Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

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La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.

Salvatote Bravo

Lukács: filosofia e ordine del discorso

La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere
i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx

Libertà e coscienza

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo

Storia e libertà

Libertà e necessità

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico

Coscienza e comunità

Coscienza e “falsa coscienza”

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza

Libertas philosophandi


Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács


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La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine
László Rudas (1885-1950) direttore della Scuola centrale del Partito comunista ungherese, membro dell’Accademia ungherese delle scienze e difensore dell’ortodossia marxista, rappresenta la “disposizione” dei burocrati a rinchiudersi in rassicuranti caverne concettuali dalle quali giudicare e condannare coloro che deviano dal cammino stabilito dalle confraternite del pensiero unico ed unidirezionale. La filosofia per sua “natura” è uscita dalle caverne, è attività creativa e logica, è legein attività significante capace di generare concetti nuovi su tradizioni pregresse per trascenderle in nuove configurazioni speculative.
La distanza tra László Rudas e G. Lukács ben simboleggia l’incomprensione intellettuale che vi può essere tra il burocrate di partito ed il libero pensatore, il quale è parte di una storia politica, ideologica, filosofica, ma nello stesso tempo è sempre volto verso l’esodo, poiché “la vita come ricerca” lo porta a divergere dagli schemi, dai paradigmi del potere. L’ortodossia marxista non poteva perdonare a Lukács la sua inesausta aspirazione teoretica, la fedeltà a se stesso, quale condizione imprescindibile per poter aderire ad un progetto politico.
La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine, non è iattanza intellettuale, ma autonomia senza solitudine. Il potere è corrente fredda che congela l’ideologia, stabilisce il grado di purezza degli intellettuali, ed il livello di dissenso che si può tollerare.

Si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx
Lukács – rispetto ai paradigmi del partito comunista – è stato sempre sull’orlo della colpevole deviazione: László Rudas ne critica lquello che lui, il burocrate, chiama l’«eclettismo» del filosofo, per aver innestato sulla metodologia di Marx la categoria della totalità hegheliana ed il pensiero di Max Weber, e dunque per essersi allontanato dal Marx del partito comunista in un percorso autonomo e, a suo parere, sincretico. In primis si rimprovera a Lukács di aver contaminato Marx con elementi culturali altri. Dunque, l’accusa è aver osato interpretare Marx in modo innovativo ed originale. Non gli si perdona la deviazione rispetto al Marx codificato ed utilizzato per giustificare il comunismo reale. Si rifiuta la dialettica del confronto per prediligere il purismo ideologico senza incontro dialettico:

«Fin da questo articolo voglio altresì dimostrare che Lukács è incoerente ed eclettico e non solo come idealista in generale, ma anche in problemi specifici di rilievo egli deriva elementi da filosofi o sociologi borghesi, tuttavia sempre senza le premesse e le conseguenze che nei pensatori borghesi rendono comprensibili questi concetti e teorie e senza le quali tali elementi rimangono del tutto indigesti e deturpano il marxismo come corpi estranei. Egli mescola il marxismo con elementi che lo contraddicono conseguenza non insolita dell’incoerenza».[1]

 

Libertà e coscienza
Una delle accuse più ricorrenti rivolte a Lukács è l’aver negato il prevalere della struttura sulla coscienza la quale, per l’ortodossia dei burocrati, non è che il riflesso della struttura. La coscienza è parte della natura e va spiegata secondo le leggi della natura, ha la sua genetica all’interno dei rapporti di causa ed effetto: si vuole così applicare alla storia la stessa dialettica della natura seguendo la “coerentizzazione” di Marx svolta da Engels. I fatti sociali sono giudicati alla stregua dei fenomeni naturali e dunque non solo sono spiegabili secondo leggi scientifiche, ma specialmente la storia diventa prevedibile esattamente come qualsiasi fenomeno naturale, nessuna libertà è lasciata alla coscienza, alla storia, nessuno effetto di sdoppiamento è considerato possibile:

«In generale, tanto nella scienza della natura quanto nella scienza marxista della società, la causalità (o l’interazione) è una forza realmente operante naturale o sociale che instaura un certo rapporto reciproco tra i fenomeni, rapporto che è dato nella realtà, non è modificabile e può essere analizzato empiricamente, ma non costruito secondo un “fine conoscitivo”. Si tratta pertanto di un rapporto generale, nel senso che non solo singoli fatti, ma intere serie si trovano in un nesso di reciproca dipendenza causale, espressa da una legge generale. Che può essere, per esempio, la legge darwiniana dell’evoluzione o la legge marxiana della dipendenza tra processo produttivo e processo politico spirituale delle società».[2]

La coscienza può trascendere i condizionamenti del capitalismo
Non vi è spazio per nessuna elaborazione. L’essere umano si forma nelle strettoie dell’economia che modella la coscienza. Quest’ultima, così si vuole credere, non può trascendere tale condizionamento: è costretta all’interno della sua storia. Si esclude la possibilità che la posizione ideologica in cui il soggetto è posto dalla sua storia personale, sociale e di classe possa essere ripensata, vissuta in modo da poter ricostruire orizzonti di senso che possano riorientare al superamento irriflesso dei propri interessi personali e di classe. Gli stessi giudizi di valore sono spiegati dalla classe di appartenenza, senza che essi possano essere l’effetto della riflessione sulla propria ed altrui condizione:

«Marx ed Engels si opposero sempre nella maniera più decisa alla lacerazione del marxismo per mezzo di “giudizi di valore” […]. Anche i giudizi di valore, infatti, pronunciati da un individuo o da un’intera classe, e nei quali qualcosa è eticamente approvato o condannato, devono essere spiegati causalmente. Possono essere sintomi di trasformazioni intervenute nel processo sociale, che vengono proclamate in questa forma (quando, per es., la schiavitù salariata viene condannata senza riconoscerne l’essenza), ma chi affermasse che la coscienza di classe del proletariato è costituita da tali giudizi di valore, potrebbe essere tutto meno che marxista».[3]

Storia e libertà
Si contesta la prassi della coscienza e specialmente l’umanesimo anomalo di Lukács che pone l’atto del pensiero consapevole quale fondamento ontologico della storia, ci si “assicura” vittoria e ruolo mediante un uso acritico ed ideologico della storia:

«Per Lukács il pensiero pensante è l’uomo reale; il mondo pensato il solo reale. Ora, è un fatto che gli uomini hanno una coscienza che svolge una funzione determinata, mai irrilevante. Ogni teoria della società deve fare in primo luogo i conti con questa realtà, sebbene essa sia stata il punto di partenza di tutti gli idealisti i quali ebbero un ruolo del tutto irrilevante nella storia dello spirito dell’umanità. Che cos’è questa coscienza e che funzione svolge nella storia? La risposta del marxismo è una risposta chiara e precisa: io constato il fatto che gli uomini hanno una coscienza; seguo la storia e constato che essa vi adempie questa o quella funzione. Ma non mi riesce di negarla! O di sostituirla mediante una coscienza “costruita”, che non si può cogliere da nessuna parte, di cui non si sa se sia un uccello o un pesce, che esiste solo nel mio concetto». [4]

Libertà e necessità
Per Lukács l’essere umano è un’unione indissociabile di libertà e necessità. Fa la storia in circostanze non scelte, ma è sempre ad un bivio, può scegliere se restare all’interno del confine sociale in cui si è formato o mettere in atto il riorientamento gestaltico. L’essere umano introduce con la teleologia (il fine) la storia della collettività. La storia è l’intreccio di finalità, i cui effetti non sono del tutto prevedibili.
La coscienza per l’ortodossia è solo un ente determinato che ha l’illusione di potersi determinare ed essere libera nelle scelte. Per Lukács le coscienze sono dinamiche, vivono e si formano all’interno del modo di produzione, interagiscono con esso, sono attività creante, quindi sono portatrici di un potenziale di emancipazione capace di portarle al di là degli spazi di significato delle strutture di sistema. Il logos, la razionalità, ha la possibilità di rigenerare la totalità della prospettiva storica di cui la persona è parte con nuovi significati. Per l’ortodossia comunista-marxista la coscienza è invece consegnata ad un determinismo controllabile e concluso:

«Gli uomini hanno idee, sentimenti, si pongono persino taluni scopi e giungono a immaginarsi che tali idee e sentimenti abbiano un ruolo importante e autonomo nella storia; che tali scopi siano i medesimi che vengono realizzati nella storia. I materialisti hanno sempre combattuto questo modo di pensare. A seconda della formulazione specifica della teoria materialista si è perciò ricondotta la coscienza degli uomini ora a questo ora a quello, finché il moderno materialismo marx-engelsiano l’ha collegata in ultima istanza alla struttura economica. Del resto, non si tratta di una coscienza costruita, ma di quella vivente realizzata nella mente degli uomini. Ma ogni materialismo, qualunque sia la sua formulazione, ha in comune l’idea che tra la coscienza degli uomini e il mondo (società) che la circonda sussiste una connessione causale! La coscienza degli uomini è il prodotto del mondo che li circonda. Si tratta di una verità elementare, ma purtroppo tutta la nostra polemica contro il compagno Lukács verte su verità elementari del materialismo marxista». [5]

Come anestetizzare la corrente calda del pensiero critico
La coscienza, per i marxisti-positivisti, è misurabile, è ridotta a mere qualità primarie, è quantificabile e dunque prevedibile. La si può addomesticare per anestetizzare la corrente calda del pensiero critico:

«Le leggi, che dominano nella natura, fanno dunque posto al volere cosciente. L’“atteggiamento che diventa attivo”, la coscienza degli uomini, è certo qualcosa di nuovo rispetto alla natura, pur essendo in egual misura scaturito dalla natura. Ma gli idealisti vogliono servircelo come l’elemento decisivo, l’elemento determinante “in ultima istanza” della storia». [6]

Per riportare la categoria del possibile nella storia è necessario distinguere i processi naturali dai processi storici. I primi seguono un ordine deterministico ed irreversibile, mentre i secondi non sono meccanicamente determinati: le condizioni storiche permettono di progettare l’alternativa al presente con la responsabilità del singolo e della collettività. Attribuire alla storia gli stessi processi della natura è tipico del capitalismo e della sua curvatura tecnocratica che ha l’obiettivo di omologare e sottrarre dalla storia il pericolo dell’indeterminato relativo:

«Le abitudini mentali proprie del capitalismo hanno impresso a tutti gli uomini, e soprattutto a quelli orientati verso gli studi scientifici, la tendenza a voler spiegare il nuovo sula base del vecchio, la realtà d’oggi riducendola ai dati della realtà di ieri». [7]

 

Coscienza e comunità
La coscienza è condizionabile, ma non determinabile. La coscienza individuale, e specialmente di classe, può disalienarsi attraverso la categoria della totalità che consente di ricostruire il dato all’interno di relazioni. Tale genealogia permette di riposizionarsi e di elaborare nuove potenzialità comunitarie, di ribaltare il condizionamento ideologico per un processo storico di liberazione ed emancipazione, introducendo una faglia sostanziale rispetto alla linearità deterministica:

«Infatti, “nel pensiero esso appare come processo di sintesi, come risultato, non come punto di partenza, benché esso sia il vero punto di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione”. Il materialismo volgare invece – per quanto possa assumere una maschera di modernità, come nel caso di Bernstein e di altri – resta prigioniero della riproduzione delle determinazioni immediate, delle determinazioni semplici della vita sociale. Esso crede di essere particolarmente “esatto” quando le assume semplicemente senza analisi ulteriore, senza sintesi nella totalità concreta, quando le mantiene nel loro astratto isolamento e le spiega unicamente mediante leggi astratte, non riferite alla totalità concreta. “La rozzezza e l’assenza del concetto – dice Marx – sta proprio nel fatto di porre in relazione tra loro in modo accidentale, di inserire in un contesto meramente riflessivo». [8]

Coscienza e “falsa coscienza”
Il proletariato, gli sfruttati, gli infelici, per il filosofo ungherese sono i portatori in potenza della verità della storia. Essi possono riportare la verità dove vige la falsa coscienza con la categoria della totalità, possono risolvere le contraddizioni dal “basso”, svelare l’orrido del sistema, perché lo vivono nel loro doloroso quotidiano, e non vi è partito o burocrazia che si può sostituire alla prassi della emancipazione che spetta solo a coloro che subiscono la violenza del sistema:

«Infatti, la situazione di classe del proletariato introduce direttamente la contraddizione nella sua stessa coscienza, mentre le contraddizioni che provengono alla borghesia dalla sua situazione di classe, dovevano necessariamente manifestarsi come limite esterno della coscienza. D’altro lato, questa contraddizione significa che nello sviluppo del proletariato la “falsa” coscienza ha una funzione del tutto diversa che nelle classi precedenti. Mentre cioè, nella coscienza di classe della borghesia, per via del suo modo di riferirsi all’intero della società, anche il corretto accertamento di singoli dati di fatto o momenti dello sviluppo mette in luce limiti presenti nella coscienza, scoprendosi come “falsa” coscienza, nella stessa “falsa” coscienza del proletariato si cela invece, persino nei suoi errori materiali, un’intenzione verso la verità».[9]

Alla coscienza nella storia spetta il compito della prassi
La coscienza nell’interconnessone attiva resta fondamentale anche nelle fasi successive del pensiero, poiché senza di essa le connessioni storiche non sono possibili: la coscienza non è certo astorica, ma è nella storia, ad essa spetta il compito della prassi, di essere portatrice del movimento decisionale nella storia. L’ontologia dell’essere sociale è in continuità con la fase hegeliano-marxista, non è una discontinuità epistemologica, ma un affinamento del metodo e dei contenuti dell’indagine filosofica:

«La coscienza umana, invece, viene messa in movimento da posizioni teleologiche che oltrepassano l’esistenza biologica di un essere vivente, quantunque poi esse finiscano per servire direttamente anzitutto alla riproduzione della vita, in quanto a tal fine producono sistemi di mediazioni che in misura crescente retroagiscono, dal punto di vista tanto della forma quanto del contenuto, sulle posizioni stesse, per ritrovarsi però, dopo questi giro fatto di mediazioni sempre più ampie, di nuovo al servizio della riproduzione della vita organica». [10]

Nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi
La coscienza umana si forma all’interno dei rapporti materiali, ma non è il suo semplice epifenomeno: l’interazione con la realtà materiale consente “il salto qualitativo”. Nell’interazione si forma la consapevolezza decisionale. Nel lavoro, nella prefigurazione del fine, nella trasformazione attiva, la coscienza struttura la prassi, poiché gli stimoli ricevuti sono rielaborati, ne svelano l’attività decisionale senza la quale nessuna struttura economica è trascendibile:

«L’essenza del lavoro consiste proprio nel suo andar oltre questo arrestarsi degli esseri viventi alla competizione biologica con il loro mondo circostante. Il momento essenzialmente separatorio è costituito non dalla fabbricazione di prodotti, ma dal ruolo della coscienza, la quale per l’appunto qui smette di essere un mero epifenomeno della riproduzione biologica: il prodotto, dice Marx, è un risultato che all’inizio del processo esisteva “già nella rappresentazione del lavoratore”, cioè idealmente». [11]

La libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza
Il trionfo della libertà non è ineluttabile, ma ha il suo fondamento nella vita della coscienza, la quale nella storia impara a conoscere la realtà materiale, se stessa e a tessere percorsi teleologici collettivi. La coscienza è libera se trasforma un dato astratto in concreto. La reificazione (“rendere qualcosa di astratto una cosa concreta”) è la condizione da cui emanciparsi, ma tale processo dialettico nella storia dell’umanità non avviene in modo necessario: solo in natura i processi accadono secondo leggi a cui nulla può sfuggire. Costanzo Preve, con la sua capacità di scandaglio, coglie la complessità del concetto di libertà e coscienza di classe nel filosofo ungherese, palesando che in Lukács la libertà e la coscienza non sono atti puri, ma vivono nell’interazione attiva della storia:

«La coscienza proletaria invece lo può fare, perché il proletariato non aspira a divenire una nuova classe sfruttatrice, ma ad abolire tutte le classi. Detto altrimenti, per la borghesia l’universalismo è impossibile, mentre per il proletariato è invece possibile. A sua volta, la categoria di possibilità non deve essere intesa nel senso di scelta arbitraria (katà to dynatòn), ma nel senso di possibilità necessariamente iscritta in una potenzialità ontologicamente garantita (dynamei on)». [12]

Costanzo Preve interpreta e giudica G. Lukács il più grande marxista del Novecento che ha congiunto Marx con le conquiste teoriche di Fichte, e che ha testimoniato – con la sua produzione filosofica controcorrente – la passione durevole per il comunismo e dunque la libertà quale fondamento non contrattabile.

Libertas philosophandi
Lukács è la testimonianza della inevitabile frizione tra potere e filosofia, tra libertas philosophandi e burocrazia. Ogni filosofo è “fedele al proprio destino”, risponde a se stesso, all’esodo perenne che lo sostanzia, che lo trasforma in un problema o in un enigma per il potere. Lukács, e la sua vicenda tormentata, simboleggiano l’errare della filosofia fuori dalle caverne nelle quali si vorrebbe rinchiudere il pensiero teoretico.
Ancora oggi Lukács è oggetto di rimozione nella sua patria, l’Ungheria, al punto che il governo di Viktor Orban ha chiuso nel 2012 l’Archivio Lukács privandolo dello status di luogo di ricerca e nel 2017 ha rimosso, nell’indifferenza globale, la sua statua dal parco San Istvan di Budapest.
Il pensiero, e la teoretica della libertà continuano ad intimorire – nel passato come nel presente. Sono cambiate le forme con cui si effettua l’uccisione, ma i liberi pensatori continuano ad essere una minaccia inquietante per i padroni dell’ordine del discorso. La congiuntura storica attuale ha relegato Lukács tra gli autori da censurare. Ma il pensiero sopravvive alle congiunture nefaste, per cui la storia – nel suo dinamismo – gli restituirà ciò che il presente gli toglie.
La filosofia è libertà dialettica che si occupa e pensa il concreto nella sua espressione massima, è ontologicamente fondata nella necessaria potenzialità umana di pensare per poter costruire percorsi di senso nella storia.

Salvatore Bravo

Costanzo Preve, Il testamento filosofico di Lukács

[1] AA.VV., Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukacs. 1923-24, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 79.

[3] Ibidem, pag. 80.

[4] Ibidem, pag. 89.

[5] Ibidem, pag. 90.

[6] Ibidem, pag. 103.

[7] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2013, pag. 133.

[8] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, pagg. 12-13.

[9] Ibidem, pagg. 94-95.

[10] G.Lukács, Ontologia dell’essere sociale, volume II, Editori Riuniti, Roma 1981, pag. 267

[11] G. Lukács, L’uomo e la Rivoluzione, op. cit., pag. 13.

[12] C. Preve, Il testamento filosofico di Lukács, IV parte, paragrafo 14, kelebek.


La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
Il governo ungherese odia la filosofia: rimossa la statua di Lukàcs, ebreo e marxista

Il governo ungherese di Orban ha deciso di rimuovere la statua del filosofo ungherese hegelo-marxista György Lukács, autore di pietre miliari della filosofia del Novecento. Un gesto criminale, che denota non solo ignoranza, ma anche un chiaro intento politico.

La statua di György Lukács rimossa da Orban dal parco San Istvan di Budapest.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Leo Löwenthal – In una società terroristica, dove tutto è pianificato nel dettaglio, il progetto per gli individui consiste in questo:per loro non c’è, né può esserci un progetto.

Leo Löwenthal 01

«Quando i libri vengono bruciati,
alla fine verranno bruciate anche le persone
»
                      Heinrich Heine, Almansor, dramma, 1823.

Le cosiddette Bücherverbrennungen (in italiano “roghi di libri“) sono stati dei roghi organizzati nel 1933 dalle autorità della Germania nazista, durante i quali vennero bruciati tutti i libri non corrispondenti all’ideologia nazista.

Bücherverbrennungen è ricordato da un’opera di Micha Ullman, in Piazza Bebelplatz a Berlino, consistente in un pannello luminoso inserito sulla superficie della strada, che lascia intravedere una camera piena di scaffali vuoti. Accanto è posta una targa che riporta una citazione di Heinrich Heine:

«Quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone» (Heinrich Heine, Almansor, dramma 1823))

La creazione artistica di Hullman è intitolata  Library (Biblioteca): asi intravedono scaffali completamente vuoti, ma capaci di contenere 20.000 volumi, quanti ne furono bruciati nella notte del 10 maggio 1933.

«In una società terroristica, dove tutto è pianificato nel dettaglio,

il progetto per gli individui consiste in questo:

per loro non c’è, né può esserci un progetto».

Leo Löwenthal, I roghi dei libri, Treccani, Roma 2019, pp. 45-46.

Accatastare libri scaraventandoli dagli scaffali di una biblioteca, poi giù in strada per dare loro fuoco, tra le urla scomposte di un entusiasmo delirante. Ma cosa significa davvero bruciare i libri. È solo il gesto violento di una censura o nasconde di più? Testimone diretto del rogo nazista del maggio 1933, Löwenthal traccia in questo saggio, scritto dopo il suo ritorno in Germania alla fine della seconda guerra mondiale, un percorso che dalla Cina del III secolo a.C. arriva fino ai giorni nostri. Come ricorda Giuseppe Montesano nel suo saggio che accompagna le pagine di Löwenthal, dare fuoco alla cultura, alla conoscenza e alla memoria (anche sotto forma di piccoli atti quotidiani di rimozione, scintilla apparentemente innocua ma facilmente infiammabile) si rivela più che mai come il gesto simbolico di un’autodistruzione. Punta di un iceberg che dalle pagine dei libri arriva dritta al corpo vivo dell’umanità.


 

Letteratura, cultura popolare e società, Liguori 1977.


 

A margine. Teoria critica e sociologica della letteratura, Solfanelli 2009.

Come può essere ricordato Leo Löwenthal? Come il maestro misconosciuto della sociologia della letteratura? Come uno dei fondatori della Scuola di Francoforte, assieme ad Adorno e Horkheimer? Come il più acuto anticipatore dei problemi della cultura di massa? Rari e sporadici i suoi interventi teorici sulla sociologia della letteratura, prodotti a una distanza quasi ventennale l’uno dall’altro. In questo volume sono raccolti, in prima traduzione italiana, i testi teorici più recenti; un omaggio e un atto dovuto per riconoscergli quei meriti di studioso della disciplina di cui è stato, assieme a György Lukács e a Raymond Williams, tra i più significativi e acuti interpreti del Novecento. In particolare, “Sociology of Literature in Retrospect” del 1987, vero e proprio “testamento culturale”, può essere considerato il suo ultimo scritto in assoluto sull’argomento. Tutti testi di grande valore metodologico ed etico di uno dei maggiori intellettuali del XX secolo che considerava, a torto, il suo contributo “a margine” della Teoria critica, sviluppata dai suoi colleghi della Scuola di Francoforte.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

Ernst Bloch 08 – Heidegger - Jaspers-Spengler

[…] i filosofi borghesi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil in un modo apparentemente originale. Sono filosofi della decadenza; essi hanno legato il problema della morte individuale a quello della loro società, hanno fatto del mero nulla del futuro capitalistico un nulla inevitabile e assoluto, affinché lo sguardo su un mondo trasformabile, sul futuro socialista, venisse completamente bloccato. Essi predicano una deiezione alla morte che pertanto deve andare ancora molto oltre quella organico-naturale, e cioè attraverso una letargia prodotta sinteticamente e da ultimo mediante la guerra. Al suo nulla hanno aggiunto al tempo stesso immagini falsificate di desiderio cupe ed edificanti, disfattiste all’inizio e mefistofeliche alla fine.

O. Spengler parlò della stanchezza «che l’uomo troppo sveglio sente in tutte le ossa» e la celebrò come fatta d’acciaio, perché nient’altro seguirà.

Jaspers consolò al seguente modo, con uno spunto non storico ma cosiddetto eterno-esistenziale: “Che nulla possa permanere, non dipende solo dal fatto che il mondo ha il suo corso nel tempo, ma anche dal fatto che sembra esserci una volontà (!) che non consente ad alcuna realtà effettiva di mantenersi stabilmente. Naufragare significa fare un’esperienza che non si può né anticipare, né evitare, perché giungere al proprio compimento è anche dissolversi. L’ultima possibilità (!) che rimane a tutto ciò che si realizza nel tempo è quella di attuarsi per naufragare completamente. Tutto affonda nella notte dove c’è il fondamento di tutto. Se il giorno crede di essere autosufficiente, allora il mancato naufragio genera un vuoto sempre maggiore finché, alla fine, il naufragio sopraggiunge come qualcosa di estraneo” (K. Jaspers, Philosophie, 1932, III, p. 110; cfr. K. Jaspers, Filosofia, trad. it. di U. Galimberti, Torino, UTET, 1978, p. 1049).

Qui dunque il nulla, cui si affida la malattia, la malattia mortale del tempo, si fa luce quasi doppiamente intricato: da status viene trasformato in atto eterno e cioè in quello del naufragio, e deve essere addirittura un garante del miglior qualcosa, cioè del contenuto. L’altra immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger, un angelo molto più presago, già non più un consolatore ma un conciliatore e un propagandista del mondo tardocapitalista-fascista, il mondo della morte.

L’angoscia è angoscia della morte e non avviene in singoli attimi o addittura all’ultimo momento ma è “la costituzione fondamentale dell’esistenza umana”, “l’unico ente nell’analitica esistenziale dell’esserci” (Essere e tempo, 1927). L’angoscia, e il puro nulla in cui essa è sospesa, non danno per la verità un contenuto alla vita, però le danno problematicità e profondità: “Unicamente perché il nulla è manifesto nel fondo dell’esserci può soprassalirci il senso della completa estraneità dell’ente”; oggetto della scienza è l’ente, della filosofia il nulla. “Ma l’esserci, oltrepassando l’ente nel suo progetto di un mondo, deve oltrepassare se stesso per potere, da questa altezza, comprendere se stesso come fondo abissale” (Vom Wesen des Grundes, 1929, p. 110; 2 cfr. M. Heidegger, Dell’essroza del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 130) – per essere un puro nulla, il nulla mostra un volto ben complicato. Ma neanche questa complicatezza è originale, è presa in prestito, dal “naufragio compreso” di Jaspers al “non coperto resistere” di Heidegger; e un effetto di freschezza lo fa solo il compito imperialistico particolarmente interessato a questa specie di affermazione dell’abisso o “immersione nella morte”. Per il resto anche il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte. E in quest’ultimo appare, di nuovo pervertito, molto di luterano-cristiano: il naufragio corrisponde al rifiuto della giustificazione per mezzo delle opere, l’angoscia corrisponde al vecchio fardello dei peccati, l’anticipata decisione alla remissione alla volontà di Dio. E al copiato Lutero si mescola un controcanto: il romanticismo copiato, il suo concetto di desiderio della notte. Questa, certo, non più tinta di morte d’amore, “sprofondando, affogando, inconsapevole, piacere supremo», ma di omicidio. Questi sono gli epigoni del nichilismo profascista, della sua disperazione vanagloriosa, del suo quietismo per i gregari e del suo après nous le déluge per i duci».

È tempo di tornare ad aria più pulita. In essa c’è in definitiva ancora la sensazione – indubbiamente anche fresca, non solo antica – di seguitare a vivere nei propri figli. Nessuno, dice un proverbio contadino, dovrebbe uscire dalla vita senza aver piantato un albero e aver lasciato un figlio. […] Figli però vengono chiamate anche le opere spirituali, quelle dipinte, musicate, poetate, costruite, pensate. Sia per l’ebbrezza del loro concepimento sia per i dolori del loro parto, sia appunto per la loro durata e sopravvivenza. […]

Ernst Bloch, Il principio speranza, vol. III, Capitolo 52: Sé e lampada funebre ovvero immagini di speranza contro la forza della più potente non-utopia: la morte, Garzanti, Milano 1994, pp. 1339-1341.


 

Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.
Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».


 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».

Karl Marx e la Comune di Parigi
Karl Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850

Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850 è una raccolta di articoli pubblicati nel 1850 da Karl Marx (1818-1883) sulla «Neue Rheinische Zeitung» e poi riuniti in volume da Friedrich Engels (Berlin, der Expedition des Vorwärts, 1895). 
La traduzione italiana, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, uscì a Milano nel 1896 dalle edizioni della Critica sociale e venne ripubblicata più volte (nel 1902, 1922,  1925 e poi nel dopoguerra).

Franco Toscani

 Karl Marx
e il significato della Comune di Parigi

 

 

I.
Marx e il significato essenziale della Comune di Parigi
come “governo del popolo per il popolo”.
‘Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend…’

Se le rivoluzioni sono per Marx “le locomotive della storia” (“Die Revolutionen sind die Lokomotiven der Geschichte”),[1] quella della Comune parigina del 1871 fu per lui la locomotiva più trainante e fondamentale, una vera e propria stella polare del suo pensiero e della sua attività politica come dirigente della Prima internazionale dei lavoratori. In vari scritti e occasioni Marx non cessa di lodare la duttilità, l’iniziativa storica, la capacità di sacrificio, la novità e la grandezza dell’azione storica della Comune, per quanto destinata a essere sopraffatta dalla reazione borghese.

Com’era sua consuetudine, per scrivere (fra il maggio e il giugno 1871) ciò che nel merito rimane il suo testo principale, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation (La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori), egli si documentò con grande accuratezza sull’esperienza rivoluzionaria francese (su cui scrisse pure due abbozzi preparatori), lavorò su materiali forniti da giornali francesi, inglesi e tedeschi, esaminò sia pubblicazioni che sostenevano la Comune sia quelle che si opponevano ad essa, utilizzò pure lettere e racconti orali di non pochi partecipanti all’esperienza della Comune e reduci dalla Francia (tra cui Léo Frankel, Eugène Varlin, Auguste Serraillier, Paul Lafargue, Yelisaveta Tomanovskaya, Pyotr Lavrov), si avvalse dei risultati cui era giunto nei suoi studi precedenti sulle lotte di classe in Francia (come Der Achtzehnte Brumaire des Louis-Napoleon, 1851-1852).[2]

Dal 18 marzo al 28 maggio 1871 resistette e operò alacremente, in condizioni di terribili avversità, la “gloriosa rivoluzione operaia” (die ruhmvolle Arbeiterrevolution, cfr. MEOC XXII, 287) della Comune, messa in atto da chi cercò di prendere in mano il proprio destino e seppe giungere sino all’estremo sacrificio di sé nella lotta per la salvezza nazionale (la Pariser Kommune era infatti agli occhi di Marx, giustamente, die wahrhaft nationale Regierung, il vero governo nazionale, cfr. MEOC, XXII, 303) e per una nuova, migliore società.

Analizzando con grande cuore, intelligenza e passione questa esperienza rivoluzionaria, Marx ritiene che il proletariato parigino, nel momento della disfatta e dei tradimenti delle classi dominanti, abbia deciso di padroneggiare il proprio destino assumendo “la direzione degli affari pubblici” (die Leitung der öffentlichen Angelegenheiten), prendendo “il potere di governo” (die Regierungsgewalt); tale presa di potere non avvenne impadronendosi semplicemente della macchina statale-militare-burocratica già data e usandola per i propri fini, ma cercando di spezzarla (come l’autore del Capitale scrive anche in una lettera a Ludwig Kugelmann del 12 aprile 1871) in quanto strumento di dominio di classe (Klassenherrschaft) e di asservimento sociale (cfr. MEOC XXII, 293-294 e 770, n. 429).

Riflettendo sullo stato borghese caratterizzato da un potere esecutivo centralizzato, il pensatore tedesco interpreta la sollevazione parigina come una rivoluzione contro il carattere essenzialmente repressivo del potere statale e capace di proporre, in nuce, un modello alternativo di potere e di istituzione municipale e statale.

La neue Kommune, per Marx, “rompe il moderno potere dello stato” (die moderne Staatsmacht bricht) proprio nel suo tentativo caparbio di porre termine alla perpetuazione (Verewigung) dell’asservimento sociale (gesellschaftliche Knetschaft. Cfr. MEOC XXII, 298, 300).

Pur assediata e in mezzo a mille inenarrabili difficoltà, la Comune voleva essere infatti e, per il breve tempo che le fu concesso, riuscì effettivamente ad essere il “governo della classe lavoratrice” (Regierung der Arbeiterklasse), “un governo del popolo per il popolo” (eine Regierung des Volks durch das Volk), capace di porre fine alla separazione fra stato e società, al dispotismo del potere.

Essa fu un nobile e grandioso tentativo di ripensare radicalmente la stessa nozione di potere politico o (leggiamo nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia) “la riassunzione da parte del popolo per il popolo della sua vita sociale. Non è stata una rivoluzione per trasferirlo da una frazione delle classi dominanti all’altra, ma una rivoluzione per abbattere questa stessa orribile macchina della dominazione di classe” ( cfr. MEOC XXII, 299, 304, 486).

Nel primo abbozzo Marx così riassume il senso essenziale della rivoluzione parigina: “E’ il popolo che agisce per sé stesso da sé stesso” (MEOC XXII, 463).

Essa sorse come “la rivolta di una città provata dalla guerra e umiliata dalla sconfitta”[3] e divenne un “mezzo organizzato d’azione”, un “mezzo razionale” per condurre la lotta delle classi “nel modo più razionale ed umano” (cfr. MEOC XXII, 490), per rendere il potere al servizio della società e non più contro o sopra di essa.

E’ pure rimarchevole il fatto, ben documentato, che nel periodo dell’esperienza rivoluzionaria comunarda vi fu più ordine e sicurezza per le strade, diminuirono drasticamente gli assassinii, i furti, le aggressioni: “Non più cadaveri sui tavoli dell’obitorio, non più insicurezza nelle vie. Parigi non era mai stata così tranquilla. Al posto delle cocottes, le eroiche donne di Parigi! Una Parigi virile, inflessibile, che combatte, che lavora, che pensa! Una Parigi piena di magnanimità! Di fronte al cannibalismo dei suoi nemici, metteva i suoi prigionieri solamente in condizioni di non nuocere!” (MEOC, 507).

Continua Marx nel primo abbozzo: “Soltanto i proletari, infiammati da un nuovo compito sociale da portare a termine per tutta la società, il compito di sbarazzarsi di tutte le classi e del dominio di classe, erano gli uomini che potevano distruggere lo strumento di quella dominazione di classe – lo Stato, il potere governativo centralizzato ed organizzato, che pretendeva di essere il signore anziché il servo della società”(MEOC XXII, 487).

Nel primo abbozzo, Marx sottolinea la semplice e cristallina grandezza della Comune in questo modo: “La Comune – il riassorbimento del potere dello Stato da parte della società, in quanto sue forze vitali invece che in quanto forze che la controllano e la assoggettano, da parte delle stesse masse popolari, che formano la loro stessa forza al posto della forza organizzata per reprimerle – la forma politica della loro emancipazione sociale al posto della forza artificiale della società esercitata dai loro nemici per opprimerle (la loro stessa forza che viene loro opposta ed organizzata contro di loro). Questa forma era semplice come tutte le grandi cose” (MEOC XXII, 488).

Secondo Marx, la forma politica inaugurata dalla Comune (“la forma politica dell’emancipazione sociale, della liberazione del lavoro”, “la forma comunale di organizzazione politica”) assume un valore che va ben oltre i confini pur importanti della capitale francese; il modello parigino è esemplare, indicativo e regolativo per tutta la Francia, valido sia per tutti i grandi centri industriali del paese sia per i più piccoli villaggi di campagna: “Tutta la Francia organizzata in Comuni che lavorano per sé e si governano da sé, l’esercito permanente sostituito dalle milizie popolari, l’esercito dei parassiti dello Stato destituito, la gerarchia clericale rimpiazzata dall’insegnante pubblico, i giudici di Stato trasformati in organismi comunali, il suffragio per la rappresentanza nazionale non più una questione d’intrallazzi per un governo onnipotente, ma l’espressione deliberata di comuni organizzate, le funzioni dello Stato ridotte a poche funzioni per scopi generali nazionali” (cfr. MEOC XXII, 490-491).

L’unità nazionale e politica va garantita e organizzata attraverso la costituzione comunale e il contributo delle iniziative locali. La struttura del potere e dello stato va ricostituita e rifondata per assecondare e favorire il libero movimento e sviluppo della società.

Mettendo in discussione lo stato borghese, la Commune de Paris voleva contrastare e superare der rein unterdrückende Charakter der Staatsmacht (“il carattere puramente repressivo del potere dello stato”) e la Knechtung (asservimento) del lavoro al capitale, per trasformare il lavoro in un “lavoro libero e associato (freie und assoziierte Arbeit)” e restituire il suo libero movimento (freie Bewegung) alla società (cfr. MEOC, XXII, 294-295, 298, 300).

Essa – intesa come “la forma politica finalmente scoperta” (die endlich entdeckte politische Form) della “emancipazione economica del lavoro” (ökonomische Befreiung der Arbeit. Cfr. MEOC XXII, 299) – mirava concretamente a una rifondazione dei poteri istituzionali e statali su salde basi popolari e libertarie.

Marx prende in esame accuratamente le principali misure assunte durante il periodo di governo della Comune, come l’elettività, responsabilità e revocabilità – in qualunque momento – di tutti i funzionari pubblici e rappresentanti politici (legati a un mandat impératif dei loro elettori e remunerati con livelli salariali pari a quelli degli operai), l’abolizione dei privilegi economici previsti per il servizio pubblico, il controllo operaio della produzione (con l’attribuzione ai lavoratori delle fabbriche abbandonate o dismesse), la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione col popolo in armi, la separazione fra stato e chiesa, il carattere laico, popolare, gratuito, libero e aperto a tutti dell’istruzione, etc. .

Marx elenca minuziosamente, entrando nei dettagli, le ordinanze, i decreti, i provvedimenti di tipo economico-finanziario presi dalla Comune assediata (operante sotto gli occhi dei vincitori prussiani da una parte e dell’esercito francese agli ordini di Thiers dall’altra, con Bismarck e Thiers di fatto alleati e concordi nel tentativo di stroncarla) a favore delle classi popolari e nella direzione di una maggiore giustizia sociale; in particolare, l’autore di Das Kapital sottolinea il valore del decreto del 16 aprile 1871 (pubblicato sul “Journal officiel de la République française” il 17 aprile 1871 e ritenuto da Engels il più importante dell’intera esperienza rivoluzionaria comunarda), che sanciva la consegna alle cooperative operaie delle officine e delle manifatture che erano state chiuse o per la fuga dei capitalisti o per una sospensione da essi decisa del lavoro; tale decreto avviava la trasformazione effettiva in senso socialista della produzione (cfr. MEOC XXII, 304, 773, n. 454).

La Comune aveva anche cominciato a valorizzare concretamente la soggettività, il protagonismo e la dignità delle donne. In Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx rileva con sollievo, letizia e calore che nella Parigi comunarda “sono ricomparse le vere donne di Parigi (die wirklichen Weiber von Paris) – eroiche, nobili e leali, come le donne dell’antichità (wie die Weiber des Altertums). Una Parigi che lavorava, pensava, lottava, dava il proprio sangue – quasi dimentica, nel suo portare in grembo una società nuova, dei cannibali alle sue porte -, radiosa nell’entusiasmo della sua storica iniziativa! (Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend, über seiner Vorberaitung einer neuen Gesellschaft fast vergessend der Kannibalen vor seinen Toren, strahlend in der Begeisterung seiner geschichtlichen Initiative!)” (MEOC XXII, 307). Perciò i comunardi furono concretamente – senza alcuna retorica – degli eroi e la loro testimonianza resta unica.

Quest’immagine vitale della Parigi comunarda, simbolica di un nuovo mondo (neue Welt) che stava sorgendo è da Marx duramente contrapposta a quella del vecchio mondo (alte Welt) marcio e decadente di Versailles: “La Parigi del signor Thiers (…) la Parigi ricca, capitalista, dorata, oziosa (…) si accalcava a Versailles, saint Denis, Rueil e Saint Germain con i suoi lacchè, i suoi furfanti, con la sua bohême di letterati e le sue cocottes (…), considerava la guerra civile come un gradevole diversivo, guardando lo svolgimento della battaglia attraverso i binocoli, contando i colpi di cannone, e giurando sul proprio onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo (das Schauspiel) era allestito assai meglio di quello solito della Porte Saint Martin” (MEOC XXII, 308).

Accadde così che i francesi controrivoluzionari e i prussiani militaristi, cioè vinti e vincitori agirono di concerto per soffocare nel sangue la sollevazione del popolo parigino, alleati nell’organizzazione degli orrori (Schandtaten) e delle infamie (Niedertrachten), nello sterminio (Ausrottung) e nella carneficina (Blutbad) della Parigi rivoluzionaria (cfr. MEOC XXII, 313-314). Marx è durissimo anche nei confronti della Prussia bismarckiana, definita uno sgherro (Bravo), più precisamente uno sgherro codardo (feiger Bravo) e mercenario (gemieteter Bravo. Cfr. MEOC XXII, 319).

 

 

 

II.
Marx, l’ ‘esistenza operante’ e la lotta valorosa della Comune di Parigi

 

Ciò che importa maggiormente è comunque l’ “esistenza operante (arbeitendes Dasein)” della Comune nella direzione del superamento della vecchia società borghese (Bourgeoisgesellschaft): “Quale che sia il merito di ciascuna delle misure adottate dalla Comune, la sua misura più grande era la sua organizzazione, improvvisata col nemico straniero che premeva a una porta, e il nemico di classe dall’altra, dando prova con la propria vita della propria vitalità, confermando le sue tesi con la sua azione” (cfr. MEOC XXII, 304, 489).

La Comune non inseguì astratti ideali, ma cercò tenacemente e coraggiosamente di liberare gli elementi di una nuova società (neue Gesellschaft) dalla vecchia società borghese putrescente. La Pariser Kommune non pretendeva di poter agire secondo l’infallibilità (Unfehlbarkeit), come tutti i governi di vecchio stampo, ma operava nella totale trasparenza e pubblicità dei suoi atti e decreti, senza nascondere tutte le sue manchevolezze (Unvollkommenheiten); anche per questo essa aveva cominciato ad avviare una meravigliosa trasformazione (wunderbare Verwandlung. Cfr. MEOC XXII, 306) nella pratica del potere e nella concezione stessa del potere, inteso non come dominio, ma come servizio e poter-essere nella direzione di una vita degna e di una società più giusta e libera.

In generale, contro ogni tipo di centralizzazione dispotica e arbitraria, il vecchio sistema di potere centralistico avrebbe dovuto essere sostituito dall’ “autogoverno dei produttori” (Selbstregierung der Produzenten) e l’autorità avrebbe dovuto essere intesa come un servizio alla società, non come potere repressivo o dominio su di essa; al posto di una investitura gerarchica del potere, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni.

Intenzione della Comune era di restituire “al corpo sociale tutte le forze fino allora assorbite dallo Stato parassita che si nutre della società e ne ostacola il libero movimento. Con questo solo atto avrebbe dato inizio alla rigenerazione della Francia (die Wiedergeburt Frankreichs)” (cfr. MEOC XII, 297-298).

Il contrario della Comune è lo stato borghese repressivo, il quale non è che l’apparenza spettrale dello stato concepito nella sua separazione dalla società. L’intenzione di Marx è dunque, nel riferimento concreto all’esperienza della Comune, quella di esaltare il “libero movimento” della società, la sua liberazione dalle catene e dai privilegi economico-politici esistenti, la relativa autonomia della società, sempre repressa, fino ad allora, dallo Stato parassita e vampiro che si nutre di tutte le forze sociali.

Ciò è rimarchevole e particolarmente degno di nota in riferimento a quel che saranno nel XX secolo il totalitarismo comunista bolscevico, i regimi repressivi del Partito unico identificato con lo Stato, la vera e propria idolatria del Partito-Stato, che non ha nulla a che fare, evidentemente, con l’originaria proposta marxiana.

L’esistenza e la Costituzione della Comune implicano “la libertà municipale locale (die lokale Selbstregierung)”, l’esautoramento della monarchia (la quale in Europa è “il normale ingombro e l’indispensabile copertura del dominio di classe (Klassenherrschaft)”) e la fondazione delle istituzioni repubblicane su basi autenticamente democratiche (cfr. MEOC XXII, 299). La sua è una forma politica “espansiva”, come “governo della classe operaia” che pone fine al dominio borghese e all’asservimento sociale, operando in totale trasparenza e pubblicità.

Mirando all’ “espropriazione degli espropriatori” (quella Enteignung der Enteigner di cui Marx aveva già parlato in Das Kapital), la Comune intendeva realizzare l’emancipazione dei lavoratori, incentivare la produzione cooperativa secondo un piano comune (gemeinsamer Plan), porre fine alla moderna schiavitù del lavoro salariato e ridare un nuovo senso, una nuova dignità alla parola lavoro e ai lavoratori, considerando la terra e il capitale come “semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (cfr. MEOC XXII, 300).

Rappresentando tutti gli elementi sani della società francese, come governo operaio e popolare, “audace campione dell’emancipazione del lavoro (der kühne Vorkämpfer der Befreiung der Arbeit)”, la Comune era il “vero governo nazionale” e aveva un forte carattere internazionale, aveva “annesso alla Francia gli operai di tutto il mondo” (cfr. MEOC XXII, 303-304), aveva cominciato a realizzare l’internazionalismo proletario, la solidarietà internazionale dei lavoratori, nominando ad esempio ministro del lavoro il tedesco Léo Frankel; essa era pienamente consapevole di iniziare una nuova era storica, ma non le fu concesso tempo.

Sapendo che la causa dei lavoratori è dovunque la stessa e che il nemico è dovunque lo stesso, la Comune fu così anche una grande e genuina espressione della solidarietà e dell’internazionalismo proletario e popolare contro ogni miope nazionalismo, contro ogni tipo di imperialismo militaristico e guerrafondaio.

Marx coglie con grande lucidità questo aspetto – ripreso con forza qualche decennio dopo da Rosa Luxemburg – e sembra quasi ammonire/presagire circa le immani sventure e i macelli umani preparati dai nazionalismi e dall’imperialismo che si manifesteranno anche e soprattutto nelle guerre mondiali del ventesimo secolo: “Lo sciovinismo della borghesia è soltanto la suprema vanità che dà una copertura nazionale a tutte le sue pretese. E’ un mezzo, grazie agli eserciti permanenti, per perpetuare lotte internazionali, per sottomettere in ogni paese i produttori scagliandoli contro i loro fratelli di ogni altro paese, un mezzo per ostacolare la collaborazione internazionale delle classi operaie, prima condizione della loro emancipazione” (MEOC XXII, 502).

L’anti-imperialismo, l’anti-militarismo, l’anti-nazionalismo e l’internazionalismo della Comune furono dimostrati concretamente il 16 maggio 1871 dall’abbattimento, tramite un decreto del 12 aprile, della colonna Vendôme, simbolo del militarismo (das kolossale Symbol des Kriegsruhms) e dei bourgeois chauvins (borghesi sciovinisti) francesi, eretta a Parigi tra il 1806 e il 1810 per celebrare le vittorie militari di Napoleone; per la precisione, il décret del 12 aprile decideva la demolizione della colonne Vendôme in quanto “monumento di barbarie, simbolo di forza bruta e di falsa gloria, affermazione del militarismo, negazione del diritto internazionale” (cfr. MEOC XXII, 304, 475, 503, 772, n. 451).

Quanto la Comune aveva messo in moto era troppo, era insopportabile, ” ‘impossibile’ comunismo” (‘unmöglicher’ Kommunismus) agli occhi delle sanguisughe e dei vampiri del proletariato, della camarilla reazionaria e dei suoi pennivendoli, del vecchio mondo borghese e aristocratico attaccato ai propri immensi privilegi, ricchezze e poteri, vizi e lussi, roso dalla rabbia e dal desiderio di vendetta alla vista della bandiera rossa (die rote Fahne…das Symbol der Republik der Arbeit) sventolante sull’Hôtel de Ville; la Comune stava dimostrando infatti la realizzabilità del ” ‘possibile’ comunismo” (‘möglicher’ Kommunismus. Cfr. MEOC XXII, 300-301).

Nessuno si aspettava miracoli (Wunder) dalla Comune, che portò avanti la rivoluzione in condizioni di enormi difficoltà, né essa aveva “utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple“; piuttosto, “nella piena coscienza della sua missione storica” (im vollen Bewuβtsein ihrer geschichtlichen Sendung), essa agiva con tenacia ed “eroica risoluzione” (Heldenentschluβ), senza alcuna inutile violenza e senza ferocia, con “modestia, coscienza ed efficienza”, con “moderazione” (βigung), “umanità” (Menschlichkeit) e “magnanimità” (Hochherzigkeit), come seppe dimostrare ad esempio Flourens (cfr. MEOC XXII, 291, 300-301, 315, 534).

L’unico vero errore della Comune fu, a parere di Marx, quello di non marciare immediatamente su Versailles, all’inizio ancora indifesa, per arginare le manovre di Thiers e dei Rurali (i “Ruraux”), per impedire la riorganizzazione della controrivoluzione, degli sciacalli ” ‘Ordungsmänner’, die Reaktionäre von Paris” (cfr. MEOC XXII, 289).

 

III.
La Comune di Parigi gravida di futuro e messaggera d’una nuova società

Il tono di Marx è giustamente commosso e pieno di indignazione, tutto il suo scritto è lucidissimo e, insieme, pervaso da una forte tonalità etico-politica che anche noi facciamo nostra ancor oggi, anzi, più che mai oggi, in questi nostri tempi così disincantati, grigi e fiacchi dal punto di vista della solidarietà e della tensione etico-politica.

Con l’eccezione dei più incalliti reazionari e dei ricchi capitalisti, perfino la grande maggioranza della classe media (bottegai, commercianti, artigiani) riconobbe la capacità di gestione sociale della Comune, che seppe impostare una efficace politica di alleanze fra il proletariato e i settori intermedi della società parigina e, ad esempio, con la “Loi sur les échéances” (un decreto del 17 aprile 1871 pubblicato sul “Journal officiel de la République française”), “stabilì che tutti i debiti fossero rateizzati in tre anni senza interessi, alleviando così la situazione della piccola borghesia e svantaggiando i creditori, i grandi capitalisti” (cfr. MEOC XXII, 301, 771, n. 440).

Nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia Marx scrive a questo proposito: “Per la prima volta nella storia, la piccola e media borghesia si è apertamente stretta intorno alla Rivoluzione degli operai, e l’ha proclamata come il solo strumento della propria salvezza e di quella della Francia! Forma con loro la grande massa della Guardia nazionale, siede con loro nella Comune, e per loro media nell’Union républicaine! (…)

Di fronte ai disastri collezionati dalla Francia in questa guerra, alla sua crisi da collasso nazionale ed alla sua rovina finanziaria, questa classe media sente che non la classe corrotta di coloro che vogliono essere gli schiavisti della Francia, ma soltanto le virili aspirazioni ed il potere erculeo della classe operaia possono portarla in salvo!

Sente che solo la classe operaia può emanciparla dal dominio dei preti, convertire la scienza da strumento del dominio di classe in una forza popolare, trasformare gli stessi uomini di scienza da manutengoli del pregiudizio di classe, da parassiti dello Stato a caccia di posizioni, e da alleati del capitale, in liberi funzionari del pensiero! La scienza può interpretare la sua parte autentica solo nella Repubblica del Lavoro” (MEOC XXII, 496-497).

Praticando il realismo rivoluzionario, la Comune aveva cominciato a cercare alleanze pure nel mondo contadino, proclamando ad alta voce – in un appello del 10 aprile 1871 dei “lavoratori di Parigi” (“Les travailleurs de Paris”) “aux travailleurs des campagnes” – che la sua vittoria era “la sola speranza” anche dei contadini francesi (cfr. MEOC XXII, 302, 772, n. 445).

Con la sua politica saggia e lungimirante di alleanze già operante nelle prime settimane di vita della Comune attraverso le prime misure prese, era facile prevedere un effetto contagio e una larga diffusione anche nelle campagne e in tutto il paese del consenso popolare all’operato dei comunardi. Perciò la maggiore preoccupazione dei controrivoluzionari e della canaglia reazionaria capeggiata da Thiers fu quella di isolare la Parigi comunarda dal resto del paese, “in modo da bloccare la diffusione della peste bovina” (cfr. MEOC XXII, 303).

Nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia, Marx è giustamente durissimo nel sintetizzare il reale significato della reazione (Reaktion) di Versailles, della Paris des Verfalls (Parigi del declino): “Alla Parigi che combatte, che lavora, che pensa, elettrizzata dall’entusiasmo dell’iniziativa storica, piena di eroica realtà, la nuova società nel suo travaglio, si oppone a Versailles la vecchia società, un mondo di antiquate simulazioni e di menzogne accumulate. (…) Non c’è niente di reale in loro al di fuori della loro comune cospirazione contro la vita, il loro egoismo dettato dall’interesse di classe, il loro desiderio di nutrirsi della carcassa della società francese, i loro comuni interessi di schiavisti, il loro odio verso il presente, e la loro guerra contro Parigi” (MEOC XXII, 544).

Nelle ultime pagine di Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx si sofferma con grande commozione, indignazione e amarezza – che avvertiamo pienamente anche noi oggi nel riferire e riflettere su quanto allora avvenne – sugli accordi fra Thiers e Bismarck (nemici nella guerra tra Francia e Prussia nel 1870, ma alleati nello stroncare l’esperienza rivoluzionaria comunarda del 1871) per pianificare la repressione e la carneficina della Comune, ossia l’ “indicibile infamia del 1871. L’eroismo sino al sacrificio di sé (der selbstopfernde Heldenmut) con cui la popolazione di Parigi – uomini, donne e ragazzi – ha combattuto per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi riflette tanto la grandezza della loro causa (die Gröβe ihrer Sache), quanto le azioni infernali della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i vendicatori mercenari. Una civiltà gloriosa, invero, il cui grande problema è come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri che ha prodotto, dopo la fine della battaglia!” (MEOC XXII, 314).

In tutto il suo scritto Marx non risparmia disprezzo e sarcasmo, ampiamente giustificati, nei confronti di quella che chiama la feccia (Bande), la Reaktion, i vari Thiers, Favre, Desmarets, Vinoy, Galliffet, etc., ossia i principali infami esponenti degli sterminatori della Comune, coloro che hanno posto fine all’esperienza e alla vita della “serena Parigi lavoratrice” (das heitere Arbeiter-Paris der Kommune, cfr. MEOC XXII, 315), che aveva osato combattere ogni Klassenherrschaft (dominio di classe), ogni statalismo repressivo e dispotico, per tendere alla rigenerazione (Wiedergeburt) dell’intera Francia.

Questa Pariser Kommune, in mezzo ai misfatti e ai tradimenti delle classi dominanti (herrschende Klassen), fu agli occhi di queste ultime una vera Sphinx (sfinge) capace di tormentare l’angusto Bourgeoisverstand (intelletto borghese); essa fu die proletarische Revolution, l’avvio del governo dell’Arbeiterklasse, la cui opera fu interrotta tragicamente dalle “prodezze cannibalesche dei banditi di Versailles” (kannibalische Taten der Versailler Banditen. Cfr. MEOC XXII, 291, 293).

In Der Bürgerkrieg in Frankreich sferzante e costante è il sarcasmo di Marx sull’ipocrisia e sul conformismo borghesi, sulla Zivilisation und Gerechtigkeit der Bourgeoisordnung (civiltà e giustizia dell’ordine borghese), il cui vero volto – essendo una “civiltà nefasta” (schmäliche Zivilisation) fondata sull’ “asservimento del lavoro” (Knechtung der Arbeit) – si mostra, specialmente nel momento delle violenze e del massacro finali, sotto l’aspetto di “aperta barbarie e vendetta senza legge” (unverhüllte Wildheit und gesetzlose Rache. Cfr. MEOC XXII, 314-315).

Nella brutale repressione della Comune, di quella che fu un’autentica rivoluzione proletaria, la società borghese mostrò il suo volto più rivoltante e rivelatore, il suo spirito di vendetta e la sua ferocia di classe: “La sua guerra contro Parigi non è nient’altro che una pusillanime chouannerie sotto la protezione delle baionette prussiane. E’ una spregevole cospirazione per assassinare la Francia, per salvaguardare i privilegi, i monopoli ed il lusso delle classi degenerate, svigorite e putrefatte che l’hanno trascinata in un abisso dal quale può essere salvata solo dalla mano erculea di una vera rivoluzione sociale” (Primo abbozzo, in MEOC XXII, 449).

La conclusione di Der Bürgerkrieg in Frankreich è amara: “La cospirazione della classe dominante per abbattere la Rivoluzione mediante una guerra civile portata avanti sotto il patrocinio dell’invasore straniero (…) è culminata nella carneficina di Parigi. Bismarck gongola (schaut) di fronte alle rovine di Parigi, (…) di fronte ai cadaveri del proletariato di Parigi” (MEOC XXII, 318).

Da parte di Marx l’interpretazione degli avvenimenti parigini del 1871 è cruda e realistica, non lascia spazio a edulcorazioni e a facili consolazioni. La sconfitta della Comune è un fatto, la tragedia immensa, ma, nonostante quest’esito così indubbio e doloroso, la Comune – questo evento straordinario – è incontestabilmente esistita, anzi annuncia la rovina futura della Bourgeoisgesellschaft e il prossimo avvento d’una nuova società.

La sveglia è stata comunque data a tutti i popoli europei e al proletariato internazionale; l’ “eroico sacrificio di sé” (seine heroische Selbstopferung, cfr. MEOC XXII, 315) dei comunardi non è avvenuto invano, per chi sappia trarre un insegnamento da quanto accaduto: un nuovo mondo è possibile.

Si tratta ora, per Marx e per l’Internazionale, di proseguire la lotta; non vi sono per lui dubbi su chi alla fine vincerà, se “i pochi sfruttatori o l’immensa maggioranza lavoratrice” (cfr. MEOC, XXII, 319).

Il messaggio della Comune resta dunque un grande e permanente messaggio di solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli nella lotta per l’emancipazione sociale, per giungere – attraverso lunghe e difficili lotte e tutte le contraddizioni della storia – alla Befreiung, a una nuova società senza dominio di classe e a una “repubblica sociale” (come leggiamo nel primo abbozzo, cfr. MEOC XXII, 497).

Così Marx conclude – con parole che, mutatis mutandis, ancor oggi rimangono per noi valide e stimolanti – l’Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Der Bürgerkrieg in Frankreich: “La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia (Das Paris der Arbeiter, mit seiner Kommune, wird ewig gefeiert werden als der ruhmvolle Vorbote einer neuen Gesellschaft. Seine Märtyrer sind eingeschreint in dem groβen Herzen der Arbeiterklasse). I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti” (MEOC XXII, 320).

La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella “sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi” (MEOC XXII, 537).

Per quanto feroci, nessuna carneficina e nessuna repressione potranno cancellare il fatto incontestabile che la Comune parigina è stata (come leggiamo nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia) una “rivoluzionaria rivendicazione del futuro (…). La Comune di Parigi può cadere, ma la Rivoluzione sociale a cui ha dato inizio trionferà. Il suo luogo di nascita è ovunque” (MEOC XXII, 546-547).

La lotta di classe (Klassenkampf) sempre risorgerà dal suo terreno sorgivo che è la stessa società moderna. Come ha rilevato giustamente Lelio Basso, il saggio marxiano sulla Comune non ha soltanto “un valore di elogio funebre per la posterità”.[4]

Noi oggi non abbiamo e non possiamo avere alcuna certezza di “trionfo”, né possiamo rivendicare in alcun modo il futuro, ma indubbiamente la testimonianza luminosa della Comune, “gravida di un mondo nuovo” (cfr. il primo abbozzo di Der Bürgerkrieg in Frankreich, MEOC XXII, 481), non cessa ancora di risplendere per noi e di indicarci il difficile cammino della civiltà planetaria, pure nell’epoca per tanti aspetti tenebrosa e rischiosa dell’attuale cosiddetta “globalizzazione”.

Franco Toscani

Piacenza, autunno 2017


[1] Cfr. K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich (1850), trad. it. di P. Togliatti, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. X, a cura di A. Aiello, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 121.

[2]Nelle pagine seguenti faremo riferimento alla seguente edizione italiana in cui sono compresi (insieme ad altri scritti) sia Der Bürgerkrieg in Frankreich (La guerra civile in Francia, 1871, pp. 275-321) sia i due abbozzi preparatori sopra citati (pp. 433-518, 519-558): K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXII (d’ora in poi cit. con la sigla MEOC XXII), trad. it. di S. Bracaletti, V. Morfino, M. Vanzulli, F. Vidoni, a cura di M. Vanzulli, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli 2008. Per i vent’anni della Comune, nel 1991 Engels curò una rilevante edizione tedesca in cui, oltre a Der Bürgerkrieg in Frankreich, pubblicò i due abbozzi preparatori, assieme al primo e al secondo Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana del 1870. Si tenga presente pure una pregevole edizione italiana degli scritti marxiani sul tema: K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di P. Flores d’Arcais, Samonà e Savelli, Roma 1971.

[3] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 195. In questo libro di Lelio Basso le pagine 192-197 sono dedicate in modo esplicito e assai stimolante all’interpretazione marxiana della Comune.

[4] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 193.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-

 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Lidia Palumbo – Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.

Palumbo Lidia 01

«[Intendo] mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis» (p. 17).

«[…] il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis» (p. 158).

«[…] laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro – il modello dell’atto mimetico – è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche – il mondo empirico come il dialogo filosofico – sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica» (p. 279).

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

«[…] ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento» (p. 199).

 

«[…] lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore – vive come in un sogno – e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica» (pp. 208-209).

Lidia Palumbo, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli 2008.

 

Tra i libri di Lidia Palumbo

Il non essere e l’apparenza: sul Sofista di Platone, Loffredo, 1994.


 

Eros, Phobos, Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo 2001.


 

Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo 2008.

***
*

Alessandro Stavru*

* Es profesor de Filosofía antigua en la Universitá degli Studi di Napoli “L’Oriéntale”; se interesa por la estética antigua y moderna, así como por las relaciones entre mito y filosofía. 

Tra i meriti più significativi del recente libro di Lidia Palumbo vi è sicuramente quello di proporre un’interpretazione unitaria della mimesis in Platone. In tal senso, esso si inserisce a pieno diritto in un dibattito scaturito in seguito alla recente pubblicazione di alcune cospicue monografie. Nei primi mesi del 2009 è infatti apparso il penetrante studio di Jean-Francois Pradeau, seguito a breve distanza dalla traduzione italiana del testo di Stephen Halliwell (ed. inglese del 2002), considerato ormai unanimemente un “classico” sull’argomento.1

Sin dalle pagine introduttive l’autrice dichiara che lo scopo della sua indagine è di

mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico  – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis.2

Di qui la proposta, formulata esplicitamente dall’autrice, di tradurre unitariamente il termine mimesis con “rappresentazione”. La monografia sviluppa con coerenza questa tesi, arrivando ad enucleare un denominatore comune alle molteplici accezioni di mimesis presenti nel corpus Platonicum. Ciò permette da un lato di far luce sulla concezione originaria di tale nozione, dall’altro di mostrare come le sue pur evidenti sfaccettature semantiche si fondino su un comune retroterra speculativo. È dunque soltanto a partire dall’idea di rappresentazione che è possibile cogliere l’intrinseca polivalenza semantica della mimesis e, a partire da essa, mettere in luce i limiti insiti nella sua riduzione a semplice “imitazione”.

La studiosa si propone di fare i conti soprattutto con quest’ultimo modo di intendere la mimesis, particolarmente radicato tra gli studiosi moderni.3 Infatti, mentre l’imitazione definisce solo un aspetto della mimesis, la rappresentazione ricomprende al proprio interno l’imitazione senza esaurirsi in essa. Ciò risulta in maniera particolarmente evidente non appena si riporta la mimesis al suo contesto originario, quello della cultura poetico-teatrale. Qui essa vuol dire essenzialmente rappresentazione nel senso di uno “spettacolo” che implica da un lato la dimensione produttiva della “messa in scena”, dall’altro la dimensione ermeneutico-interpretativa di una fruizione che è al tempo stesso contemplativa e partecipativa (tale cioè da determinare un’identificazione dell’uditore con la rappresentazione stessa):

La mimesis non è dunque l’imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e ne è coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta ridurre l’intera sfera della mimesis ad un’imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato rappresentato. Le opere d’arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha creato.4

Tale nesso tra la rappresentazione e l’identificazione dello spettatore viene esaminato da Lidia Palumbo nel secondo capitolo,5 il quale è dedicato ad un approfondimento del contesto in cui la mimesis platonica matura e prende forma. È infatti soltanto a partire dalla cultura teatrale dell’Atene del quinto e del quarto secolo che tale nozione ottiene un fondamentale chiarimento:

il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis.6

La similitudine del procedimento mimetico con quello teatrale ha dunque una giustificazione che è in primo luogo di carattere metafisico: entrambi sono una presentificazione di ciò che è costitutivamente oltre quel che viene rappresentato.

Ancor più importante è però un ulteriore parallelismo con il teatro. Come nella rappresentazione scenica la storia risale ad un narratore che non appare al pubblico, così la mimesis si riferisce a qualcosa che non si mostra, ma che viene rappresentato sulla “scena del mondo”. Qualcosa che rimane celato dietro la sua immagine mimetica, ma che diventa visibile grazie a quella medesima immagine: “nel preciso senso di mimeisthai, rappresentare significa simulare l’effettiva presenza di un assente”.7 Questa relazione tra il visibile e l’invisibile caratterizza in particolar modo la mimesis che connette le idee trascendenti alla realtà empirica:

laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro —il modello dell’atto mimetico— è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche —il mondo empirico come il dialogo filosofico— sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.8

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento.9

E tuttavia il teatro greco ci insegna che la rappresentazione mimetica, lungi dall’essere solo inganno, possiede una forza persuasiva senza eguali:

lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore — vive come in un sogno — e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica.10

Di qui l’affinità — prima ancora che la differenza — tra la mimesi cosiddetta “cattiva”, quella dei poeti e dei tragediografi da cui Platone prende polemicamente le distanze nella Repubblica (libri II, III e X) e la mimesi cosiddetta “positiva”, caratteristica precipua dell’insegnamento filosofico nelle Leggi:

Noi stessi siamo autori di una tragedia che, per quanto possibile, è la più bella e la migliore; infatti tutta la nostra costituzione è stata ordinata come mimesis della più bella e della migliore vita, che noi affermiamo essere davvero la tragedia più vera. Poeti siete voi, e poeti delle stesse cose siamo anche noi, vostri rivali nell’arte e avversari nel dramma più bello, che il solo vero nomos per natura realizza (817B).11

Il teatro è, insieme alla poesia, la forma più potente di persuasione educativa di cui disponga l’Atene di età classica. Ed è proprio a questa capacità persuasiva che Platone attinge nella sua scrittura filosofica, la quale viene così a distinguersi nettamente dalla asettica trattatistica peri physeos in voga nel mondo presocratico.

 

Note

1 S. Halliwell, L’Estetica della Mimesis: testi antichi e problemi moderni, tr. it. di D. Guastini e L. Maimone Ansaldo Patti, a cura di G. Lombardo, Palermo, Aesthetica, 2009 (ed. orig. The Aesthetics of Mimesis. Ancient Texts and Modern Problems, Princeton NJ-Oxford, Princeton University Press, 2002);  J.-F. Pradeau, Platon, l’imitation de la philosophie, Paris, Aubier, 2009.

2 L. Palumbo, Mimesis, cit., p. 17.

3 In epoca moderna fu Johann Joachim Winckelmann a individuare nella nozione di Nachahmung la quintessenza della mimesis degli antichi. In un piccolo volumetto del 1755, destinato a diventare nel giro di pochi anni il manifesto del Klassizismus, egli si soffermò sulle implicazioni estetico-artistiche alla base di tale nozione. Le sue riflessioni influenzarono un’intera generazione di celebri poeti e scrittori (per citare solo i più illustri: Johann Gottfried Herder, Gotthold Ephraim Lessing, Moses Mendelssohn, Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe).

4 L. Palumbo, Mimesis, cit., pp. 235-236, n. 249.

5 Ivi, pp. 154-236.

6 Ivi, pp. 158.

7 Ivi, pp. 155.

8 Ivi, pp. 279.

9 Ivi, pp. 199.

8 Ivi, pp. 208-209.

11 Trad. F. Ferrari e S. Poli, con modifiche.


 

Verba manent. Su Platone e il linguaggio, Iniziative Editoriali, 2014.


 

Trentadue ore di filosofia, Iniziative Editoriali, 2015.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Benedetta Giovanola – È la «ricchezza antropologica», e non la relazione in sé, a rappresentare il criterio normativo alla cui luce interpretare anche la relazionalità. Il concetto di «ricchezza antropologica» connota ciascuno come essere umano

Benedetta Giovanola 01

[…] la riflessione di Sen, mettendo in luce il carattere al contempo dinamico e multidimensionale dell’identità personale e aprendo la strada ad una più articolata interpretazione della nozione stessa di relazionalità a livello non solo interpersonale ma anche intrapersonale, ci consente di innestare una feconda dialettica tra questi due poli, In virtù di questo rapporto dialettico, le relazioni interpersonali appaiono di fondamentale importanza anche in ordine all’incremento della relazionalità intrapersonale e, quindi, all’“arricchimento” dell’identità personale. Questo “arricchimento” tuttavia non consiste nell’annullamento delle differenze individuali, ma sta a significare che la relazione interpersonale può cambiare l’identità personale di ogni singolo essere umano in un processo dinamico che non può mai dirsi definitivamente concluso. È la ricchezza antropologica però, e non la relazione in sé, a rappresentare il criterio normativo alla cui luce interpretare anche la relazionalità e comprendere adeguatamente il significato di quella “fioritura umana” (human flourishing) alla quale così spesso si richiamano gli esponenti del capability approach. Ed è proprio questo concetto di ricchezza antropologica, che connota ciascuno come essere umano, a rendere evidente il superamento, ad opera di Sen, di un approccio economico autoreferenziale e l’intreccio tra dimensione economica, etica ed antropologica.

 

Human flourishing è il termine con cui alcuni studiosi, tra i quali J.M. Cooper, hanno tradotto la nozione aristotelica di eudaimonia ed è anche l’espressione utilizzata dai principali teorici del CA (capability approach) per indicare una realizzazione dell’essere umano che coincide con il pieno sviluppo delle capacità umane (cfr. M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca [1986], trad. it. il Mulino, Bologna1996, nuova edizione 2004). Per una maggiore articolazione del concetto di ricchezza antropologica nel capability approach, anche in riferimento alla nozione aristotelica di eudaimonia, cfr. B. Giovanola, Personhood and Human Richnes: Good and Well-Bong in the Capability Approach and Beyond, «Review of Social Economy», 63 (2005), 2, pp. 249-267. Qui si mette anche in luce l’ascendenza marxiana del concetto di “ricchezza antropologica” che sottende il capability approach e se ne mostra la valenza, al contempo, interpersonale e intrapersonale. Per una trattazione più articolala della “ricchezza antropologica” in K. Marx cfr. B. Giovanola, Critica dell’uomo unilaterale. La ricchezza antropologica in K. Marx e F. Nietzsche, EUM, Macerata 2007.

 

Benedetta Giovanola, La “svolta antropologica” tra etica ed economia: identità e relazionalità a partire da Amartya Sen, in Antonio Da Re (a cura di), Etica e forme di vita, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 229.


Tra i libri di Benedetta Giovanola

Nietzsche e l’aurora della misura, Carocci 2002


 

Critica dell’uomo unilaterale. La ricchezza antropologica in K. Marx e F. Nietzsche, EUM, 2007

Nei suoi Manoscritti Economico-Filosofici Marx contrappone la ricchezza umana alla ricchezza dell’economia politica, materiale e quantitativa, e delinea la prospettiva di un «uomo totale» che sappia dare espressione alla propria ricchezza interiore. Nelle sue opere Nietzsche lamenta l’impoverimento dell’essere umano e auspica, di contro, un sempre maggiore “arricchimento” antropologico che renda possibile lo sviluppo dell’«uomo intero» contro il proliferare degli «storpi alla rovescia». Muovendo da tali premesse, l’autrice sviluppa la prospettiva etico-antropologica che scaturisce dalla riflessione di questi due grandi pensatori della modernità e, attraverso il loro confronto, procede ad una operazione teoretica inedita. Attraverso la lettura del volume, si scoprirà che Marx e Nietzsche sono più vicini di quanto si pensi. Da un lato il modello antropologico emergente dalla loro riflessione, al di là delle differenze, si caratterizza per una costitutiva complessità, multidimensionalità e pienezza, contro ogni alienazione e frammentarietà; dall’altro lato l’auto-realizzazione e la promozione di una forma umana “ricca” si radicano in un’etica delle facoltà e della formazione di sé, capace di esprimere un progetto antropologico opposto al potenziamento unilaterale e al proliferare di uomini-macchina espropriati della loro personalità.Contro la pervasività di logiche funzionalistiche e tecnicistiche la riflessione di Marx e quella Nietzsche si mostrano allora di ineguagliabile attualità e fecondità soprattutto in virtù del comune sforzo di ridefinizione della ricchezza in senso eminentemente antropologico e di restituzione, all’umano, della molteplicità delle sue dimensioni.


 

Oltre l’homo oeconomicus. Lineamenti di etica economica, Orthotes, 2012

Molti economisti ritengono che l’economia sia una “zona franca” dal punto di vista etico, oppure che essa, pur sollevando questioni eticamente rilevanti, dovrebbe tenerle al di fuori del proprio ambito di indagine. Il volume intende confutare questa posizione, argomentando la natura comune di etica ed economia e mostrando non solo la fecondità, ma anche la necessità del loro rapporto. A tal fine viene intrapresa una serrata critica dei concetti portanti della teoria economica mainstream e del modello antropologico alla sua base, quello dell’homo oeconomicus, del quale viene mostrato il forte riduzionismo. Per andare oltre l’homo oeconomicus, l’autrice, sviluppando le riflessioni di Amartya Sen e Martha Nussbaum e articolando il sostrato etico-antropologico dell’approccio delle capacità, propone un inedito modello di agente economico, articolato intorno alla nozione di ricchezza antropologica e volto a restituire all’economia il ruolo che le è più proprio, quello di mezzo per la promozione del bene dell’individuo e della collettività.


 

Giustizia sociale. Eguaglianza e rispetto nelle società diseguali, Il Mulino, 2018

Che cos’è la giustizia sociale? Quali sono i suoi scopi? Un’equa distribuzione? La promozione dell’eguaglianza e del riconoscimento reciproco? Le risposte a tali interrogativi cruciali si organizzano oggi intorno a due filoni principali. Se per l’approccio socio-relazionale è centrale l’eguaglianza intesa nel senso delle relazioni tra persone, l’egualitarismo della sorte sviluppa una concezione di giustizia sociale come giustizia distributiva, integrando la preoccupazione per l’eguaglianza con la considerazione della responsabilità individuale. Attraverso un’attenta analisi dei due approcci, l’autrice approda a una nuova prospettiva basata sul rispetto, una nozione che – correttamente intesa – può davvero promuovere la giustizia, dandole forma nelle concrete pratiche sociali e istituzionali.


 

José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

José Saramago 05a

 

Saramago J

 

Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni in cui si cominciano ad accarezzare i sogni con le dita e le illusioni diventano speranza. Ho gli anni in cui l’amore, a volte, è una folle vampata, ansiosa di consumarsi nel fuoco di una passione attesa. E altre volte, è un angolo di pace, come un tramonto sulla spiaggia.

Quanti anni ho, io? Non ho bisogno di segnarli con un numero, perché i miei desideri avverati, le lacrime versate lungo il cammino al vedere le mie illusioni infrante valgono molto più di questo. Che importa se compio venti, quaranta o sessant’anni! Quel che importa è l’età che sento. Ho gli anni che mi servono per vivere libero e senza paure.

Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento.

José Saramago, Le poesie.

Le poesie

Le poesie


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Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».

Ernst Bloch 07

«Vita brevis, ars longa, i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata.

[…] Per i così favoriti nasce un’ars longa, adornata dal nome della loro vita brevis […]. Heinrich Mann parlava degli onori che in modo estremamente lusinghiero allontanano tale vecchiaia dalla gioventù, per cui vi si deve ascendere come a un trono. In modo simile Gottfried Keller guardava al settantenne F.Th. Vischer e ancor più a personaggi maggiori, e di loro scriveva che stavano nella luce crepuscolare della vita sotto la travatura delle loro opere con sentimento indubbiamente sicuro.

Schiller aveva questo senso di salvezza addirittura all’inizio della malattia: “Difficilmente avrò tempo di compiere in me una grande e generale rivoluzione dello spirito, ma farò quel che potrò; e se alla fine l’edificio crolla, avrò almeno salvato dall’incendio quel che valeva la pena di conservare” (Lettera a Goethe, 31 agosto 1794).

Goethe, essendoglisi trasformata tutta la vita a poco a poco in una specie di entità statale sovrapersonale, immaginò non soltanto un proseguimento cosmico del suo essere, ma anche esattamente un’immortalità nell’opera storicamente divenuta e storicamente sopravvivente. Ciò neanche quattro mesi prima della sua morte in una lettera a Wilhelm von Humboldt, usando se stesso come categoria storicamente sperimentata e incasellata: “Se mi è lecito esprimermi secondo un’antica confidenza, confesso volentieri che nei miei anni avanzati tutto mi diventa sempre più storico; se qualcosa avviene in tempi passati, in terre lontane oppure a me vicinissime nello spazio e in questo momento, è perfettamente lo stesso, anzi io appaio a me stesso sempre più in modo storico; e poiché la mia buona figlia la sera mi legge Plutarco, mi trovo spesso ridicolo se dovessi raccontare la mia biografia in questo modo e in questo senso”.

Tale oggettivazione ha di fatto allontanato la propria esistenza dalla caducità; anche la vita appare allora come opera e l’opera appare come scampo, anzi come assenza stampata di situazione di una vita divenuta essenziale».

 

Ernst Bloch, Il principio speranza, vol. III, Capitolo 52: Sé e lampada funebre ovvero immagini di speranza contro la forza della più potente non-utopia: la morte, Garzanti, Milano 1994, p. 1343.


 
Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Martin Heidegger- Enrico Berti 02 copia
Enrico Berti

Scritti su Heidegger

ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, , Euro 15
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Salvatore Bravo

L’uomo filosofia.

La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

La filosofia umanizza

L’epoca di privazione

Storia e storiografia espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico

La mediocrità dell’utile

L’essente che pensa

Il chiarore della filosofia

Filosofia e responsabilità storica

La filosofia umanizza
La definizione della filosofia è sempre stata ardua. Molti pensatori hanno elaborato il concetto di filosofia concordi sul punto che essa è il sapere che ha per oggetto la verità, la quale non è solo l’oggetto della filosofia, ma specialmente il soggetto che la muove, che la dispone alla ricerca.
Senza verità non vi è filosofia, non vi è umanità, ma solo il regno dell’esattezza consegnato all’immediatezza dell’accidente: l’essere umano diviene, così, il servo delle circostanze, è nel flusso della storia, non la pensa, non le dà il fine, semplicemente si adatta disperatamente a ciò che la contingenza gli offre.
Senza destino e senza storia l’essere umano diviene simile ad un automa senza identità. Macchinalmente obbedisce a ciò che gli è estraneo: è lo straniero a se stesso ed alla storia. Si nutre di parole alienate che lo plasmano, senza dargli identità, senza donargli lo spessore del pensiero: è essente tra gli essenti.
La filosofia umanizza, in quanto strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, dalla tempesta dei flutti, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia, al suo porre la storia senza titanismo onnipotente, perché il porre la storia dev’essere mediato dalla consapevolezza che il presente ed il futuro sono categorie e segmenti inseparabili dal passato.

L’epoca di privazione
Pensare filosoficamente il presente significa ricongiungere ciò che appare diviso; la divisione senza dialettica è tipica dell’epoca di privazione in cui versiamo, nella quale la filosofia è respinta in nome dell’utile immediato, del calcolo, dell’esattezza senza “spirito”, senza “Geist”, al suo posto vi è solo il plusvalore calcolato sulla e nella carne viva dei popoli.
Heidegger definisce l’uomo «filosofia» come l’essere ripensante, ovvero l’essere umano è nella filosofia, a cui appartiene per destino. Filosofare è ripensare l’origine; il fondamento si svela e rivela pensando il presente, ricongiungendolo al fondamento, attraverso il cui chiarore, intravedere il futuro. Senza tale “prassi” non vi è che la cecità del presente, l’incardinamento violento in un eterno presente fuori del tempo e della storia degli uomini e delle donne:

«L’uomo “filosofia” in quanto è l’uomo ri-pensante. Muovendosi in questo tipo di pensare, l’uomo soggiorna nella contrada di ciò che per tale pensare rimane il pensando. Questo pensando e sempre anche, in qualche modo, già pensato è il luogo del soggiorno per l’uomo nella misura in cui filosofia. Questo luogo di soggiorno è la filosofia». [1]

 

Storia e storiografia espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico
L’essere umano fa filosofia nella storia. Pensare la storia significa pensare il presente, ma per pensare il presente è necessario ritrovare il fondamento, il telos nascosto che – con il filo d’Arianna della ragione olistica – consente di uscire dalla caverna degli dèi falsi e bugiardi e dei miti della tecnica. Si oscurano gli orizzonti per segmentare la storia in periodi senza verità, in cui l’oggetto della ricerca sono i documenti letti con la sola ambizione di comprenderne i fatti empirici rimuovendo ogni possibilità che tra i fatti empirici possa esserci e sbiluccicare la luce della verità.
La storiografia diventa espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico che astrae una parte dal tutto, per accumulare un numero infinito di informazioni prive della loro verità. La storiografia diventa parte del computare, del calcolare, della quantità che, sovrana, inibisce ogni pensare e poetare profondo. Si resta in superficie, si scambia il fenomeno e la sua quantificazione per verità, anzi quest’ultima è associata al calcolo, l’indistinzione, l’omologazione delle parole corrisponde al regno dell’inautentico della sola tecnica senza verità:

«Nella misura in cui l’uomo storico ri-pensa all’avvenire a partire dalla provenienza e al provenire a partire dall’avvento, e dunque ri-pensando pensa il presente, egli pensa ciò che è. L’uomo storico pensa. Ecco perché nella storia ci sono epoche povere di pensiero e prive di pensiero. L’uomo storico pensa. Filosofa. L’uomo storico sta nella filosofia. C’è invece senz’altro bisogno di una conduzione affinché l’uomo storico, nel luogo in cui già soggiorna goffamente e facilmente dimenticandolo, acquisti dimestichezza e solo così impari l’autentico abitare. L’uomo storico pensa storicamente, cioè in base a ciò che è destinalmente co-mandato nel mandato mandantesi –a-lui. La storiografia pensa ammesso che sia in generale lecito chiamare così il suo rappresentare astoricamente. Essa trascura necessariamente ciò che ha natura destinale, e parla solo accidentalmente e spensieratamente di destino».[2]

 

La mediocrità dell’utile
Il regno dell’assoluta peccaminosità come l’ebbe a definire Fichte, è l’epoca dell’assoluta mediocrità, dove l’utile è l’unico paradigma con cui si misurano gli essenti ed i concetti. Il regno dell’utile è il luogo dell’ostentazione della forza, della ricchezza, del narcisismo regressivo. Tutto è in mostra, tutto è in vendita, ma dalle vetrine luccicanti della mediocrità è rimosso l’essenziale: l’oblio è la caratteristica del regno dell’utile e della tecnica. La verità che non solo è occultata, ma ad essa si associano crimini e violenze, è criminalizzata, in modo da orientare l’opinione pubblica a rifiutarne il solo concetto, in tal maniera “la superficie” può cancellare ogni differenza, continuità e senso:

«L’intelligenza del mero computo dell’utile e del successo è l’intelligenza della mediocrità che resta mediocre anche quando agisce su scala politico – economica mondiale. Anche in questo caso è già all’opera un oblio che non viene controbilanciato dall’ostentazione di ricchezza, di moralismo e umanitarismo democratico». [3]

L’essente che pensa
L’essere umano, malgrado le manipolazioni, resta l’unico essere che per natura può e deve pensare, perché senza il pensiero rammemorante (Andenken) è solo essente senza storia:

«L’uomo è, fra tutti gli essenti, l’essente che pensa. L’uomo è l’essente pensante».[4]

Non è un caso che nella Filosofia dello Spirito assoluto Hegel ponga l’arte, la religione e la filosofia tra le espressioni eterne dell’umano in cui la verità, e non l’esattezza, è dinamicamente e storicamente conservata. La filosofia in quanto verità è concetto, e dunque pensiero della verità che va ripensata nella storia.

 

Il chiarore della filosofia
La filosofia è degli esseri umani, per Heidegger è la condizione perché vi sia umanità. La filosofia è intorno all’essere umano, è l’aureola di luce pensante che impedisce la regressione ad uno stadio ferino, al confondersi dell’umano con il non umano, è l’immanenza viva, il salto metafisico verso l’universale a cui l’umanità tende e che la connota, è il chiarore senza il quale, non vi sarebbe storia, ma solo la notte della contingenza. La filosofia è il chiarore che sta tra il cielo e la terra, poiché svela, nel suo apparire incompleto e nascosto, ciò che unisce, trascende la frammentazione della rappresentazione empirica ed immediata. La filosofia alza il velo di Maya della semplice giustapposizione

«La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà». [5]:

La filosofia è il pensatore che pensa il fondamento (Grund), essa non è materiale astratto da cui astrarre ed ordinare informazioni: la filosofia è il pensatore che pensa la verità dell’essente. La filosofia è nella natura dell’essere umano, e malgrado gli apparati di potere possano limitarne la vita, dichiararne la morte presunta, è eterna, o meglio sarà viva fin quando gli esseri umani saranno parte del mondo della vita:

«Nel pensiero fondamentale di un pensatore è pensato ciò che dà il “fondamento” per quello che ogni pensatore pensa. Il pensatore pensa ciò che è. Pensa l’essente. Il pensatore pensa l’essente in quest’unica prospettiva: che l’essente è e che cosa l’esente è».[6]

Filosofia e responsabilità storica
Il filosofare heideggeriano si sofferma sul “pensiero abissale”. Non si può non evidenziare che il valore della verità è, anche, nella prassi, nella trasformazione di sé e della storia. Senza la prassi la verità è depotenziata del suo contenuto trasformativo e rivoluzionario. La prassi è la responsabilità dell’essere umano nella verità.
Filosofare è dunque responsabilità, capacità di discernere, argomentando, l’opinione dalla verità. Il soggetto umano pone la storia per viverla attraverso il processo dialettico alla cui responsabilità è inscindibilmente legato. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità rischia di disporre l’essere umano alla passività, all’attesa del destino veritativo che si deve rivelare senza “Streben”, senza la fatica del concetto (Begriff) che esige l’elaborazione trasformativa e corale nella storia degli uomini e delle donne. Non si può attendere la verità. Occorre mettersi in ascolto. La verità filosofica invoca la partecipazione responsabile. L’attività pensante è l’atto politico a cui è chiamata e vocata l’umanità per natura. La filosofia è catabasi (discesa) nella vita di tutti, disposizione socratica allo scambio dialogico. Altrimenti la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo

 

[1] M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018, pag. 17.

[2] Ibidem, pag. 155.

[3] Ibidem, pag. 93.

[4] Ibidem, pag. 18.

[5] Ibidem, pag. 45.

[6] Ibidem, pag. 109.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

G. Lukacs- C. Preve e intellettuali
Salvatore Bravo

Intellettuali, parola e potere

Ruolo degli intellettuali ed il suo destino
Il ruolo degli intellettuali ed il suo destino sono indissolubilmente legati alla democrazia. Nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo e delle conseguenti mercificazioni.

L’attività perenne del capitalismo assoluto favorisce la passività
La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita. I popoli senza lingua e linguaggi, indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva. Ovvero, apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne – senza spazi temporali e fisici –, per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo, favorisce la passività: si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione senza sosta del medesimo, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni.

Il nichilismo dell’uomo consumante
L’intellettuale è interno a questo gioco di forze, “è giocato nella parola”, e pertanto è defenestrato dal sociale: il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata, resa nulla, flatus vocis. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate – divenendo la normalità dello stato presente – hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima: la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. L’impero, per dominare, non usa solo i “bombardamenti etici”, ma mira direttamente nella carne viva, lascia in vita chi è utile al mercato rendendolo muto, operando la sostituzione dell’attività pensante con parole omologate i cui significati sono segnati dal nichilismo dell’uomo consumante.

La decadenza dell’intellettuale
La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed i intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltarori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Parole senza significato e senza prassi trionfano, non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Al fascismo è seguito il post fascismo del capitalismo assoluto, dell’imperialismo in nome della democrazia, dell’inganno delle parole che intrappolano i popoli all’interno della macchina-immagine della propaganda.
Lukács non ha solo colto la decadenza degli intellettuali e dei popoli, ma specialmente con lo sguardo olistico della filosofia ha prefigurato il presente. L’imperialismo muove i popoli con le sue parole suadenti, facendo appello in modo strumentale alle grandi parole-valori per la nuova conquista imperiale del mondo. I popoli non sono che pedine nella rivoluzione passiva dei popoli, i quali non mediano la realtà con la razionalità della parola, ma vivono lo stato onirico dell’irreale costruito attraverso automatismi lessicali e sintattici. La servitù dei popoli ha trovato nell’uso orchestrato delle parole le sue catene: catene invisibili, in quanto l’appello demagogico ai popoli non trova negli intellettuali limite e traduzione, ma solo conferma e favorisce con l’imperialismo, la violenza capillare e fatale:

«D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gli interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’esterno, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato».[1]

 

In nome del popolo sovrano
In nome della democrazia ogni crimine è possibile e legittimato. Ciò è reso possibile dalla trasformazione della parola democrazia da concetto a semplice espressione vocale. Si esercita l’oppressione in nome dei popoli che hanno il dovere di diffondere la democrazia a suon di aggressioni e nel frastuono dei bombardamenti. I popoli che rifiutano l’esperienza democratica sono tacciati di essere una minaccia per il mondo democratico e dunque si procede all’annientamento con il consenso dei popoli democratici:

«Le tendenze fasciste che oggi crescono negli USA lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà».[2]

Lukács cerca di rispondere al terribile interrogativo sulla decadenza degli intellettuali, constata che – ormai organici alla struttura economica – usano il linguaggio del potere, sono la cinghia di trasmissione delle decisioni del potere. Il ruolo dell’intellettuale è così ribaltato: da emancipatore, da liberatore degli esseri umani è diventato complice della chiusura degli esseri umani nei confini angusti del fatalismo della caverna.

Feticizzazione della storia
Lukács, nella sua analisi, ci dona anche elementi per ridare agli intellettuali la consapevolezza del loro ruolo. Gli intellettuali, per tornare ad essere parte della storia e contribuire all’emancipazione, devono trascendere la feticizzazione, devono usare la metodologia marxista che permette di ricostruire i fenomeni storici nella loro genealogia e complessità. In tal modo si supera la feticizzazione che tende a rappresentare fenomeni storici, decisioni e previsioni in modo astratto, avulsi dal contesto con l’effetto di naturalizzare il presente e congelare il futuro.

Senza strumenti interpretativi, il futuro non è che la ripetizione del presente. Gli intellettuali devono riportare il futuro nel presente svelando la verità delle decisioni politiche, mostrando il carattere non necessario delle scelte e riportare la dialettica dove regna il fatalismo feticistico. Affinché ciò possa venire le parole devono ritrovare il loro senso nelle domande che devono riportare la concretezza dove vigeva l’astratto. Le decisioni e le azioni non sono neutre o tecniche, esse sono parte di un mondo di interessi economici e sociali:

«Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese di qualsiasi demagogia sociale. Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello di passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita la preparazione di una nuova guerra. C’è anche la feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista».[3]

 

Astratto e concreto

La dissoluzione della feticizzazione riporta il futuro al centro, perché il presente è pensato per essere vissuto nella sua concretezza e nelle sue potenzialità. La Storia feticizzata, invece, trasforma i fenomeni storici in enti autonomi che dominano gli esseri umani, li vampirizzano guidandoli docilmente nella gabbia d’acciaio. La feticizzazione rende gli esseri umani tristi e dunque maggiormente dominabili, vampirizza non solo le risorse materiali, ma specialmente “ruba” la prassi ed il futuro spingendo l’umanità nella palude di un eterno presente senza uscita e senza scopo:

«Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro».[4]

 

Lukács ci invita a riflettere sulla scissione tra popolo ed intellettuali, ma specialmente teorizza la possibilità di una riconciliazione nella consapevolezza che le parole degli intellettuali possono ritrovare l’ascolto solo se si ha la passione durevole per la verità e per i suoi metodi di indagine. I popoli fatalizzati hanno smesso di ascoltare gli intellettuali, perché le loro parole riproducono il nichilismo delle logiche di potere. Solo le parole che fungono da tracce per uscire dalla caverna possono far ritrovare l’ascolto che nel nichilismo della feticizzazione non solo è assente, ma induce ad un generale disprezzo verso gli intellettuali. La struttura economica rende servi mediante il nichilismo della parola e la tecnicizzazione anonima.

La passione durevole per la verità
La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defeticizzizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia.
L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date. Solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e ci reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica, mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine:

«La “passione durevole” per il comunismo, o se si vuole per la critica al capitalismo, presuppone per esistere e per essere coltivata e sviluppata che ci si renda ben conto che essa da un lato coincide con il percorso della nostra vita umana e concreta, necessariamente e fatalmente breve, ma che dall’altro essa è ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita umana».[5]

Salvatore Bravo

[1] G. Lukács Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1977, p. 64.

[2] Ibidem, p. 65.

[3] Ibidem, p. 68.

[4] Ibidem, p. 70.

[5] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 461.

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