«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il massimo apprendimento è l’idea del bene, ciò che trasforma e dà verità alle conoscenze, che le immette nella concretezza della nostra esistenza, senza essere esso stesso riducibile all’esistenza, proprio in quanto al di là dell’esistenza: è l’orizzonte aperto del dover essere. Il bene, come il fine, è ciò che solo dà valore alla nostra azione. Se c’è gradualità, un rapporto di minore a maggiore, questo non riguarda affatto il livello ontologico, bensì quello gnoseologico: ogni segmento, inteso come ogni facoltà, possiede una capacità maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, di raggiungere verità e chiarezza. Ogni segmento, inteso come l’oggetto della facoltà, cioè ciò a cui la facoltà si applica, possiede non una realtà maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, bensì una possibilità maggiore di essere oggetto di conoscenza vera e chiara.
[…] «Non è come Lei pensa, mio giovane amico. Le sto dicendo che solo suonando le mie sonate e i miei concerti, solo ascoltando le mie sinfonie, Lei potrà avere un’idea di che cosa sia fare musica. Non che io sia il solo musicista. Perché, vede, c’è una differenza. Una cosa è la musica, una cosa sono i musicisti. Ogni musicista compone ed interpreta. Ma la musica è sempre oltre. Comprende tutti i componimenti e le interpretazioni, ma è sempre oltre. Suonando e interpretando le mie opere, Lei potrà acquisire lo spirito della musica. Non nel senso che io sia la musica, come Lei ingenuamente ha pensato. Ma nel senso che scavando nei miei spartiti Lei potrà trovare forse il sapore della musica».
«Che cos’è il sapore della musica?».
«Quando Lei termina di eseguire una sonata, e gli applausi del pubblico giustamente Le fanno piacere, il sapore della musica è il sapere che Lei non ha terminato qualcosa, ma ha soltanto cominciato. Quando Lei pensa di aver colto lo spirito di un concerto, e di averlo trasferito nella sua interpretazione, il sapore della musica è il rimanerne insoddisfatto, non compiaciuto. Quando Lei pensa di aver raggiunto un punto fermo nella comprensione di uno spartito, il sapore della musica è il sentire che al di là di ogni punto fermo c’è un altro periodo che può, che deve cominciare». «Credo di cominciare a capire». «Bene». «Ma così non si vive in un perenne stato di insoddisfazione? Pensare che si è sempre all’inizio …, di essere sempre nel parziale …, di non poter mai raggiungere un punto fermo …».
«Vede, mio giovane amico, quando Lei sarà penetrato nello spirito dei miei spartiti; quando Lei avrà assaporatofino in infinito; quando avrà capito che giungere a possedere la tecnica dei discorsi musicali non significa aver ingabbiatola musica in quella tecnica; quando avrà capito che, per quanto importanti possano essere le note che Lei ochiunque altro suonerà, le note della musica sono sempre oltre quelle che vengono suonate: allora, forse, avràassaporato il sapore della musica. Quando avrà capito che tutti i musicisti, anche i più grandi, hanno esploratole più impensabili combinazioni di note ad esprimere quelli che in fondo sono i pochi temi musicali fondamentalidell’animo umano, ma che questi temi rimangono ancora aperti ad infinite altre variazioni; quando avràcapito che non bisogna attaccarsi alle proprie esecuzioni ed interpretazioni, per quanto tecnicamente riuscite eprofonde possano essere, perché esse fanno parte della musica ma non sono la musica: allora, forse, avrà assaporatoil sapore della musica. Questo Lei troverà nei miei spartiti. E quando troverà il sapore della musica, io sarò sparito. Ed anche Lei sparirà, se sarà un buon musicista. Perché quello che resta sempre è appunto il saporedella musica, e non chi l’ha eseguita».
È il centenario della nascita di Calvino (1923-1985), si susseguono le manifestazioni in suo ricordo, il dibattito sull’autore cede il passo alla vendita dei suoi testi, per cui “niente di nuovo per noi che viviamo nella società di mercato”. Si ricorda in modo costante che Italo Calvino ruppe con il Partito comunista dopo l’invasione d’Ungheria del 1956, per cui ben si presta ad essere eletto come letterato che si è battuto per la libertà in nome dei diritti individuali e che ha abbandonato il PCI al suo destino con una lunga lettera sull’Unità il 7 agosto 1957. Nel 1985, nell’anno della sua morte improvvisa, scrisse Lezioni americane per i seminari che avrebbe dovuto tenere ad Harvard. Il testo vorrebbe essere un manifesto che enumera le qualità che dovrebbe avere la letteratura contemporanea: si tratta di una serie di paradigmi posti in ordine decrescente di rilevanza. La morte gli impedì di completare le lezioni, non a caso la settima sulla “concretezza” non fu che abbozzata.
Leggerezza
Il primo paradigma è la “leggerezza” che deve opporsi alla “pesantezza”. Lo stile dev’essere leggero, deve sublimare in lievità ciò che grava sulle esistenze. Si tratta di rappresentare ciò che è insostenibile con figure, simboli, immagini e parole che possono filtrare la tragedia e renderla lieve al lettore. La leggerezza è “terapeutica” consente di sopportare l’insopportabile:
“Nei momenti in ci il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…[1]”
La leggerezza, questo è il sospetto, è un criterio che può essere letterario, ma che può celare il disimpegno e la rappresentazione falsata della realtà. Le contraddizioni sociali e le inquietudini metafisiche della contemporaneità necessitano di “pesantezza e di ingombranti concetti”. Nell’epoca del disimpegno e della derealizzazione tutto è divenuto talmente “leggero” da evaporare.
La letteratura, afferma Italo Calvino, deve condurre alla lievità e a “guardare-vivere” la realtà con immagini che smorzano la “pesantezza”. Come Perseo, il quale guarda sul suo scudo l’immagine della Gorgone per evitare di essere pietrificato. Perseo, lieve sulle nuvole, decapita la Gorgone e dal suo sangue nasce Pegaso, cavallo alato, simbolo della leggerezza[2].
La letteratura in un tempo di tragedia come il nostro dominato dalle immagini che hanno sostituito il concetto e la realtà deve rappresentare il “nudo vero”, in modo da muovere le coscienze fuori dalla società dello spettacolo. Abbiamo bisogno di pesantezza che possa indurci a pensare e a progettare, le immagini mediate e posticce favoriscono l’abbassamento della soglia di allarme. Italo Calvino riporta – tra i non pochi modelli di leggerezza – Leopardi come poeta e filosofo della leggerezza; ma in Leopardi la gravità è in un equilibrio stupefacente con la bella forma; Leopardi non è poeta della pesantezza né della leggerezza; svela il “crudo vero” senza fraintendimenti fantastici:
“Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna[3]”.
Velocità
La letteratura dev’essere veloce nel secolo della motorizzazione. La letteratura che si ispira al “mondo” e alla “tecnica” non può che essere accolta con favore nei circoli salottieri e dalle case editrici che pubblicano prodotti a misura delle richieste del mercato. Esse sono solo aziende che vendono il prodotto libro. La velocità è un requisito fondamentale per vendere, i concetti devono essere pochi, se ci sono e abbozzati, in modo da non stancare il lettore abituato al ritmo compulsivo della contemporaneità:
“Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti e gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza[4]”.
Abbiamo bisogno di velocità o di reimparare a indugiare sui concetti e dunque a leggere con lentezza? La capacità di lettura e di comprensione dei testi è sempre più modesta in giovani e meno giovani, la letteratura della velocità piace al mondo, alla tecnica e al mercato. Essa ha dismesso la sua funzione paideutica del pensare-indugiare. La velocità è penetrata nella letteratura e l’ha resa superflua, in quanto ha subito l’incanto della tecnica, non si è mostrata autonoma e critica, ma l’ha duplicata. La letteratura contemporanea è governata da una pletora di velocisti che nulla sanno dire, ma sono capaci di inseguire il gusto manipolato dalla velocità del pubblico. La letteratura dev’essere lenta, deve con la sua pensosa lentezza riportarci nella concretezza del quotidiano per guardarlo con lo sguardo del concetto.
Esattezza
L’esattezza, criterio scientifico-matematico, è il mezzo con cui le belle parole divengono una traccia verso l’invisibile, afferma Italo Calvino nella sua bella definizione della parola. Il problema è l’invisibile, la letteratura è una traccia che dovrebbe condurre alla realtà storica e alle contraddizioni del sistema socio-economico. In Calvino l’invisibile è altro, è l’immaginazione con cui filtrare la realtà e ricondurla ad un livello impalpabile, in cui la tragedia perde la sua consistenza reale:
“Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata e temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato nel vuoto. Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza le parole[5]”.
All’esattezza la letteratura dovrebbe prediligere la “verità”. È preferibile una letteratura vera ad una letteratura che persegue l’esattezza. Non a caso lo scrittore si pone la domanda cruciale, constata la crisi dell’immaginazione e del concetto che ne consegue, ma la risposta è aggirata. La crisi dell’immaginazione è associata alla tecnica, si evita di nominare la causa da cui tutto si origina: la struttura economica che usa la tecnica per sorvegliare i suoi sudditi e addomesticarli nella mente e nel corpo. La pedagogia dell’immaginazione proposta da Calvino non può risolvere il problema radicale, Calvino evita di indicare con parole precise la causa prima della crisi dell’immaginazione: il capitalismo. La pedagogia dell’immaginazione dovrebbe curare i sintomi senza incidere nel corpo del problema, la verità pare così occultata:
“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dell’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente <<icastica>>. Naturalmente si tratta d’una pedagogia che si può esercitare solo su se stessi, con metodi inventati volta per volta e risultati imprevedibili[6]”.
Molteplicità
Il romanzo deve rispecchiare la vita interiore degli uomini, la quale è costituita da una “combinatoria” di esperienze. Le variabili sono tante, ma il problema è l’unità, se ci si sofferma solo sulla “combinatoria” vi è il rischio di perdersi nel caos del mondo, di cui non si coglie l’unità che spiega il proliferare delle variabili con i loro urti e con le loro plastiche associazioni:
“Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili[7]”.
Ricordare è sicuramente un modo per onorare chi ci ha preceduti, ma il rammentare senza concettualizzazione critica non è cultura, è solo una operazione commemorativa che non ci orienta a decodificare il presente, ma a duplicarlo e a renderlo eterno. La letteratura è l’altro volto della filosofia, deve insegnarci ad indugiare sull’insostenibilità del mondo per poter elaborare percorsi di emancipazione. Ricordiamo Calvino riconoscendo il valore della sua opera. Bisogna commemorare per reimparare a dissentire; all’occultamento della realtà che si inabissa velata da immagini e fantasmagorie, bisogna opporre più realtà e più verità: di questo necessitiamo. l giudizio che Italo Calvino diede nella lettera d’addio al PCI sulla letteratura marxista per la sua pesantezza, oggi appare “severo”, se si considera valida la “leggerezza” dell’attuale letteratura:
“Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero”.
La pesantezza, ovvero l’impegno e il realismo, è ciò che manca alla letteratura attuale che compiace il mercato e non fa pensare. Non possiamo che guardare come a dei maestri autori come Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Hanns Eisler, Ernst Bloch, György Lukács, Johannes R. Becher, Andor Gabor e Alfred Kurella e al nostro Gramsci. Lo smantellamento del PCI e delle ideologie afferenti ha condotto ad una leggerezza nichilistica, è diventata la morte della letteratura che si è nutrita solo di banalità, e non è più al servizio dei popoli e della verità, ma è organica al mercato. Italo Calvino non è certo responsabile della mercificazione della letteratura del nostro tempo, ma Lezioni americane sono il prodromo della letteratura al servizio del capitale e degli intellettuali del disimpegno. Non abbiamo bisogno di scrittori organici alla “società dello spettacolo”, ma di dissidenti ed eretici che si oppongono al turbocapitalismo che annienta con la politica il pensiero critico e l’emancipazione di classe.
[1] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 11-12.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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Il totalitarismo del politicamente corretto ha i suoi eroi e le sue eroine. Hannah Arendt è tra le antesignane della filosofia decaffeinata, al punto da essere insapore. La filosofia è per sua fondazione radicale, essa è “contropotere” con la funzione etica e politica di neutralizzare le forze che minacciano la comunità e le singole soggettività. A tal fine il metodo filosofico è dialettico e concreto. Esso risponde ai drammi e alle potenzialità trasformatrice della propria epoca mediante l’approccio olistico: il dato è riportato al contesto, e in tal modo si affinano gli strumenti critici e si smascherano posture ideologiche. La filosofia non abita nelle stanze del potere, vive nella comunità, è concretezza dialettica, ha lo scopo di ricostruire relazioni di giustizia su fondamenta veritative. Il potere teme la giustizia sociale e il suo inevitabile antagonismo, al punto da far scomparire dallo spazio pubblico ogni riferimento ad essa.
Il potere oscura i filosofi non spendibili dal circo mediatico. La filosofia addomesticata regina dei salotti trasforma i concetti in chiacchiere e il concreto in astratto. Lo scopo è l’irrazionale, la comprensione degli eventi storici e il giudizio qualitativo sul sistema è sostituito dagli slogan e dalla chiacchiera colta. Nei luoghi della formazione e nei media si segue l’astratto discorrere, pertanto si selezionano i “filosofi” che rafforzano e consolidano con l’irrazionalità l’ipostatizzazione del presente.
Hannah Arendt è largamente utilizzata in tal senso, al punto da essere una icona del politicamente corretto. Il suo impegno filosofico e i suoi scritti non turbano il liberismo, ma ammiccano ad essi.
Le categorie del liberismo sono proiettate nella storia, i Greci appaiono allo sguardo del lettore della Arendt come gli antenati dei liberisti inglesi. La Arendt proietta categorie del suo tempo nell’interpretazione dei Greci addomesticandoli e rendendoli conformi al “politicamente corretto”, ne disinnesca le potenzialità critiche e divergenti per gli uomini e le donne del nostro tempo. La storia diviene una lunga conferma del presente.
Costanzo Preve filosofo controcorrente e radicale è esplicito nel suo giudizio: per la Arendt i Greci sono gli antenati imperfetti degli anglo-americani, in quanto discriminavano le donne e possedevano gli schiavi. La storia ha dunque due modelli positivi: i Greci e gli inglesi. I Greci sono i precursori degli inglesi. Naturalmente “l’imperfezione greca” non è spiegata razionalmente con la cornice storica ed è risolta dal liberismo, in tal modo si plana “nel migliore dei mondi possibili”. Il paradigma liberista è usato per giudicare i popoli antichi e contemporanei, con questa modalità il liberismo diviene non un modello storicamente situato con le sue contraddizioni, ma il discrimine con cui dividere il bene dal male:
«La Arendt, evidentemente, si immagina i greci come dei liberali anglosassoni moderni, sia pure ancora imperfetti perché possedevano ancora degli schiavi e tenevano chiuse in casa le loro donne, i quali effettivamente discutono liberamente di politica presupponendo che la cosiddetta “economia” sia un dato che funziona e si riproduce per conto suo».[1]
Logos
Il termine logos è tradito e misconosciuto nella sua verità storica. La filosofia è dispositivo anticrematistico. Lo scandalo per i liberisti di ogni partito è la filosofia, di conseguenza essa dev’essere deformata e mutilata della sua capacità di dare-donare risposte agli effetti distruttivi del liberismo. La Arendt si presta a tale operazione di occultamento della filosofia. Il logos per la Arendt è “semplicemente la parola” da usare all’interno di formalismi giuridici. Il logos, invece, rileva Costanzo Preve è emancipazione dalle forza economiche e crematistiche che vogliono strumentalizzare i cittadini, oscurarne la coscienza e il senso critico. Il logos è attività critica che rende la coscienza individuale luogo di resistenza e attività in opposizione alla manipolazione persuasiva. Il logos ha una valenza politica e veritativa e coincide con il filosofare, è prassi sociale senza la quale guerre e ingiustizie divorano comunità e individui in un fatale destino di dolore:
«Per la Arendt il termine logos significa unicamente parola, libera parola che convince, decisione presa in base al convincimento delle sole parole. […] La filosofia, anzi, è nata proprio sulla base della messa in discussione problematica del potere di convincimento della parola in nome di una istanza veritativa esterna al puro potere di convincimento della parola stessa (Socrate contro Gorgia, Platone contro Isocrate, eccetera). La Arendt evidentemente cerca di comprendere la polis combinando idealmente Gorgia e Rorty: il logos si riduce alla parola che convince, e dal momento che la verità non esiste la democrazia prevale sempre sulla filosofia».[2]
Il logos è misura delle giuste proporzioni, è il katechon che deve contenere derive dissolvitrici nelle quali popoli e individui sono reificati dai processi economistici. Sfruttamento e indebitamento sono il risultato delle logiche crematistiche, i popoli sono sospinti all’indigenza e sono saccheggiati del loro lavoro e della loro capacità creativa e comunitaria.
Il pensiero greco è modello eterno da ripensare, in quanto definisce la natura umana e stabilisce la stabilità della comunità sulla giustizia e sulla verità “mostrate e dimostrate”. Non è sufficiente vivere secondo la verità, per il greco il logos è la parola con cui si dimostra la necessità di una vita conforme alla natura umana. La scissione tra pensiero ed essere è trascesa, sicché il logos pensa il proprio tempo storico, lo giudica qualitativamente al fine di porre in essere la prassi trasformatrice. Il logos della Arendt ridotto a espressione vocale astratta non può che contraddire la sua funzione emancipatrice per divenire chiacchiericcio colto che conserva gli equilibri-squilibri sociali in atto:
«Il termine logos significa calcolo (loghizomai), e più esattamente, calcolo delle proporzioni delle corrette proprietà ispirato alla misura (metron), alla giustizia (dike), alla concordia fra i cittadini (omonoia), all’equilibrio fra i beni in una comunità (isorropia), all’istituzione di un freno sociale (katechon) per impedire l’accumulazione infinita-indeterminata (apeiron) delle ricchezze private (chremata) potesse portare alla corruzione-dissoluzione del corpo sociale (phthorà)».[3]
Destoricizzare
La destoricizzazione e la desocializzazione usate come metodo d’indagine finiscono con deformare non solo i Greci ma anche il tempo contemporaneo. La storia finisce con diventare una fiaba aspaziale e atemporale. La storia per la Arendt è una lunga corsa verso il liberismo, i totalitarismi riconosciuti e giudicati come tali sono solo i sistemi politici avversi al liberismo. Quest’ultimo, invece, è giudicato il regno della libertà. Per evitare gli ostacoli storici e la sua dura realtà la Arendt destoricizza l’essere umano in modo da fondare una antropologia organica allo scopo della sua opera, tutto è abilmente neutralizzato, non mette in campo le categorie interpretative che potrebbero destabilizzare la sua “filosofica visione”.
«In primo luogo, l’antropologia della Arendt è completamente destoricizzata, in modo quasi incredibile (e per questo piace nell’epoca postmoderna di rifiuto della coscienza storica). Non c’è traccia di Polany, per cui l’antropologia umana del comportamento privato e pubblico non si sviluppa in correlazione con le forme di rapporto comunitario reciproco (reciprocità, ridistribuzione, scambio eccetera). Non c’è traccia naturalmente di Hegel, per cui è proprio attraverso il lavoro (e cioè prima di lavorare, e poi l’operare) che l’uomo prende coscienza prima di se stesso (e cioè la sua coscienza libera), e poi dei suoi rapporti di asservimento (il servo che si rende conto che lo stesso signore dipende dal suo lavoro). Non c’è ovviamente traccia di Marx, per cui lo stesso “metabolismo dell’uomo con la natura” (definizione marxiana) è una pura astrazione del tutto inesistente se non è immediatamente concretizzata con i rapporti sociali di produzione dentro i quali questo metabolismo uomo-natura avviene».[4]
L’unica diade individuata dalla Arendt è l’opposizione uomini-donne. La lotta di classe è rimossa dalla storia e dai modi di produzione, su tutto campeggia la storia pacificata dalla vittoria del liberismo anglosassone. Non potrebbe essere altrimenti, poiché il liberismo è per sua costituzione lotta tra le classi, tra le nazioni e tra gli individui, è “guerra perenne”. La diade uomo-donna la rende particolarmente spendibile per il sistema capitale che ha velato i conflitti sociali e di classe con il femminismo e i soli diritti civili, la diade uomo-donna è l’oscuramento della verità storica e catalizzatore del consenso pianificato a livello mediatico:
«Insomma, non ci sono tracce di Polany, Hegel e Marx, ma non c’è un briciolo di storia. Abbiamo un Uomo, anzi la diade Uomo-Donna (la sola in cui avviene evidentemente una dialettica biunivoca, il che fa della Arendt, assai più della Simone de Beauvoir, la vera fondatrice del femminismo filosofico, o più esattamente della sostituzione del femminismo al marxismo), che entra in rapporto diretto con la Natura, e che prima lavora per riprodursi, e poi opera per costruire strumenti artificiali».[5]
Morte e Natalità
Non vi è traccia nelle opere della filosofa della genealogia dei modi di produzione, e in generale, della genetica della divisione in classe con l’evolversi in senso crematistico dell’economia. Le classi sociali sono ipostatizzate, sono tali da sempre, per cui sono intoccabili, non c’è politica che possa intervenire per rigenerare nella giustizia le comunità. La speranza ha il suo succedaneo nel formalismo della parola. La democrazia diviene uso della parola in un sistema formale di regole che compensa il vuoto veritativo. Non a caso la Arendt tratta della “condizione umana” e non della “verità”:
«In secondo luogo, l’antropologia della Arendt non è soltanto destoricizzata, ma anche del tutto desocializzata. Non c’è traccia nella Arendt del fatto che all’interno della divisione sociale del lavoro nascono le classi sociali antagonistiche, gli sfruttatori e gli sfruttati».[6]
La filosofia al femminile è la frontiera da contrapporre alla filosofia maschile. Non vi sono altre contrapposizioni. Heidegger è simbolo del filosofare maschile. Gli uomini non possono generare la vita, pertanto perseguono la morte. L’Heidegger della Arendt è banale fino al semplicismo. Costanzo Preve dimostra che l’essere per la morte di Heidegger non è finalizzato ad affermare la morte, ma è giudizio sul modello liberista. La reificazione è una forma di morte, mentre si è in vita. La vita inautentica è vita dominata dalla tecnocrazia (Gestell), la tecnica capitalistica si impianta nella carne viva e deforma la natura umana. Il logos è sostituito dal calcolo e dal vuoto ciarlare. L’antitesi della natalità della Arendt alla morte di Heidegger non ha dunque ragion d’essere:
«Secondo, la Arendt contrappone la sua teoria della centralità della natalità alla teoria heideggeriana della mortalità, provocando lodi dal concerto del politicamente corretto e del buonismo universale (chi infatti – potendolo fare – non sceglierebbe la natalità alla mortalità?). Ma il Vivere-per-la-Morte di Heidegger non c’entra nulla con una (presunta e inesistente) centralità della cosiddetta Mortalità. Centrale per Heidegger è soltanto l’autenticità, e cioè il vivere autentico (parlo solo del cosiddetto “primo Heidegger”, nel secondo centrale diventa il rapporto degli enti storici con l’Essere».[7]
Malgrado i filosofi del politicamente corretto, la natura etica e razionale dell’essere umano non può essere congelata dall’inverno dello spirito sostenuto dagli oratores e dai filosofi di regime. Per poter riportare la storia e la verità dove impera l’astratto è necessario l’esodo dalle Accademie e dai filosofi da salotto. Un concetto radicale e vero può muovere a trasformazioni inaspettate che la pletora dei libri prodotti in serie non potranno mai causare. Il tempo che verrà esattamente come l’attuale momento storico è lavoro dello spirito-concetto da contrapporre all’aggressività della menzogna pianificata. La prassi è innanzitutto verità da definire e tradurre in agire politico, Costanzo Preve ci rammenta con le sue critiche al pensiero della Arendt il senso del filosofare e denuncia le storture e gli occultamenti ideologici del sistema capitale.
[1] Costanzo Preve, La Scuola di Francoforte Adorno e lo spirito del Sessantotto, Schibboleth, Roma 2023.
Paola Manuli, Medicina, medico, malattia. L’antropologia medica nella tradizione antica.
ISBN 978-88-7588-306-5, 2023, pp. 104, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il giogo” [176].
In copertina: Mosaico raffigurante Ippocrate (a sinistra) ed Asclepio (al centro, nell’atto di discendere dalla nave). II-III sec. d.C., Cos, Museo Archeologico.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
ISBN 978-88-7588-310-2, 2023, pp. 104, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “il giogo” [178].
In copertina: Al centro: Locri Epizephyrii, Statere corinzio, Testa di Atena con elmo corinzio; in alto a dx: Statere corinzio, Pegaso in volo. In quarta: Busto di Aristotele.
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Il vero maestro non è un somministratore di conoscenze, ma uno svegliatore di spiriti, il quale nell’atto stesso di esercitare la sua funzione illuminatrice ammette anche la reciprocità di tale azione e accetta la possibilità di essere confutato non meno che quella di confutare gli altri. […] La forma necessaria dell’indagine è pertanto il dialogo: con se stessi e con gli altri […]. Nella mutua cooperazione che questa educazione implica tra maestro e discepolo, e parimenti tra tutti i membri della comunità umana, questa esigenza di libertà è altresì un’esigenza di amore […]. Socrate associava alla dotta ignoranza, o coscienza permanente dei problemi, unica fonte del progresso conoscitivo, il superamento dell’odio e l’affermazione dell’amore e della solidarietà umana, che, mediante il riconoscimento della libertà spirituale di ciascuno, procurava la cooperazione di tutti nello sforzo di raggiungere il fine comune. Fine umano per eccellenza, cioè l’elevazione intellettuale e morale che costituisce il vero bene e l’intima soddisfazione di ciascuno e di tutti, legge di autonomia e fonte della vera felicità.
Rodolfo mondolfo
Luka Bogdanić(1978) è professore associato alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Zagabria, dove insegna Antropologia filosofica e Filosofia della Cultura. Ha scritto di storia del marxismo e dell’Est Europa, di Gramsci e di nazionalismo. Collabora con il manifesto ed è membro dell’International Gramsci Society. Ha pubblicato Praxis. Storia di una rivista eretica nella Jugoslavia di Tito (2009), Nazione e autodeterminazione. Premesse e sviluppi fino a Lenin e Wilson (2009) e Identità inquieta. La questione nazionale nei Balcani occidentali (2020).
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Ivana Costa è argentina e vive a Buenos Aires. Insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Buenos Aires e all’Università Cattolica Argentina. I suoi principali temi di interesse sono il pensiero di Platone, il platonismo tardo-antico e moderno e le concezioni di finzione e realtà nella storia della filosofia. È membro del comitato esecutivo della International Plato Society. Ha pubblicato traduzioni commentate di Platone (Liside, Colihue, 2019) e Machiavelli (Il Principe, Colihue, 2013), articoli su Platone e la tradizione platonica e il libro Había una vez algo real. Ensayo sobre filosofía, hechos y ficciones (Mardulce, 2019).
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Luca Grecchi (Filosofia morale, Università degli Studi di Milano-Bicocca), direttore della rivista Koinè, ha recentemente pubblicato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere (petite plaisance, 2023) e La filosofia prima della filosofia (Morcelliana, 2022).
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Lucia Palpacelli, Docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Per Bompiani ha curato l’appendice bibliografica e lessicografica del volume di Aristotele, Fisica (2011); la revisione, aggiornamento e saggio bibliografico del volume di Aristotele, La generazione e la corruzione (2013) e il saggio introduttivo, traduzione e note del De interpretatione all’interno dell’Organon aristotelico (2016). Tra i suoi scritti: L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria (Vita e Pensiero 2009); Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo (Morcelliana 2013); Zenone di Elea. Frammenti e testimonianze (Scholé 2022).
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Federica Piangerelli, Dottoressa di ricerca in “Umanesimo e Tecnologie” presso l’Università di Macerata (con una tesi dal titolo Alle origini del confronto con l’alterità. Barbaroi e xenoi nel pensiero greco antico. Una indagine storico-filosofica), è cultrice della materia in Storia della filosofia antica presso lo stesso Ateneo, e autrice di diversi contributi scientifici, ospitati in volumi e in riviste di rilevanza nazionale e internazionale; attualmente, sta lavorando ad una nuova traduzione in italiano, con commento, del Sofista di Platone.
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Lidia Pupilli, PhD in Storia dell’età contemporanea e cultrice della materia presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, è docente di ruolo nella Scuola secondaria di secondo grado e si occupa principalmente di storia politica e storia delle donne. Fra i suoi lavori, la monografia Intellettuale nel regime. L’altra vita di Romolo Murri, Marsilio 2019 e le curatele Uomini dalla parte delle donne fra Otto e Novecento, Marsilio 2020 e Pioniere. Storie di italiane che hanno aperto nuove frontiere, Aras 2021. Con Marco Severini ha curato Dodici passi nella storia. Le tappe dell’emancipazione femminile, Marsilio 2016 e il Dizionario biografico delle donne marchigiane (1815-2022), il lavoro editoriale 20225, realizzando, da ultimo, il volume Giuseppe Chiostergi. Vita di un mazziniano nel Novecento, il lavoro editoriale 2022.
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Marco Severini, insegna Storia dell’Italia contemporanea e Storia delle Donne nell’Italia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata. È autore di 34 monografie che spaziano dalla storia politica a quella delle donne, dalla storia della storiografia a quella odeporica. Ha tenuto lezioni e conferenze in Spagna, Francia, Portogallo, Stati Uniti e Germania ed è fondatore e presidente dell’Associazione di Storia Contemporanea. Dirige la rivista «il materiale contemporaneo» ed è editorialista della rivista «Democrazia futura». Tra gli ultimi libri, Da Conte a Draghi. Problemi e scenari del biennio pandemico (2022); Public History. Undici anni sul campo (2022); Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni (2023).
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Emidio Spinelliè Professore Ordinario di Storia della filosofia antica e Prorettore per il Diritto allo Studio e la Qualità della Didattica presso la “Sapienza”/Università di Roma; è anche Presidente della “Società Filosofica Italiana” e, dal gennaio 2021, Presidente dell’Italian Organizing Committee del “XV World Congress of Philosophy”. Oltre ad articoli su Presocratici, Atomisti, Socrate/‘Socratici minori’, Platone, Stoici, Epicurei, papiri filosofici e storiografia filosofica antica, sullo scetticismo antico ha pubblicato: Sesto Empirico. Contro gli etici (Napoli 1995); Sesto Empirico. Contro gli astrologi (Napoli 2000); Questioni scettiche. Letture introduttive al pirronismo antico (Roma 2005). Egli è anche autore di Obiettivo Platone: a lezione da Hans Jonas (Pisa 2019) e ha editato i seguenti testi: H. Jonas, La domanda senza risposta. Alcune riflessioni su scienza, ateismo e la nozione di Dio (Genova 2001); H. Jonas, Problemi di libertà (Torino 2010). Di recente pubblicazione: E. Spinelli, Le radici del passato. Giuseppe Rensi interprete degli scetticismi antichi (Pisa 2021).
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