Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

Preve 02

1. Al principio di tutto, c’è l’indignazione. In generale l’indignazione è preceduta da una vaga irritazione, ma quando l’irritazione si cristallizza in indignazione allora si ha la genesi delle rivelazioni religiose e delle coerentizzazioni filosofiche. L’indignazione è stata all’origine della filosofia greca detta erroneamente presocratica (erroneamente, perché in un certo senso lo stesso Socrate è stato l’ultimo dei cosiddetti presocratici, e cioè di coloro che filosofavano al servizio diretto ideale della polis democratica), nella forma della indignazione razionalizzata di fronte all’irruzione sconvolgente della schiavitù per debiti, a sua volta dovuta alla monetarizzazione selvaggia dei rapporti sociali. In sintesi, la stessa filosofia greca ha trovato la sua genesi storica e sociale nello scontro fra l’elemento comunitario e l’elemento privato, più specificamente nella lotta fra le classi subalterne che aspiravano a salvaguardare la coesione economica e solidale della comunità e le classi superiori che miravano invece a dissolvere i legami comunitari, liberandosi così dalle pendenze e dagli obblighi economici verso la comunità, spalancando così le porte all’accumulazione crematistica.
Ho usato il termine accumulazione crematistica (termine preso da Aristotele) e non capitalistica, perché a quei tempi non sarebbe stato in alcun modo corretto parlare di accumulazione capitalistica. La piena confluenza dell’economia crematistica (già presente ovviamente, sia pure dominata, in un contesto di modo di produzione asiatico, schiavistico e feudale) in vera e propria economia capitalistica presuppone la sparizione di ogni distinzione fra crematistica ed economia propriamente detta, distinzione che sta invece alla base della concezione aristotelica della società (e si veda in proposito, oltre allo stesso Marx, Karl Polanyi, eccetera)… [continua a leggere]

Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale

 


Vedi anche:

Costanzo Preve, Religione Politica Dualista Destra-Sinistra
Costanzo Preve, Elementi di Politicamente Corretto
Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.
Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.
Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.
Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez
Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

 


 

 

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Ippocrate (460 a.C.-370 a.C.) – Rido dell’uomo, pieno di stoltezza, […] che con i suoi desideri smisurati si affanna ad avere sempre di più facendo a pezzi la madre terra.

Ippocrate

«Ma io rido solo dell’uomo, pieno di stoltezza, vuoto di azioni rette, […] che con i suoi desideri smisurati percorre la terra fino ai suoi confini e penetra nelle sue immense cavità, fonde l’argento e l’oro e non smette di accumularne, si affanna ad avere sempre di più per essere sempre più piccolo. Non si vergogna di essere ritenuto felice perché scava le profondità della terra con le mani di uomini incatenati: di essi alcuni muoiono sotto i crolli di terra, altri, in lunghissima servitù, vivono in quella prigione come nella loro patria; cercano argento e oro, frugando tra polvere e detriti, spostano mucchi di sabbia, aprono le vene della terra per arricchirsi, fanno a pezzi la madre terra».

Ippocrate, Ippocrate e Democrito (Epistole 10-21), in Id., Lettere sulla follia di Democrito, testo greco a fronte, a cura di Amneris Roselli, Napoli, Liguori, 1998, pp. 63-65.


Lettere sulla follia di Democrito

Logo Liguori

Ippocrate

Lettere sulla follia di Democrito

a cura di Amneris Roselli

ISBN: 978-88-207-2822-9

Attraverso le Lettere, qui per la prima volta integralmente tradotte e con testo a fronte, è giunta fino a noi l’immagine di Ippocrate come medico che disprezza la ricchezza e cerca la verità. Il suo incontro con Democrito – il filosofo folle che ride della stoltezza degli uomini e seziona animali cercando le cause della follia – ha sollecitato la fantasia di scrittori e artisti fino all’età moderna, fra cui Ficino, Erasmo, Rabelais, Montaigne. Da queste lettere sono germogliate l’Anatomia della malinconia di Robert Burton e La storia degli Abderiti di Christoph Martin Wieland.

Amneris Roselli

Insegna Filologia classica nell’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha curato l’edizione di Ippocrate Epidemie VI, 1982, e dello pseudoaristotelico De spiritu, 1992, ed è autrice di numerosi saggi sulla medicina greca e latina (Ippocrate, Galeno, Celso).


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Giancarlo Paciello – La Costituzione tradita. Intervista a cura di Luigi Tedeschi

Costituzione tradita

 

L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Così recita l’art. 1 della costituzione italiana. Tuttavia la svolta liberista di stampo anglosassone imposta alla struttura economico – sociale del paese sembra smentire questo principio fondativo. Anzi, tutte le norme costituzionali che affermano i principi di dignità e tutela del lavoro sembrano aver subito una abrogazione materiale. Il principio lavorista viene spesso contestato come un vecchio residuo ideologico, si vuole infatti sostituire il fondamento del lavoro con quello della libertà.

Potrebbe secondo me essere una cosa positiva, perché libertà è libertà dal bisogno. Servirebbe una visione più vasta della libertà umana. Ma di fatto non si vuole tener conto che la dignità umana si basa sul lavoro. Bergoglio usa questa espressione poetica: “Il lavoro unge di dignità l’uomo”. Questa è una formulazione recente della Chiesa. Pio XII in particolare in un suo discorso bollava “la smodata bramosia di piaceri” degli operai italiani che chiedevano aumenti salariali. Io insisto a riferirmi al dettato cattolico perché è quello che domina l’immaginario collettivo dell’Italia. Il Papa è sempre un valore assoluto riconosciuto da tutti. E’ il caso di rifarsi a persone al di sopra di ogni sospetto. Il quadro che tu descrivi è in realtà l’obiettivo che il neoliberismo dominante ha intenzione di colpire. Perché il soggetto si caratterizza come soggetto di consumo e quindi la dialettica sociale non è più quella di capitale e lavoro…[Continua a leggere]

Fonte: Italicum

Luigi Tedeschi intervista Giancarlo Paciello
La Costituzione tradita

 

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Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Sante_Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.
———————– C. F.

 


 

L'anima e il muro

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Sante Notarnicola
L’anima e il muro


Introduzione e cura
di Daniele Orlandi
disegni di Marco Perroni

pp.192 € 18,00

ISBN 978-88-96487-29-7

 

 

dalla quarta di copertina

Questa scelta antologica di poesie scritte durante un trentennio diventa l’occasione per una particolare scansione della storia d’Italia, perché questi versi oscillano, lenti o vorticosi, tra l’anima e il muro di tante prigioni. Corredato di un ampio saggio introduttivo e di note che ne inquadrano la mole di rimandi alla cronaca e alla cultura di quegli anni che l’autore riversa sulla pagina, L’anima e il muro, duellanti senza pace, ne raccoglie i momenti principali. Sante Notarnicola ha attraversato il Novecento italiano da ribelle: operaio, bandito, carcerato. I tre tempi della sua vicenda biografica sono scanditi dalla poesia, una vera e propria autobiografia in versi, contemporanea a quella generazione che ingaggiò una guerra senza esclusione di colpi con lo Stato lunga circa un ventennio. In disaccordo con la linea attendista del Pci negli anni Cinquanta, rompe con il Partito e seguendo un progetto di guerriglia diviene rapinatore con la famigerata Banda Cavallero. Arrestato nel 1967 e condannato all’ergastolo, prosegue e insieme inizia la sua vera attività politica. Da allora, la Storia d’Italia s’incaricherà di fargli visita nelle varie patrie galere del suo lungo soggiorno. Notarnicola la accoglierà a suo modo: animando il movimento per i diritti dei detenuti sul finire degli anni Sessanta; conoscendo e confrontandosi con lo stato maggiore della lotta armata, dalle Br ai Nap a Prima Linea, tentando l’evasione e sperimentando sulla pelle il regime di articolo 90 nelle carceri speciali. Dopo vent’anni, otto mesi e un giorno si riaffaccerà alla vita esterna fino alla lenta estinzione della pena. Poesie di lotta e inni rivoluzionari, gridi muti di rabbia e squarci di lirismo nati in un contesto, come la carcerazione politica, dove la speranza della libertà è una quotidiana collettiva eucarestia o non è.

Sante Notarnicola (Castellaneta 1938), «operaio, comunista, rapinatore di banche, carcerato, scrittore, poeta». Nel 1972 ha pubblicato con Feltrinelli la sua semibiografia L’evasione impossibile (ristampata da Odradek a partire dal 1997). È autore di tre raccolte poetiche: Con quest’anima inquieta (Senza Galere, 1979), La nostalgia e la memoria (Giuseppe Maj, 1986) e l’ibrido Materiale interessante (Edizioni della Battaglia, 1997). Alcuni suoi versi compaiono nel volume collettivo Mutenye. Un luogo dello spirito (Odradek, 2001).


 

L'evasione impossibile, Feltrinelli, 1972

L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972

 

L'evasione impossibile

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Sante Notarnicola
L’EVASIONE IMPOSSIBILE

Con un’introduzione di Pio Baldelli e un’intervista all’autore

II edizione 2005 Con una prefazione di Erri de Luca

L’evasione impossibile ha attraversato con grande forza il ciclo di movimenti tra il ’68 e il ’77. Libro di culto per la generazione degli anni ’70, ormai introvabile, aggiunge all’interesse per le autobiografie esemplari quello dell’analisi distaccata nei confronti di nodi impresentabili – e quindi rimossi – per la sinistra; come la violenza e il carcere.
E’ il racconto della nascita e del percorso di quel gruppo che attraversò i fugaci onori della cronaca alla fine degli anni ’60 come “banda Cavallero” una banda di rapinatori di banche, nata per autofinanziare un’improbabile rivoluzione, e che aveva mantenuto per anni la propria salvaguardia evitando qualsiasi rapporto con la malavita. Un’anomalia che ne fece allora una leggenda.
Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, I’ex partigiano Danilo Crepaldi sono invece fino in fondo figli del “popolo comunista” torinese, delle “boite” e delle officine della ricostruzione industriale del dopoguerra.
La grande forza emotiva non fa velo alla capacità di comunicare con lucidità e distacco il quadro storico-sociale che fa da sfondo alla trasformazione del Pci, alla nascita della sinistra extraparlamentare e poi delle organizzazioni guerrigliere.
Furono fortunati e abili nel riuscire a operare per tanti anni; furono sfortunatissimi nell’essere arrestati proprio un attimo prima che il ’68 facesse la sua apparizione, dando nuova linfa e nuove idee alla trasformazione radicale dell’esistente. Anche se c’è da dubitare che questi uomini – esclusi ormai da anni dal confronto con le realtà di base – sarebbero stati in grado di maturare un rapporto proficuo con un movimento tanto diverso da quello che si potevano attendere o sperare.
La condizione di prigionieri, paradossalmente, favorì invece questo incontro. E furono i gruppi extraparlamentari (non senza contraddizioni) a riconoscere in questa banda dei “compagni di strada” provenienti dalla generazione “perduta”: quella che era stata troppo giovane per fare la Resistenza, e troppo vecchia per attendere un nuovo ciclo radicale di lotte.

L’intervista al Sante di oggi, in appendice, chiude il cerchio di una vita spesa senza rimpianti alla ricerca di una rivoluzione che non ha vinto. Un capitolo della lunga “guerra civile” italiana, visto dall’ interno dei gruppi sociali che in modi diversi, ma più di tanti altri, hanno pagato sulla propria pelle il prezzo della “normalizzazione” del conflitto: la classe operaia torinese e i detenuti. In tempi di pensiero debole, l’unica ricaduta positiva è probabilmente il rinnovato interesse per le “vite”, per la memoria, per le testimonianze.
Quella di Sante Notarnicola è una coscienza estesa e possente, che sviluppa ed elabora una minuziosa e basilare critica della politica e della rappresentanza, perché il carcere, come luogo della intensificazione delle espenenze, dell’elaborazione collettiva, risulta un momento estremo di analisi della politica e di conoscenza dello Stato.

 


La Farfalla

Sante Notarnicola

La farfalla

Versi rubati

a cura di Daniele Orlandi.

In copertina: Marco Perroni, Prison, 2015.

Editrice Petite Plaisance

indicepresentazioneautoresintesi

 

Dalla Introduzione di Daniele Orlandi:

In un precedente libro di poesie che ebbi l’onore di curare, l’intento non era quello di raccontare in un’ottica cronistico-giudiziaria la storia di Sante Notarnicola (Castellaneta, 15 dicembre 1938) “bandito” o, in una dimensione politica, quella del rivoluzionario (ammesso che per il potere le due definizioni possano andare disgiunte). Non era nemmeno quello di fare critica letteraria. Rappresentava semmai il tentativo di scovare le maglie più larghe in cui i tre aspetti potessero collegarsi per fornire, in una prospettiva storica, un ritratto di Sante il più possibile vicino al vero. Per questa storia, quindi, che prima o poi il lettore ricercherà vanamente in queste pagine, non si può che rimandare a quella sintesi… [continua a leggere].

Daniele Orlandi, Introduzione

 

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Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare

Spinoza

«[…] il saggio, in quanto è considerato tale, è difficilmente turbato nell’animo;
ma, consapevole di sé […],
possiede il vero compiacimento dell’animo.

Se, ora, la via che  […] conduce a ciò sembra estremamente difficile,
può tuttavia essere trovata.

E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova.

Come infatti potrebbe avvenire,
se la salvezza fosse sotto mano e potesse essere ottenuta senza molta fatica,
che fosse negletta quasi da tutti?

Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare».

Baruch Spinoza, Etica, 1667.

 

 

 

Spinoza a cura di Diego Fusaro.

 

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Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

Collisioni

242 ISBN

Andrea Bulgarelli – Costanzo Preve

Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofia

ISBN 978-88-7588-153-5, 2015, pp. 96,  Euro 10 – Collana “Il giogo” [64]

indicepresentazioneautoresintesi

 

 1) Secondo Norberto Bobbio, “tra la religione e la scienza, quale è il posto riservato alla filosofia? O si mantiene valida la pretesa all’assoluta verità, e da allora sembra che non si possa fare a meno dell’esperienza religiosa – la filosofia deve cedere alla religione; o si rinuncia alla validità assoluta, ed allora si hanno buone ragioni di credere che bastino le scienze – la filosofia deve cedere alle scienze”. Religione, scienza e filosofia sono dunque, secondo Bobbio, ideazioni umane tra loro del tutto distinte ed autonome, con conseguente delegittimazione del sapere filosofico. In tal caso, una volta eliminati gli elementi del processo dialettico, verrebbe meno il fondamento stesso della filosofia. Secondo Costanzo Preve invece, l’unità dialettica tra scienza e religione verrebbe ad essere realizzata mediante la sintesi messa in atto dalla filosofia, quale momento di mediazione tra i due elementi dialettici. Ma allora scienza e religione non avrebbero di per se stessi alcun fondamento veritativo se non quali elementi del processo dialettico, o meglio, i loro fondamenti non sussistono se non in quanto funzionali alla verità filosofica?

Non sono sicuro che Preve intendesse la filosofia come sintesi dialettica tra scienza e religione. Questo significherebbe, come giustamente suggerisci tu, una subordinazione de facto delle prime due alla terza. Avremmo così una vera e propria assolutizzazione del pensiero filosofico, cosa che è in netto contrasto con la tesi dell’autonomia delle forme di conoscenza sostenuta da Preve e da me. Quando in Collisioni. Dialogo su filosofia, scienza e religione (Petite Plaisance 2015) io e Costanzo parliamo di unità dialettica, intendiamo polemizzare con quanti chiudono scienza e religione in compartimenti stagni, strumentalizzandole per mettere in scena il teatro “laici” contro “credenti”.
Chi cerca di sviluppare una ricostruzione razionale della genesi delle idee sa perfettamente che la scienza non è caduta miracolosamente dal cielo nel XVII secolo, magari come reazione contro una fumosa “religione” tout court. In realtà la genesi della scienza, esattamente come quella della religione (e della filosofia) è “sporca”, non rimanda a nessuna purezza originale. L’intreccio tra religione e scienza è stato oggetto di specifici studi, tra i quali ricordo quelli di Thomas Merton, secondo i quali l’istituzionalizzazione del pensiero scientifico moderno sarebbe in gran parte la ricaduta non prevista dell’etica puritana. Ciò non significa assimilare le due sfere, o fare della scienza una sorta di secolarizzazione di determinati contenuti religiosi, ma solo rendersi conto che è lo sviluppo storico complessivo dell’uomo a determinare i suoi singoli elementi, e non il contrario. Non si tratta quindi di una posizione oscurantista: anche Stephen Jay Gould ha trattato spesso delle influenze che il contesto storico ha esercitato sul progresso della scienza …[continua a leggere]

Fonte: Italicum
Intervista di Luigi Tedeschi ad Andrea Bulgarelli coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

 

 

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Carlo Michelstaedter (1887-1910) – «Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione»

La persuasione e la rettorica

Logo AdelphiA cura di Sergio Campailla
Piccola Biblioteca Adelphi
1982, 14ª ediz., pp. 212
isbn: 9788845904929

Risvolto di copertina
Carlo Michelstaedter traversò la vita con incauta rapidità: prese a pretesto una tesi di laurea per dare voce a una sua desolata certezza: stabilì, all’interno del suo ragionare, un filo tra Parmenide e una corrosiva critica della società che lo circondava: infine, nell’ottobre 1910, a ventitré anni, si uccise con un colpo di rivoltella. Percorso che ricorda quello di Otto Weininger, per l’intensità rovente dell’esperienza, per la tematica, per gli anni in cui si svolge. La persuasione e la rettorica doveva essere la tesi di laurea di un brillante studente goriziano a Firenze su questi due concetti in Platone e Aristotele. Divenne un testo anche formalmente inclassificabile, dove le due parole del titolo assumono significati del tutto peculiari. «Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita». «Rettorica» è l’apparato di parole, di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla «persuasione». Isolato nell’Italia del suo tempo, fedele all’ombra di Schopenhauer, Michelstaedter raggiunse in questo suo scritto la concentrazione vibrante che è data ai grandi precoci: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente».

 

***

Carlo Michelstaedter in un suo autoritratto

Carlo Michelstaedter in un suo autoritratto

«Ma gli uomini questo temono più della morte accidentale: temono più la vita che la morte: rinunciano volentieri ad affermarsi nei modi determinati purché la loro rinuncia abbia un nome, una veste, una persona per cui si conceda loro un futuro quanto più vasto – una crisi quanto più lontana e certa per altrui forza – e nello stesso tempo un compito quanto più vicino: un’attività che fingendo piccoli scopi conseguibili via via in un vicino futuro, dia l’illusione di camminare a chi sta fermo.
Per un nome, per una apparenza di persona gli uomini sacrificano volentieri la loro determinata domanda, ché in questa pur sentono l’incertezza, e intimiditi s’adagiano alla qualunque fatica bruta: – in ogni uomo si nasconde un’anima di fakiro» (p. 129).

«[…] i due simili non sono più simili ma l’uno ha il diritto del lavoro o proprietà immobile e il diritto sui cumuli di lavoro o proprietà mobile, ha affermato di fronte all’altro la propria individualità – l’altro ha il futuro troncato, è alla mercé del vincitore in ciò che egli vuol vivere ancora o non può giovarsi della propria potenza di lavoro. L’altro allora gli dà il mezzo di vivere purché egli lavori per lui. Così l’uomo ha subordinato il suo simile alla propria sicurezza: ha esteso, la sua violenza anche sul suo simile perché questo cooperi a fornirgli quanto gli giova. E questo, lo schiavo, è materia di fronte al padrone, egli è una cosa.
Ma egli è «cosa» in altro modo di come sia «cosa» un albero che il padrone sradica per usar tutto il legno; egli è «cosa» come l’albero che il padrone innesta e pota per ricavarne le frutta, e come quello ch’egli priva periodicamente dei rami per aver legna da ardere. – Lo schiavo serve al padrone vivo anche perché muoia per lui – ma non morto.
Così la sua schiavitù non è assoluta ma relativa al suo bisogno di vivere. La mano dello schiavo non è condotta con la forza a girar la mola del mulino, ma essa lo fa perché il corpo abbia poi da mangiare e non sia con la frusta o coi supplizi impedito di farlo temporaneamente o per sempre. A ognuno dei mezzi coercitivi o alla minaccia dei mezzi coercitivi inerisce la vittoriosa violenza padronale, la persuasività assoluta riguardo alla volontà di vivere dello schiavo.
Lo schiavo che non ha più bisogno del futuro è libero, poiché non offre più presa alla persuasione della violenza padronale. Finché l’acqua ha peso, cioè volontà d’andar al centro della terra, può esser costretta a far andar i mulini e le fabbriche rannicchiate alle sponde: essa deve seguire tutte le vie preparate dall’uomo e far girare tutte le sue ruote, se pur vuole scendere e non restar sospesa. Ma il giorno che l’acqua non abbia più bisogno del «più basso», all’uomo saranno vane le sue chiuse e i suoi canali e le sue ruote: e tutte le fabbriche e tutti i mulini resteranno fermi per sempre.
Il padrone si serve dello schiavo attraverso la di lui forma: attraverso la sua potenza di lavoro. E gli fa sentire che il suo diritto d’esistere coincide colla somma di doveri verso il padrone, che la sua sicurezza è condizionata dal suo aderire ininterrotto ai bisogni del padrone.
Così nelle sue catene dure ma sicure lo schiavo s’acquista col violentamento della natura in pro del padrone la sicurezza fra gli uomini – e colla sua violenza sul suo simile il padrone ricava da lui la sicurezza di fronte alla natura – ch’egli non lavorando non ha più in sé. – Uniti: sono entrambi sicuri – staccati: muoiono entrambi: ché l’uno ha il diritto ma non la potenza del lavoro: l’altro la potenza ma non il diritto. –
[…]
Gli uomini dovranno amarsi? sacrificare ognuno il suo futuro per il suo compagno? o dovrà riscoppiare la battaglia sanguinosa e ognuno dovrà conquistarsi il futuro a rischio di perderlo?
I malsicuri padroni e i malsicuri liberti si guardano con terrore, nostalgici gli uni del sicuro dominio, gli altri delle catene sicure. –
L’amore e l’aperta battaglia minacciano allo stesso modo la loro sicurezza. Ma la società apre le braccia materne, essa non è tenera che di questa sicurezza appunto – il suo codice parla così «per convenienza», in realtà esso non è che la cristallizzazione di questa preoccupazione del singolo pel suo futuro. […] – Ognuno ha visto nell’altro soltanto la cosa che gli è necessaria, non l’uomo che ha da vivere lui stesso (poiché ognuno allora avrebbe dovuto supporre che la cosa necessaria a lui fosse necessaria pure all’altro) […].
Io sono debole di corpo e d’anima – messo in mezzo alla natura sarei presto vittima della fame, delle intemperie, delle fiere – messo in possesso di ciò che mi è necessario, al riparo delle forze della natura ma in mezzo alla cupidigia degli altri uomini – sarei in breve privato di tutto e perirei miseramente. La società mi prende, m’insegna a muover le mani secondo regole stabilite e per questo povero lavoro della mia povera macchina mi adula dicendo che sono una persona, che ho diritti acquisiti pel solo fatto che sono nato, mi dà tutto ciò che m’è necessario e non solo il puro sostentamento ma tutti i raffinati prodotti del lavoro altrui; mi dà la sicurezza di fronte a tutti gli altri. Gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei singoli padroni, perché non chiede loro una varietà di lavori, una potenza bastante alla sicurezza di fronte alla natura – ma solo quel piccolo e facile lavoro famigliare ed oscuro – purché lo si faccia così come a lei è utile, purché non si urti in nessun modo cogli interessi del padrone […]. La proprietà è dunque la violenza sull’altrui persona, e attraverso la persona sulla natura» (pp. 147-151).

«Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale per cui ognuno è signore del lavoro altrui: il «concentrato di lavoro», il «rappresentante del diritto », la fascia di trasmissione fra le ruote della macchina – sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione, quando le ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell’altra senza bisogno di trasmissione» (p. 175).

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi.

 

 

 

Carlo Michelstaedter in una delle ultime fotografie, 1910

Carlo Michelstaedter in una delle ultime fotografie, 1910


La persuasione e la rettorica – Letteratura Italiana

 


Gabriella Putignano, Il grido di vita di Carlo Michelstaedter.

Gabriella Putignano, Il grido di vita di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter è un autore che disarma e sconvolge. L’intento di questo lavoro è quello di cogliere la vitalità delle sue domande e di percorrere insieme al lettore – un viaggio esistenziale fra teoresi e commossa partecipazione narrativa.


 

 


Gabriella Putignano,

L’esistenza al bivio. «La persuasione e la rettorica» di Carlo Michelstaedter, Stamen.

L'esistenza al bivio

 

 

La principale e più nota opera di Carlo Michelstaedter, scrittore e filosofo goriziano morto suicida a ventritré anni, una delle figure più originali e tragiche della filosofia contemporanea, è “La persuasione e la rettorica”, tesi di laurea atipica e disarmante, che ruota attorno al doppio binario indicato nel titolo. “Persuasione” e “rettorica” non sono semplicemente due figure linguistico-retoriche, ma vanno intese quali stringenti ed antitetiche possibilità esistenziali. La sfida teoretica, che questo saggio si pone, è proprio quella di afferrare il senso profondo di questa alternativa, di scavare all’interno delle sue conseguenze ed implicazioni.

 


 

 

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Benito Pérez Galdós (1843-1920) – «Ma cucire, cucire… Calcola i punti che si devono dare per tenere in piedi una casa…».

Galdos

«Per capir facilmente le inquietudini di Tristana, conviene far luce il più possibile su don Lope, per non considerarlo né migliore né peggiore di quanto realmente fosse”» (Benito Pérez Galdós, Tristana, 1892, capitolo II).

«E di che vive una donna che non ha rendite? Se potessimo diventare dottoresse, avvocatesse, o anche farmaciste e maestre, non dico fare il ministro o sedere in Senato, potremmo insomma… Ma cucire, cucire… Calcola i punti che si devono dare per tenere in piedi una casa… Quando penso a quel che sarà di me mi viene voglia di piangere»

Benito Pérez Galdós, Tristana, 1892, capitolo V

 

Tristana è anche un film del 1970 diretto da Luis Buñuel (grande estimatore di Benito Pérez Galdós: dal suo romanzo è trattala sceneggiatura): il film fu presentato fuori concorso al 23º Festival di Cannes.


 

«Mi proposi di discendere negli infimi strati della società madrilena, descrivendo e presentando i tipi piu umili, la somma povertà; la mendicità professionale, il vagabondaggio vizioso, la miseria, quasi sempre dolorosa, ma in taluni casi canagliesca o criminale e meritevole di castigo. Per ciò dovetti  lunghi mesi in osservazioni e studi diretti dal vero, visitando i covili della gente infelice e malvagia che dimora nei  quartieri del sud di Madrid … »
Benito Pérez Galdós,  Prefazione all’edizione francese di Misericordia.

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André Gide (1869-1951) – «Io mi sporgo oltre il presente. Ho in odio tutto ciò che diminuisce l’uomo; tutto ciò che tende a renderlo meno saggio, meno fiducioso o meno pronto».

 I nutrimenti terrestri

«Mi son fatto vagabondo per poter avvicinare chiunque vada errando: mi sono acceso di tenerezza per tutti quelli che non sanno dove scaldarsi, e ho amato appassionatamente ogni creatura raminga».

«Non so bene chi mi abbia messo sulla terra. M’han detto ch’è Dio; e se non fosse lui, chi potrebbe essere? È vero che a esistere provo una gioia così viva, che talora mi chiedo se già non desiderassi di essere quando ancora non ero.

«Non ho grande contatto con la mia età e i giochi dei miei contemporanei non mi hanno mai divertito gran che. Io mi sporgo oltre il presente. Io presagisco un’età nella quale si durerà fatica a capire ciò che oggi ci appare vitale».

«Dal giorno in cui riuscii a persuadermi che non avevo bisogno d’esser felice, la felicità incominciò ad abitare in me; sì, dal giorno in cui mi persuasi che non avevo bisogno di nulla per essere felice. Pareva, dato il colpo di zappa all’egoismo, che avessi fatto scaturire istantaneamente dal mio cuore una tale abbondanza di gioia da poterne abbeverare tutti gli altri. Capii che il miglior insegnamento è l’esempio. Accolsi la mia felicità come una vocazione».

«Ho in odio tutto ciò che diminuisce l’uomo; tutto ciò che tende a renderlo meno saggio, meno fiducioso o meno pronto. Non accetto che la saggezza vada unita sempre a cautela e a diffidenza».

André Gide,  I nutrimenti terrestri, Mondadori.

 

 

 

Andre Gide at Jersey – Theo van Rysselberghe

Andre Gide at Jersey – Theo van Rysselberghe

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