Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Claudio Lucchini

Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale
e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

***

La corretta puntualizzazione ontologica degli interventi trasformativi della prassi umana diretti a realizzare modalità disalienate di vita sociale e forme di ricambio organico con l’ambiente naturale circostante rispettosi degli equilibri ecologici, sembra essere un compito assai rilevante al fine di chiarire l’essenza, le possibilità concrete, i limiti di un agire storico-sociale che voglia concepirsi ed attuarsi non come incessante tendere ad un illimitato e vuoto trascendimento del dato verso un orizzonte di libertà e giustizia mai raggiunto, ma, al contrario, come fondazione di una quotidianità funzionante radicalmente democratizzata, mediamente foriera di riconoscimenti umanizzanti e non estranianti, sebbene al di fuori di qualsiasi automatismo riproduttivo o provvidenzialismo secolarizzato.
Una tale impresa – qui molto schematicamente abbozzata in alcune sue essenziali componenti teoriche – non può in alcun modo prescindere da un’adeguata tematizzazione del rapporto che connette la dimensione sociale e la dimensione naturale del vivere umano, facendo della seconda l’ambito entro cui soltanto la prima – come del resto qualsiasi altra cosa, a patto di rifiutare soluzioni pesantemente metafisiche – può svilupparsi e vivere secondo un’indubbia specificità, che tuttavia mai, lo ribadiamo, può sospendere il nesso con la totalità materiale della natura. È ovvio che, seguendo questa impostazione, si porrà seriamente in discussione l’idea che debba essere posta una radicale discontinuità tra oggettività naturale data e oggettivazioni realizzate dal lavorio storico della prassi sociale in tutte le sue forme, cercando di mostrare in quale senso questa relazione debba venir intesa, sia rispetto alla dimensione connessa al ricambio tra società e natura, sia in relazione al modellamento pratico-politico delle forme delle relazioni sociali e personali, alla possibilità di una loro valutazione etico-sociale processualmente universalizzabile e alla delineazione collettiva di un nuovo modello di società innervato di contenuti oggettivamente e universalmente liberatori.
Uno dei testi storicamente decisivi, nell’ambito del pensiero marxista, per comprendere in qual maniera venga argomentata la sussunzione della struttura “oggettiva” dei fatti naturali nella prassi umana, in particolare nella prassi universalizzatasi con l’affermarsi del modo capitalistico di produzione, è la celebre opera di György Lukács Storia e coscienza di classe – uscita nel 1923, lo stesso anno di pubblicazione di un altro famoso libro che gli è affine, Marxismo e filosofia di Karl Korsch –, dal filosofo ungherese successivamente ripudiata nei suoi presupposti teorici, come si avrà modo di constatare accennando alla tarda, grandiosa Ontologia dell’essere sociale (pubblicata postuma nel 1976).
[… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Claudio Lucchini,
Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo



Gli altri interventi
Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.
Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.
Luca Grecchi – Perché la progettualità?

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Max Pohlenz (1872-1962) – La Grecia classica ci ha indicato la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene comune. La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene.

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La libertà greca

«Caratteristica fondamentale dell’uomo ellenico è il forte impulso ad autodeterminarsi, che lo induce a formulare un suo personale giudizio sulle cose da cui si trova circondato, e a configurare, di conseguenza, la propria vita secondo un criterio proprio.
Egli non disconosce gli ostacoli contro cui viene ad urtare, ed ha un senso profondo dei limiti che, in quanto uomo, gli sono imposti. È’ ben consapevole di trovarsi in una collettività, nella quale, per poter esistere, si deve inserire, anche a costo di sacrificare desideri propri. Ben sovente egli è anche costretto a sperimentare che la sua volontà è frustrata da accadimenti imprevedibili […]. Gli è pure estranea l’angoscia cosmica che, conseguenza delle più dure esperienze, grava sugli uomini di oggi […].
L’uomo greco possiede il senso della realtà, dell’esistenza riconosce appieno ed avverte, oltre agli aspetti buoni, anche la durezza; vede i pericoli che lo minacciano, ma il suo atteggiamento fondamentale non è il timore, l’ansia di difendersi, bensl una positiva volontà di vita, che lo spinge, entro i limiti che nell’ordinamento cosmico gli sono stati tracciati, a configurare la sua esistenza in modo adeguato alla propria natura e conforme alla sua volontà. In Eschilo Eteocle rimprovera aspramente alle fanciulle tebane la loro paura inconsulta […]. E già in Omero Ettore assurge a piena grandezza umana proprio nell’attimo in cui si vede dinanzi la morte sicura e s’avvede d’essere ingannato e tradito da tutti gli dei. Non lo vince la paura, ma ecco qual è il suo unico pensiero:
                     ch’io non senza lotta, non privo di gloria termini la vita,
         no, ch’io compia ancora qualcosa di grande, novella alle generazioni future.

Ecco il fondamento psicologico su cui poté svilupparsi il concetto greco di libertà»

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 5-6.

«Socrate […] impegnò  tutte le sue energie per convincere gli uomini che non dovevano affidarsi a opinioni soggettive, ma aspirare con tutte le forze alla conoscenza del bene oggettivo, l’unica sicura stella polare nella loro attività pratica. Solo questo ‘bene’ l’uomo, per sua natura, poteva davvero ‘volere’ e la desiderata libertà poteva consistere solo nell’orientare a questo fine il proprio agire, senza lasciarsi turbare da influenze estrinseche. […] Socrate  […] nei suoi dialoghi andava traendo sempre maggiore conferma alla convinzione che l’uomo fosse creato per vivere nella società e suo primo compito dovesse essere di inserirsi in essa mediante una condotta etica.
[…] Socrate è  consapevole che l’individuo deve tutta la sua esistenza fisica e spirituale alla società, e può vivere solo in essa. Alla società egli è quindi per sua natura esternamente legato e anche interiormente vincolato. Non possiede quindi una libertà assoluta, ma si trova in un vincolo oggettivo che non può sciogliere senza perdersi. Può renderlo più spontaneo se vi assente da sé, riconoscendo il bene etico come suo autentico bene e agendo di conseguenza. La subordinazione volontaria al tutto, che Peride sognava come ideale mentalità politica, raggiunge la sua espressione piena quando Socrate, ingiustamente condannato, preferisce rimanere in carcere piuttosto che compromettere per parte sua l’ordinamento giuridico e la stabilità dello stato. L’atteggiamento fondato sulla intuizione sentimentale s’è però trasformato in chiara scelta che l’uomo attua basandosi sulla conoscenza del vero bene. E se nella tragedia Antigone sacrificava la sua vita per una grande causa obbedendo alla propria sensibilità etica, anche la sua azione si caricava ora d’un significato più profondo per la certezza che non la vita importava, ma la vita buona, e con il sacrificio volontario della sua esistenza fisica l’uomo poteva salvare la sua parte migliore, la sua persona etica.
In tal modo Socrate diede agli uomini il sicuro sostegno di cui avevano bisogno, e indicò loro la via verso la libertà interiore, in cui unico criterio direttivo è il vero bene. Tale libertà del resto poteva trovare attuazione solo salva restando la consapevolezza dei suoi limiti, e anche la libertà personale presupponeva dei vincoli.
Per la massa quest’ideale era troppo alto, e la democrazia non sopportò chi incitava alla libertà etica dell’individuo. Fra i discepoli stessi di Socrate non potevano capire appieno il maestro quelli che non erano penetrati del suo stesso senso della polis».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 217-218.

«Socrate aveva indicato agli uomini la via per la libertà interiore, mostrando loro che i veri valori si trovavano nella loro stessa anima. […] Platone fu indotto […] a riconoscere chiaramente che la vera libertà poteva consistere solo nel dominio assoluto dello spirito sugli istinti inferiori. Il dominio di sé, che anche la sensibilità popolare esigeva, era la libertà dello spirito, che rappresenta il vero io dell’uomo. Aristotele, guidato dalla sua personale inclinazione, modificò tale concetto, affermando che lo spirito adempiva alla sua natura ‘divina’ nel pensiero teoretico, per il quale l’uomo è sollevato al disopra della vita quotidiana.
Sia Platone sia Aristotele usarono solo con ritegno il termine di ‘libertà’, perché aveva suono troppo politico. In realtà però hanno sviluppato il concetto conferendogli chiarezza filosofica: la libertà interiore giunge a pienezza nella libertà dello spirito, che non solo garantisce all’uomo l’indipendenza dall’esterno, ma gli dà anche la possibilità di sviluppare liberamente la sua vera natura.
La libertà ha un limite solo, ma inviolabile. Esso è implicito nelle leggi stesse dello spirito, che può volere soltanto il vero e il bene».

Max Pohlenz, La libertà greca, Paideia, 1963, pp. 134-135.

 


Vedi anche:

Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni


Luca Grecchi

Perché non possiamo non dirci Greci
In Appendice: In difesa di Socrate, Platone ed Aristotele

coperta 161

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


Luca Grecchi

La filosofia della storia nella Grecia classica

coperta 165

indicepresentazioneautoresintesiinvito alla lettura


Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia

Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.

Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.

Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.

Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele

Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.

Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.


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Giovanni Stelli – Tre lezioni sulla politica di Aristotele: Etica-politica come scienza unitaria – L’originaria costituzione intersoggettiva dell’uomo: amicizia e giustizia – La comunità politica e la teoria delle costituzioni

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«Aristotele […] è comprensivo e speculativo come nessun altro filosofo, sebbene non proceda in modo sistematico. […] Nessun altro filosofo è stato altrettanto dimenticato dai moderni, e a nessun altro degli antichi siamo perciò altrettanto debitori di riparazione. […] Se la filosofia venisse presa sul serio,  non vi sarebbe cosa più degna che tenere un corso di lezioni su Aristotele, il più degno di essere studiato, fra gli antichi  filosofi».
Georg W.F. Hegel

Processione panatenaica, blocco VI, rilievo del fregio est del Partenone (Museo dell'Acropoli di Atene) - Fidia (bottega) - 442-438 a.C.

Coperta Tre lezioni sulla politica di Aristotele

Govanni Stelli
Tre lezioni sulla politicadi Aristotele

ISBN 978-88-7588-169-6, 2016, Editrice Petite Plaisance,
pp. 112, Euro 13, Collana “il giogo” [66].

Lezione I
Etica-politica come scienza unitaria: problemi di fondazione

Lezione II
L’originaria costituzione intersoggettiva dell’uomo:
amicizia e giustizia 

Lezione III
La comunità politica e la teoria delle costituzioni

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Per Aristotele la politica è la scienza unitaria della prassi, delle relazioni interumane, e comprende quindi tanto l’etica quanto la politica in senso specifico. In queste lezioni l’autore si propone di mostrare l’attualità teoretica del pensiero aristotelico, un’attualità che si evidenzia alla luce di un continuo confronto critico delle categorie del pensiero dello Stagirita con quelle del pensiero moderno, spesso ed erroneamente considerate “superiori”. Sul fondamento della sua impostazione teleologica, ben più consistente di quanto comunemente non si ritenga, Aristotele intende l’etica-politica come scienza descrittiva e insieme valutativa, evitando così l’antinomia tra fatti e valori tipica della modernità, e comprende l’uomo come un ente nella sua essenza sociale, sfuggendo all’altra antinomia, anch’essa tipicamente moderna, tra individualismo e organicismo. In questa visione l’uomo è in grado di attuare compiutamente la sua essenza e sviluppare le virtù individuali solo in una comunità bene ordinata, in cui insieme agli altri può e deve cercare di realizzare la vita buona.


Giovanni Stelli ha insegnato filosofia e storia nei licei e pedagogia generale e didattica della filosofia all’Università. Svolge da anni attività di ricerca con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, occupandosi soprattutto di idealismo tedesco e di filosofia contemporanea. Tra i suoi libri: La ricerca del fondamento. Il programma dell’idealismo nello scritto fichtiano “Sul concetto della dottrina della scienza” (Milano, 1995), Il labirinto e l’orizzonte. Strutture filosofiche del postmoderno (Milano, 1998), Percorsi della filosofia del Novecento [cura] (Perugia, 2001), Il filo di Arianna. Relativismi postmoderni e verità della ragione (Napoli 2007). Ha curato l’antologia  Aristotele. La scienza della prassi  (Roma, 2009) e la traduzione dei due volumi di Vittorio Hösle, Il sistema di Hegel (Napoli 2012). Per le edizioni “petite plaisance”, oltre ad alcuni saggi su “Koiné”, ha pubblicato con Luca Grecchi, La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (Pistoia 2013).


Il labirinto e l'orizzonte

Il labirinto e l’orizzonte


 

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Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

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Filosofare

Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.


Massimo Bontempelli

In cammino verso la realtà

 

Leggi e stampa le 16 pagine

Quando l’epoca in cui si vive
non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali,
l’imperativo, per conservare dignità umana,
e non lasciarsi invecchiare dalla morte,
è quello di
costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.


Alle soglie del XXI secolo il genere umano ha materializzato, e già notevolmente percorso, quel sentiero della notte da cui Parmenide, con il suo poema inaugurativo della filosofia greca, lo aveva messo in guardia ben due millenni e mezzo or sono. Parmenide aveva qualificato il sentiero della notte come sentiero che non è, non nel senso che non potesse apparire all’esistenza, o che non fosse transitabile, ma nel senso che sulla sua via, tracciata a partire da una volontà negatrice dell’essere, non sarebbe stato possibile percepire più nulla di reale.

L’uomo di oggi, infatti, inoltratosi nel sentiero della notte, non percepisce più nulla come intangibilmente vincolato alle condizioni del reciproco riconoscimento umano, e come inseparabile dal suo contesto trascendentale di significato, neppure nelle forme distorte delle rappresentazioni trascendenti e dell’educazione eteronoma. Tutto gli appare invece svincolabile: la persona può essere svincolata dal lavoro, il lavoro può essere svincolato dai diritti, la natura può essere svincolata da ogni sacralità, il comportamento umano può essere svincolato da ogni dovere, il bambino può essere svincolato dalla sua infanzia, e così via. Tutto gli appare decontestualizzabile: ogni cosa è vista come duttile a piacere a fronte della completa liceità arbitrarista e della illimitata potenza proceduralistica. Nulla, insomma, gli appare più reale.

Parmenide aveva preavvertito l’Occidente, con il suo poema, che un sentiero simile sarebbe stato del tutto privo di saggezza, perché avrebbe tolto al sapere ogni oggettività, in quanto il linguaggio pensante non può esprimere altra oggettività che quella dell’essere, e perché avrebbe impedito ogni trasmissione educativa, in quanto, egli disse, non si può educare attraverso la negazione dell’essere.

La civiltà stessa, dunque, viene progressivamente cancellata sulla via del sentiero della notte. Oggi abbiamo davanti agli occhi molteplici segni di questa cancellazione: masse senza un lavoro da cui poter trarre i mezzi per un’esistenza minimamente dignitosa; lavoro privato di ogni diritto; ambiente naturale inquinato fino alla prospettiva del collasso ecologico del pianeta; diffusione su vastissima scala di pratiche di segregazione e di tortura; sfruttamento e brutalizzazione di settori dell’infanzia; sempre più estese ed impunite accumulazioni di ricchezza per via criminale; scomparsa crescente di ogni senso morale.

Tutti questi elementi, ed altri che potrebbero venire aggiunti, sono manifestazioni evidenti di una perdita di realtà da parte del genere umano, ma nessuno di essi rappresenta la radice storica di questa via di allontanamento dalla realtà che è stata imboccata. Lo si può intuire anche dal fatto che i gruppi nati per contrastare tali elementi singolarmente presi (ad esempio forze neocomuniste e neokeynesiane in difesa del lavoro, gruppi ecologisti ed animalisti in difesa della natura, organizzazioni in difesa della legalità, e via dicendo), non soltanto non hanno mutato il panorama complessivo, ma hanno rivelato spiccate tendenze all’adattamento compromissorio… [Continua a leggere]

  Freccia rossa  Massimo Bontempelli, In cammino verso la realtà

Già pubblicato in

Filosofia e realtàMassimo Bontempelli
Filosofia e realtà.

Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo

Petite Plaisance, 2000, pp. 223-254.

ISBN 88-87296-71-5, 2000, pp. 288, formato 140×225 mm, Euro 15,00

indicepresentazioneautoresintesi

Altri testi di M. Bontempelli

 

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero

Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, in: Scienza, Cultura, Filosofia  

Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945)

Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush 

L’agonia della scuola italiana 

La conoscenza del bene e del male

La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, in:  Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

La disgregazione futura del capitalismo mondializzato

Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo 

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, in: Metamorfosi della scuola italiana

Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word      

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(ordine alfabetico per autore)
al 27-01-2016

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Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Psiche

Filosofare

Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.


Massimo Bontempelli

Un esempio di pensiero nichilista contemporaneo.  Lettura critica del libro di Umberto Galimberti
Psiche e tecne

Sommario del saggio

Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione

Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico
avendolo pensato come assoluto

Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana

Nel dispositivo teorico heideggeriano
non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente

L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico

Per Galimberti la tecnica è l’essenza dell’uomo

L’angustia teorica dell’impostazione filosofica heideggeriana

Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante
delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo

L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi

Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino

La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico

Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia

Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico

Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare
le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica

Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma del tutto alternativa

La povertà filosofica di Galimberti in ordine a:
conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali

Leggi e stampa le 16 pagine

Il nichilismo contemporaneo
va criticato nel suo più alto livello di espressione

Hegel ha una volta osservato che per confutare veramente un sistema di pensiero è necessario penetrarne la forza e le ragioni, e criticarlo, quindi, soltanto nel suo più alto livello di espressione. Alla luce di questa osservazione di Hegel, una lettura critica dell’ultimo libro di Umberto Galimberti, Psiche e tecne (Feltrinelli), rappresenta il terreno più adatto per la confutazione del nichilismo contemporaneo. Si tratta, infatti, di un libro di alto livello. Il suo primo pregio è quello di affrontare, in un’epoca la cui produzione scritta per lo più si aggira con superficialità tra cose del tutto fatue, oppure si inoltra in maniera soltanto erudita in questioni di arido specialismo, un argomento della massima serietà umana. Ciò di cui Galimberti ci parla, infatti, è il modo in cui la nostra umanità è stata interamente riplasmata dal fatto storicamente inedito di abitare un ambiente tecnicamente organizzato in ogni sua articolazione. Pochi sono gli argomenti altrettanto degni di essere discussi e approfonditi… [Continua a leggere le 16 pagine]

  Freccia rossa  Massimo Bontempelli
Un esempio di pensiero nichilista contemporaneo
Lettura critica del libro di Umberto Galimberti, “Psiche e tecne”


Già pubblicato in

Filosofia e realtàMassimo Bontempelli
Filosofia e realtà.

Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo

Petite Plaisance, 2000, pp. 255-283.

ISBN 88-87296-71-5, 2000, pp. 288, formato 140×225 mm, Euro 15,00

indicepresentazioneautoresintesi

Altri testi di M. Bontempelli

La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero

Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, in: Scienza, Cultura, Filosofia  

Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945)

Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush 

L’agonia della scuola italiana 

La conoscenza del bene e del male

La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana, in:  Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri

La disgregazione futura del capitalismo mondializzato

Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo 

Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?, in: Metamorfosi della scuola italiana

Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro


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(ordine alfabetico per autore)
al 18-01-2016

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Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Bert

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ho compiuto i miei studi universitari di filosofia, il panorama filosofico italiano era dominato da correnti che, con poche eccezioni, avevano in comune il rifiuto della metafisica: sviluppi del neoidealismo (U. Spirito, G. Calogero), storicismo (C. Antoni, E. Garin), esistenzialismo (N. Abbagnano, L. Pareyson), marxismo (A. Banfi, C. Luporini, N. Badaloni), neopositivismo (L. Geymonat, A. Pasquinelli, N. Bobbio), spiritualismo cristiano (A. Guzzo, L. Stefanini, M.F. Sciacca). Favorevoli a una forma di metafisica, detta «metafisica classica», erano le scuole filosofiche dell’Università Cattolica di Milano (A. Olgiati, G. Bontadini, S. Vanni Rovighi) e dell’Università di Padova (U. Padovani, M. Gentile).

L’esistenzialismo francese esercitava la sua influenza attraverso Sartre e Marcel e quello tedesco attraverso Heidegger e Jaspers; accanto ad esso anche il personalismo di Mounier e di Maritain influì sulla filosofia italiana degli anni Cinquanta, ma soltanto nell’area cattolica. Il neopositivismo era conosciuto attraverso le opere del primo Wittgenstein (il Tractatus), di Carnap e in generale del Circolo di Vienna; la filosofia analitica inglese cominciava a farsi conoscere attraverso Austin e Ryle (quest’ultimo tuttavia interpretato come un comportamentista attraverso la traduzione di Rossi-Landi). Negli anni Sessanta cominciò l’influenza dello strutturalismo (Lévy-Strauss, Foucault), del pensiero di K.R. Popper, dell’ermeneutica filosofica tedesca (Gadamer) e francese (Ricoeur), della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse).

Ciò che mi ha spinto a fare filosofia è stato soprattutto il desiderio di verificare se i problemi umani, quelli di carattere teoretico, cioè conoscitivo, potessero essere risolti tutti dalle varie scienze, oppure richiedessero soluzioni di carattere trascendente, tali quindi da aprire lo spazio ad un’eventuale fede religiosa. Una conoscenza, anche soltanto superficiale, della metafisica antica (Aristotele) e medievale (Tommaso d’Aquino) mi convinse della necessità di una soluzione trascendente e quindi mi consentì un’adesione alla fede cristiana.

Ma non scelsi la metafisica per fare spazio alla fede, bensì, al contrario, mi aprii alla fede in conseguenza di un’adesione alla metafisica, percorso – credo – abbastanza raro e in genere rifiutato sia dai credenti che dai non credenti.

Dato questo orientamento, mi trovai a mio agio nell’Università di Padova, soprattutto nella corrente della «metafisica classica», che faceva capo a Umberto Padovani per la componente tomistica e a Marino Gentile per la componente aristotelica. Volevo fare una tesi di laurea sui rapporti tra la metafisica e la filosofia contemporanea, per “confutare” la pregiudiziale antimetafisica di quest’ultima, ma Marino Gentile, al quale avevo chiesto di farmi da relatore, mi spinse a studiare Aristotele, per cui feci la tesi sulla genesi della dottrina della potenza e dell’atto. In quel momento lo studio di Aristotele, in Italia, era ritenuto una scelta del tutto priva di interesse filosofico, perché lo storicismo imperante induceva a considerare Aristotele un filosofo del tutto superato dalla scienza e dalla filosofia moderna. In realtà si ignorava che il più grande filosofo tedesco del momento, cioè Heidegger, si era formato soprattutto attraverso lo studio di Aristotele, e che la migliore filosofia inglese, quella di Austin e di Ryle, non era che un’applicazione dei metodi di Aristotele all’analisi del linguaggio. Pertanto i rapporti della mia “scuola” di appartenenza con il resto dell’ambito filosofico italiano erano di totale opposizione, un’opposizione condotta da una posizione assolutamente minoritaria. Invece i miei studi su Aristotele, che si espressero per la prima volta nel libro su La filosofia del primo Aristotele (Padova 1962), oltre a farmi ottenere la cattedra universitaria, mi aprirono la strada a numerosi contatti internazionali e mi fecero entrare nel giro prestigioso dei Symposia Aristotelica, a cui sono stato invitato dal 1966 per più di 40 anni (fino al 2011).

Il primo nodo centrale che si è maturato nella mia posizione filosofica è stato il concetto di esperienza come problematicità pura, appreso dal mio maestro Marino Gentile e ricostruito nella sua genesi storica nella metafisica di Aristotele. Esso consiste nel mettere in questione tutto ciò di cui abbiamo esperienza, oggetto, soggetto, natura, storia, individuo, società, realizzando quello che M. Gentile definiva «un domandare tutto che è tutto domandare» e che corrisponde perfettamente alla «meraviglia» da cui, secondo Platone e Aristotele, ha origine la filosofia. Si tratta di quello che potremmo chiamare il terzo grado di meraviglia, cioè la meraviglia che investe non i problemi della vita quotidiana, né i fenomeni di cui si occupano le scienze, ma il perché del tutto, la ragione ultima della totalità del reale.

Di questo atteggiamento ho trovato la prima formulazione rigorosa in Aristotele, nella sua concezione della metafisica come ricerca delle cause prime, alcune delle quali trascendono il mondo dell’esperienza. A parte i condizionamenti storici della metafisica di Aristotele, cioè la

sua dipendenza dalle conoscenze scientifico-cosmologiche della sua epoca, la sua classicità consiste da un lato nell’essere stata costruita con risorse unicamente umane, senza presupporre, come le posteriori filosofie medievali, alcuna fede religiosa; dall’altro nella sua apertura al monoteismo, come hanno compreso i filosofi musulmani (Avicenna, Averroè), ebrei (Maimonide) e cristiani (Alberto e Tommaso).

Un secondo nodo per me centrale è stato la scoperta, in Aristotele, del metodo dialettico inteso nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, come struttura del discorso filosofico. Praticato nell’antichità da Platone e da Aristotele, questo metodo è stato ripreso nella filosofia del Novecento dall’ermeneutica di Gadamer, dal fallibilismo di Popper, dall’etica del discorso di Apel e Habermas, dalla teoria dell’argomentazione di Perelman, ma anche di Ryle, insomma dai più critici ed aperti tra i filosofi contemporanei.

Un terzo nodo, legato al secondo, è stato per me la critica della dialettica intesa nel senso moderno del termine, cioè hegeliano-marxiano, in particolare la critica della realtà della contraddizione, condotta alla luce del principio aristotelico di non-contraddizione.

Questa critica è stata occasionata per me dal dibattito inaugurato con l’intervista filosoficopolitica di Lucio Colletti (1975), al quale ho partecipato intensamente, attraverso confronti con lo stesso Colletti, con Emanuele Severino, con Ludovico Geymonat, con Franco Chiereghin, e all’estero, più recentemente, con i fautori del “dialeteismo” (Graham Priest).

Un quarto nodo, il più recente e probabilmente l’ultimo, è l’elaborazione di una metafisica povera, umile, “debole” dal punto di vista dell’informazione, anche se “forte” dal punto di vista dell’argomentazione. Esso consiste nella riduzione della «metafisica classica» a semplice riconoscimento della problematicità dell’esperienza e della conseguente necessità di un principio trascendente, senza aggiungere a questo alcuna ulteriore indicazione, conseguibile razionalmente, circa la natura di tale principio, i suoi rapporti con il mondo, con l’uomo, con la storia, temi considerati tutti come materia di fede.

Naturalmente ho anche delle idee di carattere politico, o di filosofia politica, che riguardano l’attualità del concetto classico di polis come società politica autosufficiente, il conseguente superamento dello Stato sovrano moderno, la necessità di una società politica di dimensioni mondiali, e idee simili, per le quali tuttavia non posso pretendere alcuna originalità.

Se dovessi indicare gli aspetti della mia filosofia che considero più originali, distinguerei la mia posizione filosofica generale dai miei studi su Aristotele, che pure considero parte della mia filosofia. Per quanto riguarda la prima, non ho mai preteso di essere originale, perché mi interessa di più essere nel vero, cioè sapere come stanno realmente le cose, che essere originale. Per questo ho aderito alla «metafisica classica», in particolare alla formulazione che di essa ha dato Marino Gentile. Rispetto a questa tuttavia, credo di avere contribuito all’approfondimento, o alla precisazione, di qualche aspetto di essa. Per esempio, in collaborazione con alcuni amici che erano al pari di me allievi di Marino Gentile (Romano Bacchin e Franco Chiereghin), abbiamo precisato che la problematicità pura non è un’introduzione alla metafisica, come forse riteneva Marino Gentile, ma ne costituisce l’intero corpo. Abbiamo precisato inoltre che, dal punto di vista logico, il discorso metafisico è un discorso di tipo dialettico, nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, il che in Marino Gentile non era dapprima chiaro, ma lo divenne in seguito, e lui stesso riconobbe il nostro contributo al riguardo. Personalmente poi ritengo di avere ulteriormente essenzializzato il discorso metafisico di Marino Gentile, riducendolo a quella che ho chiamato metafisica povera, o umile, o debole dal punto di vista dell’informazione.

Per quanto riguarda invece lo studio di Aristotele, credo di avere contribuito a presentare il suo pensiero in modo più autentico, cioè più fedele ai testi, sfrondandolo dalle numerose incrostazioni accumulatesi nei secoli e dovute alle diverse forme di scolastica. In tal modo esso è risultato anche più attuale, cosa di cui più volte mi è stato dato atto. Più particolarmente ancora, credo di avere mostrato che la metafisica di Aristotele non è né una teologia, come si credeva nella tarda Antichità e nel Medioevo, né un’ontologia, come si è creduto nella filosofia moderna, ma è invece una ricerca delle cause prime, proseguita in gran parte dalla scienza moderna (nella ricerca della causa prima materiale e della causa prima formale) e in parte dalla filosofia contemporanea (l’etica della felicità nella ricerca della causa prima finale, la «metafisica classica» nella ricerca della causa prima efficiente).

Infine ritengo di avere proposto alcune interpretazioni originali della causalità del motore immobile, mostrando che essa è di tipo efficiente (pur non essendo creazione), e della vexata quaestio dell’intelletto attivo, mostrando che questo non è una mente, ma un complesso di conoscenze già acquisite dal genere umano (i princìpi delle scienze).

Ho accennato all’inizio all’inattualità dello studio di Aristotele e della metafisica in generale negli anni Cinquanta del secolo scorso, almeno in Italia. Ebbene, nel corso degli anni Sessanta si è verificata nel mondo occidentale la perdita di fiducia nelle scienze umane, specialmente nella sociologia, come capaci di risolvere tutti i problemi. Questa perdita di fiducia, o crisi delle scienze umane, ha portato alla nascita della «teoria critica della società», cioè della sociologia filosofica della Scuola di Francoforte, che è sfociata nella contestazione studentesca, la quale ha scosso l’intero mondo occidentale con le rivolte di Berkeley (1964-65), di Berlino (1967), di Parigi (1968), e in Italia di Torino, di Roma, e di quasi tutte le università. Essa ha determinato la cosiddetta «rinascita della filosofia pratica», cioè di una modalità razionale, non ideologica o religiosa, né soltanto scientifica, ma filosofica, di affrontare i problemi etici e politici, la quale è consistita essenzialmente nella riscoperta della filosofia pratica di Aristotele, ad opera di Gadamer, Ritter, Apel, Habermas, in Germania, Arendt, MacIntyre, Nussbaum in America, Aubenque e la sua scuola in Francia, Franco Volpi in Italia. Aristotele è risultato così improvvisamente attuale, molto più di quanto lo fosse negli anni Cinquanta, e si è determinata una rinascita dell’interesse per la filosofia aristotelica negli ultimi decenni del secolo scorso, alla quale credo di avere contribuito anch’io con i miei studi.

Contemporaneamente si sono avuti in Occidente eventi storici di tipo diverso, quali la progressiva presa di coscienza dei diritti umani, il Concilio Vaticano II, il pontificato di alcuni importanti papi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II), la scoperta e i progressi dell’informatica, che hanno contribuito con altri fattori al crollo dell’Impero sovietico e quindi alla sconfitta del comunismo “realizzato”. Tutto questo ha determinato anche la crisi del marxismo come filosofia, in particolare del materialismo dialettico, che aveva dominato la filosofia europea negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (anche nella prima Scuola di Francoforte), per cui i miei studi sulla contraddizione e la dialettica moderna sono risultati del tutto attuali e hanno determinato la fortuna del mio libro Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (Palermo 1987), che è stato pubblicamente lodato, ad esempio, da un ex materialista dialettico come Ludovico Geymonat.

Infine la scoperta e la diffusione nell’Europa continentale e in Italia della filosofia analitica anglo-americana, la quale aveva superato la fase neopositivistica ed aveva quindi abbandonato la sua pregiudiziale antimetafisica, ha portato anche in Europa ad una rinascita di interesse per la metafisica. Questo ha fatto apparire più attuale, o meno inattuale, anche la metafisica di ispirazione aristotelica, e quindi la mia posizione filosofica si è trovata ad essere meno isolata che in passato, anzi spesso in linea con i dibattiti più recenti (sull’identità personale, sull’individuazione, sulla sostanza, sulla forma). Mi riferisco a posizioni come quelle di Strawson e Wiggins in Inghilterra, Chisolm e van Inwagen negli USA, Ricoeur in Francia, con le quali mi è accaduto di confrontarmi e di incontrarmi in anni recenti. Tutto questo ha determinato una certa attualità della mia posizione filosofica.

Se dovessi dire cos’è mutato oggi nel rapporto tra filosofia e vita, farei riferimento soprattutto alla situazione italiana, che conosco meglio, anche se, girando il mondo, partecipando a congressi mondiali (quelli organizzati dalla FISP, Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, di cui sono stato vice-presidente) e presiedendo istituzioni internazionali (l’Institut International de Philosophie), ho riportato l’impressione che altrove la situazione non sia molto diversa. In Italia la filosofia era già uscita dall’ambiente accademico, cioè universitario, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma per impegnarsi sul piano politico; esempio emblematico: Toni Negri. Negli anni più recenti la filosofia accademica è entrata nei mass media (giornali quotidiani, settimanali, televisione), si è diffusa in innumerevoli festival filosofici, facendosi sentire nei teatri e nelle piazze, ma ha perduto l’aggressività polemica, e anche l’influenza politica, che aveva negli anni Settanta, per diventare una forma di intrattenimento, o di passatempo intelligente. Molti filosofi sono stati coinvolti in dibattiti, soprattutto di bioetica, entrando a far parte di comitati di consulenza locali e nazionali. Pochi invece sono stati coinvolti nell’attività dei partiti politici, anche per la crisi che ha colpito questi ultimi. La mia impressione è che nei rapporti reciproci tra i filosofi ci sia meno ideologia e più tolleranza che in passato, o almeno io mi sento rispettato, nelle mie idee e nei miei studi, più di quanto lo fossi all’inizio della mia attività (indubbiamente anche a causa della mia età ormai avanzata).

Un tema di importanza perenne, e quindi anche futura, per la filosofia è il suo rapporto con le scienze. Mano a mano che queste si sviluppano, dalla fisica alla biologia, dall’economia alla psicologia, esse pongono continuamente nuovi problemi, che la filosofia non può ignorare e con cui deve confrontarsi, pur nel rispetto delle competenze. Ci sono poi i problemi dovuti alla globalizzazione, cioè le crisi economiche, le migrazioni di popoli, i conflitti etnici e religiosi, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie: tutti temi importanti per la filosofia, specialmente per la filosofia pratica e la filosofia politica.

Naturalmente i filosofi di professione, che in genere sono professori, di scuola media superiore o di università, difficilmente possono influire sulla soluzione di tali problemi. Essi possono tuttavia fornire informazioni e indicazioni a chi non è filosofo di professione, cioè ai politici, agli amministratori, agli economisti, agli scienziati. L’ideale sarebbe che tutte le persone di cultura, qualunque sia la loro professione (medici, giuristi, informatici, giornalisti, artisti, gente di spettacolo, ecc.), avessero un minimo di formazione filosofica, per poter riflettere da un punto di vista generale sui problemi particolari, per confrontare opinioni diverse, per argomentare in modo corretto.

Secondo Hegel la funzione del filosofo era di capire il proprio tempo, cosa possibile – a suo avviso – solo al termine di un’epoca, quando ormai gli eventi storici erano compiuti e si apriva lo spazio alla riflessione, o meglio alla comprensione razionale, senza più nessuna possibilità di intervenire. Secondo Marx, invece, la funzione del filosofo era di trasformare il mondo, cioè di renderlo più razionale, più umano, più giusto, anche a prezzo di violenza, per esempio con la rivoluzione. Oggi mi sembra difficile, per il filosofo, svolgere sia l’una che l’altra funzione, benché egli disponga di informazioni indubbiamente molto più vaste che in passato, e benché i mezzi per influire sul modo di pensare della gente siano molto più efficaci che in passato. Il difficile è capire come stanno realmente le cose, data l’enorme complessità delle situazioni che si determinano a livello mondiale, ed inoltre sapere esattamente che cosa bisogna fare, cioè essere sicuri di poter fare bene.

Una cosa credo che il filosofo di professione debba fare, cioè esercitare con onestà la propria professione. Mi richiamo qui a quanto disse Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione: il filosofo non deve fare il profeta, il predicatore, l’agitatore di folle; soprattutto non deve servirsi della cattedra per imporre agli studenti le sue idee, sottraendosi al confronto aperto con i propri simili. Il filosofo deve argomentare onestamente, cioè correttamente dal punto di vista logico, sottoponendosi all’esame altrui ed esaminando a sua volta le opinioni altrui, cioè deve discutere. La figura di Socrate, paradossalmente, può essere ancora attuale, ma nella discussione pubblica. Nell’attività professionale il filosofo deve ricercare onestamente la verità, fornendo possibilmente contributi di nuove conoscenze, e insegnare qualcosa di preciso, di determinato, di non vago, non fumoso, non generico. A questo proposito mi permetto di rinviare a ciò che ho scritto nel mio ultimo libro, La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium, 2014.

Ai giovani vorrei dire: non vi invito a scegliere la filosofia come professione, perché rischiate di non poter sopravvivere; vi invito ad occuparvi di filosofia facendo altre professioni, nel tempo libero, nelle domeniche, nelle vacanze. Vedrete quanta soddisfazione la filosofia vi può dare, e forse essa vi darà anche qualche indicazione per ciò che dovete fare, o qualche consolazione per ciò che avete già fatto.
A chi sceglie la filosofia come professione, sperando che egli abbia delle motivazioni fortissime, raccomando di non farla in modo generico, ma di farla in modo serio, cioè di non fare troppe chiacchiere, di non occuparsi di tutto, ma di specializzarsi in qualche cosa di preciso, pur tenendosi al corrente di tutto.

Enrico Berti

Enrico Berti – Per una nuova società politica

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Incontri con la filosofia contemporanea

Enrico Berti – Incontri con la filosofia contemporanea

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Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

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Michele Gasapini – La caduta di Icaro. Analisi del mito e della modernità

Marc ChagallLa Caduta di Icaro

Marc Chagall, La Caduta di Icaro.

Anche se non si volesse credere alla verità che nascondono,
è impossibile non credere alla loro incomparabile potenza simbolica.
Nonostante la loro consunzione moderna,
i
miti restano,
al pari della metafisica,
un ponte gettato verso la trascendenza.

E. Junger[1]

 

  1. Introduzione

Può un mito antico più duemilacinquecento anni raccontare e interpretare il presente? Inizio provando a rispondere a questa domanda che mi permette di esplicitare le premesse, garanzie non tanto di oggettività ma di trasparenza, su cui si basa questo lavoro.
In primo luogo, ricordando la lezione di Cassier[2]  l’uomo è un animale simbolico e dunque il mito contiene verità senza tempo sugli aspetti ultimi della natura umana. Natura umana che nel mondo della post-modernità sembra perdersi in favore di individualità prive di legami, funzionali all’attuale sistema ideologico – sociale. Occorre dunque ripartire dallo spirito greco, dalla concezione aristotelica di uomo come come politikon zwon[3] e zwon logon econ[4]  e dal concetto filosofico di metron[5]  come chiave fondativa non solo di qualsiasi interpretazione ma di ogni tentativo di riformulazione del presente. L’analisi proposta punta a compiere quel rovesciamento gestaltico rispetto alle tradizionali interpretazioni che aprirà alla comprensione, non solo del mito di Dedalo e Icaro, ma anche del nostro tempo.
Il lavoro si divide dunque in due parti, pur con le inevitabili contaminazioni, una prima parte dove saranno analizzate le strutture simboliche ricorrenti e una seconda dove queste premesse saranno sviluppate in un’analisi della modernità. Spetterà poi al lettore stabilire se si è trattata di un’indebita oppressione di un mito greco sul letto di Procuste della critica sociale oppure se le suggestioni suggerite dal percorso avranno contribuito ad allargare la comprensione del mondo attuale.

  1. Il mito[6]  e le sue strutture

Abbiamo quindi individuato le cinque strutture fondamentali da cui partire nell’interpretazione del mito. Non è rilevante individuare una versione unitaria della storia quanto analizzarne i suoi significanti fondamentali, senza perdersi in dettagli, filologicamente interessanti, ma privi di importanza per il lavoro che ci siamo proposti.
Le strutture individuate sono:

  • il minotauro
  • il labirinto
  • la costruzione delle ali
  • il volo e la caduta

Queste cinque costellazioni simboliche[7]  serviranno da guida nell’esplorazione dei significati del mito, nella convinzione che questi possano essere, non esauriti, ma ricondotti all’interno di queste cinque categorie fondamentali.

2.1 Il minotauro

Il Minotauro è una figura che ha affascinato artisti di ogni epoca storica proprio in virtù della sua duplice natura di uomo e animale.[8]  Pur non apparendo direttamente all’interno del racconto, il suo ruolo rimane quello di un primus movens:

  1. Dedalo è responsabile del suo concepimento, costruendo la giovenca di legno che permetterà a Pasifae, moglie di Minosse, l’incestuoso accoppiamento.
  2. per lui Dedalo costruisce il labirinto dove sarà rinchiuso insieme al figlio
  3. la sua presenza rende la fuga necessaria

La caratteristica fondamentale del minotauro è appunto il suo essere al medesimo tempo uomo e animale, creando una figura dove questi due aspetti non possono essere esaminati singolarmente ma nella loro unione. Il minotauro, quindi, come unione bestiale tra uomo e animale, frutto del cedere al desiderio irrefrenabile e innaturale, alle pulsioni irrazionali interne all’essere umano. Reificazione mostruosa, nel concepimento come nell’aspetto, del duplice tabù della zoofilia e del cannibalismo, trasformati in vivida verità che non possono essere semplicemente e privatamente negati nella loro realtà, ma per poter mantenere lo status quo devono essere rimossi dal visibile e nascosti in quella simbolizzazione dell’inconscio rappresentata dal labirinto[9].
E’ interessante osservare come il peccato originale da cui scaturisce quest’essere mostruoso è un peccato del maschile, un peccato del padre; padre e re e quindi peccato della comunità stessa come struttura sociale. La passione che si accende in Pasifae è scatenata da Nettuno per punire Minosse, reo di essersi rifiutato di sacrificare al dio il vitello bianco per tenerlo all’interno della propria mandria. Il peccato originale è dunque un peccato di accumulo, il desiderio di possedere ciò che era destinato agli dei[10]  crea il minotauro, che appunto reifica il desiderio sfrenato e che continuamente ha da essere alimentato tramite il più terribile dei sacrifici[11], senza poter essere eliminato.
La sua apparizione è il momento di consapevolezza dell’uomo nella forma della sua rappresentazione simbolica e da quel momento, il minotauro può essere celato, nascosto, ma rimane. E’ l’ente che rappresenta la realtà di questo lato della natura umana: il prodotto di un unione perversa che distorce l’essenza stessa dell’umano producendo un abomino.[12] E’ quindi un inganno consapevole quello che viene messo in atto, tramite il suo nascondimento all’interno del labirinto.

2.2 Il labirinto[13]

La seconda struttura che incontriamo nel nostro percorso è quella del labirinto. Costruito da Dedalo su ordine di Minosse è il luogo della prigionia del Minotauro, e il luogo in cui il suo costruttore venne rinchiuso insieme al figlio.
Il labirinto risponde a una duplice funzione nei confronti della creatura:

  1. imprigionare
  2. nascondere

Imprigionata per proteggere la comunità dalla sua furia, celata perchè la sua stessa presenza è scandalo e seppure sia necessario contenerlo non può essere eliminato dalle forze che l’hanno creato. La stessa costruzione del labirinto richiama costantemente alla sua presenza: non in una cella segreta ma in una struttura gigantesca e ben visibile è rinchiuso il Minotauro. Di fronte a queste premesse risulta quasi banale associare al labirinto la parte della psiche e al Minotauro la parte nera e scura, l’ombra dell’inconscio che si nutre di istinti irrefrenabili.
A chi appartiene dunque il labirinto? E’ il labirinto di Minosse certo, ma è anche il labirinto di Dedalo e delle sue colpe, è in fondo il labirinto dell’uomo, del Dedalo e del Minosse che è in ognuno di noi e che ciascuno di noi costruisce non solo come singoli ma anche come società.
Ma il labirinto è sempre anche una porta aperta verso l’ignoto. Accanto ai drammi, alle difficoltà, al rischio di perdersi al suo interno, l’idea del labirinto ci lascia la possibilità d’intravedere un’uscita, una soluzione agli enigmi, agli inganni, alle illusioni che esso ci pone davanti. Ecco che il nostro labirinto prende forma con le sue luci e le sue ombre, gli antri oscuri e i cortili da cui vedere il sole, una costruzione dell’uomo, dove perdersi e dove ritrovarsi.
Un luogo catartico nel quale ci si trova di fronte all’ombra, una sorta di bozzolo nel quale troviamo la possibilità di reale riscatto o di perdita definitiva. In un caso come nell’altro il labirinto apre alla scelta autentica tra la conquista della luce e il disperdersi nelle tenebre.

2.3 La costruzione delle ali[14]

Dedalo costretto nel labirinto si trova di fronte a due soluzioni: soccombere di fronte all’oscurità o trovare una via d’uscita. Tuttavia il labirinto non ha una soluzione, non esistono vie di fuga o passaggi segreti che la permettano. Ha costruito per se stesso la prigione perfetta: se una via di fuga esiste, Dedalo non è in grado di trovarla all’interno del labirinto, deve crearla. Artefice fino in fondo delle sue fortune, così come delle sfortune, Dedalo, allora, per fuggire insieme al figlio, progetta la costruzione di un paio d’ali[15].
A questo punto il mito ci mette di fronte a due figure fondamentali che si sovrappongono.

  1. Dedalo non riceverà aiuti esterni per fuggire, non l’appoggio di dei o salvatori, può contare solo sulle sue forze, sul suo ingegno, sulle sue scelte: sulla sua prassi, intesa come azione trasformatrice. Come l’uomo crea con le sue azioni il labirinto e il mostro che lo popola, ugualmente con le sue azioni è in grado di superarlo e fuggirlo. E’ la fuga da un labirinto a determinare la sconfitta, la soluzione dello stesso. Qui il concetto diventa più sottile: il mostro e il labirinto non sono superati con il loro annientamento, perchè intimamente connessi all’uomo. Il tentativo di affrontarli in questo strada apre unicamente la porta a nuovi labirinti e nuovi mostri e la futura storia di Teseo ce lo mostra molto bene. Il labirinto può essere superato, cioè risolto e quindi sconfitto nella sua essenza più propria, ma solo trascendendolo attraverso una prassi mirata e consapevole.
  1. Il secondo punto riguarda il livello su cui basare questa ricerca. La leggenda ci insegna che il labirinto non può essere superato rimanendo sul suo stesso piano. E’ necessario una sorta di salto quantico di consapevolezza per fuggire da questa prigione. L’unica azione che può salvarci deve portarci appunto a trascendere la realtà narrata dal labirinto. Una realtà che non può essere negata ma può essere superata con la forza del nostro ingegno e la determinazione delle nostre azioni. Il labirinto non è una necessità insuperabile è stato creato dall’uomo ed è nel potere dell’uomo superarlo. Un superamento che non è la sua distruzione o il suo annullamento, cosa che non è nelle possibilità dell’uomo, il labirinto rimane, ma l’uomo con le sue scelte e le sue azioni determina il proprio esserne o meno prigioniero.

2.4 Il volo e la caduta

Arriviamo all’analisi dell’ultima immagine presente nel mito, il tragico volo di Dedalo e di suo figlio Icaro. La via di fuga è una corda tesa su due lati di un abisso: è questo lo spazio dell’uomo che rimane sospeso tra gli dei e gli animali e che quindi si trova nella continua situazione di poter perdere l’essenza del suo essere. E’ la capacità di ragionamento[16] che gli è propria a permettere all’uomo di trovare il suo posto nel giusto mezzo che gli spetta. Il tema del metron, cifra della saggezza greca, ritorna prepotentemente anche in questo mito: solo la capacità di realizzarsi nella propria natura più intima che non è quella della bestia nè del dio, permette all’uomo di essere libero e trovare la propria salvezza. Nel momento in cui Icaro non si accontenta del suo essere uomo ma crede di poter arrivare fino agli dei, ecco si consuma la sua rovina. Il desiderio di oltrepassare quel limite, l’avvicinarsi al sole fa si che la cera che tiene insieme le piume si sciolga per il troppo calore e che precipiti nel mare. Lo spazio dell’uomo è, quindi, lo spazio del mezzo, uno spazio che richiede uno sforzo continuo per essere abitato ma che è l’unica strada che ci è offerta. Il desiderio, l’ardire di Icaro, disattendendo l’avvertimento del padre, di raggiungere lo spazio riservato agli dei provoca la sua caduta. Non è un immagine casuale, Icaro non viene distrutto dal calore, assorbito da esso, nonostante tutti i suoi sforzi il sole rimane irraggiungibile e il suo destino è quello di precipitare scomparendo tra i gorghi.

  1. Il mito e la modernità

Partendo dall’analisi delle strutture del mito svolta in precedenza proveremo ad arrivare al centro dell’obiettivo che ci eravamo prefissati e cioè aprire una finestra sul mondo che ci circonda. Ripercorrendo il sentiero svolto in precedenza proporremo, attraverso le suggestioni dei simboli incontrati, un percorso interpretativo in grado di portare in luce pieghe altrimenti nascoste del presente.

3.1 Minotauro: l’illimitatezza del desiderio

Il minotauro racconta lo spirito del capitalismo[17], lo spirito del mondo a cui apparteniamo e della sua cifra che è l’illimitatezza. Dove il mondo greco aveva posto il limite (peras) e la misura (metron) come dimensione dell’umana esistenza, il capitalismo, ponendo a fondamento del proprio essere l’accumulo illimitato del capitale, rovescia tali valori e la dimensione che gli è propria è quella dell’illimitatezza del desiderio astratto. Desiderio rappresentato dalla voracità insaziabile del minotauro che come il capitale non si ferma nemmeno di fronte alla vita umana per poter soddisfare la sua fame inestinguibile. Il meccanismo spietato che porta ogni anno a sacrificare vittime al minotauro non è forse lo stesso dispositivo che vediamo tutti i giorni alimentare l’appetito senza fine del capitale a discapito dei diritti, della dignità umana e della natura? Il mostro nato dal desiderio di possesso di Minosse, che in quanto re rappresenta simbolicamente l’uomo, cioè dal rifiuto di restituire agli dei ciò che era loro di diritto per assegnarlo alla propria sfera privata, genera un mostro che con la sua presenza più o meno consapevole, più o meno celata soggioga la vita e le dinamiche dell’intera comunità. Tuttavia la storia c’insegna anche un’altra verità, come il minotauro è stato creato dall’uomo così rientra nelle possibilità dell’uomo distruggerlo: il minotauro non è il destino ma qualcosa che, se dio vuole, avrà un destino.

3.2 Il labirinto: la gabbia d’acciaio

Il labirinto è il regno del capitale, il regno del minotauro nel quale Dedalo è imprigionato e noi con lui. Il labirinto evoca atmosfere differenti ma complementari a quelle dell’immagine weberiana della gabbia d’acciaio[18] arricchendone il ritratto con sfumature essenziali. Il labirinto non solo rinchiude, inganna. Inganna per la sua complessità, apparentemente inestricabile per chi si trova al suo interno, inganna per la falsa idea di libertà che trasmette, per le false vie che nascondono vicoli ciechi al posto delle uscite. E’ possibile passare la vita persi nel labirinto fino a convincersi che non esista altro al di fuori, che la realtà e il significato possano essere cercati soltanto all’interno dello spazio stabilito dal capitale e che sarebbe vana ogni ricerca che volesse portarci oltre le sue pareti. Oltre questo il labirinto veicola in sè, a differenza della gabbia d’acciaio, anche l’idea della sua risoluzione: di una libertà dal labirinto e non nel labirinto. Se il mondo di Weber è un esito finale, un destino ineluttabile a cui piegarsi e contro cui ogni battaglia è destinata a fallimento più o meno eroico, ecco, nascosta nel cuore del labirinto batte la speranza.

3.3 La costruzione delle ali: la prassi trasformatrice

La speranza che batte al centro del labirinto è un’impulso verso il futuro, il nucleo della dottrina di Marx secondo l’interpretazione, a mio parere corretta, che vede il suo pensiero ricondotto nell’alveo dell’idealismo, e l’analisi economico scientifica secondaria all’impianto filosofico che la sostiene e la attraversa, riemergendo come un torrente carsico che si nasconde solo per riaffiorare, in tutto il percorso del filosofo di Treviri[19]. Questa speranza non è sogno, si basa sul fatto che come l’uomo crea il minotauro e costruisce il labirinto con le sue azioni, con le sue azioni può liberarsi dalla sua prigionia. La costruzione della ali è quindi metafora della prassi trasformatrice che l’uomo ha la possibilità di mettere in atto, per rompere le catene che egli stesso ha forgiato e stretto ai proprio polsi. Costruire ali per permettere un radicale cambio di prospettiva, un allontanarsi verso l’alto che permetta una visione complessiva dell’inganno insito nel labirinto e che spinga l’umanità a sviluppare un pensiero in grado di comprendere e valutare la totalità. La soluzione del labirinto non si trova all’interno del labirinto ma nel suo superamento, un superamento che non può prescindere dalla prassi[20] e dalla volontà dell’uomo.

3.4 Il volo e la caduta: lo stretto percorso dell’emancipazione umana

Il cammino emancipativo dell’umanità è tortuoso e avvolto nella nebbia, il rischio di smarrirsi accompagna ogni passo; e d’altra parte se si fosse trattato di una strada diritta non staremmo dove stiamo, e cioè a valutare il successo di una persona sulla base del numero di optional che monta sulla macchina. Non esistono soluzioni preconfezionate, l’unica via percorribile richiede un continuo esercizio per conformarsi ad essa, un incessante sforzo che permetta la progressiva emancipazione dell’uomo da questa condizione di inautenticità. Un percorso dove il rischio di fallire è costante, fallimento che nel mito si concretizza simbolicamente in due opposti tra loro correlati: il cielo e la terra[21], il destino estraneo all’uomo proprio rispettivamente delle bestie e degli dei. Lo spazio dell’uomo è quello intermedio[22], e il costo di non accettare la necessità di uno sforzo costante di riappropriazione della propria umanità, mediato dalle capacità razionali dell’uomo e diretto a creare o riposizionare le condizioni politiche, economiche e sociali che permettano una reale realizzazione dell’essere più proprio, porta alla dissoluzione di coloro che non possono essere nè animali nè dei.
La caduta di Icaro e il suo perdersi nell’abisso rappresentano il rischio dell’illimitatezza: non soddisfatto di essere sfuggito al minotauro, il suo desiderio di raggiungere gli dei, è l’errore di chi non accetta la sua natura ma vuole spingersi oltre il giusto limite. Questo tipo di desiderio, lungi dal realizzarsi, conduce alla rovina, l’allontanarsi dalla traettoria del mezzo, isola, conduce a una singolarità priva di legami, destinata a perdere le ali che si sciolgono sotto il calore del sole; a perdere cioè la capacità di produrre una prassi trasformatrice della realtà, nella realtà, irretito dal desiderio di possedere l’ideale. Non è questa la strada riservata all’uomo, l’abisso che accoglie Icaro è l’abisso di colui che dopo aver abbandonato il reale per l’astratto, la comunità per la singolarità, scompare nelle profondità privo di strumenti per creare.

  1. Conclusioni

L’analisi del mito di Dedalo e dalla sua fuga dal labirinto ci ha accompagnato con le sue suggestioni alla ricerca di quel filo che possa condurre anche noi verso l’uscita. Si è trattata, dunque, di un’operazione lecita? Con che diritto abbiamo preso un mito dell’antica grecia per porlo alla base di una critica della società capitalista e del suo necessario, qui utilizzato nel senso di necessità storica e non d’inevitabilità, superamento. Il successo di questo tipo di operazione, se successo è stato, si basa sul fatto che il mito racchiude in sé verità senza tempo, e pur nascendo in un determinato periodo storico-sociale, contiene un eccedenza veritativa in grado di parlarci al di là dei secoli, rivolgendosi direttamente a ciò che la natura umana ha di più proprio. E’ proprio a questa natura a cui dobbiamo aggrapparci per trovare una strada che ci porti al dì là di questa gabbia: una natura umana che è nella sue radici profonde incompatibile col sistema capitalista. Per quanto il labirinto del mondo del capitale sia grande e complesso, per quanto il minotauro sia una sorta di fratello mostruoso delle nostre pulsioni distruttive, ci sarà sempre un parte della natura umana che non confonderà le pareti del labirinto con i confini della storia e la sagoma deforme del minotauro con il reale spirito dell’uomo. E questo per l’intrinseca falsità che sta nel profondo della riproduzione capitalistica, a livello strutturale così come nel piano simbolico. Sarebbe però pericoloso affidarsi a questa speranza confondendo la possibilità con la necessità, non esistono scorciatoie o strade in discesa, per superare lo stato attuale dovremmo essere in grado di compiere un atto creativo che è nell’uomo e oltre l’uomo: costruirci delle ali per spiccare il volo. Lo sforzo di pensare una società e un mondo oltre il capitalismo è un esigenza, ora sopita, ma destinata a riemergere perchè legata inestricabilmente alla natura ultima dell’umanità, e alla fondamentale domanda sul suo essere sociale.
E’ solo nell’iniziare a pensare la possibilità di un suo superamento che ci apriamo al superamento nel suo essere storico, finchè ragioniamo all’interno delle dinamiche capitaliste con le sue logiche apparentemente esatte perchè incapaci di cogliere l’intero, resteremo prigionieri della perfezione geometrica di questo labirinto.
Superare il labirinto significa riprenderci la nostra libertà, quella di rifiutare di schierarci da un lato o dall’altro di questa gabbia convinti che questo possa avere un significato, per poter cercare con l’esercizio della nostra ragione un’apertura che ci riporti sul cammino diretto all’autentica determinazione e felicità dell’uomo.

Michele Gasapini

Note

[1]Antonio Gnoli, Franco Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, 1997. p. 96.

[2] “Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza”. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Intr., §II

[3]Nella Politica (libro A) l’uomo è detto zòon lògon èchon (animale avente il logos – deriva dal verbo leghein, legare, poi traslato in dire e pensare), ed evidentemente qui il logos riferito all’uomo è la parola. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, qui si distingue la voce (phonè), che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, che è l’unico ad avere coscienza del bene e del male. Anche nell’Organon (De Interpretatione) il discorso è suddiviso in phonè e pathèmata (realtà accolte), le cose ricevute dall’anima, contenute nell’intelletto umano. Il discorso umano è allora una realtà simbolica, è una manifestazione sensibile di significati colti dall’intelletto. La definizione sembra allora ottenere completa compatibilità, e se leggiamo anche il libro E dell’Etica Nicomachea, vediamo come l’anima sia dotata di ragione: tuttavia per Aristotele anima è comunemente intesa come sinonimo di sinolo umano, dunque forse lògon èchon va anche qui inteso come l’uomo stesso, in quanto dotato della componente razionale dell’anima.

[4] Le origini della filosofia antica: alla ricerca della misura delle cose. Breve saggio sul concetto di logos come misura dei beni della comunità sociale. A cura di Alessandro Volpe https://www.academia.edu/1920035/Lorigine_della_filosofia_greca_alla_ricerca_della_misura_delle_cose. Questo saggio che raccoglie in maniera importanti alcuni contributi del filosofo torinese Costanzo Preve sulla filosofia greca, rilegge in chiave ontologico sociale i concetti artistotelici qui riportati, dandone un’interessante chiave interpretativa.

[5] Costanzo Preve, La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVI – Gennaio-Giugno 209 Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro].

[6] La tradizione riporta differenti versioni del mito di Dedalo e Icaro che tuttavia non ne vanno a intaccare il significato fondamentale della nostra interpretazione, rimanendo costanti i riferimenti simbolici.

[7] “Costellazione”, quale “rete di simboli” afferenti ad uno specifico motivo archetipico. Secondo la definizione di Gilbert Durand (Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale). Qui inteso nel senso che i cinque paragrafi individuati contengono in realtà un’insieme di simboli tra loro significativamente correlati.

[8] Per citarne alcuni Durenmatt, Borges, Dante per la letteratura, Dali, Picasso, Watts per le arti figurative.

  1. Forme labirintiche si trovano in pressoché tutte le civiltà conosciute: nella grafica preistorica, nei mandala orientali, in talune danze rituali, nella cultura classica greca e latina, nei testi alchemici, nei pavimenti delle cattedrali cristiane, nella letteratura simbolica ed emblematica dal medioevo all’età moderna. Simbolo ampiamente utilizzato in psicanalisi da Freud a Jung.

[10] Minosse lo sottrae allo dimensione del sacro, per definizione esterna al ciclo di riproduzione economica (il tempio è sacro perchè non è in vendita, per usare le parole di Heidegger), per portarlo all’interno del suo privato possesso.Dimensione sacra che può essere vista senza particolari forzature come dimensione garante dell’integrità della comunità e che viene rotta da questa azione, che rimane, fuor di metafora, un azione sociale e non certo personale.

[11] Sette fanciulli e sette fanciulle. L’equilibrio che il sette rappresenta in numerologia, viene rotto dall’azione fagocitante del minotauro.

[12] Nel momento in cui l’uomo rompe il patto comunitario, garantito all’interno del mito dal diritto degli dei, ecco che nasce qualcosa del tutto inconciliabile, che mette in discussione la sua stessa esistenza. “Ma quest’essere grande che possiede Genio inventivo, oltre ogni speranza Ora si volge al male e ora al bene. Chi rispetta le leggi della patria e il giurato diritto degli dei quest’uomo è il cittadino di uno Stato che egli stesso è servito ad innalzare; ma l’uomo che si fa compagno il male per gusto temerario è un senza patria. L’uomo che vuole agire in questo modo, mi stia sempre lontano dalla casa e dal cuore” (Sofocle, Antigone. I stasimo. II Antistrofe).

[13] Il labirinto è simbolo dei cammini tortuosi della vita o della coscienza. Invita alla ricerca interiore per uscire dallo smarrimento, evoca due tendenze opposte: la liberazione o la prigionia. “E’ un simbolo interiore: siamo tutti labirinto, intrigo di viscere e di pensieri contorti. Per uscirne è necessario entrarvi. Perdersi nelle strade di una città, è un modo per avvertire quanto questo assomigli alla nostra mente, alla nostra vita; può essere un esercizio per reggere lo spaesamento incombente.”

[14] Le ali indicano la facoltà di conoscenza, colui che comprende ha le ali. Cfr.  J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, BUR , 2005.

[15] “Hope” is the thing with feathers” (E. Dickinson)

[16] In quanto appunto zwon logon econ.

[17] Y. Varoufakis, Il Minotauro Globale. L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale. Asterios, 2012. Nel quale il futuro ministro dell’economia greco usa il minotauro come metafora degli USA e dell’attuale fase del capitalismo globale.

[18] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, 1991.

[19] A questo proposito, cfr. G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar Editore, 1973.

[20] “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica”. (K. Marx, VIII tesi su Feuerbach)

[21] Rappresentati in questo caso dal sole e dal labirinto.

[22] ”L’uomo è intermedio tra dei e animali” (Plotino, Ennade III).

Alessandro Monchietto: Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «Socialismo XXI»)

Spirito del capitalismo

In questo numero, ampio spazio è stato dedicato all’analisi di due contributi – il tuo libro scritto con Orso ed il volume di Boltanski e Chiapello – entrambi accomunati dall’intento di rivitalizzare una disciplina che (in tempi di postmodernismo e disincantamento del mondo) appariva totalmente demodé: la diagnosi (socio-filosofica) del capitalismo reale. Nel tentativo di mettere a fuoco motivi e argomenti che possono forse permettere al lettore di arricchire la propria prospettiva su tali questioni, prenderei le mosse da questi due rilevanti studi per iniziare la nostra breve discussione. Boltanski concludeva il proprio discorso con un’affermazione molto importante: nel capitalismo “la natura della risposta in termini di giustizia dipende in gran parte dalla critica.Se gli sfruttati, gli infelici, coloro che non riescono restano silenziosi ed esclusi, allora non c’è necessità per il capitalismo di rispondere in termini di giustizia”. Il fatto nuovo per il pensatore francese è che – nella terza età del capitalismo – il mondo del lavoro ha rinunciato a rovesciare il capitalismo, limitandosi ad aggiustarlo o riformarlo.

In una recensione dedicata a Le nouvel esprit du capitalisme, de Benoist evidenziava magistralmente come ci si continui a scontrare sulla ripartizione del plusvalore, ma non si discuta più sulla maniera migliore per accumularlo:

È quella che Jacques Julliard ha definito ‘l’interiorizzazione da parte dei lavoratori della logica capitalistica’. Ciò che sembra in tal modo scomparire è un orizzonte di senso che giustifichi ilprogetto di cambiare in profondità l’attuale situazione. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa. Il capitalismo viene vissuto come un sistemaimperfetto ma che, in ultima analisi, rimane l’unico possibile. La sensazione si diffonde a tal punto che non è più possibile sottrarsene. La vita sociale ormai viene vissuta esclusivamente nella prospettiva della fatalità. Il trionfo del capitalismo risiede innanzitutto in questo fatto, di apparire come qualcosa di fatale”.

Assistiamo oggi a una degenerazione del principio di realtà, un’assenza completa di illusioni e un’attrazione irresistibile della “forza delle cose”; “Adeguati!” è il comandamento psicologico-politico del momento: per sopravvivere bisogna andare “a scuola di realtà”.

Un’intera epoca – pervasa dalla certezza che la storia avesse un senso, in cui si era convinti che il passaggio dalla preistoria alla storia fosse una questione di anni o al massimo decenni – si è rovesciata dialetticamente nella sicurezza (tale da diventare quasi un pilastro del senso comune) che il mondo che ci troviamo davanti è qualcosa di immodificabile e intrascendibile.

Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e a cui al massimo si può strappare qualche concessione. Viviamo in una sorta di “positivismo tragico” – come lo definisce Sloterdijk – “il quale, ben prima d’ogni filosofia, sa già che il mondo non va né interpretato né cambiato: esso va sopportato”.

Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si autoinibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, contro cui non si può fare nulla.

Qual è la tua posizione a proposito? C’è una possibile via d’uscita, o bisogna “rassegnarsi” come suggeriva Umberto Galimberti in una recente intervista?

 

Quando ero giovane, avevo un programma massimo, che era quello di cambiare il mondo. Diventato vecchio, ho ormai un programma minimo, quello di impedire al mondo di cambiarmi. Anche io, come Sloterdijk, sopporto il mondo. Ma, a differenza di lui e dei suoi innumerevoli cloni meno dotati, rifiuto di trasformare la sopportazione in esito terminale della filosofia della storia, e questo in base al principio elementare del pudore.

Civettando con il linguaggio di Hegel, la nostra è un’epoca di gestazione e di trapasso verso un’impotenza sociale collettiva senza precedenti storici. In mancanza di precedenti storici che ci permettano di fare analogie, non esistono filosofie del passato (neppure quelle ellenistiche dell’interiorità all’ombra del potere e del rifugio in una comunità protetta di amici) che possano veramente aiutarci a pensare la sconvolgente novità epocale del nostro tempo. Superate le precedenti fasi astratta e dialettica e giunto alla fase speculativa, il capitalismo sembra essersi rinchiuso da solo in una gabbia d’acciaio (Max Weber) ed in un dispositivo tecnico imperforabile (Martin Heidegger). Le facoltà di filosofia sono ormai in occidente o palestre per carrieristi disincantati, o cliniche antidepressive per gente con velleità culturali.

Gli oppressi restano silenziosi perché (esattamente come Sloterdijk, ma a differenza di lui senza sapere chi erano Kant o Hegel) ritengono che non ci sia niente da fare. Questo è ad un tempo elementare ed enigmatico. Fichte avrebbe definito la precarietà in termini di Non – Io, ma egli viveva in un tempo in cui l’Io era ancora concepito come l’intera umanità pensata come in grado di fare il proprio destino. In appena due secoli la situazione è rovesciata. Oggi il concetto filosofico novecentesco che sembra connotare meglio l’attuale situazione è quello heideggeriano di Dispositivo (Gestell), e questo non a caso. Naturalmente non sono in grado di dare indicazioni per il superamento dell’attuale situazione. La filosofia, come la nottola di Minerva, si alza al crepuscolo. So però che di fronte alla globalizzazione finanziaria non bisogna perseguire l’inclusione, ma l’auto – esclusione. Il rovesciamento magico della globalizzazione in comunismo postmoderno, e cioè la teoria di Negri, è una vera e propria vergogna. Come sempre è avvenuto nella storia, la Resistenza verrà in un tempo ed in uno spazio determinato, non in un mappamondo finanziario.

Non so però né dove, né come, né quando.

 

 

A tuo parere – come si può rinvenire in molti saggi da te pubblicati – il pensiero marxiano è inficiato da due “errori di previsione”, che falsano le analisi di Marx e da cui è necessario separarsi per non incappare nuovamente in un’inevitabile sterilità teorica e politica:

 

1) il proletariato non è affatto una classe rivoluzionaria in grado di attuare la transizione decisiva dal modo di produzione capitalistico alla società senza classi. Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione del lavoro al capitale, che al contrario le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistica “smentendo empiricamente” l’attribuzione metafisica che aveva fatto di queste classi un soggetto intermodale.

2) il capitalismo (a differenza di quanto Marx credeva) si è mostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, ed a svilupparle anzi ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura.

 

Nel momento in cui si decide di accettare tali critiche, la scientificità di ciò che un tempo si chiamava “materialismo storico” non rischia di entrare drammaticamente in crisi?

Cerco di spiegarmi meglio. Come sappiamo per Marx “una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”; il Nuovo diverrà necessario esclusivamente allorquando il Vecchio si sarà tramutato in “vincolo e pastoia“.

Giungerà il momento in cui, compiutamente sviluppato, il capitalismo diverrà un limite alla produttività umana che fino ad allora aveva promossa, e sarà allora che il proletariato si ergerà come classe emancipatrice dell’intera umanità, chiudendo il ciclo storico delle società divise in classi e aprendo le porte alla futura società comunista.

Ma se – preso atto degli errori che inficiano l’analisi marxiana – è impossibile delineare il momento in cui il vecchio diviene “vincolo e pastoia”; e se inoltre il proletariato si rivela affetto da una “pittoresca ed incurabile subalternità”, la scientificità della concezione materialistica della storia non va completamente all’aria?

Il problema non è marginale. La forza e la fortuna avuta da Marx e dal marxismo nel novecento derivava infatti proprio dalla certezza che il materialismo storico avesse un carattere scientifico, previsionale. Quando Marx contrappone il suo socialismo, in quanto scientifico, al socialismo utopistico di Owen, di Saint-Simon e di Fourier, intende sostenere che il suo socialismo – a differenza dell’altro – è in grado non solo di dire come stanno le cose, ma anche di indicare che necessariamente dovranno andare in un determinato modo.

Bisogna trarre la conclusione che il famoso passaggio “dall’utopia alla scienza” è stato in fin dei conti illusorio, ed il comunismo non è affatto il movimento reale che abolisce lo stato presente di cose (né l’orizzonte verso cui conduce il meccanismo del modo di produzione capitalistico indagato scientificamente) ma un’utopia che viene spacciata come scienza? Ed in un quadro come questo, non è forse secondario continuare a discutere sullo statuto filosofico di Marx (idealista o materialista) mentre sarebbe necessario proporre una via d’uscita dall’empasse in cui la critica marxiana è finita?

 

Fino ad alcuni anni fa avevo l’abitudine di autocertificarmi e di autodefinirmi “filosofo marxista”, ma si trattava spesso di una pura intenzionalità ideologico – politica, di una testarda fedeltà alla mia giovinezza e ad amici defunti (Labica, eccetera), di un rifiuto dell’approdo liberaldemocratico o postmoderno, eccetera. Oggi capisco che si trattava di un inutile equivoco, ed ho rotto con questa autocertificazione.

In Marx esiste una specifica schizofrenia, che si tratta di individuare con precisione. Da un lato una filosofia della storia di origine idealistica (a metà fichtiana ed a metà hegeliana), fondata su di un uso originale del concetto di alienazione. Dall’altro una teoria della storia di tipo positivistico, fondata su di una concezione predittiva (o, più esattamente, pseudo – predittiva) delle leggi storiche, pensate come omologhe alle leggi delle scienze della natura (donde materialismo dialettico e teoria gnoseologica del rispecchiamento).

Questa schizofrenia non permette in alcun modo una coerentizzazione del pensiero complessivo di Marx, che infatti non è coerentizzabile. Il successivo marxismo Engels – Kautsky (1875 – 1895) non lo coerentizzò, ma edificò una variante di sinistra del positivismo su base gnoseologica neokantiana. Ebbene, meglio tardi che mai. Sebbene in ritardo, sono ormai estraneo sia all’illusione di avere scoperto il “vero” Marx, sia alla dichiarazione identitaria di appartenenza alla “scuola marxista”.

In quanto al fatto se Marx sia prevalentemente idealista o materialista, si tratta di un problema di storiografia filosofica che mi è ormai del tutto indifferente. Propendo tuttavia per l’interpretazione idealistica per un insieme di ragioni non storiografiche e non filologiche. Primo, troppo spesso il “materialismo” è o ateismo (con il bel risultato di far risucchiare il pensiero di Marx nel laicismo nichilistico), o strutturalismo (con gli esiti finali aleatori dell’ultimo Althusser), o teoria del rispecchiamento (adatta alle necessità conoscitive delle scienze della natura, ma non alla doppia conoscenza – valutazione veritativa delle filosofia). Secondo, idealismo significa scienza filosofica (vedi Scienza della Logica di Hegel), e la scienza filosofica dell’approdo alla libertà del concetto – soggetto è la sola alternativa alla scienza positivistica della previsione.

Il discorso sarebbe lungo, ma per ora può bastare. Comunque, per me oggi Marx non è più il solo classico di riferimento, ma è un classico fra gli altri, ed Aristotele ed Hegel gli stanno ormai davanti.

 

 

Uno dei centri della tua riflessione è la negazione della pertinenza attuale della dicotomia Destra/Sinistra come criterio di orientamento nelle grandi questioni politiche, economiche, geopolitiche e culturali.

Hai infatti più volte sostenuto la convinzione secondo cui la globalizzazione nata dall’implosione dell’URSS non si lasci più “interrogare” attraverso le categorie di Destra e di Sinistra, e richieda invece altre categorie interpretative. In un recente dibattito con Losurdo hai infatti scritto:

 

La mia bussola di orientamento oggi si basa su tre parametri interconnessi:

 

  1. a) il principio di eguaglianza massima possibile all’interno di un popolo su diritti, consumi, redditi, partecipazione alle decisioni. Centralità del tema dell’occupazione. Posto fisso preferibile al lavoro temporaneo, flessibile e precario. Diritti eguali agli immigrati (che non significa immigrazione incontrollata). Messa sotto controllo del capitale finanziario speculativo di ogni tipo. Preferenza del lavoro rispetto al capitale. Difesa della famiglia e della scuola pubblica;
  2. b) il rifiuto del colonialismo e dell’imperialismo, che oggi hanno come aspetto principale l’impero USA ed in Medio Oriente il suo sacerdozio sionista, che utilizza per i suoi crimini il senso di colpa dell’Europa e dei suoi intellettuali rispetto al genocidio effettuato da Hitler, che ovviamente non mi sogno affatto di negare. Diritto assoluto alla lotta per la liberazione patriottica (lo stato nazionale esiste, eccome, ed è un bene e non un male, come dicono i seguaci di Negri e del Manifesto) per l’Iraq, l’Afganistan e la Palestina. Appoggio a tutti i governi “sovranisti” indipendenti (Venezuela, Iran, Birmania, Corea del Nord, Bolivia, eccetera), il che non implica necessariamente l’approvazione di tutti i loro profili interni ed esteri;
  3. c) considerazione dell’elemento geopolitico e rifiuto della sua virtuosa ed infantile rimozione. A differenza di Losurdo, non penso affatto che la Cina abbia una natura sociale “socialista”. Ma la appoggio egualmente, perché un equilibrio multipolare è preferibile ad un unico impero mondiale USA con vari vassalli (fra cui l’Italia è la più servile, con possibile eccezione di Panama e delle Isole Tonga). Chi appoggia questa cose è per me dalla parte giusta. Se poi si dichiara di destra o di sinistra, questo è affare suo, della sua biografia politica e della sua privata percezione valoriale. Ma la percezione valoriale è un affare privato, come i gusti sessuali e letterari e la credenza o meno in un Dio creatore”.

 

Lasciando da parte la pur pertinente critica avanzata da Losurdo, secondo cui ciò che tu cacci dalla porta rientra dalla finestra, cosa bisogna fare per tradurre (e – soprattutto – cosa accade quando si traduce) politicamente la critica di questa dicotomia?

Cosa distinguerebbe ciò dalla semplice riproposizione di un’ideologia da “terza posizione”?

 

Sebbene io sia spesso considerato un pensatore del superamento della dicotomia Destra / Sinistra (cosa che ovviamente non rinnego affatto), questo per me è ormai un argomento superato, secondario e poco interessante. Mi interessa invece il superamento del presupposto storico – ideologico della dicotomia, che è a sua volta la falsa dicotomia Progresso (sinistra) / Conservazione (destra). Per me il progresso e la conservazione sono solo opposti simmetrici in solidarietà antitetico – polare, ed io li respingo entrambi, il che mi costringe anche a respingere la loro concretizzazione identitaria (la dicotomia Destra / Sinistra appunto). Il prezzo da pagare in termini di fraintendimenti e diffamazione fa parte di quella costellazione chiamata da Heidegger “chiacchiera” (gerede). Come non sono né laico né cattolico, parimenti non sono né progressista né conservatore. Se devo definirmi in positivo lo faccio da solo, e non mi faccio classificare dagli altri, e per di più da altri maligni, ostili ed in malafede.

Sul così detto rossobrunismo c’è un equivoco da sfatare. Io non mi considero assolutamente un rosso-bruno, non lo sono e so di non esserlo, e questo non solo politicamente (non mi sono mai sognato di appartenere a gruppi rosso – bruni), ma anche e soprattutto filosoficamente. Il rossobrunismo è del tutto interno all’accettazione ideologica della dicotomia Progresso / Conservazione, e semplicemente vuole unire i “lati buoni” di entrambe le posizioni.

E così si coniugano insieme Marx e Nietzsche, Stalin e Mussolini, con il risultato di fare non solo una grande confusione, ma anche di offrire agli ideologi del potere (e cioè della pseudo democrazia come fantasma di legittimazione) un repertorio di diffamazione su di un piatto di argento. Un conto è essere rosso-bruni, ed un conto è essere oltre il Rosso ed il Bruno. Mi spiace di dover usare un lessico alla Nietzsche / Vattimo, che come sai non mi appartiene, ma è necessario insistere sul fatto che cercare di essere oltre la dicotomia Rosso / Bruno significa non essere né Rossi, né Bruni, né infine rossobruni.

Come scrisse Dante Alighieri, bisogna “lasciar dir le genti”. La capacità di ragionare è inversamente proporzionale all’esibizionismo presenzialistico, che oggi il facile accesso ad internet ed il superamento (Umberto Eco) della separazione fra alta cultura e cultura di massa ha portato a livelli socialmente e culturalmente intollerabili.

 

 

Il potenziale del capitalismo di generare crisi ambientali sorpassa di gran lunga quello di tutti i sistemi economico-sociali precedenti, e ciò è intrinseco alla sua stessa logica di sopravvivenza.

Ben lungi dal riconosce il comune interesse delle generazioni presenti e future per la natura e la società quali condizioni dello sviluppo umano, il capitale converte la natura e le relazioni sociali in puri mezzi di sfruttamento e di accumulazione monetaria.

Fulcro della tua proposta filosofica è l’insistenza sul fatto che l’etica comunitaria dei greci era basata sul metron (ossia la misura opposta allo smisurato), da te intesa come il “cuore sempre vivo dell’insegnamento dei nostri maestri greci”.

Nei tuoi studi sostieni infatti la tesi secondo cui la democrazia della polis antica era prima di tutto una tecnica politica rivolta a limitare e ad addomesticare la dinamica spontanea dell’arricchimento illimitato di pochi (dinamica che porta infallibilmente alla dissoluzione della comunità), dichiarando altresì che la filosofia stessa “trova la sua origine storica nella piazza pubblica greca detta agorà, in cui i cittadini mettevano in mezzo (es meson) la loro capacità di ragione, linguaggio e calcolo (logos), e che questa messa in mezzo comunitaria era rivolta a portare la misura (metron) nelle cose pubbliche di tutti (ta koinà), in modo che concedendo ai cittadini l’eguale accesso regolato alla parola pubblica (isegoria) si potesse raggiungere un nuovo equilibrio (isorropia), e questo nuovo equilibrio potesse portare infine alla concordia fra cittadini (omonoia)”.

A tuo parere Marx stesso è hegelianamente un avversario della “illimitatezza indeterminata”, ed è aristotelicamente un amico della misura nella riproduzione sociale; per il pensatore di Treviri la contraddizione fondamentale del capitalismo sarebbe perciò quella fra ricchezza per il capitale e ricchezza per i produttori e le loro comunità.

In una recente intervista hai inoltre sostenuto che “il problema fondamentale del capitalismo attuale sta nella dinamica di sviluppo illimitato della produzione capitalistica, e nel fatto che l’infinito-illimitato è il principale fattore di disagregazione e di dissoluzione di qualunque forma di vita comunitaria”. Sembri perciò auspicare una rinnovata applicazione del concetto normativo di metron al mondo sociale (ed ambientale); è così?

Murray Bookchin sosteneva che «Il capitalismo non può essere “convinto” a porre dei limiti al proprio sviluppo più di quanto un essere umano possa essere “convinto” a smettere di respirare»; Condividi tale affermazione? A tuo parere, il sistema capitalistico potrebbe tramontare perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto, vale a dire la salvaguardia della base naturale (e conseguentemente sociale)?

 

Murray Bookchin coglie genialmente il cuore filosofico della questione del capitalismo, anche se non sono affatto ottimista sulla possibilità di riuscire a darci un fine diverso dal profitto. Per questo ci vuole sempre la buona vecchia rivoluzione, anche se non si vedono soggettività individuali (teoria) e collettive (prassi) in grado di riprendere sensatamente il progetto rivoluzionario. Comunità politica e decrescita economica sono per ora soltanto idee – forza senza basi storiche realmente efficaci.

In greco antico metron significa misura, ma il termine non ha nulla a che vedere con il concetto di misura della rivoluzione scientifica moderna, che ha permesso di passare dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (la formula è di Alexandre Koyrè). Si tratta di una misura sociale e politica, legata al termine logos, che non significa soltanto parola pubblica o ragione (logos contrapposto a mythos), ma significa soprattutto calcolo sociale (il verbo loghizomai significa calcolare). L’unione fra logos (calcolo politico e sociale) e metron (misura politica e sociale) sta alla base della teoria della giustizia antica (dike), che non ha ovviamente nulla a che vedere con le moderne teorie della giustizia (Rawls, Habermas, Bobbio), che prescindono tutte dalla sovranità democratica sulla riproduzione economica, eretta ad un Assoluto che ha sostituito il vecchio Assoluto religioso cristiano (comparativamente migliore, a mio avviso, al di là della sua pessima funzione ideologica di legittimazione feudale e signorile).

Polanyi ha fatto molto bene a tornare al concetto di metadoni ed alla distinzione aristotelica fra economia e crematistica (su cui fonda la sua ricostruzione dell’umanesimo greco il filosofo Luca Grecchi). Tutti coloro che invece enfatizzano unicamente i due significati di logos come discorso pubblico o come ragione (ad

esempio Hannah Arendt), dimenticando che invece il significato principale di logos è quello di calcolo sociale rivolto alla doppia fatale dismisura del potere e della ricchezza (metaforizzata, a mio avviso, dall’apeiron di Anassimandro), ci ripropongono una grecità normalizzata e “decaffeinata” (per usare un arguto termine di

Slavoj Zizek). Ma una grecità correttamente interpretata sarebbe ancora più attuale non solo della liberaldemocrazia ottocentesca, ma anche della stessa tradizione marxista, ribadendo che ciò che generalmente passa per “marxismo” non è che un positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana.

 

 

Vorrei soffermarmi ancora brevemente su tale concetto. Tu infatti sostieni che impadronirsi della genesi della filosofia (e della democrazia) come “razionalizzazione logica (logos) e dialogica (dialogos)” dei conflitti sociali in termini di scontro fra Misura (metron) e Dismisura (apeiron) “è di importanza eccezionale, perché permette di tenere ferma ancora oggi la centralità del conflitto sociale e politico senza più fare ricorso al concetto di Progresso”.

Sembri quindi delineare la possibilità che – attraverso il recupero del principio greco del metron – sia possibile criticare ogni apologia incondizionata del progresso “illimitato”; è così?

Hai inoltre recentemente sostenuto che il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione devono essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare ad una prospettiva emancipativa. Puoi sviluppare più ampliamente questa tua idea?

 

Molto spesso i critici del principio ideologico del progresso sono anche scettici sulla possibilità di realizzare concretamente il principio filosofico dell’emancipazione (pensiamo alla dialettica negativa di Adorno, al pessimismo radicale dell’ultimo Horkheimer ed al famoso “un solo Dio può ancora salvarci” di Heidegger). Inversamente, si hanno anche sostenitori del principio filosofico dell’emancipazione che restano attaccati al principio ideologico del progresso (pensiamo all’ontologia dell’essere sociale di Lukàcs o all’utopismo escatologico di Bloch). Si tratta allora di capire se vi sia una terza strada, diversa sia da quella di Adorno, Horkheimer ed Heidegger, sia da quella di Lukàcs e di Bloch. Il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione sono dunque inscindibili ed inseparabili?

Non lo credo, e si tratta appunto di una delle mie principali tesi filosofiche, ed una di quelle cui tengo di più. Il principio ideologico del progresso è “ideologico” appunto perché nacque al servizio di una legittimazione ideologica della borghesia europea settecentesca, che costruì una filosofia progressistica della storia universale (poi sistematizzata in forma ulteriormente meccanicistica, deterministica e finalistica dal positivismo ottocentesco e dal suo fratellino minore, il marxismo storico). Ma ad esempio già l’idealista Fichte fonda la sua teoria dell’emancipazione non su di una ideologia del progresso, ma su di una interpretazione radicale del diritto naturale. Lo stesso “progressismo “ di Hegel (indubbiamente un pensatore progressista) è assai più una teoria dell’acquisizione di una libera autocoscienza, che una teoria della successione obbligata di “stadi” nella storia, come avvenne più tardi nel marxismo, dottrina integralmente “progressista”. Georges Sorel fu uno dei pochissimi pensatori che cercarono di separare il principio del progresso da quello dell’emancipazione, e ritengo che si muovesse nella direzione giusta, anche se il suo codice teorico benemerito era indebolito da una insufficiente comprensione del pensiero greco e di quello idealistico. Ma si tratta di riprendere un secolo dopo il corretto programma di Sorel, radicalizzandolo con un esplicito ritorno al pensiero dei greci, che definirei sommariamente un pensiero della giustizia sociale e politica, sia pure in assenza di una filosofia della storia nel senso moderno del termine.

 

 

In diversi tuoi libri hai sostenuto la tesi per cui in verità la realtà in cui stiamo vivendo è quella di un’oligarchia o, più esattamente, un sistema oligarchico controllato congiuntamente da un circo mediatico e da una rete di mercati finanziari: “un sistema di potere periodicamente legittimato da referendum elettorali di facciata, che ha incorporato residui costituzionali della tradizione liberale classica”.

La democrazia sarebbe in realtà un fantasma di legittimazione, così come erano fantasmi di legittimazione il carattere cristiano della societas christiana del Medioevo europeo o il riferimento al pensiero di Karl Marx del comunismo storico novecentesco. Puoi precisare questa tua argomentazione, facendo riferimento alla prospettiva delineata ne Il popolo al potere?

 

Come già in due casi precedenti (l’interpretazione controcorrente del pensiero filosofico di Karl Marx e la ricostruzione controcorrente della storia della filosofia occidentale dai greci ad oggi) anche nel caso della filosofia politica moderna (di cui la teoria della democrazia è parte integrante) io perseguo un esplicito riorientamento gestaltico. La teoria moderna della liberaldemocrazia insiste su di una dicotomia virtuosa, quella Democrazia / Dittatura. La democrazia è il lato buono, la dittatura (nelle sue varie forme, fasciste, comuniste, populiste, fondamentalistico – religiose, eccetera) il lato cattivo. Io considero questa dicotomia un fantasma di legittimazione, e “fantasma” perché il fondamento della democrazie, il popolo, deve essere in qualche modo sovrano sulla forma essenziale della sua riproduzione sociale. Ma questa sovranità non esiste, perché è nelle mani di oligarchie che nessuno ha eletto. La dicotomia non è dunque oggi (parlo di oggi, non del 1930) Democrazia / Dittatura, ma Democrazia / Oligarchia.

Se si accetta questo riorientamento gestaltico (ma esso è rifiutato da tutto il pensiero universitario, mediatico e politico, non importa se di destra, di centro o di sinistra) il problema non è più di forma, ma di contenuto. E il contenuto sta nella sovranità militare (niente basi atomiche straniere sul territorio nazionale), ed economica (niente delocalizzazioni industriali, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, eccetera), cui poi seguono “a cascata” tutte le altre sovranità (mediatica, culturale, linguistica, eccetera). È del tutto evidente che oggi non esistono neppure gli elementi minimi di questa sovranità, e per questo la presunta “democrazia” non è che un fantasma di legittimazione.

Vi è quindi “democrazia” oggi (sia in senso greco, che in senso popolare ottocentesco) soltanto quando si è in presenza di reali movimenti sociali e politici di tipo anti – oligarghico, che non si fanno spaventare dal teatro dei burattini delle accuse di “populismo”, categoria tuttofare che ha sostituito il vecchio mostro totalitario a due teste fascismo / comunismo, che è oggi obsoleto come la dicotomia Guelfi / Ghibellini. Benedetto Croce e Norberto Bobbio hanno fatto il loro tempo, e prima o poi forse qualcuno

se ne accorgerà, se riuscirà a perforare la crosta della dittatura ideologica dei mercati finanziari, dei politici, dei giornalisti e dei politologi universitari.

 

 

In questi ultimi anni hai lavorato moltissimo dando alla luce decine di importanti saggi (molti dei quali ancora inediti); prima di congedarci, ci concederesti qualche informazione circa i tuoi progetti editoriali futuri?

 

A proposito del lavoro svolto nei trent’anni precedenti io posso dichiararmi insieme soddisfatto ed insoddisfatto. Sono moderatamente soddisfatto sia per la quantità sia soprattutto per la qualità di molti miei lavori (non di tutti). È vero che non toccherebbe a me dirlo, ma penso che un autore debba avere una certa autoconsapevolezza soggettiva della natura del suo lavoro. Il riconoscimento sociale è stato pressochè nullo, ma tendo a pensare che la ragione di fondo sia dovuta all’assoluta novità delle soluzioni proposte, inaccettabili e irricevibili della casta degli “intellettuali di sinistra”. E’ possibile, anche se lo considero poco probabile, che ci possa essere un moderato riconoscimento postumo. In ogni caso, quando saremo ridotti in polvere, il riconoscimento o meno ci sarà del tutto indifferente.

Sono moderatamente insoddisfatto per almeno due ragioni. Primo, per l’incredibile ritardo identitario a sganciarmi anche formalmente dalla tribù marxista ufficiale – ufficiosa, laddove ormai ero divenuto un filosofo del tutto indipendente. Secondo, il fatto che da un lato ho sempre rimproverato Marx per non avere coerentizzato il suo pensiero, e poi dall’altro neanch’io sono riuscito a coerentizzare il mio. Lo ritengo una lacuna molto grave.

Detto questo, ad altri più giovani toccherà, se lo vorranno, giudicare il mio pensiero. Ritengo però che i miei lavori migliori e significativi siano ancora inediti, e ne segnalo il contenuto a quelle poche decine di amici di cui ho conquistato la stima.

Ho scritto molti saggi monografici su Marx, ma ce n’è ancora un ultimo inedito che ritengo più significativo di altri. In quest’ultimo ho esplicitato oltre ogni dubbio la mia interpretazione di Marx come pensatore tradizionale (e non progressista) e come filosofo idealista (e non materialista) e soprattutto come allievo minore di Aristotele e di Hegel. Non c’è nulla di definitivo finchè si vive, ma ritengo questa interpretazione il mio provvisorio bilancio definitivo di Marx.

Il lavoro cui tengo di più è però una mia originale storia della filosofia, di cui ho scritto una variante più breve (250 pagine) ed una più lunga (600 pagine). Si tratta di una ricostruzione dell’intera storia della filosofia occidentale che non ha precedenti (almeno a me noti), perché da un lato utilizza sistematicamente il metodo “materialistico” della deduzione storico – sociale delle categorie del pensiero filosofico (metodo proposto nel novecento da Alfred Sohn – Rethel, che io però utilizzo in modo del tutto originale), e dall’altro questo metodo è però inserito in una concezione pienamente veritativa del pensiero filosofico, ispirata non certo ai sociologi marxisti, ma ai greci e ad Hegel. È questo il lavoro che considero il più significativo della mia vita.

Vi sono poi alcuni saggi monografici inediti, non casuali, ma che compongono un disegno coerente. Primo, un saggio su Althusser, in cui esamino il suo pensiero, e ne prendo decisamente le distanze su di un punto essenziale. Mentre per Althusser l’equazione filosofica peggiore si scrive come (Soggetto = Oggetto) = Verità, questa per me è invece l’equazione filosofica migliore che si possa scrivere. Secondo, un saggio su Adorno, in cui prendo decisamente le distanze dalla dialettica negativa, considerandola in termini di una sofisticata apologia ideologica di adattamento al capitalismo travestita da opposizione radicale. Terzo, un saggio su Sohn – Rethel, in cui da un lato elogio il metodo della deduzione sociale delle categorie, dall’altro rifiuto la sua la sua critica dell’idealismo ed il suo sociologismo relativistico. Quarto, un saggio su Karel Kosìk, visto come uno dei pochissimi filosofi marxisti novecenteschi che non si sono vergognati di scrivere un capolavoro di filosofia pura (La Dialettica del Concreto) senza sempre travestirla da ideologia. Quinto, un ritorno meditato sulla Ontologia dell’Essere Sociale di Lukàcs, sempre lodata e stimata, ma anche questa volta maggiormente criticata per le sue insufficienze.

Vi sono anche altri studi sul comunitarismo, ancora inediti, e interventi su riviste che prima o poi qualcuno forse raccoglierà. Ma ciò che più conta in un filosofo è quello che i tedeschi chiamano Denkweg, e cioè il percorso di pensiero.

Approfondendo con radicalità il marxismo, ed applicando anche al marxismo stesso la marxiana critica delle ideologie (cosa che in generale i marxisti non fanno, mostrando così a tutti la loro miseria), sono arrivato alla fine a riscoprire il pensiero greco e la cosiddetta metafisica classica. E questo non certo per conversione o pentimento, ma al contrario proprio sulla base del metodo della critica immanente, metodo dialettico se mai ce n’è stato uno.

E con questo posso proprio chiudere.

Giacomo Pezzano – Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del bene comune a partire dal diritto romano

giurisdizione umanitaria

Queste brevi note prendono spunto dalle questioni poste dal libro di Luca Grecchi Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo (Petite Plaisance, Pistoia 2011), e in particolare dal suo confronto con alcune posizioni di Oliviero Diliberto, il quale ha sostenuto che una determinata concezione del diritto è in grado di guidare (o accompagnare) la struttura di un modo di produzione sociale verso il comunismo. In particolare la concezione del diritto chiamata in causa dall’ex Ministro della Giustizia è quella del diritto romano, il quale viene invece da Grecchi criticato (in quanto diritto proprietario e contrattuale, jus utendi et abutendi, diritto all’uso e all’abuso sulle cose e sulle persone) in nome dell’anti-crematistico umanesimo greco, e della conseguente concezione greca del diritto. Cercheremo di contribuire alla critica del diritto romano che fa da sfondo all’intera opera di Grecchi, attraverso alcune riflessioni di Roberto Esposito e di Giorgio Agamben1.

1. Il paradigma politico moderno-contemporaneo:
il diritto di essere liberi individui proprietari

I. La politica moderno-contemporanea non solo non si fonda su alcun legame sociale, ma è addirittura possibile solamente a partire dal suo scioglimento, da quello «slegame» che s-lega i singoli, allontanandoli l’uno dall’altro per re-legarli in spazi individuali chiusi e asettici ob-ligandoli a obbedire a codici astratti. Il contratto (pactum unionis/associationis) è ciò che separa (nel senso letterale del ricondurre a se stessi) gli uomini proprio nel momento in cui li accosta e unisce (pactum societatis) come sommatoria di individui messi giuridicamente in relazione per consegnare al potere sovrano ogni forma di autorità e di controllo (pactum subjectionis).

II. Oggi si può affermare che dopo la morte di Dio è venuta quella del social-comunismo2, perché viviamo la politica come un regno di atomi gestiti da un potere centrale economicamente sovrano, viviamo il drammatico esito della «dimenticanza» (parafrasando Heidegger) di una distinzione che nel mondo greco continuava a essere fondamentale ancora dopo il periodo classico, quella tra economia (monarchica) e politica (poliarchica), tra oikos – dominio dell’idion nella sua occlusiva univocità nonché congrega di singoli uomini, letteralmente idioti – e polis – campo aperto del koinon nella sua irriducibile e molteplice diversità:
se il processo di unificazione viene spinto oltre a un certo punto, non vi sarà più alcuna polis. Una città è per natura un che di molteplice [plethos], e se diventa troppo una sarà un’oikia piuttosto che una polis e un anthropos piuttosto che un’oikia: in realtà dobbiamo ammettere che l’oikia è più una della polis e l’anthropos dell’oikia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis (Aristotele, Politica, II, 2, 1261a 17-23).
L’economia e la politica differiscono non solo tanto quanto oikia e polis (queste in effetti ne costituiscono le rispettive materie), ma anche perché la politica [politikè] consta di molti capi [pollon archonton], l’economia [oikonomikè] invece è il governo di uno solo [monarchia] (Aristotele, Economico, I, 1, 1343a 1-4).

Come notava anche Hegel, la polis greca è stata lo spazio (concettuale e fisico) della continua mediazione tra uno e molteplice, e proprio per questo è stato il luogo di nascita della libertà europea, della libertà in quanto tale, della costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva e nullificante di Kronos il divora figli3.

III. Il paradigma moderno della politica e della sovranità è contraddistinto da due aspetti fondamentali: la persona concepita come proprietaria e il sovrano (Re o Stato che sia) come colui che gestisce la vita degli individui. Il diritto, il cui fondamento è che «ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere» (Hobbes, De cive, I, 7)4, è il dispositivo chiamato a normare e a codificare tutto ciò: il diritto deve sancire la proprietà individuale (cfr. p. e. Locke, Secondo trattato sul governo, V, 25-51)5 e dichiarare il potere sovrano statuale come gestore unico, vero e proprio Leviatano (cfr. p. e. Hobbes, Leviatano, XVII-XVIII)6. L’aspetto che qui ci preme evidenziare è che è stato il diritto romano a codificare per primo in maniera sistematica e politicamente performativa questi due aspetti, come cercheremo brevemente di mostrare seguendo rispettivamente Esposito e Agamben. Questo non significa negare discontinuità, magari anche radicali, rispetto alla concezione giuridica moderna (maggiormente incentrata sul soggetto piuttosto che sulla persona, per esempio), ma semplicemente segnalare la persistenza, più o meno sotterranea, nella modernità di una visione della vita in comune degli esseri umani (visione sostanzialmente antiumanistica e – anzi: in quanto – anticomunitaria) la cui incarnazione giuridico-politica è stata resa possibile dallo jus romano (d’altronde, il soggetto giuridico moderno è pensabile proprio a partire dalla persona giuridica romana).
IV. In altri termini, la tesi che intendiamo sostenere è che è nel diritto romano che hanno trovato una prima fondamentale fondazione e codificazione alcuni tratti fondanti la soggettività personale giuridica moderna, espressione della capacità di penetrazione ideologica del capitale, come ben aveva colto Marx laddove notava che, anche attraverso il diritto, «la proprietà privata viene incorporata nell’uomo stesso, e lo stesso uomo si riconosce come l’essenza [Wesen] della proprietà»7, proprietà privata concepita «in quanto attività che è per sé, in quanto soggetto, in quanto persona»8: l’individuo soggetto del diritto è oggetto di una drammatica Trennung tanto rispetto al Mensch quanto al Gemeinwesen9. Infatti, per Marx nel diritto «si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa […]. Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento [Absonderung] dell’uomo dall’uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato in se stesso»10: «l’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata»11, la libertà concepita come arbitrium si configura come «il diritto di godere a proprio arbitrio (à son gré), senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre di esso, il diritto dell’egoismo»12. Il diritto tenta di realizzare l’estrema astrazione, senza però rendersi conto che in realtà gli uomini non possono essere atomi e non lo sono mai, in quanto l’uomo non abita nella divina (o animale) indifferenza, come aristotelicamente evidenziato da Marx ed Engels:
la proprietà caratteristica dell’atomo consiste nel non avere alcuna proprietà e perciò nessuna relazione [Beziehung] […]. L’individuo egoistico della società civile si può gonfiare […] fino a diventare l’atomo […]. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha senso evidente di per sé per l’altro individuo egoistico che possiede i mezzi per soddisfare quel bisogno […], ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione […]. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate [entfremdet] possano apparire, l’interesse, che tengono uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica […], essi sono atomi solo nella rappresentazione [Vorstellung], nel cielo della loro immaginazione – il fatto che nella realtà [Wirklichkeit] sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici13.

Gli uomini, dunque, proprio in quanto uomini, sono necessariamente in rapporto con gli altri, non sono indipendenti: non c’è individuo che non dipenda dal legame sociale per realizzare persino il proprio utile e l’interesse privato; è la natura umana, l’essere bisognoso proprio dell’uomo, a fare degli individui umani esseri non autosufficienti e non assoluti – né animali né dei14. Das menschliche Wesen, ricorda Marx nella Tesi su Feuerbach, è das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse (VI), e la vita sociale è essenzialmente Praxis (VIII), umwälzende in quanto sinnlich menschliche Tätigkeit (I)15. Questo, in estrema sintesi, è quanto il diritto romano ha cercato di mettere da parte attraverso il suo capillare dispositivo normativo e normalizzante, che ha dato vita a una paradossale coimplicazione tra individualismo e assolutismo, perché la realizzazione dei diritti individuali, la garanzia della loro sicurezza, viene connessa alla subordinazione a un’obbligazione politica che possiede un carattere di assolutezza, all’alienazione di tutti i diritti, persino alla donazione della vita.

2. Persona, libertà e proprietà: il dispositivo individualizzante del diritto

I. Il diritto romano viene da Esposito considerato un vero e proprio dispositivo, per il suo ruolo performativo, ossia produttivo di effetti reali: esso distingue la persona, intesa come entità artificiale portatrice del diritto, dall’uomo, inteso come essere naturale «cui può convenire o meno uno statuto personale» (TP, p. 13). Ciò significa che per il diritto, vero e proprio «meccanismo di disciplinamento sociale» (ibidem), l’uomo può essere considerato tanto persona quanto cosa, come si evidenzia nel caso dello schiavo, che abita la zona di transito tra cosa vivente e persona reificata. Non solo: qualcuno può essere considerato pienamente persona (essere incluso da parte del dispositivo del diritto) solamente se qualcun altro viene spinto verso i confini della cosa (viene escluso da parte del diritto). In poche parole, il diritto possiede un carattere «privativo ed escludente» (ivi, p. 20), esclude colui che è privato del diritto, mentre include colui che è ammesso dal diritto soltanto in quanto privato cittadino, proprietario della sua persona prima ancora che delle cose che lo circondano e di cui fa uso.

II. La persona, dunque, viene intesa nel diritto romano come una maschera, come una vera e propria finzione, come l’assunzione di un ruolo economico-sociale: il diritto romano ha trasferito lo scarto singolare tra corpo e persona (tra ciò che nell’uomo è da considerare ulteriore e separato rispetto alla sua semplice corporeità) «dall’ambito singolare dell’individuo alla trama complessiva dei rapporti tra gli uomini» (ivi, p. 94). La generalità del diritto unisce gli uomini proprio tramite ciò che li divide, essi «sono divisi dalla forma che li collega in un unico destino» (ivi, p. 95), destino che li allontana dall’esistenza concreta e dalla densità corporea per dar vita a categorie astratte di esclusione/inclusione: schiavi e liberi, suddivisi a loro volta in ingenui (liberi per nascita) e liberti (liberi per affrancamento). Il diritto rende gli esseri umani soggetti nel senso che li assoggetta, li rende cioè oggetti in quanto li definisce in base a uno status che li codifica: «servi, filii in potestate, uxores in matrimonio, mulieres in manu, liberi in mancipio, ma anche addicti, nexi, auctoritati, sono tutte classi di esseri umani alieni iuris» (ibidem), sottoposti alla potestà del pater familias, «unico tipo di vivente sui iuris» (ibidem).

III. Lo schiavo, notavamo, è una figura particolarmente rivelatrice in quanto «eternamente sospeso tra la condizione di persona e quella di cosa, cosa con un ruolo di persona e persona ridotta allo stato di cosa, a seconda che si guardi ai compiti effettivi che assolve nella società romana oppure alla sua classificazione strettamente giuridica» (ivi, pp. 95 s.). Infatti, da un lato, egli è quasi la non-persona nella persona, la cosa all’interno della persona, è proprietà del padrone alla stregua di cose e animali, è strumento certo «parlante» ma pur sempre strumento da utilizzare e «in piena balia di colui cui appartiene nei suoi atti e nel suo corpo» (ivi, p. 96), è letteralmente dominato dal suo dominus. Eppure, dall’altro lato, «può, in alcuni casi, rappresentare legalmente il dominus assente o addirittura amministrare un peculium» (ibidem), così come, seppur destituito di ogni personalità giuridica, può «essere sottoposto a pena, purché particolarmente crudele e infamante o anche, sotto tortura, testimoniare davanti a un giudice» (ibidem). Qualora fosse stato ucciso non dal padrone (sempre legittimato a farlo), il suo assassino poteva essere, sempre a seconda della volontà del padrone, condannato per omicidio («come accade quando si procura la morte di una persona»: ibidem), o tenuto al risarcimento pecuniario al proprietario («come se gli avesse sottratto qualsiasi altro bene materiale»: ibidem). La stessa ambiguità la si ritrova nel rituale della vindicatio in servitutem, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà o viceversa, caratterizzato da una serie di stati intermedi che rendono «mai definitivamente compiuto e sempre reversibile» (ibidem) il transito da persona a cosa. Se si prende infatti, per esempio, la manumissio, l’affrancamento dello schiavo, si nota che essa, sempre connessa alla volontà sovrana del proprietario, può assumere le tre forme vindicta, testamento e censu:

nella prima l’emancipazione scaturisce dalla circostanza che alla vindicatio in libertatem di colui che, d’accordo col dominus, veste i panni dell’adsertor libertatis, non corrisponde una contravindicatio da parte del padrone. Nella seconda, per testamento, la liberazione avviene solo alla morte di quest’ultimo, con la conseguente estinzione degli obblighi patronali che negli altri casi continuano a vincolare il liberto. Nella terza, infine, la manumissio consiste nella iscrizione, sempre da parte del dominus, dello schiavo nelle liste del censo, e dunque nella sua iscrizione al novero dei cittadini liberi. Ma ciò che caratterizza, in tutte le forme, la procedura di manomissione è sempre la sua incompiutezza – vale a dire la distanza residua, graduata secondo precise misure, rispetto alla condizione di libertà effettiva (ivi, pp. 96 s.).

In altri termini, la liberazione restava sempre in sospeso, lo schiavo veniva considerato statuliber, non semplice liber, o addirittura gli restava preclusa la possibilità di fare testamento, in quanto tornava schiavo al momento della morte. Esisteva persino un istituto, la diminutio capitis (minima, media o maxima) volto alla «depersonalizzazione»: ciò mostra che la libertà, sempre e comunque nella disponibilità del padrone, era limitata nella forma, nell’estensione e nel tempo, venendo intesa «non come una condizione originaria, bensì derivata, cui l’uomo poteva accedere, temporaneamente e occasionalmente, attraverso un processo artificiale di personificazione» (ivi, p. 97).

IV. Non si deve pensare che tutto ciò valesse solo per lo schiavo, perché per il diritto romano nessun uomo era in quanto tale – per natura – persona: persino il liber per divenire pater doveva comunque passare «per lo stato di filius in potestate» (ivi, p. 98), vale a dire che prima di poter rivendicare lo jus vitae ac necis in quanto soggetto di diritto egli doveva essere stato a sua volta oggetto di analoga rivendicazione. Lo statuto di filius nel diritto mostra più di una consonanza con quello dello schiavo, o forse era persino peggiore di quello di quest’ultimo, in quanto – per esempio – il figlio abbandonato o venduto dal padre non diventava nemmeno proprietà del nuovo pater, perché restava in quella del padre naturale (cfr. ivi, pp. 98 s.). La persona, codificata dal diritto come centro individuale, si distingue dalla res in quanto sua proprietaria; il diritto romano compie una prestazione fondamentale che la giurisprudenza moderna non farà che accogliere, riarticolare e riallargare, quella della «separazione presupposta, all’interno dell’essere umano, tra un elemento naturale, corporeo, meramente biologico e un altro trascendente, costituito di volta in volta in centro di imputazione giuridica, razionale, morale» (ivi, p. 118)16. Come aveva intuito Simone Weil, cui Esposito si riallaccia, il diritto romano è diritto di usare e abusare, è legato a una divisione, a uno scambio e una quantità che ne fanno qualcosa di commerciale e legato all’esercizio della forza17: il diritto personale-individuale, sin dalla sua codificazione romana anzi grazie a essa, è un vero e proprio privilegio, qualcosa che include solamente laddove può escludere, è qualcosa di «privato e privativo» (ivi, p. 123), ha un carattere «di per sé particolaristico» (ibidem). È dunque contrario alla comunità e all’uguaglianza: «il privilegio per definizione è diseguale»18, e la diseguaglianza è per sua natura anticomunitaria.

3. L’homo sacer e l’eccezione sovrana

I. Secondo Agamben il fondamento del potere sovrano moderno non va cercato tanto nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualsiasi cosa rispetto a chiunque, di punire chiunque (cfr. HS, p. 118): il sovrano moderno è come il pater romano, il quale non tanto prende in carico dai dominati (schiavi o figli che siano) il loro (supposto, o comunque sempre provvisorio, come notato) diritto personale, quanto piuttosto è l’unico a poter continuamente esercitare il proprio diritto di proprietà e di controllo rispetto a essi. Gli uomini che vengono sottoposti al potere sovrano vengono considerati uguali proprio come i dominati che vengono sottoposti all’autorità della persona romana venivano considerati uguali: in quanto a disposizione, persino in quanto uccidibili (cfr. p. e. Hobbes, De cive, I, 3)19. Nei termini di Agamben, la sovranità moderna considera politica la vita solamente in quanto vita sacra, ossia uccidibile ma insacrificabile (uccidibile proprio in quanto insacrificabile e viceversa).

II. Per definire la figura della sacralità connessa alla vita umana Agamben si rifà proprio a una figura del diritto romano arcaico: «at homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur “si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit”. Ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet» (HS, p. 79)20. Sacro viene dunque definito dal diritto romano quell’uomo la cui uccisione resta impunita ma il cui sacrificio resta interdetto: se è vietato violare qualsiasi cosa sacra, è invece non sacrilego uccidere l’uomo sacro, se ogni uccisione viene punita dalla legge, è invece lecito uccidere l’uomo sacro. L’uomo sacro si pone così all’interno del diritto come colui che è al di fuori tanto dello ius divinum (non può essere sacrificato secondo le prassi rituali) quanto dello ius humanum (è uccidibile da tutti senza punizione): lascia entrambi in sospeso proprio nel momento in cui ne conferma l’esistenza in maniera più radicale. In altre parole, l’homo sacer, restando a metà tra giurisdizione divina e umana, si pone in una zona di indistinzione tra il diritto e la sua applicazione, nel senso che attraverso di lui il diritto è all’opera attraverso la sua disattivazione: il diritto viene messo letteralmente in sospeso attraverso una duplice eccezione (cfr. ivi, pp. 80-82 e 90 s.). «La vita insacrificabile e, tuttavia, uccidibile, è la vita sacra» (ivi, p. 91): essa occupa lo stato di eccezione, appartiene a Dio nella forma della non sacrificabilità ed è inclusa nella comunità nella forma dell’uccidibilità, laddove l’appartenenza a Dio è normalmente definita dalla sacrificabilità e l’inclusione nella comunità dalla non uccidibilità.

III. L’homo sacer, suggerisce Agamben, va considerato come la figura originaria «della vita presa nel bando sovrano» (ivi, p. 92), ciò che è catturato in esso è «una vita umana uccidibile e insacrificabile: l’homo sacer» (ibidem), il suddito in quanto tale. Ciò significa che il diritto romano ha codificato la struttura essenziale della sovranità moderna, la quale ha in carico la gestione delle vite dei singoli proprio in quanto può negarle: «sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera» (ibidem). La legge conosce un caso in cui essa manifesta in tutta la sua potenza la sua capacità di applicazione: quando si applica disapplicandosi, come accade nel caso dell’eccezione, momento in cui la legge si consegna a una pura vigenza senza alcun significato (Geltung ohne Bedeutung), in cui avviene il pieno abbandono al bando sovrano, che accosta e lega al proprio controllo con più forza proprio ciò che considera bandito rispetto all’ordine sociale (cfr. ivi, pp. 34, 59, 68, 122 s.)21. In tale momento la sovranità rivela il suo volto, la sua capacità di includere per esclusione e di escludere per inclusione: «sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani» (ivi, pp. 93 s.).

IV. Potremmo anche dire: il sovrano è il pater dei sudditi considerati quali «figli adottivi» del padre imperator22. Foucault affermava che uno dei privilegi caratteristici del potere sovrano è stato sempre la vitae necisque potestas: ebbene, tale potestà è stata originariamente definita dal diritto romano, come «incondizionata potestà del pater sui figli maschi» (ivi, p. 97). Nel diritto romano vita è un concetto non giuridico, indica cioè il semplice fatto di vivere o un particolare modo di vita, tranne che proprio nell’espressione vitae necisque potestas, in cui diventa un vero e proprio terminus technicus. Per Agamben questo mostrerebbe come nel diritto romano la vita appare solo «come controparte di un potere che minaccia la morte» (ibidem), di un potere dunque assoluto, quello che «scaturisce immediatamente e unicamente dal rapporto padre-figlio» (ivi, p. 98), che fa sì che il cittadino maschio libero si trovi di per sé in una condizione di «uccidibilità virtuale» (ivi, p. 100), di sacralità rispetto al pater, potere esteso in seguito all’intera sfera pubblica: «l’imperium del magistrato non è che la vitae necisque potestas del padre estesa nei confronti di tutti i cittadini» (ivi, p. 99). La vita considerata politicamente dal diritto romano è dunque quella sacra, perennemente esposta alla morte eppure proprio per questo non sacrificabile e non punibile: attraverso il diritto romano la vita «si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità» (ibidem), ossia soltanto tramite «l’abbandono a un potere incondizionato di morte» (ivi, p. 101). È solo a partire dall’orizzonte aperto dal diritto romano, sostiene Agamben, che nella modernità il potere supremo potrà essere concepito come «la capacità di costituire sé e gli altri come vita uccidibile e insacrificabile» (ivi, p. 113): persino il sovrano stesso si ritroverà investito della sacertà, di modo che la sua uccisione – crimine di lesa maestà – verrà considerata non un semplice omicidio (qualcosa di più, nel suo caso), e proprio per questo non potrà avvenire semplicemente seguendo i riti ordinari e le forme sancite (cfr. ivi, pp. 114 s.)23.

V. La politica moderna potrà prendere così in gestione la vita sacra in quanto nuda vita, sostiene Agamben, quella stessa nackte Leben che per Engels è quanto resta – e a malapena – dopo l’Auflösung der Menschheit in monadi da parte dello Scheidungprozess del capitalismo, modalità di produzione e di organizzazione sociale che dichiara apertamente la soziale Krieg, il bellum omnium contra omnes tanto temuto da Hobbes: «ognuno sfrutta l’altro, e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole, a malapena resta la nuda vita»24, in una situazione in cui «ciascuno vede nel suo prossimo un nemico da togliere di mezzo o tutt’al più uno strumento da sfruttare per i propri fini»25, e «questa guerra di tutti contro tutti non può stupirci, poiché non è altro che la concreta attuazione del principio già insito nella libera concorrenza»26. La vita viene così totalmente denudata e privata della sua essenza umana, quasi sino a scomparire – appaiono ancora tristemente valide alcune cupe parole di Adorno: «quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna»27.

Note

1 Faremo riferimento in particolar modo a R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007 (d’ora in poi TP in corpo testo) e G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (d’ora in poi HS in corpo testo).
2 È l’affermazione del Nobel per l’Economia del 1986 James M. Buchanan in: Il socialismo è finito, il Leviatano vive (1990), tr. it. di G. De Santis, in AA. VV., Le libertà dei contemporanei. Conferenze “Fulvio Guerrini” 1984-1993, presentazione di P. Ostellino, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, Torino 1993, pp. 161-172.
3 Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (1840), vol. I, a cura di E. Codignola e C. Sanna, Sansoni, Firenze 1947, pp. 182 e 279 s.
4 Cfr. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1649), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 25.
5 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici (1690), a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1982, pp. 247-263.
6 Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, pp. 275-303.
7 K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p. 102.
8 Ivi, p. 101. Altrove Marx affermava che gli individui sussunti alla forma-merce «si riconoscono reciprocamente come proprietari, come persone la cui volontà permea le loro merci. Qui entra in ballo il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), 2 voll., tr. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 231).
9 cfr. K. Marx, La questione ebraica (1844), in B. Bauer – K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 173-206: 193.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 194.
13 K. Marx- F. Engels, La Sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV: 1844-1845, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-234: 134 s. Come ha scritto Charles Taylor, non solo «vivere in società è una condizione necessaria dello sviluppo della razionalità, in uno dei possibili sensi di questa proprietà, o della trasformazione [becoming] in un agente morale nel senso pieno del termine, o in un essere autonomo pienamente responsabile» (C. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 187-210: 191), ma persino «essere un individuo non equivale a essere un Robinson Crusoe; significa piuttosto essere collocato in un certo modo tra gli altri uomini» (C. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. di P. Costa e M. C. Sircana, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 206): persino l’asocialità è socialmente determinata ed è resa possibile solo a partire da un orizzonte sociale di fondo.
14 Marx ed Engels possono così scrivere: «solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale […]. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione [Assoziation] e per mezzo di essa» (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846), tr. it. di B. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 54 s.). Proprio per questo nella kommunistische Gesellschaft lo sviluppo originale e libero degli individui non può che essere condizionato dalla Zusammenhang fra essi (cfr. ivi, p. 430), vale a dire che la società comunista certo non nega l’individualità, ma riconosce che la società non è costituita da individui, quanto piuttosto dalle relazioni materiali tra di essi (questo è il cum del comunismo): la vita individuale «abbraccia una grande cerchia di molteplici attività [Tätigkeiten] e relazioni [Beziehungen] pratiche con il mondo» (ivi, p. 245); «la società non consiste di individui [Individuen], bensì esprime la somma delle relazioni [Beziehungen], dei rapporti [Verhältnisse] in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro» (K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 242). In caso contrario si dà vita a vere e proprie Robinsonaden, «robinsonate» per le quali il punto di partenza viene considerato l’einzelne und vereinzelte individuo (cfr. ivi, pp. 3 s.), mentre persino l’interesse privato è configurabile solamente come elemento sociale, vale a dire che è possibile pensarsi come individui solo all’interno di una società che ha già posto i presupposti per farlo, ed è per questo che Marx poteva scrivere: «si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti [der gegeneinander gleichgültigen Individuen] costituisce il loro nesso sociale» (ivi, pp. 96 s.). Per un approfondimento di queste tematiche rimandiamo a L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci, Roma 2008.
15 Cfr. K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, V: 1845-1846, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5.
16 Non deve allora sorprendere, sottolinea Esposito, che oggi alcuni tra i più importanti bioeticisti liberali (come Engelhardt o Singer) facciano esplicitamente riferimento al diritto romano, e in particolare alle figure di transito tra persona e cosa della manumissio e della municipatio, per articolare la loro concezione della persona (cfr. ivi, pp. 118-122).
17 Il riferimento di Esposito è allo scritto La persona e il sacro, dove tra le altre cose leggiamo: «la nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. […] Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani. […] La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave» (in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, Mondadori, Milano 1996, pp. 75-78).
18 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 78.
19 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit., p. 23.
20 «Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio; infatti nella prima legge tribunizia si avverte che “se qualcuno ucciderà colui che per plebiscito è sacro, non sarà considerato omicida”. Di qui viene che un uomo malvagio o impuro suole essere chiamato sacro».
21 Stato in cui, come negli ultimi mesi accade sempre più spesso in Italia ma non solo, a essere considerata normale è l’emergenza (nonché, con essa, il rischio e il pericolo).
22 Situazione che noi in Italia stiamo vivendo in maniera drastica negli ultimi mesi: colui che controlla governo, principali mezzi di comunicazione e di informazione e gran parte del movimento economico del nostro paese si ritrova a essere considerato come dispensatore personale (e spesso nei confronti di persone perlomeno poco raccomandabili) di ricchezze, di posti di lavoro, di abitazioni, persino di incarichi politici, come padre padrone di parlamentari, «attrici», politici, imprenditori, come vero e proprio detentore di un potere totale sulle vite di questi, costretti ad accettare la totale dipendenza per poter aspirare a una qualche forma di (evidentemente menzognera) indipendenza.
23 Analogamente a come un processo nei confronti dei parlamentari italiani deve passare attraverso il filtro dell’immunità e della votazione del Parlamento, o a come un processo per prostituzione minorile rivolto nei confronti di un esponente del Governo italiano (o, come ben sappiamo, del Capo di esso) può dover essere istituito presso lo specifico Tribunale del Consiglio dei Ministri.
24 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1844), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, cit., pp. 235-514: 263.
25 Ivi, p. 362.
26 Ibidem.
27 T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa (1951), tr. it. di R. Solmi, introduzione e nota di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1994, p. 3.

Autori, e loro scritti

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Richard Bach – Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, allora imparerai come si vola.

Gaston Bachelard (1884-1962) – L’immaginazione è la facoltà di formare immagini che superano la realtà, che cantano la realtà, testimonianza del processo di scoperta da parte dell’animo del proprio mondo, il mondo in cui vorrebbe vivere, il mondo in cui è degno di vivere.

Gaston Bachelard (1884-1962) – Come abitiamo il nostro spazio vitale, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”? La casa è il nostro angolo del mondo, il nostro primo universo. ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa.

Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore.

Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.

Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.

Bronisław Baczko (1924-2016) – Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere.

Marino Badiale – Problemi tra scienza e filosofia.

Alain Badiou – Metafisica della felicità reale, DeriveApprodi.

Alain Badiou – L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. Non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione, la durata che lo porta a compimento. È prima di tutto una costruzione durevole, un’avventura ostinata. L’amore vero è quello che trionfa durevolmente: chiede cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. L’amore è comunista in questo senso: il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono.

Andrea Bajani – Bisognerà prima o poi tornare al “coltivare”, quando si nomina la scuola. Bisognerà ricordarsi del contadino metaforico che coltiva di nascosto dentro l’etimologia della parola Cultura, e che dentro la scuola dovrebbe trovare terra fertile.

Michail A. Bakunin (1814–1876) – Cercando l’impossibile, l’uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.

Michail A. Bakunin (1814–1876) – Lottiamo per il pieno sviluppo e il completo godimento da parte di ognuno di tutte le facoltà e potenzialità umane realizzate attraverso l’educazione, l’istruzione e la prosperità materiale.

Massimo Baldi – «Paul Celan. Una monografia filosofica». A rendere unica l’opera di Celan c’è la sua inesausta volontà di autocomprendersi e di correggersi, sempre nel cuore del poema, nella tensione che in esso si genera tra la lingua degli uomini e l’impiego spesso idiomatico che ne fa il poeta.

Beatrice Balsamo – Elogio della dolcezza, partendo dal dato etimologico per scandagliarne la lettura psicanalitica, quella sociologica e quella filosofica … la dolcezza ha a che fare con il gusto dell’uomo per l’uomo.

Honoré de Balzac (1799-1850) – Quale bel libro non si potrebbe scrivere raccontando la vita e le avventure di una parola, le cui risonanze, così belle ancora nella Grecia, s’indeboliscono attraverso i progressi delle nostre successive civiltà.

Marwan Barghouti – «L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». – Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti, prigioniero da 14 anni di Israele.

Marwan Barghouti – Noi non ci arrenderemo. Lotta per la Dignità e i Diritti, ecco il nome della nuona lotta dei prigionieri palestinesi. È nella natura umana rispondere alla chiamata per la libertà, a prescindere dal prezzo che si avrà a pagare.

Alessandro Barile – Il verso della storia. Discutendo del libro di Sante Notarnicola, «La nostalgia e la memoria».

Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.

Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.

Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche.

Claudia Baracchi, Bookcity 2020 – Esseri umani, farfalle, mostri e la filosofia come terapia della psiche. Con Claudia Baracchi, analista filosofa e Anna Stefi, filosofa e psicologa.

Claudia Baracchi – Non va ridotto a sintomo il bisogno di raccoglimento, di riflessione, che è risposta in qualche modo ribelle al regime dell’apparire. La libertà è essenzialmente categoria dello spirito.

Alvaro Barbieri – Il «Milione» in un’edizione completa e nella traduzione latina dell’opera, accompagnata da una moderna traduzione in italiano appositamente preparata, con numerosi passi del perduto originale dettato da Marco Polo.

Roland Barthes (1915-1980) – A cosa serve l’utopia? A produrre del senso. Un tempo si spiegava la letteratura attraverso il suo passato; oggi attraverso la sua utopia. Il senso è fondato come valore e l’utopia permette questa nuova semantica.

Roland Barthes (1915-1980) – Il mondo è pieno di segni. Decifrare i segni del mondo significa lottare sempre con una certa innocenza degli oggetti.

Giovanni Bartolomei da Prato – «Per Antonio Melis»: magia della memoria degli umani che quando quell’oscura lotteria si porta via un amico od un maestro di conservar l’essenza ha l’arte e l’estro.

Maria Cristina Bartolomei – La tenerezza è reciprocità, paritarietà, assenza di sottomissione, cancellazione della figura del dominio, del padrone e del suddito.

Giorgio Bassani (1916-2000) – Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta, meglio da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare.

Francesco Bastiani/ Luigi Pulcini – Storia delle poco conosciute macchine fotografiche italiane.

Georges Bataille (1897-1962)  – La noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Questo nulla interno lo respinge verso l’angoscia.

Georges Bataille (1897-1962)  – La verità di una poesia è forte e piena e del tutto sovrana al confronto col voluminoso pacchetto azionario del capitalista, la cui debole verità deriva dalla paura con la quale il mondo soggioga il lavoro.

Charles Pierre Baudelaire (1821-1867) – L’immaginazione è la regina del vero. Liberando il possibile compresso nel dato, l’immaginazione con ciò stesso libera il divenire, ovvero il “poter-essere-altrimenti” delle cose, crea un mondo nuovo.

Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.

Jean Baudrillard (1929-2007) – L’uomo non smette di espellere quello che egli è, quello che prova, quello che significa ai propri occhi con tutti gli artefatti tecnici che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta scomparendo.

Jean Baudrillard (1929-2007) – Non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne. Non più come forme organizzatrici.

Anna Beer – Note dal silenzio. Le grandi compositrici dimenticate della musica classica.

Ludwig van Beethoven (1770-1827) – Essere costretti a diventare filosofi ad appena 28 anni non è davvero una cosa facile e per l’artista è più difficile che per chiunque altro. Soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza. È stata la virtù che mi ha sostenuto nella sofferenza.

Samuel Bellamy (1689-1717) – Loro rubano ai poveri coperti dalla legge, mentre noi deprediamo i ricchi forti solo del nostro coraggio!

Bartolomeo Bellanova – Riflessioni sul saggio di Etienne De La Boetie: “Discorso sulla servitù volontaria”.

Anna Beltrametti – C’è anche un pensiero delle donne? Le donne del teatro greco sono laboratori di utopia infiniti. Sono talmente forti in questa loro energia utopica di un mondo da rifondare, da rinnovare, di un mondo possibile, che è la filosofia stessa ad attingere al loro pensiero.

Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Anna Beltrametti – Il punto più alto che Platone tocca nelle riflessioni sulla paura è proprio il reciproco implicarsi di potere personale e paura. Paura che l’uomo di potere riesce ad incutere ai suoi governati, ma anche paura provata dall’uomo di potere nei confronti di chi è migliore di lui, come pure della paura che ha di tutta la schiera di manutengoli che, dopo averlo lusingato, vogliono essere lusingati e pretendono lusinghe.

Anna Beltrametti – Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane. Per contendersi il favore del Popolo, trasformato da soggetto politico in oggetto (in merce), i contendenti si rivelano per quello che sono: strumenti, burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.

Anna Beltrametti – «La letteratura greca. Tempi e luoghi, occasioni e forme». L’intento è di contrastare periodizzazioni secche, di mostrare come le forme si modifichino o si conservino non solo nel tempo o in funzione delle occasioni a cui rispondono, ma anche in relazione ai luoghi segnati da cerimonie e rituali specifici, da consuetudini culturali precise.

Anna Beltrametti – Philosophical Fear and Tragic Fear: The Memory of Theatre in Plato’s Images and Aristotle’s Theory

Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.

Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.

Walter Benjamin (1892-1940) – La malinconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.

Walter Benjamin (1892-1940) – Che cos’erano per me i miei primi libri? Io non leggevo un libro, vi entravo, vivevo tra le sue righe; e quando lo riaprivo dopo un’interruzione, ritrovavo me stesso nel punto in cui ero rimasto.

Walter Benjamin (1892-1940) – L’esperienza è in ribasso. Un’indigenza di nuova specie si è abbattuta sugli uomini, la nostra povertà di esperienza. È povertà non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere, è una nuova barbarie.

Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismo è pura religione cultuale, senza tregua e senza pietà, che non purifica ma colpevolizza, non è riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi. Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.

Walter Benjamin (1892-1940) – I bambini si ritrovano nel mondo esterno in modo del tutto graduale, e solo nella misura in cui esso diventa loro familiare come un’interiorità a loro adeguata. L’interiorità di questa visione risiede nel colore.

Walter Benjamin (1892-1940) – Il capitalismno è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci, senza tregua e senza pietà.

Mirella Bentivoglio – Il cuore della consumatrice ubbidiente.

Nina Nikolaevna Berberova (1901-1993) – «Il giunco mormorante»: C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla.

Bernard Berenson (1865-1959) – Le creazioni più soddisfacenti sono quelle che esprimono carattere, essenza. La loro semplice esistenza ci appaga.

John Berger – L’attività dei ricchi è costruire muri, compreso il muro del denaro. La strategia della resistenza è questa …

Susanna Berger – The Art of Philosophy: Visual Thinking in Europe from the Late Renaissance to the Early Enlightenment

John Berger – Il momento in cui inizia un pezzo musicale.

Henri Bergson (1859-1941) – La memoria non è la facoltà di disporre dei ricordi in un cassetto. E cos’è la coscienza? Coscienza significa in primo luogo memoria. Ogni coscienza è anticipazione del futuro, è il tramite tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato fra il passato e il futuro.

Henri Bergson (1859-1941) – Il nostro carattere se non la sintesi della storia che abbiamo vissuto fin dalla nascita. È con tutto il nostro passato che noi desideriamo, vogliamo ed agiamo.

Henri Bergson (1859-1941) – Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento delle lancette non misuro una durata, come pare si creda, mi limito a contare delle simultaneità, il che è molto diverso.

Ludwig von Bertalanffy (1901-1971) – La società umana non è una comunità di formiche controllata dalle leggi della totalità sovraordinata

Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Berti – Per una nuova società politica.

Enrico Berti – La capacità che una filosofia dimostra di risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”.

Enrico Berti – Ciò che definisce l’uomo è anzitutto la parola. Non è del tutto appropriata la traduzione latina della definizione di uomo messa in circolazione dalla scolastica medievale, cioè animal rationale, la quale si basa sulla traduzione di logos con ratio. Certamente l’uomo è anche animale razionale, ma il concetto di logos è molto più ricco di quello di “ragione”.

Enrico Berti – È risonata più volte la proclamazione heideggeriana della fine dell’epoca della metafisica. Di fatto è esistita, e quindi ha una storia. Anche le più famose negazioni di essa sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa.

Enrico Berti – Nichilismo moderno e postmoderno.

Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Enrico Berti – «Scritti su Heidegger».

Enrico Berti – Recensione al libro di Maurizio Migliori, «Il “Sofista” di Platone. Valore e limiti dell’ontologia». Per migliori il “Sofista” mostra che in Platone l’amore del dialogo supera ogni desiderio di affermare tesi particolari.

Enrico Berti – La crematistica va contro la stessa natura dell’uomo, è ingiusta e immorale. Vorrei una città in cui l’uomo realizzi tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia.

Enrico Berti – Aristotele non era un teologo.

Enrico Berti – La fortuna di Aristotele nella storia della cultura. Oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.

Enrico Berti – Pensare con la propria testa? La filosofia deve essere insegnata a tutti per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa”. Filosofare significa fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro.

Enrico Berti – Il platonismo ha il grande merito di mostrare che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Un messaggio che lascia indifferente chi se la spassa, ma non chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.

Enrico Berti – Nuovi studi aristotelici. Volume V – Dialettica – Fisica – Antropologia – Metafisica

Enrico Berti – Il dio di Aristotele.

Giuseppe Berto (1914-1978) – Un padre non può pretendere che un figlio lo ami con la stessa intensità.

Georg W. Bertram – L’arte è prima di tutto un’esperienza che si realizza concretamente nella prassi umana. È una forma specifica di prassi riflessiva, è una prassi di libertà. È politica e si occupa dell’uomo. Anzi ne è responsabile e in quanto tale ha capacità trasformative.

Michèle Bertrand – L’homme ne cesse jamais d’appartenir à l’imaginaire, alors même qu’avec constance il poursuit le dessein de decouvrir (par la connaissance) la structure de l’univers ou sa propre verité singulière. Ce sont deux modes d’être et de penser, et non deux mondes.

Robert C. Berwick e Noam Chomsky – «Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione». L’analisi genetica di caratteri come il linguaggio è attualmente una sfida fondamentale per la genetica evolutiva umana.

Cardinale Bessarione (1403-1472) – I libri vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano: se non ci fossero si cancellerebbe anche la memoria degli uomini.

Bruno Bettelheim (1903-1990) – Una lettura della fiaba «I tre porcellini». Non dobbiamo ingannare noi stessi: la lotta sarà lunga e difficile, e inciderà su tutte le nostre energie morali e spirituali, se vogliamo non un “nuovo mondo” alla Huxely, ma un’epoca dominata dalla ragione e dall’umanità.

Piero Bevilacqua – Cosa è un bosco? Per avere valore, la bellezza ha bisogno di una domanda, direbbero gli economisti, ma una domanda intrinsecamente antieconomica vale a dire una soggettività umana in grado di contemplare disinteressatamente delle forme visibili che si presentano come belle, uniche e irriproducibili.

Marie-Henri Beyle, Stendhal (1783-1842) – Le azioni ispirate da una vera passione mancano raramente di produrre il loro effetto.

Bhagavad-Gītā – Queste sono qualità proprie degli uomini virtuosi.

Enzo Bianchi – Il passato meditato, riletto, pesato, confrontato aiuta la nostra sapienza a divenire un distillato di eventi, sentimenti, azioni, parole vagliate al crogiolo dell’esistenza, purificate, diventate essenziali!

Peter Bichsel (1935) – Ogni vita produce una storia se si è capaci di raccontarla. Progettiamo dunque una società narrante.

Beniamino Biondi – La disciplina giuridica del settore cinematografico in Italia.

Fernando Birri – «Para que el lugar de la Utopia, que, por definiciòn, està en “Ninguna Parte”, esté en alguna parte».

Fernando Birri (1925-2017) – … pero sueña con los ojos abiertos

Elizabeth Bishop – L’arte di perdere.

Alberto Giovanni Biuso – Recensione del libro “Discorsi sulla morte” di Luca Grecchi.

Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Roberto Marchesini «Alterità. L’identità come relazione»

Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Renato Curcio «L’EGEMONIA DIGITALE. 
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro». La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale».

Alberto Giovanni Biuso – Il «maestro vuoto» è la vittoria della separazione tra gli umani, della negazione della natura sociale di Homo sapiens, è il trionfo della distanza come vero e proprio paradigma antropologico, psicologico, etico.

Alberto Giovanni Biuso – Quei labirinti temporali che redimono il dolore. Recensione del libro «Fenomenologia e patografia del ricordo» di Pio Colonnello.

William Blake (1757-1827) – Vedere un Mondo in un granello di sabbia, e un Cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito nel cavo della mano e l’Eternità in un’ora.

Maurice Blanchot – La lettura fa del libro quel che il mare e il vento fanno con le opere forgiate dagli uomini. La lettura conferisce al libro l’esistenza brusca che la statua “sembra” dovere solo allo scalpello. Il libro ha bisogno del lettore per farsi statua.

Maurice Blanchot (1907-2003) – Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda. La risposta autentica è sempre vita della domanda.

Maurice Blanchot (1907-2003) – La cultura lavora per il tutto. Il suo orizzonte è l’insieme. L’ideale della cultura è di riuscire a comporre un quadro d’insieme, delle ricostruzioni panoramiche che permettano di situare in una stessa prospettiva Schoenberg, Einstein, Picasso, Joyce – e possibilmente anche Marx.

Maurice Blanchot (1907-2003) – Tra il mondo liberal-capitalista, il nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza) non c’è che il tramite di un “dis-astro”, di un cambiamento d’astro. C’è domanda, eppure nessun dubbio. C’è domanda, ma nessun desiderio di risposta.

Karen Blixen (1885-1962) – Perché «Petite Plaisance»? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? La prima dote è l’immaginazione.

Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.

Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.

Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.

Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.

Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».

Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia è una forza di anticipazione, l’elemento più dinamico e attivo della coscienza anticipante, che costituisce l’anima profonda della speranza per creare spazio alla vita ed essenzializzarsi.

Ernst Bloch (1885–1977) – La speranza non è rinunciataria. È superiore all’aver paura, non è né passiva come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccata nel nulla. Si espande, allarga gli uomini invece di restringerli.

Ernst Bloch (1885-1977) – La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla. L’«essere-per-la-morte» vuol conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia.

Marc Bloch (1886-1944) – L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato. L’errore non si propaga, non si amplia, non vive che ad una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. Una notizia falsa nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita.

Norberto Bobbio (1909-2004) – Non dissipare il poco tempo che ti rimane. Ripercorri il tuo cammino. Ti saranno di soccorso i ricordi. Nella rimembranza ritrovi te stesso, la tua identità, nonostante i molti anni trascorsi, le mille vicende vissute.

Giovanni Boccaccio (1313-1375) – «Ah, ch’ io possa spogliarmi d’ogni volgarità … Vivo povero per me stesso. E sono più contento con alcuni dei miei libercoli, di quanto non lo siano i re con le loro grandi corone».

Severino Boezio (475 d.C.-525) – Chi può dettar leggi agli amanti? | Suprema a sé l’amore è legge.

Danila Boggiano – Libro prezioso questo di Margherita Guidacci sulle Sibille che qui, nella poesia, non pre-dicono, ma ricordano sino alla dimensione confessionale dell’ultima parte in prosa in cui Margherita ci prende per mano …

Antonio Bonacchi – Che lavoro fai? …IL VIOLINISTA! Sì, ma di lavoro? Arte, mestiere, misteri del suonare il violino.

Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau».

Brice Bonfanti – «Canti d’utopia». L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! Finito l’ominide, l’umano è infinito.

Brice Bonfanti – Lo scrittore Arno Bertina in dialogo con il poeta Brice Bonfanti. una triade di epopee popolari, una triade di civiltà, una triade di popoli […] una triade d’amore.

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) – La stupidità è un nemico del bene assai più pericoloso della malvagità.

Dietrich Bonhoeffer (1905-1945) – La qualità è il nemico più potente di ogni massificazione. La liberazione interiore dell’uomo per una vita responsabile è l’unico reale superamento della stupidità. La stupidità può essere superata soltanto con un atto di liberazione.

Luis Bonilla-Molina – È in atto una gigantesca controriforma educativa sponsorizzata dall’Ocse e dalla Banca mondiale.

Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’unico luogo in cui è possibile custodire la memoria del passato è la progettazione del futuro, così come l’unico modo per progettare un futuro ricco di essere è quello di costruirne il progetto con le memorie del passato.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’uomo, proprio perché elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, deve mantenere tale elevazione con il distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.

Massimo Bontempelli – Gesù di Nazareth, uomo nella storia, Dio nel pensiero, ci ha dato la simultanea figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza, che sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica.

Massimo Bontempelli (1946-2011) – «Filosofia e realtà». Ripensare la metafisica come percorso per ritornare alla realtà, “sinolo dinamico di esistenza e sostanza”: la sostanza non vive fuori della storia, ma si svela nel visibile empirico dando ad esso senso e concretezza.

Jorge Luis Borges (1899-1966) – Il libro è un asse di innumerevoli relazioni.

Jorge Luis Borges (1899-1966) – Ogni persona che passa nella nostra vita è unica.

Jorge Luis Borges (1899-1986) – Non c’è libro meno bisognoso di prologo di questo, dalla genesi indolente, formato da una sedimentazione di prologhi …

Eugenio Borgna – Gli orizzonti di senso della speranza sono infiniti. La peranza è come un ponte che ci fa uscire dalla solitudine, e ci mette in una relazione senza fine con gli altri. La speranza è anche dovere, ricerca infinita di senso.

Eugenio Borgna – La saggezza, la prudenza e la sapienza sono modi di vivere che sembrano ormai superati, e anzi temuti, perché estranei ai modelli oggi dominanti: la fretta, l’accelerazione, la tendenza a mettere fra parentesi i valori, il sacrificio, l’interiorità, la gentilezza, la generosità …

Silvana Borutti – Una comunità che si costituisce sull’assunzione della responsabilità dell’altro deve connettere l’ethos non alla polis costituita, ma piuttosto alla polis in costituzione, deve legiferare perché siano tutelate le condizioni della comunità che viene.

Barbara Botter – Aristotele non voleva essere un teologo e la teologia era da lui ritenuta una narrazione poetica sui “viventi immortali e felici”.

Michelangelo Bovero – L’ideologia (neo)liberista concepisce il mercato come una sorta di istituzione suprema e sovrana, e promuove a valore assoluto un’idea di libertà che tende a confondersi con la semplice assenza di regole, ossia con quella che Kant chiamava «libertà selvaggia».

Houria Bouteldja – Giancarlo Paciello, legge il libro «I bianchi, gli ebrei e noi». L’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja.

Svetlana Boym (1959-2015) – È in atto una epidemia globale di nostalgia. Il XX secolo iniziò con un’utopia – gettata via negli anni Sessanta – e finì con una nostalgia, rifiuto della responsabilità individuale e collettiva per il futuro.

Ray Bradbury (1920-2012) – Sostanza (identificazione della vita), tempo per pensare (tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita), diritto di agire in base a ciò che apprendiamo. Rileggiamo “Fahrenheit 451”.

Vitaliano Brancati (1907-1954) – Gli sciocchi mancano della capacità di discernimento. Lo sciocco non distingue, non discerne. Il potere di cui è orgoglioso è quello di trovare simili le cose più diverse.

Georges Braque (1882-1963) – La verità esiste, non s’inventa che la menzogna. Bisogna divenire il tempo… L’eterno è la negazione della vita, della libertà.

Anna Bravo (1938-2019) – Non dobbiamo smembrare e sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Le donne erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne. Domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile.

Fernanda Elisa Bravo Herrera – Tracce e percorsi di un’utopia: L’emigrazione italiana in Argentina. Il libro di Bravo Herrera, ovvero come si riempie un vuoto culturale.

Fernanda Elisa Bravo Herrera – Parodias y reescrituras de tradiciones literarias y culturales en Leopoldo Marechal.

Salvatore Bravo – Ricerca ed esodo in Massimo Bontempelli. L’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. Questo il messaggio che ci lascia per il nostro cammino nella verità e verso la verità.

Salvatore Bravo – L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera Libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore.

Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

Salvatore Antonio Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

Salvatore Antonio Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Salvatore Bravo – Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

Salvatore Bravo – Sei ancora capace di scandalizzarti come K. Marx ? La «pietra d’inciampo» («scandalum») è anche qualcosa che rende presente il tuo cammino. Pensa allora allo scandalo del denaro e del possesso,pensa alla tua e altrui libertà interiore .

Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.

Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.

Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Salvatore Bravo – La teoretica di E. Severino resta in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico. Non resta che filtrare dal pensatore de «La Struttura originaria» gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente.

Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.

Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.

Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.

Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.

Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.

Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.

Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.

Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo – Filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Salvatore Bravo – Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito. Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Salvatore Bravo – Scrive Nietzsche che la mancanza di senso storico è il difetto ereditario dei filosofi. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico, e, con esso, la virtù della modestia. Coniugare filosofia e storia è una delle modalità per trascendere le vuote verità.

Salvatore Bravo – Capitale e felicità sono un ossimoro. Il buon luogo, dove vivere una vita all’altezza della propria umanità, è la necessaria utopia che progetta l’uscita dalla caverna, l’esodo dalla schiavitù del dolore senza senso, esigendo in premessa una una rivoluzione culturale ed educativa di lunga durata.

Salvatore Bravo – Modelli per la prassi. Luca Grecchi è un pensatore originale. La sua attività di ricerca testimonia che, anche in tempi di miseria dell’abbondanza, è possibile il riorientamento.

Salvatore Bravo – La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità. Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Salvatore Bravo – Riscoprire la concentrazione, il «theoretikós bíos» dei greci, la theoría. Così l’uomo si sottrae alla pervasività dell’eccesso di stimoli, ritorna a vivere la pienezza del tempo del pensiero, ad immergersi nel mondo per agire in esso secondo un progetto.

Salvatore Bravo – La ricerca di Luca Grecchi non solo rende palese l’assenza della metafisica nella filosofia di oggi, ma tenta di rielaborarne i fondamenti, non rinunciando alla progettualità onto-assiologica e alla verità e tracciando la via per una metafisica umanistica.

Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Salvatore Bravo – Sul viso di Giulio Reggeni si è riversato tutto il male del mondo. La giustizia per Reggeni e per le vittime delle armi, è possibile solo se si lotta per un’economia della pace, per un’economia al servizio della persona.

Salvatore Bravo – La scuola virtuale del ministro Azzolina vuole studenti che ricevano pochi contenuti, ma edotti nell’uso non consapevole del digitale, dispersi in un presente senza passato.

Salvatore Bravo – La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

Salvatore Bravo – La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità.

Salvatore Bravo – La rete è simbolo effettuale di una pervasiva madre matrigna anaffettiva che ingloba l’umanità, la omogeneizza, privandola di ogni determinazione sino a renderla un immenso indistinto nel quale le identità si assottigliano fino ad evaporare, inibibendo vera crescita e umanistica formazione.

Salvatore Bravo – Una lettura critica del libro di Antonio Damasio, «Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello».

Salvatore Bravo – Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. Non basta essere gentili. Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

Salvatore Bravo – La «SuperLega» Calcio impone i «nuovi gladiatori» come modello mercantile del capitalismo assoluto. Liberare il gioco dalla competizione distruttiva è un imperativo etico e sociale.

Salvatore Bravo – Liberarsi del dominio e non delle identità di genere. La libertà non è la pratica del nulla, ma la tensione tra le identità, il cui fine è conoscersi per donarsi.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Gli amanti costruiscano il loro amore conferendogli alcunché di storico, come se contassero su una storiografia. L’attimo non vada perduto

Bertolt Brecht (1898-1956) – Il commercio non è mai pacifico. Parole come «commercio pacifico» nella storia non hanno un posto. I confini che le merci non possono superare, vengono superati dagli eserciti.

Brecht Bertolt – Cinque difficoltà per chi scrive la verità.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Bertolt Brecht (1898-1956) – Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Ma quando pretende di intervenire sul meccanismo dei profitti, io dico allora: fermo. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo.

Selene Iris Siddhartha Brumana – La polivocità della nozione di ‘sistema’ . Modi della sua declinazione filosofica nel pensiero antico e contemporaneo. Energeia e dynamis in Aristotele. Prospettive contemporanee del dibattito.

Mario Brunello – «Silenzio», Il Mulino, 2014. «Più penso al silenzio e più la musica mi parla».

Giordano Bruno (1548-1600) – Malamente potranno approvar questa filosofia color che, mercenari ingegni, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunmente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere.

Piero Brunori, Il “nuovo che avanza” nei principi generali del diritto amministrativo

Martin Buber (1878-1965) – L’immagine utopica è un’immagine di ciò che «deve essere», di ciò che colui che immagina desidera che sia. Questa immagine prima e originaria è un desiderio.

Georg Büchner (1813-1837) – La drammaturgia critica di un rivoluzionario: La morte di Danton – Leonce e Lena – Woyzeck.

Michail Afanas’evič Bulgakov (1891-1940) – Ogni potere é una violenza contro gli uomini e verrà il tempo in cui non ci saranno più né il potere di Cesare né altri poteri. L’uomo si trasferirà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario nessun potere.

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO.

Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”.

Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.

Luis Buñuel (1900-1983) – Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.

Edward Burne-Jones (1833-1898) – La passione della lettura nella pittura.

Antonino Buttitta (1933-2017) – L’unica via per uscire dalle secche mortali del formalismo, è quella di considerare unitamente ai problemi del significato dei fenomeni studiati anche quelli del loro senso.

Byung-Chul Han – La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. Non è necessaria alcuna riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, svuotata di qualsiasi profondità. Nessuna interiorità si nasconde dietro la sua superficie levigata. Giova dismettere vesti levigate accogliendo l’invito di Rilke: «Tu devi cambiare la tua vita».

Byung-Chul Han – L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Il ‘like’ conduce allo smantellamento della realtà. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita del pensiero, che non è calcolo né artificiale intelligenza.

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