Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».

Karl Marx e la Comune di Parigi
Karl Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850

Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850 è una raccolta di articoli pubblicati nel 1850 da Karl Marx (1818-1883) sulla «Neue Rheinische Zeitung» e poi riuniti in volume da Friedrich Engels (Berlin, der Expedition des Vorwärts, 1895). 
La traduzione italiana, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, uscì a Milano nel 1896 dalle edizioni della Critica sociale e venne ripubblicata più volte (nel 1902, 1922,  1925 e poi nel dopoguerra).

Franco Toscani

 Karl Marx
e il significato della Comune di Parigi

 

 

I.
Marx e il significato essenziale della Comune di Parigi
come “governo del popolo per il popolo”.
‘Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend…’

Se le rivoluzioni sono per Marx “le locomotive della storia” (“Die Revolutionen sind die Lokomotiven der Geschichte”),[1] quella della Comune parigina del 1871 fu per lui la locomotiva più trainante e fondamentale, una vera e propria stella polare del suo pensiero e della sua attività politica come dirigente della Prima internazionale dei lavoratori. In vari scritti e occasioni Marx non cessa di lodare la duttilità, l’iniziativa storica, la capacità di sacrificio, la novità e la grandezza dell’azione storica della Comune, per quanto destinata a essere sopraffatta dalla reazione borghese.

Com’era sua consuetudine, per scrivere (fra il maggio e il giugno 1871) ciò che nel merito rimane il suo testo principale, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation (La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori), egli si documentò con grande accuratezza sull’esperienza rivoluzionaria francese (su cui scrisse pure due abbozzi preparatori), lavorò su materiali forniti da giornali francesi, inglesi e tedeschi, esaminò sia pubblicazioni che sostenevano la Comune sia quelle che si opponevano ad essa, utilizzò pure lettere e racconti orali di non pochi partecipanti all’esperienza della Comune e reduci dalla Francia (tra cui Léo Frankel, Eugène Varlin, Auguste Serraillier, Paul Lafargue, Yelisaveta Tomanovskaya, Pyotr Lavrov), si avvalse dei risultati cui era giunto nei suoi studi precedenti sulle lotte di classe in Francia (come Der Achtzehnte Brumaire des Louis-Napoleon, 1851-1852).[2]

Dal 18 marzo al 28 maggio 1871 resistette e operò alacremente, in condizioni di terribili avversità, la “gloriosa rivoluzione operaia” (die ruhmvolle Arbeiterrevolution, cfr. MEOC XXII, 287) della Comune, messa in atto da chi cercò di prendere in mano il proprio destino e seppe giungere sino all’estremo sacrificio di sé nella lotta per la salvezza nazionale (la Pariser Kommune era infatti agli occhi di Marx, giustamente, die wahrhaft nationale Regierung, il vero governo nazionale, cfr. MEOC, XXII, 303) e per una nuova, migliore società.

Analizzando con grande cuore, intelligenza e passione questa esperienza rivoluzionaria, Marx ritiene che il proletariato parigino, nel momento della disfatta e dei tradimenti delle classi dominanti, abbia deciso di padroneggiare il proprio destino assumendo “la direzione degli affari pubblici” (die Leitung der öffentlichen Angelegenheiten), prendendo “il potere di governo” (die Regierungsgewalt); tale presa di potere non avvenne impadronendosi semplicemente della macchina statale-militare-burocratica già data e usandola per i propri fini, ma cercando di spezzarla (come l’autore del Capitale scrive anche in una lettera a Ludwig Kugelmann del 12 aprile 1871) in quanto strumento di dominio di classe (Klassenherrschaft) e di asservimento sociale (cfr. MEOC XXII, 293-294 e 770, n. 429).

Riflettendo sullo stato borghese caratterizzato da un potere esecutivo centralizzato, il pensatore tedesco interpreta la sollevazione parigina come una rivoluzione contro il carattere essenzialmente repressivo del potere statale e capace di proporre, in nuce, un modello alternativo di potere e di istituzione municipale e statale.

La neue Kommune, per Marx, “rompe il moderno potere dello stato” (die moderne Staatsmacht bricht) proprio nel suo tentativo caparbio di porre termine alla perpetuazione (Verewigung) dell’asservimento sociale (gesellschaftliche Knetschaft. Cfr. MEOC XXII, 298, 300).

Pur assediata e in mezzo a mille inenarrabili difficoltà, la Comune voleva essere infatti e, per il breve tempo che le fu concesso, riuscì effettivamente ad essere il “governo della classe lavoratrice” (Regierung der Arbeiterklasse), “un governo del popolo per il popolo” (eine Regierung des Volks durch das Volk), capace di porre fine alla separazione fra stato e società, al dispotismo del potere.

Essa fu un nobile e grandioso tentativo di ripensare radicalmente la stessa nozione di potere politico o (leggiamo nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia) “la riassunzione da parte del popolo per il popolo della sua vita sociale. Non è stata una rivoluzione per trasferirlo da una frazione delle classi dominanti all’altra, ma una rivoluzione per abbattere questa stessa orribile macchina della dominazione di classe” ( cfr. MEOC XXII, 299, 304, 486).

Nel primo abbozzo Marx così riassume il senso essenziale della rivoluzione parigina: “E’ il popolo che agisce per sé stesso da sé stesso” (MEOC XXII, 463).

Essa sorse come “la rivolta di una città provata dalla guerra e umiliata dalla sconfitta”[3] e divenne un “mezzo organizzato d’azione”, un “mezzo razionale” per condurre la lotta delle classi “nel modo più razionale ed umano” (cfr. MEOC XXII, 490), per rendere il potere al servizio della società e non più contro o sopra di essa.

E’ pure rimarchevole il fatto, ben documentato, che nel periodo dell’esperienza rivoluzionaria comunarda vi fu più ordine e sicurezza per le strade, diminuirono drasticamente gli assassinii, i furti, le aggressioni: “Non più cadaveri sui tavoli dell’obitorio, non più insicurezza nelle vie. Parigi non era mai stata così tranquilla. Al posto delle cocottes, le eroiche donne di Parigi! Una Parigi virile, inflessibile, che combatte, che lavora, che pensa! Una Parigi piena di magnanimità! Di fronte al cannibalismo dei suoi nemici, metteva i suoi prigionieri solamente in condizioni di non nuocere!” (MEOC, 507).

Continua Marx nel primo abbozzo: “Soltanto i proletari, infiammati da un nuovo compito sociale da portare a termine per tutta la società, il compito di sbarazzarsi di tutte le classi e del dominio di classe, erano gli uomini che potevano distruggere lo strumento di quella dominazione di classe – lo Stato, il potere governativo centralizzato ed organizzato, che pretendeva di essere il signore anziché il servo della società”(MEOC XXII, 487).

Nel primo abbozzo, Marx sottolinea la semplice e cristallina grandezza della Comune in questo modo: “La Comune – il riassorbimento del potere dello Stato da parte della società, in quanto sue forze vitali invece che in quanto forze che la controllano e la assoggettano, da parte delle stesse masse popolari, che formano la loro stessa forza al posto della forza organizzata per reprimerle – la forma politica della loro emancipazione sociale al posto della forza artificiale della società esercitata dai loro nemici per opprimerle (la loro stessa forza che viene loro opposta ed organizzata contro di loro). Questa forma era semplice come tutte le grandi cose” (MEOC XXII, 488).

Secondo Marx, la forma politica inaugurata dalla Comune (“la forma politica dell’emancipazione sociale, della liberazione del lavoro”, “la forma comunale di organizzazione politica”) assume un valore che va ben oltre i confini pur importanti della capitale francese; il modello parigino è esemplare, indicativo e regolativo per tutta la Francia, valido sia per tutti i grandi centri industriali del paese sia per i più piccoli villaggi di campagna: “Tutta la Francia organizzata in Comuni che lavorano per sé e si governano da sé, l’esercito permanente sostituito dalle milizie popolari, l’esercito dei parassiti dello Stato destituito, la gerarchia clericale rimpiazzata dall’insegnante pubblico, i giudici di Stato trasformati in organismi comunali, il suffragio per la rappresentanza nazionale non più una questione d’intrallazzi per un governo onnipotente, ma l’espressione deliberata di comuni organizzate, le funzioni dello Stato ridotte a poche funzioni per scopi generali nazionali” (cfr. MEOC XXII, 490-491).

L’unità nazionale e politica va garantita e organizzata attraverso la costituzione comunale e il contributo delle iniziative locali. La struttura del potere e dello stato va ricostituita e rifondata per assecondare e favorire il libero movimento e sviluppo della società.

Mettendo in discussione lo stato borghese, la Commune de Paris voleva contrastare e superare der rein unterdrückende Charakter der Staatsmacht (“il carattere puramente repressivo del potere dello stato”) e la Knechtung (asservimento) del lavoro al capitale, per trasformare il lavoro in un “lavoro libero e associato (freie und assoziierte Arbeit)” e restituire il suo libero movimento (freie Bewegung) alla società (cfr. MEOC, XXII, 294-295, 298, 300).

Essa – intesa come “la forma politica finalmente scoperta” (die endlich entdeckte politische Form) della “emancipazione economica del lavoro” (ökonomische Befreiung der Arbeit. Cfr. MEOC XXII, 299) – mirava concretamente a una rifondazione dei poteri istituzionali e statali su salde basi popolari e libertarie.

Marx prende in esame accuratamente le principali misure assunte durante il periodo di governo della Comune, come l’elettività, responsabilità e revocabilità – in qualunque momento – di tutti i funzionari pubblici e rappresentanti politici (legati a un mandat impératif dei loro elettori e remunerati con livelli salariali pari a quelli degli operai), l’abolizione dei privilegi economici previsti per il servizio pubblico, il controllo operaio della produzione (con l’attribuzione ai lavoratori delle fabbriche abbandonate o dismesse), la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione col popolo in armi, la separazione fra stato e chiesa, il carattere laico, popolare, gratuito, libero e aperto a tutti dell’istruzione, etc. .

Marx elenca minuziosamente, entrando nei dettagli, le ordinanze, i decreti, i provvedimenti di tipo economico-finanziario presi dalla Comune assediata (operante sotto gli occhi dei vincitori prussiani da una parte e dell’esercito francese agli ordini di Thiers dall’altra, con Bismarck e Thiers di fatto alleati e concordi nel tentativo di stroncarla) a favore delle classi popolari e nella direzione di una maggiore giustizia sociale; in particolare, l’autore di Das Kapital sottolinea il valore del decreto del 16 aprile 1871 (pubblicato sul “Journal officiel de la République française” il 17 aprile 1871 e ritenuto da Engels il più importante dell’intera esperienza rivoluzionaria comunarda), che sanciva la consegna alle cooperative operaie delle officine e delle manifatture che erano state chiuse o per la fuga dei capitalisti o per una sospensione da essi decisa del lavoro; tale decreto avviava la trasformazione effettiva in senso socialista della produzione (cfr. MEOC XXII, 304, 773, n. 454).

La Comune aveva anche cominciato a valorizzare concretamente la soggettività, il protagonismo e la dignità delle donne. In Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx rileva con sollievo, letizia e calore che nella Parigi comunarda “sono ricomparse le vere donne di Parigi (die wirklichen Weiber von Paris) – eroiche, nobili e leali, come le donne dell’antichità (wie die Weiber des Altertums). Una Parigi che lavorava, pensava, lottava, dava il proprio sangue – quasi dimentica, nel suo portare in grembo una società nuova, dei cannibali alle sue porte -, radiosa nell’entusiasmo della sua storica iniziativa! (Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend, über seiner Vorberaitung einer neuen Gesellschaft fast vergessend der Kannibalen vor seinen Toren, strahlend in der Begeisterung seiner geschichtlichen Initiative!)” (MEOC XXII, 307). Perciò i comunardi furono concretamente – senza alcuna retorica – degli eroi e la loro testimonianza resta unica.

Quest’immagine vitale della Parigi comunarda, simbolica di un nuovo mondo (neue Welt) che stava sorgendo è da Marx duramente contrapposta a quella del vecchio mondo (alte Welt) marcio e decadente di Versailles: “La Parigi del signor Thiers (…) la Parigi ricca, capitalista, dorata, oziosa (…) si accalcava a Versailles, saint Denis, Rueil e Saint Germain con i suoi lacchè, i suoi furfanti, con la sua bohême di letterati e le sue cocottes (…), considerava la guerra civile come un gradevole diversivo, guardando lo svolgimento della battaglia attraverso i binocoli, contando i colpi di cannone, e giurando sul proprio onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo (das Schauspiel) era allestito assai meglio di quello solito della Porte Saint Martin” (MEOC XXII, 308).

Accadde così che i francesi controrivoluzionari e i prussiani militaristi, cioè vinti e vincitori agirono di concerto per soffocare nel sangue la sollevazione del popolo parigino, alleati nell’organizzazione degli orrori (Schandtaten) e delle infamie (Niedertrachten), nello sterminio (Ausrottung) e nella carneficina (Blutbad) della Parigi rivoluzionaria (cfr. MEOC XXII, 313-314). Marx è durissimo anche nei confronti della Prussia bismarckiana, definita uno sgherro (Bravo), più precisamente uno sgherro codardo (feiger Bravo) e mercenario (gemieteter Bravo. Cfr. MEOC XXII, 319).

 

 

 

II.
Marx, l’ ‘esistenza operante’ e la lotta valorosa della Comune di Parigi

 

Ciò che importa maggiormente è comunque l’ “esistenza operante (arbeitendes Dasein)” della Comune nella direzione del superamento della vecchia società borghese (Bourgeoisgesellschaft): “Quale che sia il merito di ciascuna delle misure adottate dalla Comune, la sua misura più grande era la sua organizzazione, improvvisata col nemico straniero che premeva a una porta, e il nemico di classe dall’altra, dando prova con la propria vita della propria vitalità, confermando le sue tesi con la sua azione” (cfr. MEOC XXII, 304, 489).

La Comune non inseguì astratti ideali, ma cercò tenacemente e coraggiosamente di liberare gli elementi di una nuova società (neue Gesellschaft) dalla vecchia società borghese putrescente. La Pariser Kommune non pretendeva di poter agire secondo l’infallibilità (Unfehlbarkeit), come tutti i governi di vecchio stampo, ma operava nella totale trasparenza e pubblicità dei suoi atti e decreti, senza nascondere tutte le sue manchevolezze (Unvollkommenheiten); anche per questo essa aveva cominciato ad avviare una meravigliosa trasformazione (wunderbare Verwandlung. Cfr. MEOC XXII, 306) nella pratica del potere e nella concezione stessa del potere, inteso non come dominio, ma come servizio e poter-essere nella direzione di una vita degna e di una società più giusta e libera.

In generale, contro ogni tipo di centralizzazione dispotica e arbitraria, il vecchio sistema di potere centralistico avrebbe dovuto essere sostituito dall’ “autogoverno dei produttori” (Selbstregierung der Produzenten) e l’autorità avrebbe dovuto essere intesa come un servizio alla società, non come potere repressivo o dominio su di essa; al posto di una investitura gerarchica del potere, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni.

Intenzione della Comune era di restituire “al corpo sociale tutte le forze fino allora assorbite dallo Stato parassita che si nutre della società e ne ostacola il libero movimento. Con questo solo atto avrebbe dato inizio alla rigenerazione della Francia (die Wiedergeburt Frankreichs)” (cfr. MEOC XII, 297-298).

Il contrario della Comune è lo stato borghese repressivo, il quale non è che l’apparenza spettrale dello stato concepito nella sua separazione dalla società. L’intenzione di Marx è dunque, nel riferimento concreto all’esperienza della Comune, quella di esaltare il “libero movimento” della società, la sua liberazione dalle catene e dai privilegi economico-politici esistenti, la relativa autonomia della società, sempre repressa, fino ad allora, dallo Stato parassita e vampiro che si nutre di tutte le forze sociali.

Ciò è rimarchevole e particolarmente degno di nota in riferimento a quel che saranno nel XX secolo il totalitarismo comunista bolscevico, i regimi repressivi del Partito unico identificato con lo Stato, la vera e propria idolatria del Partito-Stato, che non ha nulla a che fare, evidentemente, con l’originaria proposta marxiana.

L’esistenza e la Costituzione della Comune implicano “la libertà municipale locale (die lokale Selbstregierung)”, l’esautoramento della monarchia (la quale in Europa è “il normale ingombro e l’indispensabile copertura del dominio di classe (Klassenherrschaft)”) e la fondazione delle istituzioni repubblicane su basi autenticamente democratiche (cfr. MEOC XXII, 299). La sua è una forma politica “espansiva”, come “governo della classe operaia” che pone fine al dominio borghese e all’asservimento sociale, operando in totale trasparenza e pubblicità.

Mirando all’ “espropriazione degli espropriatori” (quella Enteignung der Enteigner di cui Marx aveva già parlato in Das Kapital), la Comune intendeva realizzare l’emancipazione dei lavoratori, incentivare la produzione cooperativa secondo un piano comune (gemeinsamer Plan), porre fine alla moderna schiavitù del lavoro salariato e ridare un nuovo senso, una nuova dignità alla parola lavoro e ai lavoratori, considerando la terra e il capitale come “semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (cfr. MEOC XXII, 300).

Rappresentando tutti gli elementi sani della società francese, come governo operaio e popolare, “audace campione dell’emancipazione del lavoro (der kühne Vorkämpfer der Befreiung der Arbeit)”, la Comune era il “vero governo nazionale” e aveva un forte carattere internazionale, aveva “annesso alla Francia gli operai di tutto il mondo” (cfr. MEOC XXII, 303-304), aveva cominciato a realizzare l’internazionalismo proletario, la solidarietà internazionale dei lavoratori, nominando ad esempio ministro del lavoro il tedesco Léo Frankel; essa era pienamente consapevole di iniziare una nuova era storica, ma non le fu concesso tempo.

Sapendo che la causa dei lavoratori è dovunque la stessa e che il nemico è dovunque lo stesso, la Comune fu così anche una grande e genuina espressione della solidarietà e dell’internazionalismo proletario e popolare contro ogni miope nazionalismo, contro ogni tipo di imperialismo militaristico e guerrafondaio.

Marx coglie con grande lucidità questo aspetto – ripreso con forza qualche decennio dopo da Rosa Luxemburg – e sembra quasi ammonire/presagire circa le immani sventure e i macelli umani preparati dai nazionalismi e dall’imperialismo che si manifesteranno anche e soprattutto nelle guerre mondiali del ventesimo secolo: “Lo sciovinismo della borghesia è soltanto la suprema vanità che dà una copertura nazionale a tutte le sue pretese. E’ un mezzo, grazie agli eserciti permanenti, per perpetuare lotte internazionali, per sottomettere in ogni paese i produttori scagliandoli contro i loro fratelli di ogni altro paese, un mezzo per ostacolare la collaborazione internazionale delle classi operaie, prima condizione della loro emancipazione” (MEOC XXII, 502).

L’anti-imperialismo, l’anti-militarismo, l’anti-nazionalismo e l’internazionalismo della Comune furono dimostrati concretamente il 16 maggio 1871 dall’abbattimento, tramite un decreto del 12 aprile, della colonna Vendôme, simbolo del militarismo (das kolossale Symbol des Kriegsruhms) e dei bourgeois chauvins (borghesi sciovinisti) francesi, eretta a Parigi tra il 1806 e il 1810 per celebrare le vittorie militari di Napoleone; per la precisione, il décret del 12 aprile decideva la demolizione della colonne Vendôme in quanto “monumento di barbarie, simbolo di forza bruta e di falsa gloria, affermazione del militarismo, negazione del diritto internazionale” (cfr. MEOC XXII, 304, 475, 503, 772, n. 451).

Quanto la Comune aveva messo in moto era troppo, era insopportabile, ” ‘impossibile’ comunismo” (‘unmöglicher’ Kommunismus) agli occhi delle sanguisughe e dei vampiri del proletariato, della camarilla reazionaria e dei suoi pennivendoli, del vecchio mondo borghese e aristocratico attaccato ai propri immensi privilegi, ricchezze e poteri, vizi e lussi, roso dalla rabbia e dal desiderio di vendetta alla vista della bandiera rossa (die rote Fahne…das Symbol der Republik der Arbeit) sventolante sull’Hôtel de Ville; la Comune stava dimostrando infatti la realizzabilità del ” ‘possibile’ comunismo” (‘möglicher’ Kommunismus. Cfr. MEOC XXII, 300-301).

Nessuno si aspettava miracoli (Wunder) dalla Comune, che portò avanti la rivoluzione in condizioni di enormi difficoltà, né essa aveva “utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple“; piuttosto, “nella piena coscienza della sua missione storica” (im vollen Bewuβtsein ihrer geschichtlichen Sendung), essa agiva con tenacia ed “eroica risoluzione” (Heldenentschluβ), senza alcuna inutile violenza e senza ferocia, con “modestia, coscienza ed efficienza”, con “moderazione” (βigung), “umanità” (Menschlichkeit) e “magnanimità” (Hochherzigkeit), come seppe dimostrare ad esempio Flourens (cfr. MEOC XXII, 291, 300-301, 315, 534).

L’unico vero errore della Comune fu, a parere di Marx, quello di non marciare immediatamente su Versailles, all’inizio ancora indifesa, per arginare le manovre di Thiers e dei Rurali (i “Ruraux”), per impedire la riorganizzazione della controrivoluzione, degli sciacalli ” ‘Ordungsmänner’, die Reaktionäre von Paris” (cfr. MEOC XXII, 289).

 

III.
La Comune di Parigi gravida di futuro e messaggera d’una nuova società

Il tono di Marx è giustamente commosso e pieno di indignazione, tutto il suo scritto è lucidissimo e, insieme, pervaso da una forte tonalità etico-politica che anche noi facciamo nostra ancor oggi, anzi, più che mai oggi, in questi nostri tempi così disincantati, grigi e fiacchi dal punto di vista della solidarietà e della tensione etico-politica.

Con l’eccezione dei più incalliti reazionari e dei ricchi capitalisti, perfino la grande maggioranza della classe media (bottegai, commercianti, artigiani) riconobbe la capacità di gestione sociale della Comune, che seppe impostare una efficace politica di alleanze fra il proletariato e i settori intermedi della società parigina e, ad esempio, con la “Loi sur les échéances” (un decreto del 17 aprile 1871 pubblicato sul “Journal officiel de la République française”), “stabilì che tutti i debiti fossero rateizzati in tre anni senza interessi, alleviando così la situazione della piccola borghesia e svantaggiando i creditori, i grandi capitalisti” (cfr. MEOC XXII, 301, 771, n. 440).

Nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia Marx scrive a questo proposito: “Per la prima volta nella storia, la piccola e media borghesia si è apertamente stretta intorno alla Rivoluzione degli operai, e l’ha proclamata come il solo strumento della propria salvezza e di quella della Francia! Forma con loro la grande massa della Guardia nazionale, siede con loro nella Comune, e per loro media nell’Union républicaine! (…)

Di fronte ai disastri collezionati dalla Francia in questa guerra, alla sua crisi da collasso nazionale ed alla sua rovina finanziaria, questa classe media sente che non la classe corrotta di coloro che vogliono essere gli schiavisti della Francia, ma soltanto le virili aspirazioni ed il potere erculeo della classe operaia possono portarla in salvo!

Sente che solo la classe operaia può emanciparla dal dominio dei preti, convertire la scienza da strumento del dominio di classe in una forza popolare, trasformare gli stessi uomini di scienza da manutengoli del pregiudizio di classe, da parassiti dello Stato a caccia di posizioni, e da alleati del capitale, in liberi funzionari del pensiero! La scienza può interpretare la sua parte autentica solo nella Repubblica del Lavoro” (MEOC XXII, 496-497).

Praticando il realismo rivoluzionario, la Comune aveva cominciato a cercare alleanze pure nel mondo contadino, proclamando ad alta voce – in un appello del 10 aprile 1871 dei “lavoratori di Parigi” (“Les travailleurs de Paris”) “aux travailleurs des campagnes” – che la sua vittoria era “la sola speranza” anche dei contadini francesi (cfr. MEOC XXII, 302, 772, n. 445).

Con la sua politica saggia e lungimirante di alleanze già operante nelle prime settimane di vita della Comune attraverso le prime misure prese, era facile prevedere un effetto contagio e una larga diffusione anche nelle campagne e in tutto il paese del consenso popolare all’operato dei comunardi. Perciò la maggiore preoccupazione dei controrivoluzionari e della canaglia reazionaria capeggiata da Thiers fu quella di isolare la Parigi comunarda dal resto del paese, “in modo da bloccare la diffusione della peste bovina” (cfr. MEOC XXII, 303).

Nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia, Marx è giustamente durissimo nel sintetizzare il reale significato della reazione (Reaktion) di Versailles, della Paris des Verfalls (Parigi del declino): “Alla Parigi che combatte, che lavora, che pensa, elettrizzata dall’entusiasmo dell’iniziativa storica, piena di eroica realtà, la nuova società nel suo travaglio, si oppone a Versailles la vecchia società, un mondo di antiquate simulazioni e di menzogne accumulate. (…) Non c’è niente di reale in loro al di fuori della loro comune cospirazione contro la vita, il loro egoismo dettato dall’interesse di classe, il loro desiderio di nutrirsi della carcassa della società francese, i loro comuni interessi di schiavisti, il loro odio verso il presente, e la loro guerra contro Parigi” (MEOC XXII, 544).

Nelle ultime pagine di Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx si sofferma con grande commozione, indignazione e amarezza – che avvertiamo pienamente anche noi oggi nel riferire e riflettere su quanto allora avvenne – sugli accordi fra Thiers e Bismarck (nemici nella guerra tra Francia e Prussia nel 1870, ma alleati nello stroncare l’esperienza rivoluzionaria comunarda del 1871) per pianificare la repressione e la carneficina della Comune, ossia l’ “indicibile infamia del 1871. L’eroismo sino al sacrificio di sé (der selbstopfernde Heldenmut) con cui la popolazione di Parigi – uomini, donne e ragazzi – ha combattuto per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi riflette tanto la grandezza della loro causa (die Gröβe ihrer Sache), quanto le azioni infernali della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i vendicatori mercenari. Una civiltà gloriosa, invero, il cui grande problema è come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri che ha prodotto, dopo la fine della battaglia!” (MEOC XXII, 314).

In tutto il suo scritto Marx non risparmia disprezzo e sarcasmo, ampiamente giustificati, nei confronti di quella che chiama la feccia (Bande), la Reaktion, i vari Thiers, Favre, Desmarets, Vinoy, Galliffet, etc., ossia i principali infami esponenti degli sterminatori della Comune, coloro che hanno posto fine all’esperienza e alla vita della “serena Parigi lavoratrice” (das heitere Arbeiter-Paris der Kommune, cfr. MEOC XXII, 315), che aveva osato combattere ogni Klassenherrschaft (dominio di classe), ogni statalismo repressivo e dispotico, per tendere alla rigenerazione (Wiedergeburt) dell’intera Francia.

Questa Pariser Kommune, in mezzo ai misfatti e ai tradimenti delle classi dominanti (herrschende Klassen), fu agli occhi di queste ultime una vera Sphinx (sfinge) capace di tormentare l’angusto Bourgeoisverstand (intelletto borghese); essa fu die proletarische Revolution, l’avvio del governo dell’Arbeiterklasse, la cui opera fu interrotta tragicamente dalle “prodezze cannibalesche dei banditi di Versailles” (kannibalische Taten der Versailler Banditen. Cfr. MEOC XXII, 291, 293).

In Der Bürgerkrieg in Frankreich sferzante e costante è il sarcasmo di Marx sull’ipocrisia e sul conformismo borghesi, sulla Zivilisation und Gerechtigkeit der Bourgeoisordnung (civiltà e giustizia dell’ordine borghese), il cui vero volto – essendo una “civiltà nefasta” (schmäliche Zivilisation) fondata sull’ “asservimento del lavoro” (Knechtung der Arbeit) – si mostra, specialmente nel momento delle violenze e del massacro finali, sotto l’aspetto di “aperta barbarie e vendetta senza legge” (unverhüllte Wildheit und gesetzlose Rache. Cfr. MEOC XXII, 314-315).

Nella brutale repressione della Comune, di quella che fu un’autentica rivoluzione proletaria, la società borghese mostrò il suo volto più rivoltante e rivelatore, il suo spirito di vendetta e la sua ferocia di classe: “La sua guerra contro Parigi non è nient’altro che una pusillanime chouannerie sotto la protezione delle baionette prussiane. E’ una spregevole cospirazione per assassinare la Francia, per salvaguardare i privilegi, i monopoli ed il lusso delle classi degenerate, svigorite e putrefatte che l’hanno trascinata in un abisso dal quale può essere salvata solo dalla mano erculea di una vera rivoluzione sociale” (Primo abbozzo, in MEOC XXII, 449).

La conclusione di Der Bürgerkrieg in Frankreich è amara: “La cospirazione della classe dominante per abbattere la Rivoluzione mediante una guerra civile portata avanti sotto il patrocinio dell’invasore straniero (…) è culminata nella carneficina di Parigi. Bismarck gongola (schaut) di fronte alle rovine di Parigi, (…) di fronte ai cadaveri del proletariato di Parigi” (MEOC XXII, 318).

Da parte di Marx l’interpretazione degli avvenimenti parigini del 1871 è cruda e realistica, non lascia spazio a edulcorazioni e a facili consolazioni. La sconfitta della Comune è un fatto, la tragedia immensa, ma, nonostante quest’esito così indubbio e doloroso, la Comune – questo evento straordinario – è incontestabilmente esistita, anzi annuncia la rovina futura della Bourgeoisgesellschaft e il prossimo avvento d’una nuova società.

La sveglia è stata comunque data a tutti i popoli europei e al proletariato internazionale; l’ “eroico sacrificio di sé” (seine heroische Selbstopferung, cfr. MEOC XXII, 315) dei comunardi non è avvenuto invano, per chi sappia trarre un insegnamento da quanto accaduto: un nuovo mondo è possibile.

Si tratta ora, per Marx e per l’Internazionale, di proseguire la lotta; non vi sono per lui dubbi su chi alla fine vincerà, se “i pochi sfruttatori o l’immensa maggioranza lavoratrice” (cfr. MEOC, XXII, 319).

Il messaggio della Comune resta dunque un grande e permanente messaggio di solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli nella lotta per l’emancipazione sociale, per giungere – attraverso lunghe e difficili lotte e tutte le contraddizioni della storia – alla Befreiung, a una nuova società senza dominio di classe e a una “repubblica sociale” (come leggiamo nel primo abbozzo, cfr. MEOC XXII, 497).

Così Marx conclude – con parole che, mutatis mutandis, ancor oggi rimangono per noi valide e stimolanti – l’Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Der Bürgerkrieg in Frankreich: “La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia (Das Paris der Arbeiter, mit seiner Kommune, wird ewig gefeiert werden als der ruhmvolle Vorbote einer neuen Gesellschaft. Seine Märtyrer sind eingeschreint in dem groβen Herzen der Arbeiterklasse). I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti” (MEOC XXII, 320).

La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella “sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi” (MEOC XXII, 537).

Per quanto feroci, nessuna carneficina e nessuna repressione potranno cancellare il fatto incontestabile che la Comune parigina è stata (come leggiamo nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia) una “rivoluzionaria rivendicazione del futuro (…). La Comune di Parigi può cadere, ma la Rivoluzione sociale a cui ha dato inizio trionferà. Il suo luogo di nascita è ovunque” (MEOC XXII, 546-547).

La lotta di classe (Klassenkampf) sempre risorgerà dal suo terreno sorgivo che è la stessa società moderna. Come ha rilevato giustamente Lelio Basso, il saggio marxiano sulla Comune non ha soltanto “un valore di elogio funebre per la posterità”.[4]

Noi oggi non abbiamo e non possiamo avere alcuna certezza di “trionfo”, né possiamo rivendicare in alcun modo il futuro, ma indubbiamente la testimonianza luminosa della Comune, “gravida di un mondo nuovo” (cfr. il primo abbozzo di Der Bürgerkrieg in Frankreich, MEOC XXII, 481), non cessa ancora di risplendere per noi e di indicarci il difficile cammino della civiltà planetaria, pure nell’epoca per tanti aspetti tenebrosa e rischiosa dell’attuale cosiddetta “globalizzazione”.

Franco Toscani

Piacenza, autunno 2017


[1] Cfr. K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich (1850), trad. it. di P. Togliatti, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. X, a cura di A. Aiello, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 121.

[2]Nelle pagine seguenti faremo riferimento alla seguente edizione italiana in cui sono compresi (insieme ad altri scritti) sia Der Bürgerkrieg in Frankreich (La guerra civile in Francia, 1871, pp. 275-321) sia i due abbozzi preparatori sopra citati (pp. 433-518, 519-558): K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXII (d’ora in poi cit. con la sigla MEOC XXII), trad. it. di S. Bracaletti, V. Morfino, M. Vanzulli, F. Vidoni, a cura di M. Vanzulli, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli 2008. Per i vent’anni della Comune, nel 1991 Engels curò una rilevante edizione tedesca in cui, oltre a Der Bürgerkrieg in Frankreich, pubblicò i due abbozzi preparatori, assieme al primo e al secondo Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana del 1870. Si tenga presente pure una pregevole edizione italiana degli scritti marxiani sul tema: K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di P. Flores d’Arcais, Samonà e Savelli, Roma 1971.

[3] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 195. In questo libro di Lelio Basso le pagine 192-197 sono dedicate in modo esplicito e assai stimolante all’interpretazione marxiana della Comune.

[4] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 193.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-

 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Lidia Palumbo – Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.

Palumbo Lidia 01

«[Intendo] mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis» (p. 17).

«[…] il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis» (p. 158).

«[…] laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro – il modello dell’atto mimetico – è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche – il mondo empirico come il dialogo filosofico – sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica» (p. 279).

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

«[…] ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento» (p. 199).

 

«[…] lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore – vive come in un sogno – e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica» (pp. 208-209).

Lidia Palumbo, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli 2008.

 

Tra i libri di Lidia Palumbo

Il non essere e l’apparenza: sul Sofista di Platone, Loffredo, 1994.


 

Eros, Phobos, Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo 2001.


 

Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo 2008.

***
*

Alessandro Stavru*

* Es profesor de Filosofía antigua en la Universitá degli Studi di Napoli “L’Oriéntale”; se interesa por la estética antigua y moderna, así como por las relaciones entre mito y filosofía. 

Tra i meriti più significativi del recente libro di Lidia Palumbo vi è sicuramente quello di proporre un’interpretazione unitaria della mimesis in Platone. In tal senso, esso si inserisce a pieno diritto in un dibattito scaturito in seguito alla recente pubblicazione di alcune cospicue monografie. Nei primi mesi del 2009 è infatti apparso il penetrante studio di Jean-Francois Pradeau, seguito a breve distanza dalla traduzione italiana del testo di Stephen Halliwell (ed. inglese del 2002), considerato ormai unanimemente un “classico” sull’argomento.1

Sin dalle pagine introduttive l’autrice dichiara che lo scopo della sua indagine è di

mostrare come solo una comprensione unitaria del fenomeno mimetico  – una comprensione cioè che riconosce nella mimesis, in tutti i casi di mimesis, uno stesso fenomeno che si ripete in contesti diversi – possa essere una sua autentica comprensione, e possa quindi cogliere l’importanza che la mimesis assume nella filosofia platonica, una filosofia che interpreta tutta intera la realtà sensibile e tutta intera la conoscenza di essa come casi di mimesis.2

Di qui la proposta, formulata esplicitamente dall’autrice, di tradurre unitariamente il termine mimesis con “rappresentazione”. La monografia sviluppa con coerenza questa tesi, arrivando ad enucleare un denominatore comune alle molteplici accezioni di mimesis presenti nel corpus Platonicum. Ciò permette da un lato di far luce sulla concezione originaria di tale nozione, dall’altro di mostrare come le sue pur evidenti sfaccettature semantiche si fondino su un comune retroterra speculativo. È dunque soltanto a partire dall’idea di rappresentazione che è possibile cogliere l’intrinseca polivalenza semantica della mimesis e, a partire da essa, mettere in luce i limiti insiti nella sua riduzione a semplice “imitazione”.

La studiosa si propone di fare i conti soprattutto con quest’ultimo modo di intendere la mimesis, particolarmente radicato tra gli studiosi moderni.3 Infatti, mentre l’imitazione definisce solo un aspetto della mimesis, la rappresentazione ricomprende al proprio interno l’imitazione senza esaurirsi in essa. Ciò risulta in maniera particolarmente evidente non appena si riporta la mimesis al suo contesto originario, quello della cultura poetico-teatrale. Qui essa vuol dire essenzialmente rappresentazione nel senso di uno “spettacolo” che implica da un lato la dimensione produttiva della “messa in scena”, dall’altro la dimensione ermeneutico-interpretativa di una fruizione che è al tempo stesso contemplativa e partecipativa (tale cioè da determinare un’identificazione dell’uditore con la rappresentazione stessa):

La mimesis non è dunque l’imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e ne è coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta ridurre l’intera sfera della mimesis ad un’imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato rappresentato. Le opere d’arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha creato.4

Tale nesso tra la rappresentazione e l’identificazione dello spettatore viene esaminato da Lidia Palumbo nel secondo capitolo,5 il quale è dedicato ad un approfondimento del contesto in cui la mimesis platonica matura e prende forma. È infatti soltanto a partire dalla cultura teatrale dell’Atene del quinto e del quarto secolo che tale nozione ottiene un fondamentale chiarimento:

il teatro assume agli occhi di Platone un significato importantissimo, che è quello di mostrare a chiare lettere il modo di funzionare di ogni realtà mimetica: ogni realtà mimetica, infatti, per Platone, è quella che è perché rimanda a qualcosa che la trascende, e rispetto alla quale essa è una rappresentazione, una riproduzione, una visualizzazione. Il teatro, con il suo straordinario potere di ingannare, di simulare la presenza di un assente, di rappresentarla, di visualizzarla, si pone come l’osservatorio privilegiato dal quale è possibile guardare all’intero mondo empirico come ad una mimesis.6

La similitudine del procedimento mimetico con quello teatrale ha dunque una giustificazione che è in primo luogo di carattere metafisico: entrambi sono una presentificazione di ciò che è costitutivamente oltre quel che viene rappresentato.

Ancor più importante è però un ulteriore parallelismo con il teatro. Come nella rappresentazione scenica la storia risale ad un narratore che non appare al pubblico, così la mimesis si riferisce a qualcosa che non si mostra, ma che viene rappresentato sulla “scena del mondo”. Qualcosa che rimane celato dietro la sua immagine mimetica, ma che diventa visibile grazie a quella medesima immagine: “nel preciso senso di mimeisthai, rappresentare significa simulare l’effettiva presenza di un assente”.7 Questa relazione tra il visibile e l’invisibile caratterizza in particolar modo la mimesis che connette le idee trascendenti alla realtà empirica:

laddove c’è mimesis c’è qualcos’altro di cui la mimesis è mimesis. Questo qualcos’altro —il modello dell’atto mimetico— è assolutamente irriducibile al risultato dell’atto mimetico stesso: il mondo delle idee è altro, irriducibile, ulteriore, assolutamente ed incommensurabilmente migliore del mondo empirico che è di esso una mimesis. Il mondo delle idee è qualcosa di altro, di ulteriore e di migliore, anche rispetto al pensiero filosofico, che a quel mondo rivolge il suo sguardo e che nella scrittura dialogica riflette una mimesis di questo rivolgimento e di questo sguardo. Ma le forme mimetiche —il mondo empirico come il dialogo filosofico— sono tutto ciò di cui dispongono gli uomini per vedere, al di là della rappresentazione, l’invisibilità dei modelli di cui tali forme mimetiche sono rappresentazioni. Ogni forma di mimesis, il mondo naturale come il dialogo platonico, rimanda a qualcosa di altro e di migliore, di cui è indispensabile rappresentazione. Questo rimando e questa ulteriorità, presenti nella nozione stessa di mimesis, sono ciò che fanno di essa la nozione chiave della filosofia platonica.8

Il fondamento della mimesis non è quindi soltanto estetico, ma anche ontologico ed ermeneutico: l’intera realtà empirica è rappresentazione di un originale destinato a rimanere altrimenti inaccessibile. Si tratta di una rappresentazione intrinsecamente paradossale, poiché implica un farsi visibile di ciò che è costitutivamente invisibile. Infatti,

ciò che consente questo “calarsi” nel tempo e nello spazio, questa moltiplicazione, questa visibilità è precisamente la rappresentazione, la mimesis. Essa però – ed è questo il punto cruciale – comporta una “trasformazione”: calandosi nel tempo e nello spazio, assumendo molteplicità e mobilità, divenendo visibile, l’idea perde ciò che ha di più caratteristico, e cioè la sua essenzialità immutabile, la sua dimensione unitaria ed atemporale. In questo senso ogni rappresentazione, proprio in quanto rappresentazione, è una sorta di tradimento.9

E tuttavia il teatro greco ci insegna che la rappresentazione mimetica, lungi dall’essere solo inganno, possiede una forza persuasiva senza eguali:

lo spettacolo, con il suo darsi scenico, con la potenza della sua mimesis, con l’evidenza della sua visualizzazione, con la straordinaria persuasività della sua parola poetica fagocita tutte le altre possibilità del pensiero dello spettatore: l’uomo diventa soltanto spettatore — vive come in un sogno — e la sua maniera di pensare e di vivere sarà modellata dal poeta tragico, che è nei fatti l’unico educatore dell’Atene teatrocratica.10

Di qui l’affinità — prima ancora che la differenza — tra la mimesi cosiddetta “cattiva”, quella dei poeti e dei tragediografi da cui Platone prende polemicamente le distanze nella Repubblica (libri II, III e X) e la mimesi cosiddetta “positiva”, caratteristica precipua dell’insegnamento filosofico nelle Leggi:

Noi stessi siamo autori di una tragedia che, per quanto possibile, è la più bella e la migliore; infatti tutta la nostra costituzione è stata ordinata come mimesis della più bella e della migliore vita, che noi affermiamo essere davvero la tragedia più vera. Poeti siete voi, e poeti delle stesse cose siamo anche noi, vostri rivali nell’arte e avversari nel dramma più bello, che il solo vero nomos per natura realizza (817B).11

Il teatro è, insieme alla poesia, la forma più potente di persuasione educativa di cui disponga l’Atene di età classica. Ed è proprio a questa capacità persuasiva che Platone attinge nella sua scrittura filosofica, la quale viene così a distinguersi nettamente dalla asettica trattatistica peri physeos in voga nel mondo presocratico.

 

Note

1 S. Halliwell, L’Estetica della Mimesis: testi antichi e problemi moderni, tr. it. di D. Guastini e L. Maimone Ansaldo Patti, a cura di G. Lombardo, Palermo, Aesthetica, 2009 (ed. orig. The Aesthetics of Mimesis. Ancient Texts and Modern Problems, Princeton NJ-Oxford, Princeton University Press, 2002);  J.-F. Pradeau, Platon, l’imitation de la philosophie, Paris, Aubier, 2009.

2 L. Palumbo, Mimesis, cit., p. 17.

3 In epoca moderna fu Johann Joachim Winckelmann a individuare nella nozione di Nachahmung la quintessenza della mimesis degli antichi. In un piccolo volumetto del 1755, destinato a diventare nel giro di pochi anni il manifesto del Klassizismus, egli si soffermò sulle implicazioni estetico-artistiche alla base di tale nozione. Le sue riflessioni influenzarono un’intera generazione di celebri poeti e scrittori (per citare solo i più illustri: Johann Gottfried Herder, Gotthold Ephraim Lessing, Moses Mendelssohn, Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe).

4 L. Palumbo, Mimesis, cit., pp. 235-236, n. 249.

5 Ivi, pp. 154-236.

6 Ivi, pp. 158.

7 Ivi, pp. 155.

8 Ivi, pp. 279.

9 Ivi, pp. 199.

8 Ivi, pp. 208-209.

11 Trad. F. Ferrari e S. Poli, con modifiche.


 

Verba manent. Su Platone e il linguaggio, Iniziative Editoriali, 2014.


 

Trentadue ore di filosofia, Iniziative Editoriali, 2015.


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Benedetta Giovanola – È la «ricchezza antropologica», e non la relazione in sé, a rappresentare il criterio normativo alla cui luce interpretare anche la relazionalità. Il concetto di «ricchezza antropologica» connota ciascuno come essere umano

Benedetta Giovanola 01

[…] la riflessione di Sen, mettendo in luce il carattere al contempo dinamico e multidimensionale dell’identità personale e aprendo la strada ad una più articolata interpretazione della nozione stessa di relazionalità a livello non solo interpersonale ma anche intrapersonale, ci consente di innestare una feconda dialettica tra questi due poli, In virtù di questo rapporto dialettico, le relazioni interpersonali appaiono di fondamentale importanza anche in ordine all’incremento della relazionalità intrapersonale e, quindi, all’“arricchimento” dell’identità personale. Questo “arricchimento” tuttavia non consiste nell’annullamento delle differenze individuali, ma sta a significare che la relazione interpersonale può cambiare l’identità personale di ogni singolo essere umano in un processo dinamico che non può mai dirsi definitivamente concluso. È la ricchezza antropologica però, e non la relazione in sé, a rappresentare il criterio normativo alla cui luce interpretare anche la relazionalità e comprendere adeguatamente il significato di quella “fioritura umana” (human flourishing) alla quale così spesso si richiamano gli esponenti del capability approach. Ed è proprio questo concetto di ricchezza antropologica, che connota ciascuno come essere umano, a rendere evidente il superamento, ad opera di Sen, di un approccio economico autoreferenziale e l’intreccio tra dimensione economica, etica ed antropologica.

 

Human flourishing è il termine con cui alcuni studiosi, tra i quali J.M. Cooper, hanno tradotto la nozione aristotelica di eudaimonia ed è anche l’espressione utilizzata dai principali teorici del CA (capability approach) per indicare una realizzazione dell’essere umano che coincide con il pieno sviluppo delle capacità umane (cfr. M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca [1986], trad. it. il Mulino, Bologna1996, nuova edizione 2004). Per una maggiore articolazione del concetto di ricchezza antropologica nel capability approach, anche in riferimento alla nozione aristotelica di eudaimonia, cfr. B. Giovanola, Personhood and Human Richnes: Good and Well-Bong in the Capability Approach and Beyond, «Review of Social Economy», 63 (2005), 2, pp. 249-267. Qui si mette anche in luce l’ascendenza marxiana del concetto di “ricchezza antropologica” che sottende il capability approach e se ne mostra la valenza, al contempo, interpersonale e intrapersonale. Per una trattazione più articolala della “ricchezza antropologica” in K. Marx cfr. B. Giovanola, Critica dell’uomo unilaterale. La ricchezza antropologica in K. Marx e F. Nietzsche, EUM, Macerata 2007.

 

Benedetta Giovanola, La “svolta antropologica” tra etica ed economia: identità e relazionalità a partire da Amartya Sen, in Antonio Da Re (a cura di), Etica e forme di vita, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 229.


Tra i libri di Benedetta Giovanola

Nietzsche e l’aurora della misura, Carocci 2002


 

Critica dell’uomo unilaterale. La ricchezza antropologica in K. Marx e F. Nietzsche, EUM, 2007

Nei suoi Manoscritti Economico-Filosofici Marx contrappone la ricchezza umana alla ricchezza dell’economia politica, materiale e quantitativa, e delinea la prospettiva di un «uomo totale» che sappia dare espressione alla propria ricchezza interiore. Nelle sue opere Nietzsche lamenta l’impoverimento dell’essere umano e auspica, di contro, un sempre maggiore “arricchimento” antropologico che renda possibile lo sviluppo dell’«uomo intero» contro il proliferare degli «storpi alla rovescia». Muovendo da tali premesse, l’autrice sviluppa la prospettiva etico-antropologica che scaturisce dalla riflessione di questi due grandi pensatori della modernità e, attraverso il loro confronto, procede ad una operazione teoretica inedita. Attraverso la lettura del volume, si scoprirà che Marx e Nietzsche sono più vicini di quanto si pensi. Da un lato il modello antropologico emergente dalla loro riflessione, al di là delle differenze, si caratterizza per una costitutiva complessità, multidimensionalità e pienezza, contro ogni alienazione e frammentarietà; dall’altro lato l’auto-realizzazione e la promozione di una forma umana “ricca” si radicano in un’etica delle facoltà e della formazione di sé, capace di esprimere un progetto antropologico opposto al potenziamento unilaterale e al proliferare di uomini-macchina espropriati della loro personalità.Contro la pervasività di logiche funzionalistiche e tecnicistiche la riflessione di Marx e quella Nietzsche si mostrano allora di ineguagliabile attualità e fecondità soprattutto in virtù del comune sforzo di ridefinizione della ricchezza in senso eminentemente antropologico e di restituzione, all’umano, della molteplicità delle sue dimensioni.


 

Oltre l’homo oeconomicus. Lineamenti di etica economica, Orthotes, 2012

Molti economisti ritengono che l’economia sia una “zona franca” dal punto di vista etico, oppure che essa, pur sollevando questioni eticamente rilevanti, dovrebbe tenerle al di fuori del proprio ambito di indagine. Il volume intende confutare questa posizione, argomentando la natura comune di etica ed economia e mostrando non solo la fecondità, ma anche la necessità del loro rapporto. A tal fine viene intrapresa una serrata critica dei concetti portanti della teoria economica mainstream e del modello antropologico alla sua base, quello dell’homo oeconomicus, del quale viene mostrato il forte riduzionismo. Per andare oltre l’homo oeconomicus, l’autrice, sviluppando le riflessioni di Amartya Sen e Martha Nussbaum e articolando il sostrato etico-antropologico dell’approccio delle capacità, propone un inedito modello di agente economico, articolato intorno alla nozione di ricchezza antropologica e volto a restituire all’economia il ruolo che le è più proprio, quello di mezzo per la promozione del bene dell’individuo e della collettività.


 

Giustizia sociale. Eguaglianza e rispetto nelle società diseguali, Il Mulino, 2018

Che cos’è la giustizia sociale? Quali sono i suoi scopi? Un’equa distribuzione? La promozione dell’eguaglianza e del riconoscimento reciproco? Le risposte a tali interrogativi cruciali si organizzano oggi intorno a due filoni principali. Se per l’approccio socio-relazionale è centrale l’eguaglianza intesa nel senso delle relazioni tra persone, l’egualitarismo della sorte sviluppa una concezione di giustizia sociale come giustizia distributiva, integrando la preoccupazione per l’eguaglianza con la considerazione della responsabilità individuale. Attraverso un’attenta analisi dei due approcci, l’autrice approda a una nuova prospettiva basata sul rispetto, una nozione che – correttamente intesa – può davvero promuovere la giustizia, dandole forma nelle concrete pratiche sociali e istituzionali.


 

José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

José Saramago 05a

 

Saramago J

 

Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni in cui si cominciano ad accarezzare i sogni con le dita e le illusioni diventano speranza. Ho gli anni in cui l’amore, a volte, è una folle vampata, ansiosa di consumarsi nel fuoco di una passione attesa. E altre volte, è un angolo di pace, come un tramonto sulla spiaggia.

Quanti anni ho, io? Non ho bisogno di segnarli con un numero, perché i miei desideri avverati, le lacrime versate lungo il cammino al vedere le mie illusioni infrante valgono molto più di questo. Che importa se compio venti, quaranta o sessant’anni! Quel che importa è l’età che sento. Ho gli anni che mi servono per vivere libero e senza paure.

Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento.

José Saramago, Le poesie.

Le poesie

Le poesie


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Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».

Ernst Bloch 07

«Vita brevis, ars longa, i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata.

[…] Per i così favoriti nasce un’ars longa, adornata dal nome della loro vita brevis […]. Heinrich Mann parlava degli onori che in modo estremamente lusinghiero allontanano tale vecchiaia dalla gioventù, per cui vi si deve ascendere come a un trono. In modo simile Gottfried Keller guardava al settantenne F.Th. Vischer e ancor più a personaggi maggiori, e di loro scriveva che stavano nella luce crepuscolare della vita sotto la travatura delle loro opere con sentimento indubbiamente sicuro.

Schiller aveva questo senso di salvezza addirittura all’inizio della malattia: “Difficilmente avrò tempo di compiere in me una grande e generale rivoluzione dello spirito, ma farò quel che potrò; e se alla fine l’edificio crolla, avrò almeno salvato dall’incendio quel che valeva la pena di conservare” (Lettera a Goethe, 31 agosto 1794).

Goethe, essendoglisi trasformata tutta la vita a poco a poco in una specie di entità statale sovrapersonale, immaginò non soltanto un proseguimento cosmico del suo essere, ma anche esattamente un’immortalità nell’opera storicamente divenuta e storicamente sopravvivente. Ciò neanche quattro mesi prima della sua morte in una lettera a Wilhelm von Humboldt, usando se stesso come categoria storicamente sperimentata e incasellata: “Se mi è lecito esprimermi secondo un’antica confidenza, confesso volentieri che nei miei anni avanzati tutto mi diventa sempre più storico; se qualcosa avviene in tempi passati, in terre lontane oppure a me vicinissime nello spazio e in questo momento, è perfettamente lo stesso, anzi io appaio a me stesso sempre più in modo storico; e poiché la mia buona figlia la sera mi legge Plutarco, mi trovo spesso ridicolo se dovessi raccontare la mia biografia in questo modo e in questo senso”.

Tale oggettivazione ha di fatto allontanato la propria esistenza dalla caducità; anche la vita appare allora come opera e l’opera appare come scampo, anzi come assenza stampata di situazione di una vita divenuta essenziale».

 

Ernst Bloch, Il principio speranza, vol. III, Capitolo 52: Sé e lampada funebre ovvero immagini di speranza contro la forza della più potente non-utopia: la morte, Garzanti, Milano 1994, p. 1343.


 
Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Martin Heidegger- Enrico Berti 02 copia
Enrico Berti

Scritti su Heidegger

ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, , Euro 15
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Salvatore Bravo

L’uomo filosofia.

La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

La filosofia umanizza

L’epoca di privazione

Storia e storiografia espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico

La mediocrità dell’utile

L’essente che pensa

Il chiarore della filosofia

Filosofia e responsabilità storica

La filosofia umanizza
La definizione della filosofia è sempre stata ardua. Molti pensatori hanno elaborato il concetto di filosofia concordi sul punto che essa è il sapere che ha per oggetto la verità, la quale non è solo l’oggetto della filosofia, ma specialmente il soggetto che la muove, che la dispone alla ricerca.
Senza verità non vi è filosofia, non vi è umanità, ma solo il regno dell’esattezza consegnato all’immediatezza dell’accidente: l’essere umano diviene, così, il servo delle circostanze, è nel flusso della storia, non la pensa, non le dà il fine, semplicemente si adatta disperatamente a ciò che la contingenza gli offre.
Senza destino e senza storia l’essere umano diviene simile ad un automa senza identità. Macchinalmente obbedisce a ciò che gli è estraneo: è lo straniero a se stesso ed alla storia. Si nutre di parole alienate che lo plasmano, senza dargli identità, senza donargli lo spessore del pensiero: è essente tra gli essenti.
La filosofia umanizza, in quanto strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, dalla tempesta dei flutti, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia, al suo porre la storia senza titanismo onnipotente, perché il porre la storia dev’essere mediato dalla consapevolezza che il presente ed il futuro sono categorie e segmenti inseparabili dal passato.

L’epoca di privazione
Pensare filosoficamente il presente significa ricongiungere ciò che appare diviso; la divisione senza dialettica è tipica dell’epoca di privazione in cui versiamo, nella quale la filosofia è respinta in nome dell’utile immediato, del calcolo, dell’esattezza senza “spirito”, senza “Geist”, al suo posto vi è solo il plusvalore calcolato sulla e nella carne viva dei popoli.
Heidegger definisce l’uomo «filosofia» come l’essere ripensante, ovvero l’essere umano è nella filosofia, a cui appartiene per destino. Filosofare è ripensare l’origine; il fondamento si svela e rivela pensando il presente, ricongiungendolo al fondamento, attraverso il cui chiarore, intravedere il futuro. Senza tale “prassi” non vi è che la cecità del presente, l’incardinamento violento in un eterno presente fuori del tempo e della storia degli uomini e delle donne:

«L’uomo “filosofia” in quanto è l’uomo ri-pensante. Muovendosi in questo tipo di pensare, l’uomo soggiorna nella contrada di ciò che per tale pensare rimane il pensando. Questo pensando e sempre anche, in qualche modo, già pensato è il luogo del soggiorno per l’uomo nella misura in cui filosofia. Questo luogo di soggiorno è la filosofia». [1]

 

Storia e storiografia espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico
L’essere umano fa filosofia nella storia. Pensare la storia significa pensare il presente, ma per pensare il presente è necessario ritrovare il fondamento, il telos nascosto che – con il filo d’Arianna della ragione olistica – consente di uscire dalla caverna degli dèi falsi e bugiardi e dei miti della tecnica. Si oscurano gli orizzonti per segmentare la storia in periodi senza verità, in cui l’oggetto della ricerca sono i documenti letti con la sola ambizione di comprenderne i fatti empirici rimuovendo ogni possibilità che tra i fatti empirici possa esserci e sbiluccicare la luce della verità.
La storiografia diventa espressione della tecnica, dell’idiotismo specialistico che astrae una parte dal tutto, per accumulare un numero infinito di informazioni prive della loro verità. La storiografia diventa parte del computare, del calcolare, della quantità che, sovrana, inibisce ogni pensare e poetare profondo. Si resta in superficie, si scambia il fenomeno e la sua quantificazione per verità, anzi quest’ultima è associata al calcolo, l’indistinzione, l’omologazione delle parole corrisponde al regno dell’inautentico della sola tecnica senza verità:

«Nella misura in cui l’uomo storico ri-pensa all’avvenire a partire dalla provenienza e al provenire a partire dall’avvento, e dunque ri-pensando pensa il presente, egli pensa ciò che è. L’uomo storico pensa. Ecco perché nella storia ci sono epoche povere di pensiero e prive di pensiero. L’uomo storico pensa. Filosofa. L’uomo storico sta nella filosofia. C’è invece senz’altro bisogno di una conduzione affinché l’uomo storico, nel luogo in cui già soggiorna goffamente e facilmente dimenticandolo, acquisti dimestichezza e solo così impari l’autentico abitare. L’uomo storico pensa storicamente, cioè in base a ciò che è destinalmente co-mandato nel mandato mandantesi –a-lui. La storiografia pensa ammesso che sia in generale lecito chiamare così il suo rappresentare astoricamente. Essa trascura necessariamente ciò che ha natura destinale, e parla solo accidentalmente e spensieratamente di destino».[2]

 

La mediocrità dell’utile
Il regno dell’assoluta peccaminosità come l’ebbe a definire Fichte, è l’epoca dell’assoluta mediocrità, dove l’utile è l’unico paradigma con cui si misurano gli essenti ed i concetti. Il regno dell’utile è il luogo dell’ostentazione della forza, della ricchezza, del narcisismo regressivo. Tutto è in mostra, tutto è in vendita, ma dalle vetrine luccicanti della mediocrità è rimosso l’essenziale: l’oblio è la caratteristica del regno dell’utile e della tecnica. La verità che non solo è occultata, ma ad essa si associano crimini e violenze, è criminalizzata, in modo da orientare l’opinione pubblica a rifiutarne il solo concetto, in tal maniera “la superficie” può cancellare ogni differenza, continuità e senso:

«L’intelligenza del mero computo dell’utile e del successo è l’intelligenza della mediocrità che resta mediocre anche quando agisce su scala politico – economica mondiale. Anche in questo caso è già all’opera un oblio che non viene controbilanciato dall’ostentazione di ricchezza, di moralismo e umanitarismo democratico». [3]

L’essente che pensa
L’essere umano, malgrado le manipolazioni, resta l’unico essere che per natura può e deve pensare, perché senza il pensiero rammemorante (Andenken) è solo essente senza storia:

«L’uomo è, fra tutti gli essenti, l’essente che pensa. L’uomo è l’essente pensante».[4]

Non è un caso che nella Filosofia dello Spirito assoluto Hegel ponga l’arte, la religione e la filosofia tra le espressioni eterne dell’umano in cui la verità, e non l’esattezza, è dinamicamente e storicamente conservata. La filosofia in quanto verità è concetto, e dunque pensiero della verità che va ripensata nella storia.

 

Il chiarore della filosofia
La filosofia è degli esseri umani, per Heidegger è la condizione perché vi sia umanità. La filosofia è intorno all’essere umano, è l’aureola di luce pensante che impedisce la regressione ad uno stadio ferino, al confondersi dell’umano con il non umano, è l’immanenza viva, il salto metafisico verso l’universale a cui l’umanità tende e che la connota, è il chiarore senza il quale, non vi sarebbe storia, ma solo la notte della contingenza. La filosofia è il chiarore che sta tra il cielo e la terra, poiché svela, nel suo apparire incompleto e nascosto, ciò che unisce, trascende la frammentazione della rappresentazione empirica ed immediata. La filosofia alza il velo di Maya della semplice giustapposizione

«La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà». [5]:

La filosofia è il pensatore che pensa il fondamento (Grund), essa non è materiale astratto da cui astrarre ed ordinare informazioni: la filosofia è il pensatore che pensa la verità dell’essente. La filosofia è nella natura dell’essere umano, e malgrado gli apparati di potere possano limitarne la vita, dichiararne la morte presunta, è eterna, o meglio sarà viva fin quando gli esseri umani saranno parte del mondo della vita:

«Nel pensiero fondamentale di un pensatore è pensato ciò che dà il “fondamento” per quello che ogni pensatore pensa. Il pensatore pensa ciò che è. Pensa l’essente. Il pensatore pensa l’essente in quest’unica prospettiva: che l’essente è e che cosa l’esente è».[6]

Filosofia e responsabilità storica
Il filosofare heideggeriano si sofferma sul “pensiero abissale”. Non si può non evidenziare che il valore della verità è, anche, nella prassi, nella trasformazione di sé e della storia. Senza la prassi la verità è depotenziata del suo contenuto trasformativo e rivoluzionario. La prassi è la responsabilità dell’essere umano nella verità.
Filosofare è dunque responsabilità, capacità di discernere, argomentando, l’opinione dalla verità. Il soggetto umano pone la storia per viverla attraverso il processo dialettico alla cui responsabilità è inscindibilmente legato. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità rischia di disporre l’essere umano alla passività, all’attesa del destino veritativo che si deve rivelare senza “Streben”, senza la fatica del concetto (Begriff) che esige l’elaborazione trasformativa e corale nella storia degli uomini e delle donne. Non si può attendere la verità. Occorre mettersi in ascolto. La verità filosofica invoca la partecipazione responsabile. L’attività pensante è l’atto politico a cui è chiamata e vocata l’umanità per natura. La filosofia è catabasi (discesa) nella vita di tutti, disposizione socratica allo scambio dialogico. Altrimenti la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo

 

[1] M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018, pag. 17.

[2] Ibidem, pag. 155.

[3] Ibidem, pag. 93.

[4] Ibidem, pag. 18.

[5] Ibidem, pag. 45.

[6] Ibidem, pag. 109.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

G. Lukacs- C. Preve e intellettuali
Salvatore Bravo

Intellettuali, parola e potere

Ruolo degli intellettuali ed il suo destino
Il ruolo degli intellettuali ed il suo destino sono indissolubilmente legati alla democrazia. Nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo e delle conseguenti mercificazioni.

L’attività perenne del capitalismo assoluto favorisce la passività
La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita. I popoli senza lingua e linguaggi, indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva. Ovvero, apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne – senza spazi temporali e fisici –, per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo, favorisce la passività: si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione senza sosta del medesimo, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni.

Il nichilismo dell’uomo consumante
L’intellettuale è interno a questo gioco di forze, “è giocato nella parola”, e pertanto è defenestrato dal sociale: il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata, resa nulla, flatus vocis. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate – divenendo la normalità dello stato presente – hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima: la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. L’impero, per dominare, non usa solo i “bombardamenti etici”, ma mira direttamente nella carne viva, lascia in vita chi è utile al mercato rendendolo muto, operando la sostituzione dell’attività pensante con parole omologate i cui significati sono segnati dal nichilismo dell’uomo consumante.

La decadenza dell’intellettuale
La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed i intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltarori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Parole senza significato e senza prassi trionfano, non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Al fascismo è seguito il post fascismo del capitalismo assoluto, dell’imperialismo in nome della democrazia, dell’inganno delle parole che intrappolano i popoli all’interno della macchina-immagine della propaganda.
Lukács non ha solo colto la decadenza degli intellettuali e dei popoli, ma specialmente con lo sguardo olistico della filosofia ha prefigurato il presente. L’imperialismo muove i popoli con le sue parole suadenti, facendo appello in modo strumentale alle grandi parole-valori per la nuova conquista imperiale del mondo. I popoli non sono che pedine nella rivoluzione passiva dei popoli, i quali non mediano la realtà con la razionalità della parola, ma vivono lo stato onirico dell’irreale costruito attraverso automatismi lessicali e sintattici. La servitù dei popoli ha trovato nell’uso orchestrato delle parole le sue catene: catene invisibili, in quanto l’appello demagogico ai popoli non trova negli intellettuali limite e traduzione, ma solo conferma e favorisce con l’imperialismo, la violenza capillare e fatale:

«D’altra parte gli aspetti generali dell’imperialismo restano immutati: anche oggi le sue mire sono in contrasto con gli interessi delle sue stesse masse e con gl’interessi dei popoli che difendono la loro libertà. E questo contrasto, la necessità, che si pone per gl’imperialisti aggressivi, di opprimere i popoli all’interno e all’esterno, e in pari tempo di mobilitare demagogicamente le proprie masse popolari per la nuova ripartizione del mondo, per la nuova guerra mondiale, dimostra che la politica interna ed estera fascista, i cui contorni oggi appaiono già chiari, deve seguire un corso obbligato».[1]

 

In nome del popolo sovrano
In nome della democrazia ogni crimine è possibile e legittimato. Ciò è reso possibile dalla trasformazione della parola democrazia da concetto a semplice espressione vocale. Si esercita l’oppressione in nome dei popoli che hanno il dovere di diffondere la democrazia a suon di aggressioni e nel frastuono dei bombardamenti. I popoli che rifiutano l’esperienza democratica sono tacciati di essere una minaccia per il mondo democratico e dunque si procede all’annientamento con il consenso dei popoli democratici:

«Le tendenze fasciste che oggi crescono negli USA lavorano col metodo di un’ipocrisia nichilistica: distruggono l’autodeterminazione interna ed esterna dei popoli in nome della democrazia; esercitano l’oppressione e lo sfruttamento delle masse in nome dell’umanità e della civiltà».[2]

Lukács cerca di rispondere al terribile interrogativo sulla decadenza degli intellettuali, constata che – ormai organici alla struttura economica – usano il linguaggio del potere, sono la cinghia di trasmissione delle decisioni del potere. Il ruolo dell’intellettuale è così ribaltato: da emancipatore, da liberatore degli esseri umani è diventato complice della chiusura degli esseri umani nei confini angusti del fatalismo della caverna.

Feticizzazione della storia
Lukács, nella sua analisi, ci dona anche elementi per ridare agli intellettuali la consapevolezza del loro ruolo. Gli intellettuali, per tornare ad essere parte della storia e contribuire all’emancipazione, devono trascendere la feticizzazione, devono usare la metodologia marxista che permette di ricostruire i fenomeni storici nella loro genealogia e complessità. In tal modo si supera la feticizzazione che tende a rappresentare fenomeni storici, decisioni e previsioni in modo astratto, avulsi dal contesto con l’effetto di naturalizzare il presente e congelare il futuro.

Senza strumenti interpretativi, il futuro non è che la ripetizione del presente. Gli intellettuali devono riportare il futuro nel presente svelando la verità delle decisioni politiche, mostrando il carattere non necessario delle scelte e riportare la dialettica dove regna il fatalismo feticistico. Affinché ciò possa venire le parole devono ritrovare il loro senso nelle domande che devono riportare la concretezza dove vigeva l’astratto. Le decisioni e le azioni non sono neutre o tecniche, esse sono parte di un mondo di interessi economici e sociali:

«Gli intellettuali, non riuscendo a scorgere le basi oggettive della loro stessa esistenza sociale, diventano sempre più vittime della feticizzazione dei problemi sociali e, attraverso questa, vittime indifese di qualsiasi demagogia sociale. Sarebbe facile citare esempi. Ne ricordo alcuni fra i più essenziali. In primo luogo la feticizzazione della democrazia. Cioè, non ci si chiede mai: democrazia per chi e con esclusione di chi? Non ci si chiede mai quale sia il vero contenuto sociale di una democrazia concreta, e non ponendosi queste domande si offre uno dei più solidi appoggi al neofascismo che ora si prepara. C’è poi la feticizzazione del desiderio di pace dei popoli, espressa in forma di pacifismo astratto, nel quale il desiderio di pace non solo è degradato al livello di passività, ma diventa addirittura la parola d’ordine dell’amnistia per i criminali di guerra fascisti e facilita la preparazione di una nuova guerra. C’è anche la feticizzazione della nazione. Dietro questa facciata scompaiono le differenze fra i legittimi interessi vitali nazionali di un popolo e le tendenze aggressive dello sciovinismo imperialista».[3]

 

Astratto e concreto

La dissoluzione della feticizzazione riporta il futuro al centro, perché il presente è pensato per essere vissuto nella sua concretezza e nelle sue potenzialità. La Storia feticizzata, invece, trasforma i fenomeni storici in enti autonomi che dominano gli esseri umani, li vampirizzano guidandoli docilmente nella gabbia d’acciaio. La feticizzazione rende gli esseri umani tristi e dunque maggiormente dominabili, vampirizza non solo le risorse materiali, ma specialmente “ruba” la prassi ed il futuro spingendo l’umanità nella palude di un eterno presente senza uscita e senza scopo:

«Che vuol dire infatti feticizzazione? Vuol dire che qualche fenomeno storico è avulso dal suo reale terreno sociale e storico, che il suo concetto astratto (e di solito soltanto qualche elemento di questo concetto astratto) è trasformato in feticcio, acquista un’esistenza presunta autonoma, diventa un’entità a sé. La grande conquista della vera economia sta appunto nel dissolvere questa feticizzazione, nel mostrare in concreto che cosa significhi questo o quel fenomeno storico nel processo complessivo dello sviluppo, quale sia il suo passato e quale il suo futuro».[4]

 

Lukács ci invita a riflettere sulla scissione tra popolo ed intellettuali, ma specialmente teorizza la possibilità di una riconciliazione nella consapevolezza che le parole degli intellettuali possono ritrovare l’ascolto solo se si ha la passione durevole per la verità e per i suoi metodi di indagine. I popoli fatalizzati hanno smesso di ascoltare gli intellettuali, perché le loro parole riproducono il nichilismo delle logiche di potere. Solo le parole che fungono da tracce per uscire dalla caverna possono far ritrovare l’ascolto che nel nichilismo della feticizzazione non solo è assente, ma induce ad un generale disprezzo verso gli intellettuali. La struttura economica rende servi mediante il nichilismo della parola e la tecnicizzazione anonima.

La passione durevole per la verità
La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defeticizzizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia.
L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date. Solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e ci reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica, mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine:

«La “passione durevole” per il comunismo, o se si vuole per la critica al capitalismo, presuppone per esistere e per essere coltivata e sviluppata che ci si renda ben conto che essa da un lato coincide con il percorso della nostra vita umana e concreta, necessariamente e fatalmente breve, ma che dall’altro essa è ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita umana».[5]

Salvatore Bravo

[1] G. Lukács Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1977, p. 64.

[2] Ibidem, p. 65.

[3] Ibidem, p. 68.

[4] Ibidem, p. 70.

[5] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 461.

Angelo Tonelli – La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero. Priva di una cultura della saggezza, la democrazia si sfalda. Dobbiamo evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria.

Angelo Tonelli 01
Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.

In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo.

La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico

A. Tonelli


 


Come in alto, Teatro Andromeda, opera di Lorenzo Reina. Santo Stefano Quisquinia, Sicilia. Foto di Christian Reina.

«La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina interiore.
I cardini di questa Sapienza che rigenera la vita individuale e quindi collettiva vanno restaurati nella psiche dell’umanità di oggi attraverso un viaggio alle radici della sua cultura, e dunque in direzione delle tradizioni iniziatiche originarie e dello sciamanesimo, che sono la prima manifestazione di spiritualità umana: noi occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (páthei máthos, “patendo conoscere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci.
E guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone.
Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui ho dedicato un omonimo libro [Sulle tracce della Sapienza, Moretti & Vitali, Bergamo 2009], consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea, di gettare uno sguardo non intellettualisticamente filosofico o scientistico sulla vita e i suoi enigmi, e di apprestare strumenti insieme antichi e nuovi per attraversarla con il massimo possibile di serenità, creatività e consapevolezza» (p. 14).

«Nella prospettiva di una conoscenza che culmina nella possibilità di illuminazione a cui tutti, prima o poi, possono attingere, la riflessione si volge al luogo della relazione tra gli esseri umani, ovvero la civitas collettiva, perché la meta terrestre e la misura concreta dell’evoluzione individuale coincide proprio con la capacità di concorrere alla realizzazione di una società etica, solidale, illuminata, che si compone di individui etici, solidali, illuminati […].
Questa […] la sfida per le donne e gli uomini dei prossimi decenni, perché finalmente la Storia impone la più severa delle alternative: evolvere culturalmente e spiritualmente, ripensando i cardini della consociazione planetaria, o sprofondare nella barbarie e nella devastazione irreversibile e già in atto dello habitat naturale e umano» (p. 15).

«Già il filo-sophós greco – un Platone, un Aristotele – era frutto di un decadimento della figura del sophós (sapiente), che incarna uno stato di coscienza-verità (sophia) e non un insieme di metodi e contenuti di pensiero (filo-sophia): si pensi a Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, per citare solo i maggiori del nostro Occidente preplatonico; e in Oriente a Buddha e ai grandi maestri della sapienza upanishadica, taoista, yogica eccetera. Potremmo anche affermare che la sophia ha dimora nel Sé, la filo-sophia nell’Io.
In epoca moderna il filo-sophós, decadimento del sophós, decade ulteriormente a intellettuale, che non solo ha perduto come il primo ogni contatto con la sfera della sophia, ma anche è diventato incapace di pronunciare una visione del mondo dotata di una profonda radice sapienziale, e si è ridotto a ermeneuta del pensiero precedente o esegeta del costume contemporaneo, attraverso l’esercizio di una ratio ben diversa, per esempio, dal lógos unificante e intuitivo eracliteo. Le conseguenze di tutto questo sono estremamente gravi, perché la civitas umana si è evoluta a livello tecnico-scientifico, ma è rimasta priva di maestri di verità che non fossero reclutati nei vari miti-istituzioni religiosi (cristiano, islamico, buddhista) o ideologici (marxismo, liberismo, fascismo ecc.), e fossero liberi da questi blocchi di potere ideologico-politico-religioso: insieme sacrali e laici, capaci di testimoniare e ispirare i valori fondamentali dell’etica civile – solidarietà, giustizia, consapevolezza, compassione, onestà, spirito di servizio – e di indicare i contenuti e soprattutto i metodi adatti per formare popoli e reggenti eticamente saldi e consapevoli.
Se pensiamo che la crisi ecoantropologica in atto è frutto di una scorretta gestione del pianeta, che a sua volta deriva da una carenza della mente collettiva e dei suoi rappresentanti nella amministrazione della civitas, risulta evidente la responsabilità di quanti si occupano del pensiero e della sua comunicazione nel collasso di un sistema fondato su tutto fuorché su una gestione sapienziale – vale a dire consapevole – della cosa pubblica: sono figli della cultura controsapienziale i politici corrotti e inadeguati, e gli economisti che speculano sulla povertà degli altri, tutti incapaci di limitare, in primis nella propria interiorità, gli impulsi della avidità, della prevaricazione e dell’ignoranza, attraverso i metodi che la Sapienza ha approntato nel corso dei millenni, ma che vengono occultati dalle armi di distrazione di massa. E di élite.
Priva di una cultura della saggezza, dell’equilibrio e dell’illuminazione che la sostenga, la democrazia si sfalda perché non esiste più il démos (ovvero il popolo dotato di una propria identità), ma solo una sorta di ochtos (folla, insieme di individui mimetici), manipolata dai mass media consciamente o inconsciamente asserviti ai poteri e al dio denaro, e incapace di esprimere il proprio disgusto o dissenso con metodi che non siano manifestazioni violente, o adesione a caricature della demagogia o a apparati ideologici e partitici di destra, di sinistra o di centro, cattolici, marxisti o liberisti: congreghe che, ottenuto il potere grazie ai metodi della sofistica massmediatica imperante, lo gestiranno svincolandosi da coloro stessi che li hanno eletti a propri rappresentanti. La sfida che si pone è lavorare per una civiltà della consapevolezza, della pace, della solidarietà e dell’equilibrio ecologico, riunendo le origini antiche del pensiero con le nuove acquisizioni, per fornire strumenti culturali adeguati a chi, cittadino o professionista della politica, deve traghettare la società al di fuori delle acque tempestose della crisi ecoantropologica e gestire la rischiosa rivoluzione cibernetica in atto» (pp. 191-192).

Angelo Tonelli, Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, Bergamo 2019.



 

Angelo Tonelli, poeta, performer, autore e regista teatrale è tra i massimi studiosi e traduttori italiani di classici greci.
Edizioni di classici: Oracoli caldaici, Coliseum 1993 – Rizzoli 1995 e 2005; Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli 1993 e ristampa riveduta 2005; Properzio, Il libro di Cinzia, Marsilio 1993 (4 edizioni); T. S. Eliot, La Terra desolata e Quattro Quartetti, Feltrinelli 1995 (6 edizioni, con ristampa riveduta per il 2005); Seneca, Mondadori 1998; Zosimo di Panopoli, Coliseum 1988, Rizzoli 2004; Eschilo, Tutte le tragedie, Marsilio 2000 (vincitore Premio Città dei Trulli per la traduzione); Empedocle, Origini e Purificazioni, Bompiani 2002; Sofocle, Tutte le tragedie, Marsilio 2003. Euripide, Tutte le tragedie, Marsilio 2007. I lavori sui tragici sono raccolti in un unico cofanetto di 1750 pagine: Tutta la tragedia greca, Marsilio 2007.
Opere di poesia: Canti del Tempo (vincitore premio Eugenio Montale), Crocetti 1988; Dell’Amore, Abraxas 1994; Dall’Ade, Abraxas 1995; Poemi per l’era dell’Acquario, Abraxas 1996; Della morte, Abraxas 1997; Frammenti del perpetuo poema, Campanotto 1998; Alphaomega, variazioni per violino e voce, Abraxas/Keraunós 2000; Poemi dal Golfo degli Dèi/Poems from the Gulf of the Gods, Agorà 2003; Canti di apocalisse e d’estasi, con appendice di traduzioni in inglese, tedesco, ungherese, latino (Campanotto 2008, vincitore assoluto Premio Città di Atri; menzione d’onore premio Lorenzo Montano 2009).
Tra la letteratura critica sulla sua opera poetica si segnalano giudizi positivi sulla sua opera in lettere di Vittorio Sereni (non datata) e di Attilio Bertolucci (6/ 2/1988); M. Bacigalupo, Angelo Tonelli, un neoromantico poeta estivo, “Il Secolo XIX”, 22/10/1998; S. Crespi, L’eterno canto dell’amore là dove stridono i gabbiani, “Il Sole 24 ore”, 10/07/1988 e Il frammento e il perpetuo, “Il Sole XIV ore” 12/7/1998; G. Galzio, Angelo Tonelli, in G. Galzio, a cura di, Gli Argonauti. Eretici della poesia per il XXI secolo, Milano, Archivi del Novecento, 2001, pp. 199-202. E. Grasso, Nota su Canti del tempo, “Cenacoli esoterici”, 4, 1989 (Benevento, Ripostes); J. Marban, Closing Remarks in M. Maggiari, a cura di, “The Waters of Hermes”, II, Agorà, La Spezia 2002; S. Verdino, Angelo Tonelli, in S. Verdino, a cura di, La poesia in Liguria, Forum – Quinta generazione, Forlì 1986; M. L. Vezzali, Peregrinare nella luce, “Steve 21. Rivista di poesia”, Edizioni del Laboratorio, Modena autunno 2000.
Tra i testi filosofici si segnalano: Apokalypsis, pensieri intorno all’ apocalissi in atto nel pianeta Terra. E altro; Il dio camaleonte (Abraxas 2009).
Opere teatrali: Apokálypsis, 1995; Katábasis, 1996; Máinomai, 1997; Mysterium, 1998; Eleusis, 1999; Drómena, 2000; Alphaomega, 2002 (da Sette contro Tebe di Eschilo); New World Order, 2003; V.I.T.R.I.O.L.U.M. Alchimia per Edipo re, 2004; Orghia, ovvero il trionfo della sapienza sul potere (da Baccanti di Euripide), 2005 e 2009; La terra desolata di T. S. Eliot, 2005; Orestea, 2006; Alcesti, mysterium mortis mysterium amoris, 2007; Antigone, ovvero la legge del cuore contro la logica spietata del potere, 2008; Baccanti, 2009; Christus rediens, 2009.
E’ intervenuto in programmi culturali della RAI tra cui, nel dicembre 2000 Tutti dicono poesia (Rai 1) con una performance mistico-apocalittica. Dal 1998, su incarico della Città di Lerici, è Presidente della Associazione Culturale Arthena e della omonima Scuola di Arti e Mestieri, e Direttore Artistico di Altramarea, Rassegna Nazionale di Poesia Contemporanea e di Argonauti nel Golfo degli Dèi. Nella primavera del 2005 ha pubblicato Per un teatro iniziatico, un libro sui primi dieci anni del teatro, e del genere di teatro, da lui stesso fondato. Nell’ottobre del 2007 ha dato alle stampe Alla ricerca del Sé (Tipografia Stella-Edizioni dell’Arthena) una miscellanea di saggi e conferenze intorno ai temi della sapienza, della psicoanalisi e della meditazione. Suoi testi, con una nota introduttiva di Roberto Bertoni, compaiono in Sei poeti liguri, Bertolani, Bugliani, Conte, Giudici, Sanguineti, Tonelli, a cura di Roberto Bertoni (Trauben, 2004) e nella antologia dedicata a 9 poeti liguri e curata da Roberto Bertoni e Roberto Bugliani, Voci di Liguria, Manni editore, 2007. Di recente pubblicazione Sulle tracce della Sapienza (Moretti e Vitali editore 2009), un libro in cui sintetizza trenta anni di ricerche sulla sapienza presso i Greci, in Oriente, in Jung e in Eliot; il primo volume, Parmenide Zenone, Melisso, Senofane di Le parole dei Sapienti, in sette volumi per Feltrinelli, sul pensiero dei sapienti greci preplatonici; Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale (Armando 2010). Si segnala l’edizione Bompiani con testo greco a fronte di Tutta la tragedia greca già pubblicato con Marsilio; Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.



Tra i libri di Angelo Tonelli


Zozimo di Panopoli, Coliseum, 1988.


Eraclito. Dell’Origine, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, 1993.


 

Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


Oracoli caldaici,  cura e traduzione di Angelo Tonelli, Rizzoli, 1995.


 

Thomas S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 1995.


Frammenti del perpetuo problema, Camparotto editore, 1998.


Altramarea. Poesia come cosa viva. Antologia di poesia contemporanea,
a cura di A. Tonelli, Camparotto editore, 1998.

Questo non è un libro di poesia nel senso vulgato del termine, perché i testi che compongono la raccolta sono giunti al curatore attraverso la comunicazione orale, diretta, formulata in un adeguato “témenos”, proprio come accadeva agli albori della poesia, nelle corti micenee di Omero, o nei giochi sacri di Pindaro, o nel tiaso di Saffo, o ancora, più vicino a noi nel tempo, nelle conversazioni dei poeti decadenti francesi, o dei futuristi. Questo non è un libro in senso stretto e tipico, ma – per usare un termine con cui Giorgio Colli rendeva “Erlebnis” – l’eco di “vissutezze” poetiche reiterate nel corso degli anni – e destinate a reiterarsi ancora, a ogni solstizio d’estate, con “Argonauti” nel Golfo degli Dei, e nell’agosto rovente, con “Altramarea” – che a quella “vissutezza” intende alludere, perché è in essa che la poesia si è fatta vita e sguardo sulla vita, ha acceso entusiasmi e presagito orrori planetari, creato incanto e graffiato con stridori metallici, nella circolazione vivente della parola incarnata dal suo autore, a rispecchiarsi nell’anima di un uditorio vivo. […].


María Zambrano, Seneca,
Traduzione di Angelo Tonelli,
Bruno Mondadori, 1998.


Properzio, Il libro di Cinzia. Elegie. Testo latino a fronte. Vol. 1,
trad di A. Tonelli, Marsilio, 1999.

“Cinzia fu l’inizio, Cinzia sarà la fine”: con questo impegno di fedeltà il ventiduenne Properzio fissava in una formula emblematica l’essenza dell’amore elegiaco, assoluto e totalizzante. Con l’autorità e il fascino della donna bella, colta e raffinata, Cinzia segna il primo libro delle elegie properziane, il libro che rappresenta in modo esemplare la complessità di sentimenti del poeta innamorato: gelosie, tradimenti, riconciliazioni, momenti di tenerezza e di dedizione, di freddezza e di rifiuto. La sincerità della passione si unisce alla finzione letteraria, spesso filtrata attraverso la rievocazione del mito. Scelta di vita e scelta di poesia tendono a identificarsi creando un codice letterario, quello del genere elegiaco, che nella sua perfezione formale e nella sua breve vitalità rimase modello insuperato di poesia d’amore e specchio della vita mondana della società augustea.


Eschilo, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2000.

Miti eterni, storie immortali che sfidano ogni epoca con la loro poesia e con il loro mistero, legami inestricabili con un passato che in modo immutato ancora ci seduce e ci angoscia con i suoi enigmi. Una voce poetica, tesa e vibrante, ci canta il lutto del re di Persia sconfitto dai greci, la disperazione del Prometeo crocifisso per amore, la tragedia dei figli di Edipo che si uccidono in un estremo duello alla settima porta di Tebe, il delirio di Cassandra e la furia di Clitennestra uxoricida, la vendetta, la follia e l’assoluzione di Oreste per l’assassinio della madre.


Sofocle, Le tragedieLe tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004.

Celebrato per la purezza dello stile e per la perfezione della struttura drammaturgica, Sofocle è il più limpido ma anche il più complesso ed enigmatico dei tre grandi tragici greci. Ateniese, innamorato della sua città, ne esaltò la bellezza, ne difese le istituzioni, ma intravide anche i pericoli del passaggio epocale dall’individualismo conservatore delle famiglie aristocratiche all’egualitarismo democratico dello stato di diritto. Cantore della polis, ma anche di eroi perdenti e sfortunati, di donne assetate di giustizia e di vendetta, Sofocle è soprattutto il creatore del personaggio di Edipo re di Tebe, metafora esemplare delle alterne vicende della vita e della cieca crudeltà del caso.


Zozimo di Panopoli, Visioni e risvegli, a cura di Angelo Tonelli, Rizzoli, 2004.

Personaggi misteriosi, mostri crudeli, sacrifici rituali e “riti terribili” popolano questo testo complesso e affascinante che con la violenza delle sue visioni ha sedotto lo stesso Jung, a cui si deve il merito di averlo sottratto a un oblio millenario. Scritto agli inizi del IV secolo, Visioni e risvegli raccoglie quattro brevi trattati di alchimia, il più famoso dei quali, Sulla virtù, descrive con toni onirici e fantasiosi i diversi gradi di un rito di iniziazione. Dell’antica storia di questi testi, ricchi di aneliti mistici ed echi religiosi, parla nell’introduzione Angelo Tonelli, che analizza anche i legami tra l’alchimia greca e la psicologia dell’inconscio di Jung.


 

Euripide, Le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Marsilio 2007.

Con la traduzione integrale delle tragedie di Euripide si conclude un progetto di grande rilievo editoriale iniziato da Angelo Tonelli nel 2000 con la versione completa di Eschilo, cui è seguita nel 2004 quella di Sofocle. Per la prima volta e non solo in Italia, si possono leggere tutte le tragedie greche nella traduzione di uno studioso che è un profondo conoscitore del greco antico, esperto di drammaturgia antica e moderna, poeta egli stesso e creatore di eventi.


 

Canti di Apocalisse e d’estasi, Camparotto Editore, 2008.


Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità,
Moretti & Vitali, Bergamo 2009.

Frutto e sintesi di trenta anni di ricerche filologiche intorno alla Sapienza, il libro di Tonelli ne presenta campionature significative, dalla tradizione iniziatica eleusina allo sciamanesimo originario, dai grandi tragici ai Presocratici, a Platone, alla teurgia degli Oracoli Caldaici, alle visioni dell’alchimista Zosimo di Panopoli, fino a un’incursione nel Moderno, con la rilettura di The Waste Land e di Four Quartets di Eliot in chiave mistico-rituale, e della psicologia analitica junghiana in chiave alchemica e gnostica. Per quel che riguarda la Sapienza d’Oriente, l’attenzione si concentra sulla sua dimensione di pratica spirituale, perché il Buddhismo e l’Induismo hanno saputo concretare nell’unità corpo-mente la condizione sapienziale, affinando tecniche meditative adatte a lenire la sofferenza e favorire lo sviluppo delle qualità etiche positive. In chiusura, l’autore riannoda il filo che lega l’inizio della filosofia con il principio della sua fine, ovvero Platone con Kant, per quel che riguarda la possibilità dell’esercizio di una influenza dei pensatori sul potere, rintracciando la causa della loro inefficacia, pur nella nobiltà del gesto, proprio nell’essere filosofi, e non Sapienti, e dunque propagatori di un modo di pensare, e non di un modo di essere totale.


Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. Testo originale a fronte.
Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, 2010.

Sapienza è una condizione dello spirito, un modo di essere, e non un insieme di contenuti che si ritengano veri e saggi. Il Sapiente è radicato nella sorgente delle cose, e dell’esperienza sapienziale possono farsi testimonianza scritta o orale parole, come quelle di Eraclito, Parmenide, Empedocle in Occidente, e delle Upanishad o dello ChuangTzu in Oriente, che vibrano della risonanza mistica da cui sorgono. A differenza della filosofia, la Sapienza è un modo di essere, non di pensare, ed è frutto del sé, mentre la filosofia lo è dell’ego. I Sapienti greci non erano uomini di scrivania, come forse amerebbero dipingerli a propria immagine e somiglianza gli esangui ermeneuti contemporanei, bensì individui che intraprendevano una via di continua ricerca di se stessi, all’insegna del motto delfico gnõthi sautón, e da questa pratica di ricerca spirituale venivano trasformati fin nelle intime midolla, come i Sapienti d’Oriente. Nel versante orientale, la Sapienza è un immenso commentario intorno alle folgorazioni mistiche e alle formulazioni religiose dei Veda, che trovano sistemazione nelle Upanishad. Diversa è la Sapienza greca, in cui fioriscono personalità spiccate, con maggiore differenziazione di linguaggio e di pensiero. Ma i temi di fondo sono gli stessi, e con ogni evidenza la Madre della Sapienza d’Oriente e d’Occidente è una sola e la medesima, benché da essa germoglino frutti ben diversi.


Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale,
Armando, 2010.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell.habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli.


 

Poemi dal Golfo degli Dèi, Ediz. italiana e inglese, Agorà & Co., Sarzana, 2011.


 

Sapienza ritrovata, Arcipelago Edizioni, 2011.


 

Tutte le tragedie greche. Testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2011.

Frutto di oltre dieci anni di lavoro, questa edizione di tutta la tragedia greca con testo a fronte, la prima a essere realizzata interamente da un unico curatore, insieme poeta e filologo, consente di cogliere con sguardo unificante la fulgida stagione della tragedia ellenica che vide fiorire il genio creativo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Viene così restituita al lettore moderno, in tutta la sua feconda inattualità, una delle culminazioni dell’arte sapienziale e iniziatica del nostro Occidente, capace di riverberare la spiritualità orfeodionisiaca eleusina nella sua dimensione essoterica: in maniera esplicita, attraverso tragedie vistosamente iniziatiche come Baccanti, Oresteo, Alcesti, Edipo re ed Edipo a Colono; e in maniera indiretta, grazie alla forma apollodionisiaca dell’opera drammatica nella sua espressione scritta. Forma che a sua volta rinvia alla struttura stessa del théatron, che è luogo sapienziale in cui si contempla (theàomai) il gioco delle passioni con empatia e distacco. Con il greco a fronte i capolavori dei tragediografi a noi pervenuti brillano nella lingua in cui furono composti, e consentono di restituire con sufficiente approssimazione la phoné originaria in cui furono pronunciati: nel rito consacrato a Dioniso, alla luce del sole ellenico, sotto lo sguardo della collettività riunita nel nome del dio dell’ebbrezza e della contemplazione.


 

Ritografie. Opere figurative 1995-2012. Ediz. illustrata, Agorà & Co, 2012.


 

Seminare il possibile. Democrazia e rivoluzione spirituale, Alboversorio, 2015.

Questo pamphlet ha un intento: seminare slancio e speranza nel futuro mentre tutto sembra congiurare contro una possibilità di rinascita collettiva. Urge che si aboliscano i partiti, come già suggeriva Simone Weil, e si catalizzino energie nuove. Questo movimento, che è già in atto e trova già espressione in eventi dedicati alla relazione tra spiritualità, etica e politica, ha il compito fondamentale di preparare la democrazia del futuro, che sorgerà sulle rovine del sistema politico nazionale e internazionale fondato sul dominio del dio denaro.


 

Eleusis e Orfismo. I misteri e la tradizione iniziatica greca.
Testo greco a fronte, a  cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 2015.

A Eleusi, il centro iniziatico maggiore di tutta la grecità, nel mese di Boedromione (il nostro settembre-ottobre) affluivano tutti coloro che avessero i requisiti necessari per ricevere l’iniziazione, ovvero avere “mani pure”, non macchiate da delitto, e parlare la lingua greca. Sicuramente furono iniziati ai livelli più alti Sofocle, Eschilo, Pindaro, Platone. La suprema iniziazione, a cui si poteva accedere dopo avere fatto trascorrere un lungo periodo dalla partecipazione al rituale collettivo dei Grandi Misteri, dischiudeva all’esperienza diretta dell'”unità di tutte le cose” e della morte-rinascita, simboleggiata dalla spiga, che il mistero condivideva con Dioniso, il dio che muore e rinasce, come l’Osiride degli Egiziani. L’Orfismo introduce nella grecità una via ascetica e purificatoria, fondata sulla credenza nella reincarnazione, e nella necessità di un tragitto di progressiva liberazione dalla prigione della materia per ricongiungersi con la propria essenza divina. Le testimonianze consentono di ricostruirne le complesse e suggestive cosmoteogonie, e i miti fondamentali, tra cui la discesa agli Inferi di Orfeo alla ricerca della sposa Euridice e lo specchio di Dioniso, che rivela il mondo visibile come lampeggiamento transimmanente dello sguardo del dio su uno specchio.


 

[Giuliano il Teurgo], Oracoli caldaici, a cura di Angelo Tonelli, Bompiani, 2016.

Composti verso la fine del II secolo dopo Cristo, gli “Oracoli Caldaici” sono attribuiti a Giuliano il Teurgo, figlio dell’altro Giuliano che, secondo Suidas, compose un’opera sui demoni. Poeta e sciamano dei misteri teurgici, in cui la figura del mßntis-doche·s (il nostro medium) coincide con quella del profétes, Giuliano comunica in frammenti oscuri e insieme luminosi, come si addice all’oracolo, un’esperienza visionaria individuale fiorita nell’ambito di un Erlebnis mistico e sapienziale collettivo. Gli “Oracoli caldaici”, che Proclo paragonava per importanza al “Timeo” di Platone, sono una raccolta di frammenti in cui un medium in trance parla con la voce del nume, e ne comunica la Sapienza che conduce gli umani oltre il velo delle apparenze, fino all’intuizione dell’Assoluto e al congiungimento con esso. Unica testimonianza diretta di una tradizione esoterica che associava metafisica e magia in un accordo inscindibile, gli oracoli consentono di guardare dietro le quinte di una esperienza mistica e iniziatica di grande densità immaginale, che viene comunicata in un linguaggio densamente poetico. E’ un viaggio verso l’Assoluto che sta alla radice di tutte le cose, o meglio ancora verso il Divino indicibile che si manifesta attraverso ipostasi e numi, che prendono nome di Padre, Ecate, No³s, e la cui quintessenza brilla nell’animo dei teurghi.


 

Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure,
Agorà & Co., Sarzana, 2016.

L’esperienza della paura è costitutiva della condizione umana, e nessuno ne è mai stato esente: non Cristo, che sulla croce grida il suo “Eli Eli lema sabachthani?”: “Padre Padre, perché mi hai abbandonato?”; non Buddha Sakhyamuni, che prima di imboccare la via dell’ascesi si imbatte, sgomento, nelle figure della vecchiaia, della malattia, della morte. Nessuno ha calcato il suolo di questo pianeta senza avere provato, in misura maggiore o minore, la vampa dell’ansia o l’angoscia dell’incubo notturno, il morso del panico, l’irrequieto aggirarsi del pensiero nelle lande livide del timore di ammalarsi o di morire, o del lutto per il trapasso di una persona preziosa, o per la fine di un grande amore. Qui si indicano alcune vie, tra cui la psicoanalisi junghiana, lo psicodramma, la danzaterapia, la meditazione e altre pratiche spirituali tratte da varie tradizioni, per attraversare indenni questa selva oscura, e trarne stimolo alla crescita spirituale.


 

Sulla morte. Considerazioni sul possibile oltre, La Parola, 2017.

Questo libro è il frutto di molti anni di riflessioni sulla morte e il possibile Oltre, con un approccio non accademico, ma neanche privo di riferimenti alla letteratura scientifica sul tema, nella convinzione che il momento più impegnativo, insieme con la nascita, della nostra permanenza sul pianeta terra, sia evento solenne e culmine di conoscenza, a cui è bene giungere il più possibile consapevoli e preparati. Vi si troveranno riferimenti allo sguardo sapienziale greco (il Fedone di Platone, Le lamine d’oro orfiche) e orientale (Il libro tibetano dei morti) sul grande passo, ma anche alla letteratura relativa alle esperienze di quasi morte (NDE), tra cui quella di C.G. Jung (e anche quella di Er, raccontata ne La Repubblica di Platone), e alle conseguenze che le esperienze documentate di OBE (Out Body Experience), ovvero di fuoriuscita dal corpo durante gli stati di coma, hanno sulla vexata quaestio del rapporto coscienza-cervello, anche alla luce della fisica quantistica. Un excursus esaustivo e indispensabile per farsi un’idea precisa sulla morte e sull’aldilà.


 

La degenerazione della politica e la democrazia smarrita.
Una nuova etica per la sopravvivenza della civiltà,
Armando, 2018.

Le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, violenza e il dio denaro – hanno esercitato ed esercitano una pressione preponderante sulla psiche dell’umanità nel suo complesso, e hanno condotto a una situazione di discrimine: o si riesce a creare una nuova direzione, illuminata, della civitas globale, in grado di agire in controtendenza rispetto alla crisi ecoantropologica in atto, oppure si andrà a una vera e propria catastrofe della civiltà. E poiché la devastazione dell’habitat e gli ordigni di guerra nascono nella testa degli uomini, è lì che occorre disinnescarli. Sarà la Storia stessa in quanto bestemmia alla natura illuminata degli umani a generare dal suo grembo il seme della civitas illuminata: per sopravvivere la specie dovrà abdicare dalla propria tenebra interiore. Sono tre i metodi fondamentali che convergono in una sola via, per risorgere: la meditazione di presenza, l’indagine dell’inconscio e l’integrazione dell’Ombra e la frequentazione di testi ed esperienze sapienziali. In una parola, la vita come iniziazione: alla consapevolezza, alla liberazione, all’immortalità che nasce dall’esperienza óeWunità di tutte le cose (hèn pànta), secondo la folgorante sintesi di Eraclito, che è il mentore metaspaziotemporale di questo libro.


 

Attraverso oltre. Della conoscenza, della solidarietà, dell’azione, Moretti & Vitali, 2019.

La conoscenza non coincide con la padronanza filosofica e scientifica del pensiero, o l’accumulo di informazioni corrette intorno alla vita, ma con la stabilizzazione di livelli di coscienza illuminati, attraverso una costante disciplina e apertura interiore. Noi Occidentali dobbiamo rivolgere lo sguardo ai Misteri Eleusini, alle iniziazioni orfiche, e a quei pensatori che Platone definiva sophoí, ovvero Sapienti, e che hanno nome Eraclito, Empedocle, Parmenide, Pitagora, ma anche ai grandi maestri della conoscenza tragica (“patendo conocere”), Eschilo, Sofocle, Euripide, per non citare che i maggiori tra i Greci. Guardare alle radici della nostra cultura significa anche guardare alla Sapienza d’Oriente, perché anche di essa (oltre che dello sciamanesimo iperboreo e della spiritualità egiziana, persiana e mesopotamica) era pervasa la Sapienza di Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, Democrito e Platone. Di questa connessione originaria tra Occidente, in particolare la nostra Magna Grecia, e Oriente, a cui Angelo Tonelli ha dedicato trenta anni di ricerche e di cui ha già fornito ampie documentazioni, viene qui presentata, in anteprima assoluta, una testimonianza archeologica di inconfutabile evidenza: la fotografia del ritratto del “Mongolo di Taranto”, raffigurato in una ceramica protolucanica databile al IV secolo a.C., ai tempi di Platone, in cui compare un volto di chiara etnia mongola, a dissipare ogni eventuale dubbio sulla interazione tra Mediterraneo greco e Estremo Oriente, in epoca antica, interazione fino a oggi silenziata o negata da un’Accademia ancora arroccata alle Termopili immaginarie per contrastare la manifesta presenza dell’Oriente nel nostro Occidente sapienziale. E questa obliterazione ha gravato e grava sulla nostra cultura, perché se ne è ignorata la radice eurasiatica meditativa, sciamanica, noetica, condannando gli individui, e con essi la civiltà d’Occidente, a livelli di interiorità, saggezza e consapevolezza infantili, che sono alla base della crisi ecoantropologica in atto: una sorta di “furto d’organo”, il nous, ovvero il luogo di connessione tra l’umano e il divino nella coscienza unitaria e illuminata. Questo tragitto “sulle tracce della Sapienza” a cui l’autore ha già dedicato un omonimo fortunato libro, di cui questo costituisce in qualche modo la continuazione, consente di fare collidere e colludere la grande esperienza conoscitiva originaria occidentale-orientale con le acquisizioni della scienza più avanzata e le domande di rinnovamento culturale e interiore poste dalla crisi della civiltà contemporanea.


 

María Zambrano, Seneca. Con una antologia di testi,
traduttori Claudia Marseguerra e Angelo Tonelli, SE, 2019.

«Seneca non avrebbe potuto essere un martire: fu sempre un intellettuale e niente di più. Un intellettuale per cui la gloria è impossibile. Fedele a una ragione senza trascendenza, a una ragione naturale. La ragione di Platone e di Plotino, l’idea, non era più di questo mondo, come non lo è la pura verità. Seneca celebrava la ragione della mediazione, della relatività. Per questo il suo pensiero, e ancora più del suo pensiero, la sua immagine, la sua figura, è viva in tutti i tempi in cui la ragione, senza fede, vuole mediare tra un mondo irrazionale e il regno puro che ha dovuto lasciare. Seneca tornerà in vita ogni volta che di fronte all’inesorabilità della morte e del potere umano si troverà, tra una fede che si estingue e un’altra che la sostituisce, una Ragione abbandonata».


Galleria di copertine

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Inteviste e altro …

“Voglio un movimento sapienziale-politico capace di formare governatori illuminati”:
dialogo con Angelo Tonelli su poesia e salvezza


L’Apocalisse secondo Angelo Tonelli


Teatro Andromeda: l’Ecuba diretta da Angelo Tonelli


Scoprire Angelo Tonelli. Intervista di Marco Angella


“Le nostre origini sono eurasiatiche, Pitagora era uno sciamano,
dobbiamo insegnare pratiche meditative a scuola”:
dialogo con Angelo Tonelli, che ha scoperto il punto d’unione tra Oriente e Occidente


Angelo Tonelli – Recours au poème


Conversazione di Livio Partiti con Angelo Tonelli



Franco Volpi (1952-2009) – Come si dice “filosofia” in Giappone. Il libro di Nishida Kitarô «Uno studio sul bene». Conoscenza e amore sono atti spirituali identici. Occorre comprendere il bene come la realizzazione della persona. Il bene è la soddisfazione di un bisogno sincero, ovvero è unificazione della coscienza.

Franco Volpi - Nishida Kitaro

Il «diritto all’eccellenza» è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. La vita si realizzi in tutte le sue potenzialità, con un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella, una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

Franco Volpi


 


«Conoscenza e amore sono atti spirituali identici. Per conoscere una cosa bisogna amarla e per amare una cosa bisogna conoscerla […]. Occorre comprendere il bene come la realizzazione della persona. Visto dall’interno, il bene è la soddisfazione di un bisogno sincero, ovvero è unificazione della coscienza, e al suo limite estremo deve raggiungere il punto in cui sé e altro si dimenticano reciprocamente e soggetto e oggetto sprofondano l’uno nell’altro».

Nishida Kitarô

Nishida Kitarô, Zen no kenkyū (善の研究), Uno studio sul bene, a cura di E. Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
Nishida Kitarô (fondatore della scuola di Kyoto), Uno studio sul bene, a cura di Enrico Fongaro, Mimesis, Milano 2017.

Un occidentale che voglia entrare nel cuore del pensiero giapponese deve fare uno sforzo linguistico-concettuale pari a quello che un giapponese affronta per capire che’ cosa significhi “filosofia”. Questo termine, che e alle radici della nostra civiltà, fino a circa un secolo e mezzo fa non aveva un preciso equivalente nella lingua nipponica. A differenza di quanto accaduto nel passaggio dal greco al latino e alle altre lingue europee, che in genere traslitterano la parola greca, in giapponese si seguì un altra strada. Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo oltre due secoli di chiusura a ogni influenza esterna nel periodo sakoku (1639-1854), fu avviato un febbrile lavoro di mediazione culturale e di invenzione di nuove parole. In tale clima fu creato anche il neologismo tetsugaku – combinazione di due ideogrammi, tetsu “vivacità intellettuale, chiarezza mentale” e gaku “insegnamento, studio” – che da allora in poi si e imposto come traduzione di “filosofia”. Naturalmente, un pensiero giapponese esisteva anche prima, ma si basava su una propria tradizione e su concetti, categorie, problemi e modi di ragionare lontani da quelli occidentali.

Nishida Kitarō 1870-1945)

Nishida (1870-1945) è il primo grande filosofo giapponese, il fondatore della celebre Scuola di Kyoto, che a lungo è stata il principale pensatoio nipponico, tuttora attivo, e che ha aperto un fondamentale canale di dialogo con la filosofia europea, specie tedesca. L’opera di Nishida è un grande esempio di pensiero interculturale: scaturisce dal profondo della tradizione nipponica ma vi innesta, in una sintesi originale, elementi raccolti dallo studio approfondito dei testi originali di Platone, Plotino, Meister Eckhart, Kant, Hegel, e di autori influenti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento come Bergson, James e Husserl. Potremmo dire, fatte le debite proporzioni, che il tentativo di Nishida di sposare la tradizione zen con la filosofia è paragonabile al connubio tra la filosofia greca e il messaggio cristiano agli inizi della nostra era.

Uno studio sul bene (1911) e la prima grande opera di Nishida. Bollati Boringhieri la presenta in una edizione ineccepibile, condotta sul testo originale da uno dei più promettenti nipponisti italiani, Enrico Fongaro, e accompagnata con una esauriente e illuminante introduzione di Giangiorgio Pasqualotto. Un merito che va esplicitamente sottolineato di fronte alla sconcertante disinvoltura con cui molta letteratura giapponese – perfino alcuni romanzi di Mishima – continuano a essere tradotti dall’inglese.

Quello che possiamo ora leggere è un appassionante trattato sistematico di filosofia zen. Nishida voleva intitolarlo La realtà o L’esperienza pura perché questo è il concetto basilare da cui muove, per poi spiegare come l’esperienza pura si articoli secondo il pensiero (in cui la realta ci si offre così com’è), la volontà (da cui trae origine l’etica) e l’intuizione intellettuale (da cui si sviluppa l’esperienza religiosa del Nulla assoluto quale origine e principio unificatore dell’intero Essere).

L’opera ebbe subito un vasto successo ma sollevò anche critiche e fraintendimenti. Nishida si sentì spinto a una “svolta”. Per superare il coscienzialismo, il volontarismo e perfino il misticismo di cui era accusato, cercò un nuovo baricentro, e lo trovò, studiando la chora di Platone, nel concetto di “luogo”. Con somma ironia e inarrivabile saggezza zen, avverte però fin dall’inizio: «Forse Mefisto potrebbe farsi gioco di me: chi si dedica alla speculazione è come un animale che mangia erba secca in mezzo a un campo verdeggiante».

Nishida Kitaro (fondatore della scuola di Kyoto), Uno studio sul bene, a cura di Enrico Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

 

Franco Volpi, Come si dice “filosofia” in Giappone, in “La Repubblica, 17-02-2007, p. 47.

 

A Kyoto c’è un sentiero che si chiama “Passeggiata del filosofo”. Il suo nome deriva dal filosofo giapponese Nishida Kitaro (1870-1945) a cui piaceva passeggiare per questo sentiero e meditare. A metà del sentiero c’è un monumento su cui sono incise frasi di Nishida Kitaro.

Quarta di copertina

“Uno studio sul bene” (1911) è la prima opera di Kitaro Nishida. Diviso in quattro parti secondo un progetto sistematico che comportava la stesura di un’ontologia, un’etica e una filosofia della religione, il libro si fonda sul concetto di “esperienza pura” che l’autore ricava da Mach, da Avenarius, ma soprattutto da William James, riletto alla luce del pensiero di Henri Bergson. Si tratta del primo tentativo in assoluto di coniugare filosofia occidentale e scuola zen, il primo passo per dar vita a un progetto filosofico interculturale collocato al crocevia tra Oriente e Occidente.


Franco Volpi


Franco Volpi (1952-2009).

La sua [di Nietzsche] critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all’eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!». E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

Franco Volpi

Da Contro Nietzsche. L’accusa del Papa al filosofo nichilista, la Repubblica, 10 aprile 2009.

Franco Volpi, filosofo e amico, a cura di Nicola Curcio, Ronzani editore, 2019

Tra i libri di Franco Volpi


M. Heidegger, Essere e tempo, tr. di Pietro Chiodi, a cura di Franco Volpi, Longanesi, Milano 2005.

Questo caposaldo, rimasto enigmaticamente incompiuto, è il testo che più di ogni altro ha influenzato la cultura filosofica del Novecento. Fin dal suo primo apparire nel 1927 e poi, a ondate successive nel 1946, negli anni Sessanta, il fascino e l’influenza esercitati da quest’opera hanno alimentato la riflessione e le polemiche di quanti si sono occupati di Heidegger. Tutto ciò che è accaduto dopo nella cultura occidentale è in qualche modo il risultato dell’esplosione filosofica determinata da questo libro.


L’ ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, con Antonio Gnoli, Bompiani, Milano 2006.

Martin Heidegger è stato tra i più grandi e controversi maestri del Novecento. A trent’anni dalla morte, le questioni da lui poste agitano ancora la comprensione filosofica del nostro tempo. Qual è il segreto della sua perdurante attualità? Antonio Gnoli e Franco Volpi hanno raccolto le testimonianze eccellenti di protagonisti del pensiero contemporaneo che hanno conosciuto Heidegger da vicino: Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte e Armin Mohler. A questi si aggiunge la voce del figlio Hermann, che svela aspetti inediti della biografia del padre soffermandosi tra l’altro sugli anni che lo videro compromesso con il nazismo.


Guida a Heidegger.
Ermeneutica, fenomenologia, esistenzialismo, ontologia, teologia, estetica, etica, tecnica, nichilismo
,
Laterza, Bari 2008.

Il pensiero di Heidegger analizzato e descritto in modo sistematico e completo attraverso le singole opere.


Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Questo libro offre la prima guida ragionata ai testi della filosofia. Le opere fondamentali di ciascun pensatore vengono presentate con una scheda bibliografica iniziale (che ne indica il titolo originale e la traduzione italiana, la data di stesura, il luogo e l’anno della prima edizione), una descrizione del contenuto, le informazioni utili per comprendere il contesto nel quale ogni opera fu concepita e la sua eventuale fortuna. Infine viene suggerita la migliore edizione italiana disponibile. Uno strumento innovativo e indispensabile per tutti coloro che si interessano di filosofia. Un dizionario che fornisce la chiave per un approccio al pensiero filosofico partendo dalla tanto auspicata analisi dei testi.


 Il nichilismo, Laterza, Bari 2009.

Crisi della ragione, perdita del centro, decadenza dei valori: il nichilismo si è presentato a volte con il proprio nome, a volte sotto altre sembianze. Ma che cos’è propriamente il nichilismo? Da dove viene quest'”ospite inquietante” – come Nietzsche lo definisce – che si aggira ormai ovunque in casa nostra e che nessuno può mettere alla porta? Attraverso un’analisi storico-concettuale, Volpi risale alle radici del fenomeno, ne illustra il manifestarsi nel pensiero del Novecento e prepara una prospettiva “oltre il nichilismo”.


Heidegger e Aristotele, Laterza, Bari 2010.

Nella lunga crisi della grande filosofia seguita alla fine del sistema hegeliano, Heidegger ci ha restituito il senso di cosa significhi pensare in grande stile. Non solo per la grandezza e lo spessore della sua opera, venuta alla luce in tutta la sua imponenza. Non solo per l’acuta sensibilità che Heidegger ha mostrato nei confronti dei problemi fondamentali della nostra epoca: il venir meno della coscienza religiosa, la crisi dei valori tradizionali e la sfiducia nei confronti di una ragione solo strumentale, la fine dell’assoluto sulla terra e il chiudersi dell’orizzonte epocale della tecnica. Ma anche e soprattutto per il fatto che, con una radicalità che nessun altro dopo Hegel aveva osato, Heidegger ha saputo ripensare nel suo insieme l’accadere della filosofia occidentale, riproponendo come problema filosofico la questione dei fondamenti dell’epoca presente e della sua connessione essenziale con il pensiero greco. In quest’orizzonte, la presenza di Aristotele nel pensiero heideggeriano non è circoscrivibile nelle forme di una semplice interpretazione. Essa è piuttosto una presenza generalizzata che pervade tutta l’opera di Heidegger e che si configura nei termini di una forte assimilazione e di un confronto mediante cui il filosofo tedesco si è appropriato dell’ontologia e della filosofia pratica di Aristotele.


 La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger, Adelphi, Milano 2011.

Tra i filosofi del Novecento, Martin Heidegger è quello che più di ogni altro ha spinto il pensiero oltre i canoni acquisiti del rapporto tra soggetto e oggetto, verità ed esperienza. Ne ha esplorato il limite, al di là del quale occorreva un linguaggio nuovo: una parola rivelatrice che liberasse la filosofia dalla cappa metafisica che aveva pesato su tutta la sua storia. In tale contesto, tanto esaltante quanto arduo, si è svolta la preziosa attività di Franco Volpi non solo come studioso e acuto interprete di Heidegger, ma anche come suo magistrale traduttore. Nulla come una traduzione, infatti, consente di penetrare in profondità nei gangli di un pensiero, e chi voglia oggi smontare, e comprendere dall’interno, la complicata macchina speculativa del “mago di Messkirch” troverà dunque qui il miglior viatico. La padronanza del lessico, sfrondato da ogni compiacenza gergale, la competenza con cui Volpi chiarisce le numerose oscurità del filosofo fanno di questo libro un esempio di lettura ermeneutica, un lucido percorso nei labirinti di Heidegger. Un percorso capace di svelare la segreta relazione tra il secolo che si è chiuso e il suo più imbarazzante testimone: che incarna il destino stesso della nostra epoca, e della sua pensabilità. Con una nota di Antonio Gnoli.


 

Pensare il capitalismo. Nuove prospettive per l’economia politica,
con Giorgio Lunghini e Elisabetta Basile, Franco Angeli, Milano 2013.

Poggiandosi sulle analisi critiche del paradigma neoclassico dominante e rivisitando i principali economisti “eterodossi”, il volume riflette sul pensiero critico di Marx, Keynes e Sraffa, e analizza i problemi che i mutamenti del capitalismo fanno sorgere e che la teoria mainstream non è stata capace di interpretare efficacemente, con l’obiettivo di proporre nuove prospettive per l’analisi dei sistemi economici contemporanei.


M. Heidegger, Nietzsche, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2018.

Come Nietzsche aveva riconosciuto in Wagner il suo unico antagonista esistente e con ciò gli aveva tributato il più grande onore, così Heidegger ha dedicato a Nietzsche il suo scritto più articolato che tratti di un pensatore moderno, anche se in questo caso cronicamente inattuale, dandogli il supremo onore di definirlo “l’ultimo metafisico dell’Occidente”. E come Nietzsche si distacca in tutto dagli oppositori di Wagner, così Heidegger non ha molto a che fare con tutte le generazioni di critici e biasimatori di Nietzsche – è molto di più, è l’unico che risponda a Nietzsche.» (Roberto Galasso)


Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Costanzo Preve_ sei anni dalla morte

Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia

ISBN 978-88-7588-108-5, 2013, pp. 544, 170×2140 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [50]

indicepresentazioneautoresintesi

Costanzo Preve

Il 23 Novembre del 2013 è venuto a mancare Costanzo Preve, non l’ho conosciuto personalmente, ma attraverso i suoi scritti ed i video in cui continuava a diffondere le proprie idee. Per me è stato un incontro importante. Le modalità con cui si può entrare in relazione con una persona sono plurime, i testi scritti ed i video sono il modo in cui è avvenuto quest’incontro. Costanzo Preve “mi ha parlato” in un momento storico dominato dalla chiacchiera e da un conformismo meno che mediocre; “mi ha comunicato” un messaggio. Ha ravvivato in me la passione per la verità e per la Filosofia. Non che non vi fosse, ma un pensatore che ha il coraggio della radicalità della filosofia, ha la forza morale ed intellettuale di far sentire a casa coloro che cercano la verità, o che si confrontano con essa. Normalmente la passione per la verità nella nostra epoca causa un senso profondo di estraneità, di distanza, per cui si ha la sensazione di essere sospinti in una indefinibile periferia a cui si giunge incalzati da una realtà sociale che sdembra abbia rinunciato ad ogni possibile ricerca della verità. È un’immensa palude in cui tutto si omologa, in cui diventa la verità l’irrilevanza, sostanza che tutto muove senza che nulla muti.
Costanzo Preve si è tratto fuori dalla palude dell’irrilevanza, ed ha vissuto nella sua carne dolente la coerenza della filosofia che propugnava con le parole, con le argomentazioni logiche, con la scelta di vivere e testimoniare la sua posizione filosofica distante dalle accademie, dai luoghi in cui il pensiero diventa arte del meretricio. “Lo scandalo Preve” è consistito nel riaffermare la centralità della verità senza la quale la filosofia è solo una disciplina che si confonde con una serie di discipline altre. La verità è stata la sua trasgressione all’ordine costituito, trasgressione non priva di speranza, perché – come amava ripetere – l’essere umano per natura non può che pensare la verità. Pertanto gli innumerevoli “filosofi” della morte della verità e dell’osanna al capitalismo non sono che l’effetto di una congiuntura epocale. Le mode passeranno, mentre la verità degli uomini e delle donne non potrà fermare il proprio cammino.
Costanzo Preve: una voce fuori dal coro. Ma il suo messaggio è giunto a me nella sua forza veritativa. Egli ha difeso strenuamente il valore e la dignità della filosofia dalla sua riduzione a presenza decorativa e decaffeinata nei salotti del capitale. La verità in primis, Costanzo Preve, lo ha ribadito nell’arco di tutta la sua vita:

«Per l’appunto. La verità filosofica nasce infatti da un terzo approccio, che non è né religioso né scientifico. L’aspetto della verità filosofica è quello dialogico. La verità nasce da un agone dialogico, da una “lotta amichevole” come quella che stiamo facendo noi due ora, per avvicinarsi il più possibile alla verità. Rimane però anche qui un problema: nella storia dell’uomo, l’agone dialogico è per definizione interminabile. Pertanto, chi ricerca la verità solo nell’agone dialogico, non troverà la verità se non nel dialogo. Il dialogo stesso, però, ha questo equivoco: da un lato è lo scopo della ricerca della verità, e dall’altro il mezzo con cui essa può essere raggiunta. Questa è, a mio parere, la contraddizione strutturale della filosofia, da cui essa non potrà uscire mai. Se il dialogo è lo scopo, la verità non è più lo scopo, ma semplicemente una forma di vita saggia, che sostituisce la violenza con la contrattazione. Se invece il dialogo è un mezzo per la realizzazione della verità, la verità stessa diventa scopo, ma allora è messa oltre il dialogo. Il dialogo filosofico ha questa caratteristica essenziale: che ad ogni proposizione può essere opposta un’altra pro-posizione. Personalmente, non credo in un dialogo filosofico risolutivo dei problemi. Mentre la scienza conosce quei metodi definitori chiamati protocolli, accertamenti, sperimentazioni e così via, e perciò permette alla comunità scientifica di chimici, fisici e biologi di giungere almeno a delle verità provvisorie condivise dalla comunità di appartenenza, la filosofia per sua natura non dispone di simili metodi».[1]

La verità filosofica non è un ciclo concluso e consegnato alla storia, la verità ha la sua struttura imprescindibile nel dialogo. Pertanto è sempre oggetto di ridefinizioni, di spostamenti argomentativi. La verità è socraticamente disposta all’altro. Per la sua radicalità senza integralismo, analizza ogni passaggio, è processuale, disposta a cercarne le falle della sua costruzione: il risultato è sicuramente importante, ma fondamentale è il processo veritativo, ed ogni processo è necessariamente comunitario.

Verità e filosofia
La precondizione per svolgere l’attività filosofica è il credere argomentato nella verità. Costanzo Preve, in tal modo, effettua un chiaro taglio epistemologico tra le filosofie e le sue imitazioni. La pluralità delle filosofie non nega la verità, anzi ciascuna curva la verità secondo prospettive che si completano, si integrano, senza confondersi o cannibalizzarsi, perché la filosofia e la verità sono in uno stato di perenne tensione, di ricerca dell’alterità. La insegue al fine di autochiarirsi: la filosofia rinuncia al tribalismo dell’appartenenza per scegliere la dialettica della comprensione:

«E tuttavia, il primo problema della filosofia consiste nel chiarire che non c’è contraddizione fra la fisiologica pluralità delle scuole filosofiche e la sostanziale unicità della verità, per cui la pluralità non determina necessariamente relativismo.

Che cos’è allora la filosofia? Do senza arroganza alcuna la mia definizione. La filosofia è un’attività comunitaria, che si determina necessariamente in individualità nominative. Queste individualità nominative, tuttavia, anche se sembra che passino il tempo scambiandosi solo opinioni, in realtà si muovono su di un terreno che presuppone l’esistenza della verità, per cui la filosofia ha come oggetto la verità, non il semplice scambio delle opinioni, che è soltanto propedeutico per la comprensione della verità stessa. Chi ha espresso meglio questo concetto è stato nell’antichità Platone, e nella modernità Hegel».[2]

La contaminazione
Filosofare è dunque trascendere gli steccati ideologici. Il filosofo cerca il confronto, travalica i confini, per cui non teme di essere tacciato di incoerenza e di opportunismo, ma si assume il rischio dell’incomprensione in nome della verità. Costanzo Preve può confondere, in quanto invita ad un riorientamento gestaltico, ovvero a ripensare categorie e paradigmi in cui spesso ci si rifugia. L’alterità politica e filosofica non è un nemico da evitare. Anzi, se si ha la chiarezza di cercare la verità, se si ha il coraggio di assumere una posizione filosofica personale, la cui genealogia è nella parola che unisce senza facili sovrapposizioni identitarie, non si deve temere la “contaminazione” con la parte avversa, la quale può essere motivo per analizzare, per disegnare confini consapevoli e specialmente nuove mappe concettuali alle quali giungere mediante il faticoso attraversamento delle posizioni dell’altro. Perché ciò possa accadere si dev’essere disponibili a congedarsi da se stessi, a rinascere dolorosamente in nuovi concetti che non eliminano la nostra storia personale, ma la integrano, ed in altri casi la trascendono in nuovi orditi:

«Noi siamo sempre ipnotizzati, e quindi di fatto paralizzati, non tanto dall’incantesimo dell’appartenenza originaria (e quindi dal senso di colpa sprigionante dalla coscienza inquieta di averla abbandonata), quanto dall’attrazione gravitazionale verso il profilo ideale e culturale che ci ha originariamente costituiti. Come ha scritto genialmente Krahl a proposito di Adorno, è difficile congedarsi senza congedo. Ma solo chi è integralmente congedato dal proprio congedo potrà veramente tendete ad una nuova sintesi […]. Vorrei soffermarmi ancora sul mio caso, cosa legittima visto che in fondo la domanda l’hai rivolta a me. Io ritengo di aver attuato con un certo successo la problematizzazione aporetica dell’identità culturale di sinistra, di aver proposto un’interpretazione originale del pensiero di Marx sia sul suo versante filosofico che sul suo versante scientifico, di aver criticato con la necessaria spietatezza la tradizione marxista italiana sia nel suo aspetto storicistico che nel suo aspetto operaistico, di aver avviato un confronto fra la tradizione filosofica marxista e tradizioni ad essa in vario modo ostili, e di aver infine infranto il tabù dell’impurità e del pensiero magico animistico imperfettamente secolarizzato pubblicando e stampando per case editrici “intoccabili”». [3]

                                       

Il pensiero complesso
L’immaginario della contaminazione non solo favorisce le appartenenze ideologiche, ma specialmente esemplifica le posizioni concettuali. Poiché ci si rifugia tra eguali, è naturalmente facile l’impegno filosofico ed intellettuale di coloro che si circondano di eguali che puntualmente condividono la sua “opinione”. La paura della contaminazione va superata in nome della complessità, del pensiero che esige la presenza di posizioni plurime prima di concettualizzare l’argomentazione. La complessità è il segno distintivo della filosofia, essa necessariamente vuole che non si debba temere la dialettica, l’altro è nemico della filosofia se fa dell’ateismo nelle sue forme plurali l’unico facile obiettivo del suo filosofare:

«L’immaginario della contaminazione è di tipo religioso, e mi sembra che su questo non vi siano dubbi. In proposito, è quasi comico (anche se talvolta irritante) che i cosiddetti “laici” non sembrino sospettarlo, laddove si è qui di fronte ad uno dei casi più macroscopici di secolarizzazione imperfetta di una categoria religiosa precedente. Per quanto riguarda il caso Alain De Benoist, ritengo che questo immaginario della contaminazione debba essere ulteriormente “disaggregato” in due elementi, e cioè la contaminazione per un peccato originale irriscattabile, da un lato, e la contaminazione dovuta ad infiltrazione nello spazio storico della sinistra, considerata aprioristicamente luogo del bene, dall’altro».[4]

Filosofare non è paragonabile con l’abitudine alla chiacchiera colta. Filosofare significa utilizzare una chiara metodologia di ricerca. Nel caso di Costanzo Preve consiste in primis nel dialogo comunitario, sulla deduzione sociale delle categorie e sull’ontologia dell’essere sociale, modalità non contrattabili della metafisica previana:

«La pratica filosofica deve invece strutturarsi non sulla (impossibile) prevedibilità, oppure sulla (ancora più impossibile) scientificità, ma su tre solidi fondamenti: il carattere dialogico comunitario, la deduzione sociale delle categorie, e l’ontologia dell’essere sociale».[5]

Costanzo Preve ci ha consegnato e donato una importante eredità morale e filosofica: verità, complessità, libertà dalle conventicole che erigono muri di fango. La filosofia non ha il compito di rassicurare, anzi pone domande, ci invita a rinunciare alle facili risposte le quali sono il vero veicolo della violenza a cui la filosofia si oppone con la verità della parola.

 

[1] C. Preve – L. Grecchi, Marx e gli antichi greci, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 28.

[2] C. Preve, Il significato di filosofia, Arianna editrice, 18/1/2013

[3] A. De Benoist – G. Giaccio, Dialoghi sul presente, controcorrente, Napoli 2005, pp. 75-76.

[4] C. Preve, Il paradosso De Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006, p. 20.

[5] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, p. 516.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.
Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante
Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione
Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.
Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.
Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica
Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.
Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare
Costanzo Preve (1943-2013) – Teniamo la barra del timone diritta in una prospettiva di lunga durata. La “passione durevole” per il comunismo coincide certo con il percorso della nostra vita concreta fatalmente breve, ma essa è anche ideale, nel senso che va al di là della nostra stessa vita.
Costanzo Preve (1943-2013) – Telling the truth about capitalism and about communism. The dialectic of limitlessness and the dialectic of corruption. Dire la verità sul capitalismo e sul comunismo. Dialettica dell’ illimitatezza, dialettica della corruzione.
Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo
Costanzo Preve (1943-2013) – Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico.
Costanzo Preve (1943-2013) – Il Kant della fondazione individualistica della morale ed il rifiuto dell’etica comunitaria come eteronomia.
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