Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – L’arte di interrogare non è facile come si pensa

Rousseau 03
Giulia o la Nuova Eloisa

Giulia o la Nuova Eloisa

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«L’arte di interrogare non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna già aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa».


Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, 1761.

 

 


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Socrate (470 a.C.-399 a.C.) – Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta

Socrate 006

 

apologia

«Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. […] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile».


Platone, Apologia, 37 a-38 c

 

 


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Virgilio Melchiorre – La finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo

Melchiorre

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«Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all’origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l’origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono… Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d’altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l’errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell’impensato del nostro destino e della nostra possibilità».

Virgilio Melchiorre, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998.

Risvolto di copertina

L’uomo contemporaneo ha imparato a vivere come se Dio non esistesse e mai come oggi sembra sperimentare l’ampiezza senza misura del proprio potere. Divenuto ‘signore del mondo’ grazie agli strumenti della tecnica, deve tuttavia constatare l’illusorietà della pretesa di farsi ‘signore dell’essere’, padrone della propria origine e del proprio destino. Sintomo evidente di questa dolorosa quanto ineliminabile contraddizione è la rimozione operata nei confronti della morte, il silenzio rivolto alla frontiera ultima, dove angosciosa compare l’ombra del nulla. Eppure la domanda che nasce dalla prospettiva della fine resta ineludibile. Essa sta all’inizio non solo del pensiero filosofico, ma di ogni riflessione che rifugga la casualità di un’esistenza ripiegata su se stessa per tentare la serietà della vita. Da qui lo svolgersi dell’intensa meditazione di questo saggio che procede su più livelli: dalla chiacchiera quotidiana ai diversi filoni del pensiero contemporaneo, passando per l’esperienza cruciale e fondante della morte dell’altro che ci è caro, la quale, spezzando la possibilità di relazione, nega un aspetto della nostra identità e si fa anticipazione della nostra stessa morte. Così, anziché minaccioso e inesplorabile non-senso, che induce al silenzio e alla sospensione del giudizio, il mistero della fine si configura come momento di verità, spazio di significato, direzione e compimento. Queste le tappe di un itinerario che volutamente si attiene alla scuola del rigore filosofico, senza travalicare i limiti consentiti dalla ragione: e tuttavia esso può aprirsi ai sentieri della fede, come nello stupore ammutolito di Giobbe che, proprio alle soglie dell’abisso, riconosce il volto dell’Altro, l’Eterno «che fa morire e fa vivere», o come suggerisce l’immagine della copertina, con le mani sollevate nella meraviglia dell’attesa, lo sguardo discreto di là dall’ultimo respiro.

 

Virgilio Melchiorre è nato a Chieti nel 1931.
Attualmente insegna Filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università Cattolica di Milano,
ove in precedenza ha insegnato Filosofia della storia.
Fra i suoi ultimi si possono ricordare i volumi: Metacritica dell’eros, 1987;
 Ideologia, utopia, religione, Milano 1980; Essere e parola, Milano 1993;
Corpo e persona, Genova 1987; Studi su Kierkegaard, Genova 1998;
Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991;
Figure del sapere, Milano 1994; La via analogica, Milano 1996;
Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia 1997.

 

 

 


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Rodolfo Mondolfo (1877-1976) – Una rivoluzione non è un atto momentaneo di violenza. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti

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 Sulle orme di Marx

La conoscenza critica della realtà è la premessa necessaria ad ogni azione storica.
Significa che il materialismo storico è
- come io credo di averlo definito con una certa esattezza -
una concezione critico-pratica.
Dalla critica della realtà sociale alla praxis storica:
questo cammino segna il superamento dell'antitesi di volontarismo e fatalismo
in un concetto realistico e vivo della necessità storica.
Tanto più realistico e tanto più vivo,
in quanto la formula sopra enunciata si rovescia nella sua reciproca;
perché se non è possibile cangiare senza interpretare,
d'altra parte solo chi vuol cangiare ed agire sa interpretare.
Lo sforzo teorico del filosofo è vano
se non è accompagnato e sorretto dalla volontà d'azione:
soltanto nella praxis storica quindi
si compie e si saggia nella sua verità la critica della realtà sociale.
R. Mondolfo

«[…] la conquista della libertà non sta tanto nel momentaneo abbattimento dell’oppressore, quanto nel costante dominio di sé e delle condizioni del proprio operare» (settembre 1919).

«La lotta contro il passato può trionfare solo quando, da una parte le ragioni della sua persistenza e del suo risorgere sian venute meno, dall’altra l’avvenire si stia creando e sviluppando attivamente, e nel rigoglio della sua vita attinga la forza per debellare ogni contrasto, per districarsi da ogni impedimento al suo vigoroso cammino. Gli sterpi e i rovi non si estirpano, e al loro posto non si fanno fiorire le messi, le vigne e gli alberi da frutto, da chi alle male piante tagli pure tutti i rami, quando non possa distruggerne le radici e non disponga dei semi né delle pianticelle né delle condizioni di terreno adatte alle nuove piantagioni feconde, che gli affascinano l’immaginazione e il desiderio. Recisi pure i vecchi rami esistenti, nuovi germogli spunteranno sempre dalle stesse radici: e il tempo e l’energia dell’ingenuo coltivatore si esauriranno nel correre sempre a tagliare nuovi sterpi, senza che le feconde colture, che gli fioriscono nel sogno, possano tradursi nella realtà» (aprile 1919).

«Una rivoluzione non è, come un’insurrezione, un atto momentaneo di violenza, cui basti l’esaltazione temporanea della volontà e dell’eroismo. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti. Bisogna per tanto che la condizione di fatto, che essa viene a creare, sia tale da stimolare la volontà dei singoli e delle masse nella direzione alla quale essa tende; ché se gli impulsi, sorgenti continuamente dal contatto con la realtà, sospingessero la coscienza e l’azione dei più in senso contrario alle finalità che la rivoluzione si sia prefissa, questa a più o meno lungo andare sarebbe costretta al fallimento o a gravi rinunce e a mutamenti di strada» (agosto 1920).

Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Editrice Cappelli, 1923.

 

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L'umanismo di Marx

L’umanismo di Marx


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Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo

giovane Marx

«L’uomo non si perde nel suo oggetto solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi per sé un ente sociale come la società viene ad essere per lui in· questo oggetto.
Da un lato, perciò, quando ovunque, nella società, la realtà oggettiva diventa per l’uomo realtà delle forze essenziali dell’uomo, realtà umana, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti gli diventano la oggettivazione di lui stesso, oggetti che affermano e realizzano la sua individualità, oggetti suoi, e cioè egli stesso diventa oggetto. Come essi diventino suoi, ciò dipende dalla natura dell’oggetto e dalla natura della corrispondente forza essenziale, ché precisamente la determinatezza di questo rapporto costituisce il particolare, reale, modo dell’affermazione. L’oggetto dell’occhio si diversifica da quello dell’orecchio, e l’oggetto dell’occhio è altro da quello dell’orecchio. La peculiarità di ogni forza essenziale è precisamente la sua peculiare essenza, dunque anche la peculiare guisa della sua oggettivazione del suo oggettivo, reale, vivente essere. Non solo col pensiero, ma bensl con tutti i sensi, l’uomo si afferma quindi nel mondo oggettivo.
D’altro lato, sotto l’aspetto soggettivo, come la musica stimola soltanto il senso musicale dell’uomo, e per l’orecchio non musicale la più bella musica non ha alcun senso, [non] è un oggetto, in quanto il mio oggetto può esser soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale per sé, quale facoltà soggettiva, andando il significato di un oggetto per me (oggetto avente significato soltanto per un senso corrispondente) tanto lontano quanto va il mio senso; così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’essenza umana che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacché non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l’amore ecc.), in una parola la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, si formano soltanto per l’esistenza del loro oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo. Il senso costretto dal rozzo bisogno pratico ha anche soltanto una sensibilità limitata. Per l’uomo affamato non esiste il carattere umano del cibo, bensÌ soltanto la sua astratta esistenza di cibo: questo potrebbe indifferentemente
presentarsi a lui nella forma la più rozza; e non si può dire in che questa attività nutritiva si distinguerebbe da quella bestiale. L’uomo assorbito da cure, bisognoso, non ha sensi per lo spettacolo più bello. Il mercante di minerali vede solo il loro valore mercantile, non la bellezza e la peculiare natura del minerale; non ha alcun senso mineralogico. Dunque. si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’essenza dell’uomo e della natura».

K. MARX, Oekonomisch-philosophische manuskripte aus dem Jahre 1844 [Manoscritti economio-filosofici de 1844], in MARX-ENGELS, Kleine õkonomische Schriften, Bücherei des Marxismus-Leninismus, Bd. 42, Berlin, Dietz Verlag, 1955, pp. 133-1344.

 

***

«Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto conservando tutta la ricchezza dello sviluppo precedente, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione.

L’uomo si appropria della sua essenza universale in maniera universale, dunque in quanto uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve tutti gli organi della sua individualità, come organi che, nella loro forma, sono immediatamente organi sociali, sono, nel loro comportamento oggettivo, ossia nel loro rapporto all’oggetto, l’appropriazione di questo, l’appropriazione della realtà umana; il loro rapporto all’oggetto è la manifestazione della realtà umana; è l’attività umana e la sofferenza umana, perché considerata in senso umano, la sofferenza è un’autofruizione che l’uomo ha di sé.
La proprietà privata ci ha resi talmente ottusi e limitati che un oggetto è nostro solo quando l’abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzi di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata, il lavoro e la capitalizzazione.
Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursì l’ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza (Sulla categoria dell’avere vedi Hess nei Ventuno fogli)*.
La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e quaIità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente».

*MOSES HESS, Philosophie der Tat (Filosofia dell'azione), Sozialismus und Kommunismus (Socialismo e comunismo), saggi pubblicati negli Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz (Ventuno fogli dalla Svizzera) di Georg Herwegh, Zurigo-Winterthur 1843, parte la, pp. 74 e sgg. e pp. 309 e sgg. [nota di Marx]

K. MARX, Oekonomitch-philosophische Manuskripte …, cit., pp. 127, 131-132.

 


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Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo

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Migliaia di studenti sono stati costretti ad abbandonare le lezioni universitarie per andare a lavorare alla Foxconn, l'azienda taiwanese licenziataria di Apple e produttrice di iPhone. Accade nella Cina orientale, a Huai'an, dove le autorità locali adottato questa misura per rispettare i tempi di consegna del nuovo melafonino
Nel capitale viene posta la perennità del valore […]
Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto
succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.
K. Marx, Grundrisse

«Un certo rattrappimento intellettuale e fisico è inseparabile perfino dalla divisione del lavoro nell’insieme della società in generale. Ma il periodo della manifattura, portando molto più avanti questa separazione sociale delle branche di lavoro, e d’altra parte intaccando la radice stessa della vita dell’individuo già in virtù della sua peculiare divisione del lavoro, fornisce anche per primo il materiale e l’impulso alla patologia industriale.
“Suddividere un uomo, è eseguire la sua condanna a morte, se merita la condanna; è assassinarlo se non la merita. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo” [D. URQUHART, Familiar Words, Londra 1855, p. 119; Marx annota: “Hegel aveva opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro. Nella Filosofia del diritto dice: ‘Per uomini colti si possono intendere anzitutto quelli che son capaci di fare tutto quelloche fanno gli altri’ “; Il passo di Hegel si può trovare nei Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954, p. 354. Aggiunta al § 187]».

K. MARX, Das Kapital. Kritik der Politischen Oekonomie, Erster Band MEW, Bd. 23, 1962, pp. 384-5 [tr. it. di D. Cantimori, KARL MARX, Il capitale, libro primo, Ed. Riuniti, Roma 1964, pp. 406-7].

 

 


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Alain Badiou – L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. Non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione, la durata che lo porta a compimento. È prima di tutto una costruzione durevole, un’avventura ostinata. L’amore vero è quello che trionfa durevolmente: chiede cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. L’amore è comunista in questo senso: il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono.

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«Platone dice una cosa molto precisa sull’amore: afferma che nello slancio amoroso vi è la scintilla dell’universale. L’esperienza amorosa è uno slancio verso qualcosa che egli definisce l’Idea. […] l’amore può essere davvero un gesto di fiducia nei confronti del caso. Ci consente di avvicinarci all’esperienza fondamentale della differenza e, in ultima analisi, all’idea che sia possibile sperimentare il mondo dal pundo di vista della differenza. È per questo che ha una portata universale, che implica un’esperienza personale dell’universalità possibile e che è essenziale sul piano filosofico, come intuì Platone per primo. […] L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. La nascita di un bambino, se avviene nell’amore, è uno degli esempi di questa possibilità. […] L’amore, dopo tutto, ha luogo nel mondo. È un evento che non era prevedibile né calcolabile secondo le leggi che governano il mondo. Nulla consentiva di programmare l’incontro […]. Ma l’amore non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione. L’enigma affrontato dal pesniero dell’amopre è proprio questa durata che lo porta a compimento. L’elemento più interessante, in fin dei conti, non è l’estasi dell’inizio; certo, c’è un’estasi dell’inizio, ma un amore è prima di tutto una costruzione durevole. Diciamo che l’amore è un’avventura ostinata. Il lato avventuroso è necessario, ma non lo è meno l’ostinazione. Arrendersi davanti al primo ostacolo, alla prima divergenza seria, alle prime difficoltà non è altro che un tradimento dell’amore. Un amore vero è quello che trionfa durevolmente, talvolta duramente, sugli ostacoli posti dallo spazio, dal mondo e dal tempo. […]

L’amore che nutro per il teatro è un sentimento complesso e assolutamente originario […]. Credo che ad affascinarmi nel teatro  sia stato il sentimento immediato che la lingua e la poesia abbiano un legame quasi inesplicabile con il corpo. In ultima analisi, forse il teatro era già allora una prefigurazione di quello che sarebbe stato in seguito l’amore, perché la scena condensava l’istante in cui mente e corpo diventano indistinguibili, al punto che è impossibile dire: “Questo è un corpo” oppure “Questa è un’idea”. Il linguaggio si fa corpo proprio come quando si dice “ti amo” a qualcuno: lo si dice ad una persona viva, che ci sta davanti, ma ci si rivolge anche a qualcosa che non è riducibile a questa semplice presenza materiale, qualcosa che è al di là dell’essere amato e al contempo è in lui.
Ora, il teatro è proprio questo, in modo originario, è l’idea incarnata, l’idea-che-prende-corpo. L’idea ancora, potrei aggiungere, perché com’è noto nel teatro ci sono le ripetizioni. “Daccapo”, dice il regista: l’idea infatti non prende corpo facilmente, il rapporto di un’idea con lo spazio e i gesti è complesso, ed è necessario che sia al contempo spontaneo e deliberato. Succede la stessa cosa anche nell’amore: il desiderio è una forza immediata, ma l’amore chiede altresì cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. “Dimmi ancora che mi ami”, e spessissimo: “Dimmelo meglio”. E il desiderio si rinnova ogni volta, le carezze amorose sono scambiate all’insegna di un’invocazione – “Ancora! Ancora!” – l’intimità fisica è il momento in cui l’esigenza del gesto è sostenuta dall’insistere della parola, da una “dichiarazione” sempre nuova. È noto che a teatro il tema del gioco amoroso è decisivo, e che è tutta questione – appunto – di dichiararsi. […]
Da qualche parte il poeta portoghese Pessoa dice: “L’amore è un pensare”. È un’affermazione apparentemente paradossale, perché si è sempre sostenuto che l’amore è fatto di corpi, desiderio, affezioni, ciè proprio tutto ciò che non è ragione né pensiero. Ma lui dice “L’amore è un pensare”. Credo che abbia ragione, penso che l’amore sia un pensare e che il rapporto tra questo pensiero e il corpo sia molto particolare […]. È vero, l’amore può piegare i corpi, causare immense sofferenze; l’amore non è un lungo fiume tranquillo, come si incaricano di dimostrarci tutti gli amori che portano al suicidio o all’omicidio.
A teatro l’amore non è soltanto, né soprattutto,  il vaudelville del sesso o la galanteria innocente, è anche la tragedia, la rinuncia, il furore. Il rapporto fra il teatro e l’amore è altresì l’esplorazione dell’abisso che separa i soggetti, e la descrizione della fragilità di quel ponte che l’amore getta tra due solitudini. Occorre tornare sempre alla medesima questione: che cos’è un pesniero che si dispiega come facendo la spola tra due corpi sessuati? Ma di cosa avrebbe parlato il teatro se non ci fosse stato l’amore? Avrebbe parlato, e in realtà l’ha fatto estesamente, della politica. Diciamo allora che il teatro è politica e amore e, più in generale, il loro intrecciarsi. Il teatro è il collettivo, è la forma estetica della fratellanza, ed è per questo che secondo me in tutto il teatro vi è un elemento comunista, dove per “comunista” intendo ogni divenire che fa prevalere l’interesse comunitario sull’egosimo, l’opera collettiva sull’interesse privato. […] l’amore è comunista in questo senso, qualora si ammetta, come faccio, che il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono. Da qui si può trarre un’altra possibile definizione dell’amore: comunismo minimo!
[…] Il teatro è anche prova di separazione, la profonda malinconica che circonda il momento in cui la fratellanza nata dal recitare insieme in una compagnia si scioglie. Ci si scambiano i numeri di telefono, si promette di chiamare, ma non lo si farà; è la fine, ci si separa. Ora, nell’amore la questione della separazione è così importante che si può quasi definire l’amore come una battaglia vinta contro la separazione».

 

Alain Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza editore, 2013.

 


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John Locke (1632-1704) – Conoscendo la nostra forza, sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo

Locke

Intraprendere il viaggio

«Se non crederemo a nulla perché non possiamo conoscere tutto con certezza, agiremo altrettanto saggiamente di uno che non volesse servirsi delle gambe, ma rimanesse fermo e deperisse, perché non ha le ali per volare. Conoscendo la nostra forza, sapremo meglio che cosa intraprendere con qualche speranza di successo.
[…] È di somma utilità al marinaio conoscere la lunghezza della sua fune, anche se con essa egli non può scandagliare tutte le profondità dell’oceano. È bene che egli sappia che essa è abbastanza lunga per raggiungere il fondo in quei luoghi che sono necessari per dirigere il suo viaggio e per avvisarlo delle secche che potrebbero rovinarlo. […]».

John Locke

 

 


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Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …

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«Il signor Zola dice che il lavoro fa bene all’uomo; io ho sempre notato il contrario: il lavoro in quanto tale, la fierezza della formica per il suo lavoro, rende crudele non solo la formica, ma anche l’uomo. Ma se la laboriosità non è espressamente un vizio, in nessun caso essa può essere una virtù. Così come il nutrirsi, altrettanto anche il lavoro non può essere una virtù. Il lavoro è un bisogno che, se non viene soddisfatto, diviene una sofferenza e non una virtù. L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. Il lavoro potè raggiungere l’importanza che gli si ascrive nella nostra società, solo in quanto reazione contto l’ozio, che è stato elevato a contrassegno peculiare della nobiltà e che è ancora ritenuto presso alcune classi ricche e poco istruite come segno di dignità. Non è, semplicemente, che il lavoro non sia una virtù, ma, nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …».

Lev Tolstoj, Articolo pubblicaro per la prima volra in «Severni Wesrnib», 1893, n. 9. Nell’edizione russa delle Opere Complete di Tolstoj si trova nel vol. 29 (1954, p. 187).

 Si tratta della risposta di Tolstoj a due estratti da giornali francesi, che gli erano stati spediti dal redanore della rivisra francese "Revue des revues»: il discorso di E. Zola «Alla giovemù» e la lettera di A. Dumas al redarrore del «Gaulois».

 


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione

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«Nell’ordinamento del mondo un ingrediente sono le passioni, l’altro è il momento razionale. Le passioni sono l’elemento attivo. Esse non sono affatto opposte costantemente alla moralità, bensì realizzano l’universale […]. Nessuna cosa è mai venuta alla luce senza l’interesse di coloro la cui attività cooperò a farla crescere; e dal momento che ad un interesse noi diamo il nome di passione, così […] dobbiamo dire in generale che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione».

G. W. F. Hegel,  Lezioni sulla filosofia della storia (1837), I, 62-63, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pp. 73-74.

 

Van-Gogh-autoritratto-

 


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