Pelagio (354 d.C. – 420 d.C.) – La ricchezza ha forse un’altra origine che non sia, in primo luogo, l’ingiustizia e la rapina? Vediamo che soprattutto i malvagi hanno ricchezze in abbondanza. Nell’essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l’una o l’altra sta il vanto dell’uomo di essere razionale.

Cruna

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«[L'uomo è] libero nel compiere il bene o il male.
 Se ci pensi bene, ti apparirà evidente come, proprio per questo,
 la condizione dell'uomo sia più alta e dignitosa,
 dove sembra e si crede invece più misera.
 Nell'essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male,
 nella libertà di scegliere l'una o l'altra sta il suo vanto di essere razionale.
 Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene,
se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male.
Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male;
perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene.
Sembra che molti vogliano rimproverare il Signore per la sua opera,
dicendo che avrebbe dovuto creare l'uomo incapace di fare il male:
non sapendo emendare la loro vita, costoro vogliono emendare la natura!
Invece la fondamentale bontà di questa natura è stata impressa in tutti,
senza eccezioni [...].
Di quanti filosofi, infatti, abbiamo sentito dire o visto con i nostri occhi
che sono vissuti [...] modesti, benevoli,
sprezzanti degli onori del mondo e dei piaceri,
amanti della giustizia?
Di dove vennero loro queste virtù, se non dalla natura stessa?
Fa' dunque che nessuno ti superi nella vita buona e virtuosa:
tutto questo è in tuo potere e spetta a te sola,
poiché non ti può venire dal di fuori,
ma germina e sorge dal tuo cuore».

 Pelagio, Epistola a Demetriade

[7,2] La ricchezza ha forse un’altra origine che non sia, in primo luogo, l’ingiustizia e la rapina? Posso dimostrarlo a partire, innanzitutto, da questa argomentazione: quasi tutti coloro che vediamo diventare ricchi, da poveri che erano, sappiamo che non possono riuscirci senza commettere qualche ingiustizia, o qualche rapina. [3] Tu mi dirai che questo
vale per quanti diventano, da poveri, ricchi; ma quelli che notoriamente sono ricchi per aver ricevuto l’eredità dei genitori? quelli che potremmo definire “ricchi fin dalla nascita”? Di loro si potrebbe pensare che possiedono la ricchezza non per un’ingiustizia, ma per un’eredità del tutto legittima; io però mettevo in discussione non tanto il possesso di ricchezza, quanto la sua origine: mi sembra difficile che si possa avere la ricchezza senza una qualche ingiustizia. [4] Tu mi dirai: «cosa ne sai di dove ha avuto origine quella ricchezza, se non sai quando è iniziata?» […] Deduco il passato dal presente: credo infatti che ogni situazione di cui ora vedo l’origine si sia ripetuta uguale in passato, quando non ne vedevo l’origine.
[5] E quindi la ricchezza è ingiustizia? Non dico che la ricchezza sia in sé ingiustizia, ma credo che derivi per lo più dall’ingiustizia. E se tu fossi disposto a discutere con me serenamente, senza irritarti, e non cercassi di giustificare, sostenendola animatamente, quella posizione a cui ti sei ormai affezionato; se invece mettessi da parte ogni intento malizioso e con animo tranquillo e pacato volessi ascoltare un ragionamento veritiero, forse potrei provarti che difendere la ricchezza con tenacia eccessiva non è giusto. [8, 1] Dunque: ti sembra giusto che uno trabocchi del superfluo, mentre un altro manca di quanto è necessario per la vita quotidiana? Uno si rovina perché ha troppo, l’altro invece deperisce perché ha troppo poco? Uno si gonfia di cibi ricercati, sontuosi, ben oltre le necessità naturali, mentre l’altro non si nutre abbastanza neanche di cibi scadenti?
[…] Uno è ricco d’oro, d’argento, di pietre preziose e di risorse di ogni genere, l’altro invece si esaurisce per la fame, per la sete, per la mancanza di abiti e per le privazioni di ogni genere? E poi, è da qui che sorge il sospetto maggiore di questa ingiustizia: vediamo che soprattutto i malvagi hanno ricchezze in abbondanza, mentre i buoni soffrono le miserie della povertà.

Pelagio, La ricchezza, 7, 2-5; 8,1; trad. di L. Pasetti.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi

Bisogni falsi

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È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovraimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. […] il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità.

La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni.

Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione.
L’ideologia della società industriale avanzata
, Torino, Einaudi, 1967. (1964)

L'uomo a una dimensione

 

 

Herbert Marcuse – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale

 

Marcuse, L’uomo a una dimensione. Una recensione di Stefano Lechiara

 

Immagine in evidenza: Un fotogramma di Metropolis, 1927, di-Fritz Lang.

 


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Georg Simmel (1858-1918) – Nell’essenza del denaro si percepisce qualche cosa dell’essenza della prostituzione

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***

«Nell’essenza del denaro si percepisce qualche cosa dell’essenza della prostituzione. L’indifferenza con cui si presta ad ogni utiizzazione, l’infedeltà con cui si separa da ogni soggetto, perché non era veramente legato a nessuno, l’oggettività, che esclude qualsiasi rapporto affettivo e lo rende adatto ad essere un puro mezzo, tutto ciò che determina un’analogia fatale fra danaro e prostituzione».

Georg Simmel, Filosofia del denaro, Utet,  1984, p. 112.

***

 

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John Berger – L’attività dei ricchi è costruire muri, compreso il muro del denaro. La strategia della resistenza è questa …

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«L’attesa appartiene al corpo, mentre la speranza appartiene all’anima».
J. Berger

Da A a X. Lettere di una storia

Da A a X.

***

Risvolto di copertina

Che cosa fa la scrittura se non convocare gli assenti, riportare a noi chi è lontano, trattenere al nostro fianco i morti e i non ancora nati, tessere e ritessere il nostro passato, immaginare il futuro e le persone con cui vorremmo condividerlo? A'ida, la A del titolo di questo romanzo d'amore lieve e incandescente, duro e gioioso, scrive per non arrendersi alla separazione. Perché l'opposto dell'amore non è l'odio, ma il distacco, che cancella i corpi e sbarra l'orizzonte al qui e ora della vita, ai suoi dolcissimi "nel frattempo". X, Xavier, l'uomo amato, è in carcere, condannato a due ergastoli per presunte attività terroristiche. La sorda giustizia del più forte lavora sui sensi, sulla progressiva perdita di contatto con il reale, sull'amnesia dei sentimenti. Mira a disconnettere, a creare dei vuoti di memoria, a cancellare. A la combatte scrivendo le lettere stupefacenti che fanno da spina dorsale a un romanzo che sembra arrivare dalle periferie dolenti del mondo contemporaneo e insieme dal suo cuore malato. Scrive per vivere e far vivere a X non solo il loro amore "interrotto", ma i progetti, i desideri e le speranze che li hanno uniti e - attraverso un vero e proprio miracolo narrativo - il senso atmosferico della realtà, della natura, dei corpi e delle voci che non possono più raggiungerlo se non grazie a lei e alla sua capacità di fargli sperimentare la vita attraverso il racconto.

 

«Parole torturate

Dire la verità? Parole torturate finché non si arrendono al loro esatto opposto. Democrazia, Libertà, Progresso, quando vengono rimandate nelle loro celle, sono incoerenti. Poi ci sono altre parole, Imperialismo, Capitalismo, Schiavitù, alle quali è negato l’ingresso, che vengono ricacciate indietro ad ogni posto di frontiera e i cui documenti sono confiscati e consegnati a impostori come Globalizzazione, Libero Mercato, Ordine Naturale.

Soluzione: la lingua notturna dei poveri. Chi la usa riesce a dire e avere qualche verità.

 

La strategia della resistenza è questa...

Il nemico non può essere affrontato in modo diretto. Avvicinato frontalmente, è invincibile. Avvicinato frontalmente, non si può che riconoscerlo vincitore. Per continuare a essere vincitore il nemico ha bisogno di nuovi nemici frontali. Dal momento che non esistono, li inventa. La aspettiamo come la nostra occasione per innumerevoli attacchi laterali. La strategia della resistenza è questa… I poveri sono collettivamente inafferabili. Non sono soltanto la maggioranza del pianeta, sono dappertutto, e anche il più piccolo evento parla in qualche modo di loro. Di conseguenza l’attività dei ricchi è costruire muri: muri di cemento, di sorveglianza elettronica, sbarramenti missilistici, campi minati, frontiere armate, disinformazione mediatica, e infine il muro del denaro …».

            John Berger, Da A a X. Lettere di una storia.

 

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

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Gabriella Putignano – In Carlo Michelstaedter c’è una potente richiesta di parresìa, una autentica serietà teoretica ed esistenziale, l’esortazione ad una purissima coerenza etica

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Gabriella Putignano,

L’esistenza al bivio. «La persuasione e la rettorica» di Carlo Michelstaedter, Stamen, 2015.

L'esistenza al bivio

Risvolto di copertina

La principale e più nota opera di Carlo Michelstaedter, scrittore e filosofo goriziano morto suicida a ventritré anni, una delle figure più originali e tragiche della filosofia contemporanea, è “La persuasione e la rettorica”, tesi di laurea atipica e disarmante, che ruota attorno al doppio binario indicato nel titolo. “Persuasione” e “rettorica” non sono semplicemente due figure linguistico-retoriche, ma vanno intese quali stringenti ed antitetiche possibilità esistenziali. La sfida teoretica, che questo saggio si pone, è proprio quella di afferrare il senso profondo di questa alternativa, di scavare all’interno delle sue conseguenze ed implicazioni.

 

Prefazione

«Ci sono volte nella vita in cui ci si sente messi con le spalle al muro, la trama tranquillizzante della quotidianità si squarcia, esplode come una mina ripiena di perturbamento e d’inquietudine. È il momento in cui l’esistenza è al bivio: o destarsi in una
palingenesi catartica o ricostruire in tutti i modi un’armatura monotona e sordida. Solitamente questo vertiginoso aut-aut è provocato da una persona in carne ed ossa oppure da un particolare ed indescrivibile evento intramondano. Per noi non è andata così: la possibilità di un’altra vita, la conversione ad un altro atteggiamento, ci è stata posta da un giovane goriziano, di origine ebrea, Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910). I suoi scritti sono state pugnalate all’interno del nostro grigiore e della nostra mollezza, un ferro rovente che ci ha tolto il respiro, una colata lavica che ha mozzato ogni vacua adulazione.
La principale opera del ventitreenne, oggetto della nostra analisi, è La persuasione e la rettorica, una tesi di laurea atipica e disarmante, che ruota tutta attorno ad un doppio binario: la Persuasione o la Rettorica. Tertium non datur. Persuasione e rettorica non sono semplicemente due figure linguistiche/filologiche, poiché vanno intese – lo comprenderemo nel prosieguo – quali stringenti ed antitetiche possibilità esistenziali. La sfida teoretica, che ci proponiamo in questo lavoro, è quindi quella di afferrare, anzitutto, il senso profondo di siffatta alternativa, di scavare dentro le sue decisive conseguenze ed implicazioni. In secondo luogo – ma non perché sia meno importante – intendiamo seguire un metodo ben preciso e determinato.
Difatti La persuasione e la rettorica è un testo che non giunse alla discussione e fu pubblicato postumo: il Nostro si tolse la vita con un assordante colpo di rivoltella, che gli traforò la tempia, ed il cui rimbombo continua tutt’oggi ad interpellarci. Il pericolo, in un caso talmente delicato, è quello di cadere in un fatuo psicologismo o di leggere la sua teoresi in un modo aprioristico, troppo condizionato dal gesto del suicidio.
Nonostante intellettuali del calibro di Eugenio Garin e di Giovanni Amendola abbiano insistito nel sottolineare l’indissociabile continuità fra pensiero e biografia michelstaedteriana, noi procederemo spezzando tale consueta unione. Riteniamo che, proprio perché fare filosofia significava – per questo giovane studente – “venire ai ferri corti” con la vita, con se stessi, occorra cogliere lo iato fra il filosofo e l’uomo, fra le sue parole e le sue azioni. Ed in tale dissonanza scorgere il pericolo della tragedia e del fallimento. Senza avere la pretesa (rettorica) d’innalzarci a ‘signori benpensanti’, con un giudizio già pronto o un pietismo lacrimevole e falso, preferiamo piuttosto recepire lucidamente cosa ci comunichi l’opera del goriziano. E quanto questa possa ancora dischiudere l’energia di un risveglio, la potenza di un riscatto».

Gabriella Putignano, L’esistenza al bivio. “La persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter, Stamen, 2015.

***

INDICE
Presentazione, di Corrado De Benedittis
PREFAZIONE

I. IL FILOSOFO MICHELSTAEDTER
Il primo bivio – La gabbia della rettorica
I. La vita che (s)fugge
2. La conoscenza rettorica come «tecnica di rassicuramento»
3. L’apparato sociale rettorico. Ovvero un’esistenza da galera

II. IL SECONDO BIVIO
La fiamma della persuasione
I. Il sublime virtuosismo del tempo persuaso
2. La conoscenza delle «anime ignude»
3. Dal consistere al coesistere amorizzante

III. L’UOMO MICHELSTAEDTER
Il terzo bivio – Fare i conti con se stessi
I. Un’esigenza incondizionata di purezza
2. Il contesto storico-letterario
3. Carlo Michelstaedter, “l’uomo che non poté essere imperatore”

CONCLUSIONI
Cosa può dirci oggi quello sparo

APPENDICE
L’uomo che non poté essere imperatore, di G. Papini

RlFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 


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Georg Simmel (1858-1918) – Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ecco la linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo

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***

«Ci rallegriamo a osservare sopra di noi le stelle e gli altri corpi celesti che brillano, senza sentire per questo il bisogno di appropriarsene. Di fronte alla bellezza delle donne gli uomini si dividono tra coloro che devono «averle» per poter essere felici e coloro che, anche senza possederle, sono contenti del fatto di poterle solo ammirare e di sapere che questa indicibile bellezza esiste ed è sperimentabile. Non diversamente dagli uomini anche le cose manifestano la loro qualità nella misura in cui ci rendono lieti solo se le abbiamo o se anche non le possediamo. In quest’ultimo caso sta infatti l’eternità delle cose. Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ma i beni spirituali e i beni che hanno il loro valore nella forma stanno al di là del problema se sia necessario il possesso per goderli. Un paesaggio di Bðcklin si fa beffa di colui che pretende di rinchiuderlo nel suo possesso e allieta solo colui che può goderlo anche senza necessariamente “averlo”. Questa è l’immodificabile linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo».

Georg Simmel, Istantanee sub specie aeternitatis, in Id., Denaro e vita. Senso e forme dell’esistere, a cura di Francesco Mora, Mimesis Edizioni, 2010, p. 112.

***

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L’isola dei morti (in tedesco, Die Toteninsel)
è il più noto dipinto del pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin (1827-1901).

 


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Giovanni Pozzi (1923-2002) – Per ascoltare occorre tacere. Il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita, è amico discretissimo. Colmo di parole, tace

Pozzi Giovanni

Tacet

«Per ascoltare occorre tacere.
Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui.
Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni.
Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi».

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«La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio.
Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocato al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme. Vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana. […]
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace».

Giovanni Pozzi, Tacet, Adelphi, 2013.

 

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San Pietro Martire che ingiunge il silenzio
è una lunetta affrescata di Beato Angelico conservata nel chiostro detto “di Sant’Antonino” nel convento di San Marco a Firenze. Viene datata al 1442 circa.


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Luigi Pirandello (1867-1936) – “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle”

Colloqui coi personaggi

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«Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e mi invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro. [Pirandello continua con riflessioni sulla morte, sulla morte della madre, e sul senso lancinante di questa separazione] […] Potrei seguitare a immaginarti così con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà. È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei” – E questo mi sosteneva, mi confortava. […]».

["La morte della madre non si accompagna alla dimenticanza, all'oblio, della sua figura (della sua realtà umana) e della sua presenza che non diviene mai un'assenza; ma toglie realtà a chi continua a vivere. In queste parole bellissime e accorate che ci dicono, in particolare, come l'essere pensati da un'altra persona, anche se lontana, ci dona vita (ci fa vivere), si nasconde davvero il mistero della alterità e del dialogo (nel silenzio); ed è in questa lacerazione, in questa impossibilità esistenziale, a cui porta la morte di una persona cara, che si esprimono il dolore e la solitudine di chi resta: di chi continua a vivere ma nella separatezza e nell'abbandono. La vita non sarà mai più quella di prima dopo la morte di una madre: non sarà più animata dal suo sguardo e dalla sua presenza anche nell'assenza. Non ci sarà più reciprocità nel pensare e nell'immaginare le cose" (Eugenio Borgna, L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli,2001, p. 161)].

«Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com’io ti sento. È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. […] Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese, e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue, perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva, e spirante, ma che sono più io, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più […]. L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre […]. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira: “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle“».

Luigi Pirandello, Colloqui coi personaggi, in Novelle per un anno, vol. III, tomo II, Mondadori, Milano, 1990, pp. 1138-1153.

 ["Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all'origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l'origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono... Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l'insuperabile limite d'una prospettiva: ci pennette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d'altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l'errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell'impensato del nostro destino e della nostra possibilità" (Virgilio Melchiorre, Al di là dell'ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998)].

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Virgilio Melchiorre – La finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo

Melchiorre

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«Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all’origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l’origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono… Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d’altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l’errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell’impensato del nostro destino e della nostra possibilità».

Virgilio Melchiorre, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998.

Risvolto di copertina

L’uomo contemporaneo ha imparato a vivere come se Dio non esistesse e mai come oggi sembra sperimentare l’ampiezza senza misura del proprio potere. Divenuto ‘signore del mondo’ grazie agli strumenti della tecnica, deve tuttavia constatare l’illusorietà della pretesa di farsi ‘signore dell’essere’, padrone della propria origine e del proprio destino. Sintomo evidente di questa dolorosa quanto ineliminabile contraddizione è la rimozione operata nei confronti della morte, il silenzio rivolto alla frontiera ultima, dove angosciosa compare l’ombra del nulla. Eppure la domanda che nasce dalla prospettiva della fine resta ineludibile. Essa sta all’inizio non solo del pensiero filosofico, ma di ogni riflessione che rifugga la casualità di un’esistenza ripiegata su se stessa per tentare la serietà della vita. Da qui lo svolgersi dell’intensa meditazione di questo saggio che procede su più livelli: dalla chiacchiera quotidiana ai diversi filoni del pensiero contemporaneo, passando per l’esperienza cruciale e fondante della morte dell’altro che ci è caro, la quale, spezzando la possibilità di relazione, nega un aspetto della nostra identità e si fa anticipazione della nostra stessa morte. Così, anziché minaccioso e inesplorabile non-senso, che induce al silenzio e alla sospensione del giudizio, il mistero della fine si configura come momento di verità, spazio di significato, direzione e compimento. Queste le tappe di un itinerario che volutamente si attiene alla scuola del rigore filosofico, senza travalicare i limiti consentiti dalla ragione: e tuttavia esso può aprirsi ai sentieri della fede, come nello stupore ammutolito di Giobbe che, proprio alle soglie dell’abisso, riconosce il volto dell’Altro, l’Eterno «che fa morire e fa vivere», o come suggerisce l’immagine della copertina, con le mani sollevate nella meraviglia dell’attesa, lo sguardo discreto di là dall’ultimo respiro.

 

Virgilio Melchiorre è nato a Chieti nel 1931.
Attualmente insegna Filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università Cattolica di Milano,
ove in precedenza ha insegnato Filosofia della storia.
Fra i suoi ultimi si possono ricordare i volumi: Metacritica dell’eros, 1987;
 Ideologia, utopia, religione, Milano 1980; Essere e parola, Milano 1993;
Corpo e persona, Genova 1987; Studi su Kierkegaard, Genova 1998;
Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991;
Figure del sapere, Milano 1994; La via analogica, Milano 1996;
Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia 1997.

 

 

 


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Cristina Campo (1923-1977) – Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.

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Gli imperdonabili

Cristina Campo, Gli imperdonabili

«”Souffrir pour quelque chose c’est lui avoir accordé une attention extrème.” (Così Omero soffre per i Troiani, contemplando la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella dell’avversario.) E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schenno tra essa e tutto quanto può minacciarla,
in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti
minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione».

«Spezzati quegli specchi, poteva l’uomo non rimanere privo di volto? Non serve ricordare fino a che punto una folla moderna atterrisca per la totale cancellazione, nel numero, del volto umano e di quelle pure, laceranti figure che i volti umani sanno talvolta comporre. Il volto collettivo è un impossibile e i destini si annullano nelle agghiaccianti tipologie immaginarie che solo ricordare contamina: l’uomo a cui tutte le mura della metropoli gridano quale musica dovrà amare, casa desiderare, donna sognare, propongono senza tregua la folla babelica dei destini vicari, l’attrice che ha bevuto il veleno, il campione morto in un incidente. Nessun rapporto, non occorre dirlo, tra il destino e la disavventura di simili personaggi, frutto a sua volta di un vortice collettivo che li ha strappati per primi a qualunque rischio di vocazione.
E la catena è insolubile, tutte queste sorti girano a vuoto, una attratta dall’altra, gli empi camminano in tondo, come appunto avverte il Salmista».

Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987.

 

cristina_campo_foto

Cristina Campo.

 

 


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