato:

«Perciò qui brilla il presentimento di un sapere non ancora cosciente, […] emerge qui un volere modificante, un pensiero motorio del nuovo, in quanto grande e ancora inesplorata consapevolezza o classe di coscienza di un immemorare, capace di conferire al Wiedererinnerung mondo il suo scopo togliendo di mezzo ogni mera rammemorazione […] o ogni mero alfa del platonismo o dello hegelianismo; perciò si mostra qui l’atteggiamento di un filosofare pragmatistico, rivolto tanto al poter volere a ritroso [das zurück Wollenkönnen des Willens] diretto a ciò che fu, quanto al nuovo, a inserzioni metafisico-morali – atteggiamento illuminato da un mondo che non c’è ancora, immediatamente collocato sul ponte verso il futuro, sul problema, dominato dalla propria volontà, della teleologia».1

Metafisica umanistica

Le parole di Ernst Bloch delineano il fulcro sostanziale della metafisica umanistica. L’essere umano non è un automa che appare passivamente nella storia fino a scomparire. Michel Foucault utilizza un’immagine – in Le parole e le cose – per indicare l’apparire fugace dell’idea di essere umano nella storia: sulla sabbia si può scorgere il volto dell’essere umano portato via velocemente dall’onda.

La metafisica umanistica non è una forma di storicismo, non si limita ad enumerare la storia delle idee con le sue visuali antropologiche che diverranno presto archeologia. Essa ha il suo fondamento veritativo nella natura dell’essere umano curvato nella materialità della storia. L’essere umano media con il pensiero l’esperienza storica, e in tal modo pensa il proprio tempo in modo esteso: il passato si riannoda col presente per orientarsi verso il futuro. La prassi è il catalizzatore del tempo pensato che diviene la luce nelle tenebre del nichilismo e nell’oscurantismo del pessimismo senza speranza ed etica:

«Non veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende [alles wartet auf uns], le cose cercano il loro poeta e vogliono essere riferite a noi. Ciò che è accaduto [geschehen], è sempre accaduto solo a metà [halb geschehen], e la forza che lo fece accadere, che si espresse in esso in maniera insufficiente, continua a operare in noi e getta il suo bagliore anche sui tentativi parziali, ancora futuri che giacciono dietro di noi. Ciò che prima di noi, senza di noi era appena un fremito, ora è diventato capace di risuonare, riscaldare e illuminare»2

Rammemorare ciò che fu

I morti ritornano nel presente, le idee e le lotte trascorse con il loro tributo di sangue e sacrificio sono nel presente. Rammemorare i “morti” significa farli vivere nel presente: ritornano a noi con il pensiero, per progettare il futuro. Non è un eterno ritorno, ma un ritornare per aprire al futuro, per rompere la «gabbia d’acciaio» che vorrebbe restringere la prospettiva al solo presente sclerotizzato nel ciclo consumo-produzione.

Non è un’operazione archeologica, non si tratta di far affiorare il passato per renderlo “oggetto da esporre”, ma di viverlo nell’attività del pensiero, la quale non si limita alla contemplazione di ciò che fu, ma lo riorienta verso il futuro:

«I morti ritornano in nuove connessioni di senso come pure nel nuovo agire, e la storia così concepita, sottoposta a concetti rivoluzionari che continuano a operare, spinta verso la leggenda e interamente illuminata, diventa la non mai perduta funzione nella sua pienezza di testimonianza della rivoluzione e dell’Apocalisse».3

La metafisica umanistica non è una semplice forma di coscienzialismo, in quanto conserva il materialismo storico liberato dai ceppi del determinismo e dai semplicismi delle proiezioni-previsioni degli economisti presi dalle maglie stringenti e vacue della crematistica. Il nostro presente vorrebbe negare la grandezza dell’essere umano riducendolo a semplice archeologia senza futuro.

L’essere umano non è un osso come afferma Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, per cui dinanzi ai riduzionismi che avanzano è necessario opporre e riproporre la metafisica umanistica che riporti la centralità della cura dell’essere umano.

Senza la prassi e la teoretica l’umanità non può che cadere in forme di manipolazione tecnocratica, il cui scopo è impedire l’ascolto profetico delle voci del passato che giungono fino a noi. La metafisica umanistica si traduce in un modello economico che ha come centro l’essere umano. L’economia con fondamento umanistico consente la fioritura dell’umanità, accoglie la pluralità nella concretezza dell’universale. Stabilisce fini alla misura della natura umana, la quale è fondata sul limite, allo scopo di dare forma e identità al singolo nella comunità con la partecipazione consapevole alla produzione. L’ostilità verso ogni forma di umanesimo rivela il dominio capitalistico nella sua verità nichilistica e distruttiva.

La metafisica umanistica è la condizione teoretica per trascendere lo stato di reificazione e violenza connaturati all’economicismo capitalistico. In esso ogni possibilità è resa potenziale distruttivo, in quanto la produzione senza limiti non divora solo il pianeta nella sua totalità, ma ancor prima della distruzione ambientale annichilisce l’essere umano negando la sua natura progettuale e comunitaria da concretizzare nella storia. Necessitiamo di una nuova metafisica, dunque, che possa permettere il virtuoso passaggio dalla potenza all’atto della natura umana.

Senza un nuovo umanesimo non vi può essere futuro, ma solo un veloce declino dell’umanità e dell’ambiente storico e naturale nella quale è iscritta la vita.

La metafisica umanistica non è solo una proposta filosofica, ma è il percorso che ci conduce oltre l’annientamento del presente e del futuro:

«Ma per sollevarsi oltre l’annientamento del mondo, la vita dell’anima deve diventare “pronta” [fertig] nel senso più profondo, andando a fissare felicemente la gomena alla banchina dell’al di là, onde il suo plasma germinale non sia trascinato nell’abisso della morte eterna, e non si perda la meta verso cui è organizzata la vita terrena: la vita eterna, l’immortalità anche transcosmologica, la realtà unica del regno delle anime, la restitutio in integrum fuori dal labirinto del mondo – a causa della pietà di Satana».4

1 E. Bloch, “Über die Gedankenatmosphäre dieser Zeit”, in Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 255; il passo si trova in tradotto in alcune parti a cura di S. Marchesoni in E. Bloch, W. Benjamin, Ricordare il futuro. Scritti sull’Eingedenken, Mimesis, Milano 2016, qui, p. 43

2 Ibidem, pag. 34.

3 E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 33.

4 E. Bloch, Geist der Utopie. Erste Fassung, cit., p. 442.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Galeno – Esaminiamo prima come si possa conservare la salute e successivamente quale sia il modo migliore per curare le malattie. «La salute. De sanitate tuenda, Libro I», a cura di Sabrina Grimaudo.


Sabrina Grimaudo

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Accogliamo la nostra esistenza più ampiamente che possiamo, con pienezza di meraviglia: allora il frutto della nostra vita potrà forse palesarsi, foss’anche soltanto come polvere di stelle tra le dita, o come un segmento di arcobaleno colto al volo.

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Ho fatto un sogno … tendere al coglimento di ciò che ancora non si conosce delle cose passate, presenti o future … Ma occorre distinguere sempre tra una vita vissuta nella verità ed una vissuta nella falsità, che si sogni o si sia svegli. Il filosofo vive questo difficile impegno: salvare il senso delle cose, cercare la verità dei sogni e al di là dei sogni.


M. Chagal, Sogno d’amore


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La “cancel culture” procede spedita. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo.

Salvatore Bravo

La cancel culture procede spedita

Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone,
ma solo il
profitto deve guidare il mondo.

Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.


Cancel culture

La Howard University ha ridimensionato gli studi classici. Inoltre, largo spazio è stato dato dai media alle tesi del prof. Dan-el Padilla Peralta, docente a Princeton, originario della Repubblica Dominicana, il quale ha individuato nella cultura dell’antichità il fondamento del suprematismo bianco. La cancel culture procede spedita, si inneggia alla libertà e alla difesa dei diritti delle minoranze, la causa di ogni male è individuato nelle civiltà passate. Il presente è l’incipit di un nuovo mondo nel quale ogni discriminazione è destinata a scomparire. L’analisi ossessiva del passato, sempre negativa, il giudizio esemplificato teso a cancellare ogni possibile comparazione contrastiva tra il modello economico contemporaneo e modelli di altre civiltà, ha lo scopo di ipostatizzare il presente, di renderlo immacolato e scevro da ogni macchia e critica. Il sistema opera per cancellazione, utilizza nobili ragioni per fini ideologici. Lo scopo è celare l’antiumanesimo imperante: nessuna cura per le persone, ma solo il profitto deve guidare il mondo. Libertà e benessere sono proporzionali al censo, chi non ce la fa è lasciato indietro, è colpevole di diserzione o semplicemente non è all’altezza del migliore dei mondi possibili. In questo clima di conservazione e limitazione del pensiero teoretico e divergente vi sono eccezioni che aiutano a comprendere il tempo presente. Luca Grecchi con il suo impegno decennale ci è di ausilio per comprendere le ragioni strutturali della cultura della cancellazione: si deve nascondere ai “sussunti” che il migliore dei mondi possibili condanna alla cattiva vita le generazioni del nostro presente e priva le future generazioni della possibilità ontologica di progettare e vivere una vita degna di essere vissuta:

«Il cosiddetto “progresso economico” sta infatti costando molto caro all’Occidente in termini di qualità spirituale della vita per le generazioni attuali, e di speranza di vita per le generazioni future, così come sta costando caro da parecchio tempo alle centinaia di milioni di poveri del mondo non occidentale».1

 

Luca Grecchi e lo storicismo crociano

Luca Grecchi nuota in senso contrario. Gli antichi Greci sono il paradigma con cui pensare il presente e comprenderlo. La cultura occidentale è cristiana e greca, oggi entrambe sono rimosse dall’orizzonte etico e culturale. Per valorizzare il pensiero greco bisogna uscire dalla trappola dello storicismo crociano per il quale ciò che viene dopo è più vero di ciò che viene prima.

La verità sfugge alle maglie della successione temporale, essa “appare” in epoche differenti, può scompare nelle vicissitudini storiche, ma la verità attraversa lo storicismo, lo fende per mostrare che il dopo può essere meno vero del prima.

Il mondo greco ci insegna che una civiltà è eccellente, se è curvata sulla cura dell’essere umano e del ben vivere, se si confronta con le spinte distruttrici presenti in essa.

Nel mondo prefilosofico i Greci non si occupavano ingenuamente del cosmo e degli dèi, ma in essi proiettavano le dinamiche umane. In tal mondo oggettivavano l’umano con il suo caos per armonizzare la comunità e fondarla su solide fondamenta veritative. Il centro del pensiero e della prassi era l’essere umano nella comunità. Le forze cosmiche e divine erano interpretate in modo olistico e dinamico: in esse si rifletteva la vita della comunità; il sapere era finalizzato alla buona prassi politica:

«Nella letteratura prefilosofca era infatti presente non tanto la contemplazione disinteressata del cosmo, quanto un tentativo di unificazione del molteplice e di armonizzazione del caos, operato proprio dall’uomo. L’uomo richiedeva infatti di conoscere l’ordine del cosmo per potervi poi vivere in modo più conforme alla propria essenza razionale, morale e simbolica. È errata pertanto la tesi di chi sostiene che l’uomo avrebbe ricercato la contemplazione del cosmo, nella Grecia, solo per poter poi vivere in modo più conforme a tale ordine. La natura, il cosmo, segnarono indubbiamente, con le loro strutture, i limiti dell’azione umana. All’interno di questi limiti, però, l’uomo operò sempre per comprendere e realizzare nel modo più compiuto la propria essenza».2

 

Non fu filosofia ontocentrica

Non fu la filosofia greca ontocentrica, in quanto la riflessione sull’essere è stata funzionale a codificare la buona vita. L’essere è sempre stato inserito all’interno della concretezza della buona vita. L’essere, metafora della comunità stabile e delle buone leggi rispettose della natura, è stato un tema non secondario dei grandi filosofi classici, i quali hanno utilizzato un nuovo linguaggio per l’umanesimo greco, lo hanno categorizzato e concettualizzato per affinarlo e per criticare la crematistica che minacciava la comunità. L’essere umano, dunque, è sempre stata la priorità del mondo greco:

«La riflessione dell’essere fu molto importante nel pensiero classico. Essa infatti occupa un posto rilevante non solo nel pensiero di Parmenide, ma anche nel pensiero di Platone ed Aristotele (sebbene si sia poi sempre più diradata nell’ellenismo). Tuttavia l’essere costituì, per utilizzare una metafora, la semplice cornice del quadro, infatti, rimase sempre l’uomo».3

Ha ben detto Luca Grecchi: la grecità fu umanesimo, per cui da ciò comprendiamo le ragioni strutturali dell’attacco alla cultura classica. Essa, con la sua semplice esistenza, già denuncia le derive nichilistiche e crematistiche della globalizzazione neoliberista. Il mondo classico è divergente rispetto ai nostri malinconici tempi, per cui la globalizzazione che vorrebbe eternizzarsi eliminando ogni dialettica vorrebbe ridurre al silenzio una civiltà che smentisce la presunta superiorità del neoliberismo con il suo feticismo delle merci. Una civiltà è viva, se le tendenze crematistiche incontrano il limite positivo del logos, altrimenti è condannata al dissolvimento. La nostra realtà sociale è adialettica, pertanto rischia l’abisso:

«Ora: non vogliamo affatto negare che Marx avesse ragione nel sottolineare la specificità del modo di produzione capitalistico rispetto ai modi di produzione precedenti. Ciò nonostante, non ci pare che la discontinuità fra il modo di produzione antico ed il modo di produzione capitalistico sia tale da invalidare tout court le proposte teoretiche, ad esempio, di Platone ed Aristotele. Infatti, come i due grandi filosofi hanno mostrato, la società greca era certo gerarchica, elitaria ed aristocratica, ma solo per la presenza centrale in essa della crematistica, presenza che costituisce il nesso di continuità fra pressoché tutti i principali modi di produzione storicamente sviluppatisi. Non a caso Platone ed Aristotele – ma anche prima di loro, Solone ed altri – attribuirono proprio alla crematistica, ossia alla ricerca del massimo arricchimento privato, le cause dei mali della società greca, le quali sono nella sostanza differenti rispetto a quelle della società capitalistica, anch’essa infatti gerarchica, elitaria ed aristocratica».4

La dimostrazione della generale codificazione umanistica della civiltà greca e in particolare della filosofia è la presenza di pochi pensatori relativisti e sostanzialmente nichilisti:

«Altrettanto tranquillamente si può affermare che l’unica eccezione in tal senso, nel pensiero greco, fu costituita da alcuni esponenti della sofistica e della eristica. Una eccezione, però, conferma la regola, e la regola, in questo caso, conferma proprio la tesi qui esposta. Tale tesi sostiene, in pratica, che la Grecità si costituì essenzialmente come opera di resistenza culturale e politica all’antiumanesimo del denaro, dannoso per gli uomini e per la natura».5

L’eccezione è una conferma della regola, non la smentisce, è una prova evidente della ricostruzione e dell’interpretazione svolta da Luca Grecchi e sostenuta, anche, da grandi studiosi come Rodolfo Mondolfo, Costanzo Preve, Enrico Berti ecc.

Solo se si decodifica chiaramente il pensiero greco nella sua postura umanistica, si può ben comprendere la necessità di rileggere e studiare gli antichi Greci, non per una vuota idolatria, ma per capire il presente nel solco di un’identità europea e occidentale da trasformare in prassi e non certo in erudizione filologica e ritrovare, così, il sentiero interrotto che conduce alla felicità:

«In questa situazione, perché dovrebbe avere ancora senso dirci Greci? Ciò ha ancora senso proprio perché gli antichi Greci, come dicevamo in precedenza, furono coloro che per primi – o maggiormente – posero l’uomo al centro dell’essere, ossia posero la massima cura alla felicità dell’uomo nel proprio contesto sociale, pur nel rispetto dei limiti imposti dalla natura. Seguendo gli antichi Greci, potremmo esercitare la sola possibilità che ci resta di arrestare il fiume antiumanistico prodotto dalla crematistica, la cui hybris rischia di distruggere l’uomo e il cosmo».6

 

Felicità

La ricerca della felicità, la valorizzazione dei talenti sul comune sostrato della natura umana razionale e comunitaria è negata in modo quotidiano nel sistema capitalistico. Gli effetti sono palesi, non necessitano di particolari capacità critiche per riconoscerli. Nel tempo in cui trasgredire è solo edonismo acquisitivo, gli antichi Greci ci riportano alla necessità della felicità quale esperienza comunitaria e razionale senza di essa nessuna vita è degna di essere vissuta, ma si consuma nel vespaio della violenza competitiva. In tale cornice l’identità si disperde, diviene liquida fino ad evaporare, alla fine non resta che il niente. Studiare i Greci nel tempo ordinario della distruzione dell’umano ha un senso più profondo che mai, in quanto nessun farmaco può restituirci i fondamenti senza i quali non siamo che fuscelli nella tempesta del capitale destinati a scomparire tra i flutti del PIL senza speranza.

Il testo di Luca Grecchi Perché non possiamo non dirci Greci fu scritto più di un decennio fa, ma oggi è più vero e autentico che mai, ci pone dinanzi alla verità del nostro tempo storico, ci conduce a pensarlo. Ciò potrebbe essere terapeutico, in quanto ci aiuta a capire le ragioni dell’infelicità che attanaglia innumerevoli vite malgrado le promesse della crematistica. I Greci sono trasgressivi, in quanto ci insegnano ad essere autenticamente trasgressivi, e questo non può essere tollerato da un sistema che prolifera nel culto clericale della crematistica:

«L’umanesimo, inteso, come cura dell’uomo rispettosa del cosmo, è a nostro avviso il primo pilastro della Grecità. Questo pilastro è però strutturalmente connesso ad un secondo pilastro, costituito da quella che potremmo definire anticramatisticagreca. I due pilastri sono connessi in quanto la crematistica, intesa come arte di far denaro, è criticata da pressoché tutto il pensiero greco proprio in quanto innaturale, ossia contraria alla natura umana”».7

Le buone letture sono silenziose, ma consentono di fuoriuscire dalla accidia in cui quotidianamente ci si vorrebbe imprigionare e dalla immateriale violenza di quella weberiana «gabbia d’acciaio» dagli opachi splendori che con ritmo serrato si rovesciano in funambolici ed interminabili supplizi, pubblici e privati.

Salvatore Bravo

1 Luca Grecchi, Perché non possiamo non dirci Greci, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, pag. 66.

2 Ibidem, pag. 39.

3 Ibidem, pag. 44.

4 Ibidem, pag. 27.

5 Ibidem, pag. 57.

6 Ibidem, pag. 73.

7 Ibidem, pag. 53.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – Sogno di un maestro: Franco Fergnani.


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